5 agosto 2020

Il Signore degli Anelli: La compagnia dell'anello (Peter Jackson, 2001)

Il Signore degli Anelli: La compagnia dell'anello
(The Lord of the Rings: The Fellowship of the Ring)
di Peter Jackson – USA/Nuova Zelanda 2001
con Elijah Wood, Ian McKellen, Viggo Mortensen
****

Rivisto in DVD (versione estesa).

Il misterioso anello che l'hobbit Frodo Baggins ha ereditato dal vecchio zio Bilbo, prima che questi abbandonasse all'improvviso la Contea dopo la festa per il suo centoundicesimo compleanno, non è un "semplice" monile magico che rende invisibili. Si tratta in realtà dell'Unico Anello, quello che domina tutti gli altri: un oggetto malvagio e tentatore forgiato in tempi antichi da Sauron, l'Oscuro Signore di Mordor e nemico dei popoli liberi, che vi aveva riversato gran parte del proprio potere prima di essere sconfitto in battaglia, e di cui ora desidera tornare in possesso per dominare l'intera Terra di Mezzo. Su consiglio del saggio stregone Gandalf il grigio, Frodo lascia dunque Casa Baggins e la propria vita tranquilla per portare l'anello – che dona sì un potere immenso, ma ha anche la capacità di corrompere ogni creatura – il più lontano possibile. E insieme al fedele giardiniere Samvise "Sam" Gamgee, ai cugini Meriadoc "Merry" Brandibuck e Peregrino "Pipino" Tuc, nonché con l'aiuto dell'enigmatico avventuriero Aragorn (discendente di quell'Isildur che secoli prima strappò l'anello a Sauron, senza avere poi il coraggio di distruggerlo), riesce a raggiungere Gran Burrone, la dimora del mezzelfo Elrond, sfuggendo agli assalti dei nove Cavalieri Neri, i Nazgûl, servi dell'Oscuro Signore. Qui, dopo un consiglio cui partecipano i rappresentanti di tutte le razze libere per decidere sul da farsi, e con l'aggiunta dell'elfo silvano Legolas, del nano guerriero Gimli e di Boromir, figlio del sovrintendente reggente di Gondor, si forma la "compagnia dell'anello", il gruppo di nove eroi che avrà il compito di accompagnare Frodo nel pericoloso viaggio verso Mordor, con lo scopo di distruggere l'anello gettandolo nel fuoco di Monte Fato, il vulcano dove fu forgiato. Ma il tragitto è lungo e difficile: perduto Gandalf nelle miniere di Moria dopo lo scontro con un Balrog, antico demone fiammeggiante, la compagnia attraversa il regno elfico di Lothlórien per poi dividersi davanti alle cascate di Rauros. Qui Boromir muore trafitto dalle frecce dei nemici dopo aver cercato di sottrarre l'anello a Frodo; Merry e Pipino sono presi prigionieri dagli orchi di Saruman, lo stregone traditore; Aragorn, Legolas e Gimli si lanciano al loro inseguimento; e Frodo e Sam proseguono da soli il difficile viaggio verso Monte Fato.

Quando Peter Jackson, regista neozelandese già noto per alcuni film horror creativi e a basso costo, annunciò che avrebbe presto realizzato un adattamento in live action de “Il Signore degli Anelli”, tutto il fandom si mise in agitazione. Ambientato in un mondo immaginario ma descritto sin nei minimi particolari, il libro era lungo, ricchissimo e complesso, e tutti i tentativi passati di portarlo al cinema con attori in carne e ossa erano andati incontro al fallimento, tanto da lasciar credere che si trattasse di un'impresa impossibile. Pubblicato nel 1954/55 in tre volumi che corrispondono più o meno ai tre film di questa trilogia, di cui conservano i titoli (una divisione peraltro voluta più dagli editori che dell'autore, che lo ha sempre considerato un testo unico), quello di J.R.R. Tolkien è uno dei romanzi più popolari e importanti del ventesimo secolo, capostipite di un intero genere, l'high fantasy, che ha influenzato l'immaginario collettivo, ispirato innumerevoli artisti (in tutti i campi: dalla letteratura alla musica, dalle illustrazioni ai giochi di ruolo) e generato centinaia di imitatori. Ciò che rende però speciale il testo di Tolkien è l'enorme lavoro di world building che sta dietro alla storia. Professore di letteratura, lingue antiche e filologia, lo scrittore aveva lavorato per decenni alla costruzione di una propria mitologia, inventando linguaggi (con tanto di grammatica) e redigendo cronologie e leggende interconnesse fra loro: e quando i suoi editori gli chiesero di scrivere un seguito de "Lo Hobbit", romanzo per bambini che aveva dato alle stampe nel 1937, decise semplicemente di ambientare la nuova storia nell'universo che aveva già forgiato. "Il Signore degli Anelli" si svolge infatti durante gli ultimi anni della Terza Era della Terra di Mezzo, un mondo il cui passato era stato descritto in decine e decine di testi in prosa e in versi fino ad allora rimasti inediti, molti dei quali saranno pubblicati solamente dopo la morte dell'autore, a cura del figlio Christopher (l'imprescindibile "Silmarillion" e i numerosi volumi dei "Racconti incompiuti" e della "History of Middle-Earth", per la maggior parte tuttora inediti in italiano). Nel nostro paese la sua popolarità è sempre stata funestata da malsane sovrainterpretazioni politiche (e, di recente, da una pessima nuova traduzione).

Personalmente ho letto per la prima volta "Il Signore degli Anelli" agli inizi degli anni ottanta, dopo aver conosciuto il mondo di Tolkien grazie al film animato di Ralph Bakshi e soprattutto al suo adattamento a fumetti in tre volumi di Luis Bermejo (che da bambino rilessi innumerevoli volte): da allora, per una ventina d'anni, ho continuato a riprendere in mano il romanzo quasi ogni estate, fino a conoscerlo praticamente a memoria. E come tanti altri appassionati, anch'io ho sognato o immaginato a lungo un adattamento cinematografico con attori in carne e ossa, consapevole però della difficoltà del compito, vuoi per la lunghezza – oltre mille pagine! – del romanzo (che suggeriva semmai di realizzare un serial televisivo: all'epoca ignoravo l'esistenza degli adattamenti low budget russi e finlandesi di cui ho recentemente parlato nel blog), vuoi per l'immensità dell'ambientazione e la ricchezza dei personaggi (che, se non mantenuta o riprodotta adeguatamente, avrebbe rischiato di ridurre il valore e la complessità di un eventuale film). Per di più, a differenza di altri generi (la fantascienza in primis), il fantasy al cinema aveva sempre avuto poca fortuna e aveva generato scarsissimi titoli di rilievo, quasi mai capolavori (i due "Conan", "Legend", "Willow"...). Eppure, all'inizio degli anni Duemila, i tempi si rivelarono finalmente maturi. Jackson, che oltre che talentuoso era un autentico appassionato di Tolkien, ottenne il pieno controllo creativo, e la tecnologia digitale aveva raggiunto il punto in cui permetteva di portare sullo schermo gli scenari, le creature e le visioni dell'universo tolkieniano senza renderle ridicole o poco credibili. Lo stesso background del regista, amante del cinema artigianale (alla Sam Raimi) e di "trucchi" come l'uso di modellini, animatroni ed effetti ottici, garantiva quella varietà di tecniche e di stili che farà la fortuna dei film, contribuendo all'aspetto realistico di personaggi e paesaggi fantasy e rendendo autentica e palpabile la Terra di Mezzo, che è il vero segreto del "Signore degli Anelli" e di tutto il mondo creato da Tolkien. Inventato, certo, ma che mai sembra fasullo.

Che rendere credibile questo mondo agli occhi degli spettatori fosse la cosa più importante, i cineasti lo hanno capito subito. Estrema cura è stata messa nella scelta delle ambientazioni (quasi tutti scenari naturali della Nuova Zelanda, la patria del regista, curiosamente dall'altra parte del mondo rispetto all'Europa immaginaria dell'autore, ma che offre un'incredibile varietà di meravigliosi paesaggi, perfetti per le diverse location della vicenda, che siano verdi foreste, vaste pianure, desolati deserti o montagne innevate), nonché della realizzazione dei costumi, delle armi, delle armature, degli oggetti di scena, dei numerosi set (digitali o meno: in gran parte si trattava di miniature di grandi dimensioni), di tutto ciò che insomma contribuisce a rendere "reale" un luogo (e se alcune ambientazioni sembrano stereotipate, come le miniere di Moria che ricordano "Dungeons & Dragons", è perché in realtà proprio il romanzo ha contribuito a creare questi stereotipi). Non parliamo poi di mostri come gli orchi o i troll! In precedenza, forse anche per sormontare questo problema, quasi tutti i tentativi (riusciti o meno) di portare il libro di Tolkien sullo schermo si erano rivolti al cinema d'animazione: dai progetti mai concretizzati di Walt Disney (!) e Al Brodax, alla proposta di Forrest J. Ackerman (la sceneggiatura di Morton G. Zimmerman provocò una lunga e adirata risposta da parte di Tolkien, leggibile nella raccolta delle sue lettere), dal film in rotoscope di Ralph Bakshi uscito nel 1978 (che nonostante i suoi difetti era almeno rispettoso del testo originale, e per molte cose è stato un punto di riferimento e una fonte di ispirazione per Jackson) al controverso sequel non ufficiale ("Il ritorno del re") della Rankin/Bass del 1980. A lungo la United Artists, all'inizio degli anni settanta, progettò un adattamento cinematografico in live action, che in vari momenti avrebbe potuto coinvolgere i quattro Beatles (come attori) e Stanley Kubrick, David Lean, John Boorman o Michelangelo Antonioni (!) come registi. Naturalmente non se ne fece nulla. Alla fine, gli unici che prima di Jackson riuscirono a realizzare un "Signore degli Anelli" con attori in carne e ossa (se non si considerano due brevi special televisivi svedesi nel 1971) furono i finlandesi, con la serie tv "Hobitit" del 1993.

Inizialmente Peter Jackson propose per cautela ai suoi finanziatori di dividere il romanzo in due pellicole (magari con "Lo Hobbit" come prologo): fu proprio la casa produttrice, la New Line, a dirgli a sorpresa: "Visto che sono tre libri, perché non fate tre film?". Girati tutti e tre di fila (un'operazione allora tutt'altro che usuale, ma che oggi è diventata più consueta: fra i rari precedenti c'era quello del secondo e del terzo capitolo di "Ritorno al futuro", anch'essi girati back-to-back), nell'arco di 14 mesi, e distribuiti nei cinema a distanza di un anno l'uno dall'altro ("La compagnia dell'anello" uscì nel dicembre del 2001, "Le due torri" nel 2002 e "Il ritorno del re" nel 2003: in Italia arrivarono con un mese di ritardo, nel gennaio degli anni successivi), i tre lungometraggi saranno poi riproposti in home video nelle cosiddette "Edizioni estese" (Extended Edition), vale a dire con numerose scene aggiuntive che erano state tagliate al montaggio e che, pur non essenziali per la comprensione della trama, favoriscono l'approfondimento dei personaggi (soprattutto quelli minori) e svelano ulteriori retroscena. Fa eccezione il terzo capitolo, dove le scene aggiuntive non si limitano a un semplice "contentino" per i fan del romanzo, ma sono anche importanti per la risoluzione di diverse sottotrame: d'altronde si tratta anche del più lungo dei tre film, visto che l'edizione estesa giunge a superare le quattro ore! Il minutaggio di tutte e tre le pellicole, in effetti, è molto elevato, cosa rara all'epoca della loro uscita ma che riportava Hollywood sulla strada dei grandi colossal e di produzioni epiche come quelle degli anni cinquanta e sessanta (un paragone, per l'ampia scala, può essere il "Lawrence d'Arabia" di David Lean). Con un budget complessivo di 281 milioni di dollari, la trilogia ha rappresentato uno dei progetti cinematografici più ambiziosi mai realizzati fino ad allora. Il successo però è stato strepitoso, compensando ampiamente gli sforzi: quasi tre miliardi (!) di dollari di incassi complessivi, e 17 premi Oscar vinti (su 30 nomination). Il primo film, "La compagnia dell'anello", in particolare, vinse quattro statuette (fotografia, trucco, colonna sonora ed effetti visivi) di fronte a 13 nomination.

Rispetto al romanzo ci sono, certo, parecchi scostamenti. Già solo in questo primo film, per esempio, mancano intere sezioni (una su tutte: l'incontro con Tom Bombadil e il passaggio per la Vecchia Foresta e i Tumulilande), alcune scene che erano risolte in poche righe vengono amplificate (Isildur), altre vengono collocate in momenti diversi (l'origine di Gollum, narrata da Gandalf all'inizio del libro, diventerà l'incipit del terzo lungometraggio), la trama viene compressa (nel romanzo passavano 17 anni fra la partenza di Bilbo e quella di Frodo), molte informazioni sono tralasciate o accennate solo di sfuggita (chi sono i Raminghi, per esempio), alcuni personaggi cambiano di ruolo (Arwen prende il posto di Glorfindel nella scena al guado del Bruinen: nel film di Bakshi lo stesso ruolo era dato a Legolas), altri se lo vedono ridotto (Omorzo Cactaceo), altri ancora vengono introdotti appositamente (Lurtz, l'orco che guida gli Uruk-Hai, di cui ci viene mostrata la nascita). Ma i molti cambiamenti, quasi tutti motivati da esigenze cinematografiche (dare più enfasi alle scene d'azione, accrescere l'importanza dei personaggi femminili...), non vanno a discapito dello spirito del romanzo, almeno nei suoi aspetti più superficiali. Se è evidente che il libro ha maggiore profondità sotto molteplici punti di vista, quello che è piaciuto della versione filmata (anche ai fan più accaniti, come il sottoscritto), è l'averne rispettato l'atmosfera e aver reso viva e visibile la Terra di Mezzo, nonché la storia dei suoi personaggi, senza tradirne gli elementi basilari. Ogni differenza può essere facilmente spiegata col fatto che siamo di fronte alla visione (e interpretazione) di Jackson, non a quella di Tolkien (chi cercasse quest'ultima, si rilegga il libro): ma il giudizio sul film non può dipendere che dal modo in cui questo riesce a catturare lo spettatore e farlo viaggiare in un mondo immaginario, senza limitarsi a svolgere un "compitino" di traduzione da un mezzo all'altro, magari in maniera impaurita, piatta e letterale come nel caso dei coevi adattamenti dei libri di Harry Potter (e pensare che all'epoca ci fu qualche critico che preferì i secondi ai primi, soltanto perché ritenuti più adatti per i bambini, come scrisse Tullio Kezich in un'infelicissima recensione, a testimonianza del pessimo rapporto degli intellettuali italiani con il genere fantasy).

Ovviamente Jackson enfatizza gli aspetti concreti e "fisici" (vedi il combattimento fra Gandalf e Saruman!) e i momenti di azione e di avventura (anche qui un esempio: la fuga per i tunnel di Moria, con la lunga sequenza del crollo della scalinata), perdendo un po' di vista il mood più "spirituale", letterario e alto-inglese in favore di un approccio più "rozzo" e hollywoodiano (sempre comunque entro limiti accettabili) e concedendosi anche qualche inserimento spurio (la caratterizzazione "comica" di Merry, Pipino e Gimli, per esempio, quest'ultimo in particolare nei due film successivi). D'altronde era difficile rendere sullo schermo la "magia" impalpabile e melliflua dell'anello o quella "filosofica" ed empatica degli stregoni. Eppure la miscela funziona, affascinando sia gli spettatori che cercano soltanto un prodotto d'intrattenimento (ma con un'estrema cura a livello tecnico) sia coloro che si attendono un lavoro di spessore nelle dinamiche fra i personaggi e nell'approccio alla narrazione. Fra pregi della trilogia (di fatto, ricordiamolo ancora, un unico film diviso in tre parti) c'è infatti il recupero di una grande epica che nel cinema non si respirava da decenni, tanto che come termini di paragone bisogna scomodare titoli del passato firmati da autori leggendari, come il citato David Lean, Akira Kurosawa o Sergei Eisenstein. E dell'epica ci sono tutti gli ingredienti. Se "La compagnia dell'anello" è più propriamente un film di viaggio e d'avventura, i due capitoli successivi introdurranno grandi battaglie campali e alzeranno la posta in gioco. In effetti, dove Jackson rende al meglio è proprio nelle scene di guerra e di battaglia, per le quali la trilogia diventerà un imprescindibile punto di riferimento. E in generale rappresenterà un irrinunciabile modello per le storie fantasy, con molti che ne scimmiotteranno i visual e le atmosfere (non ultima la popolare serie televisiva "Il trono di spade", la cui realizzazione sarebbe stata impensabile se non ci fosse stato prima "Il Signore degli Anelli"). La regia, visceralmente efficace, ha certo alcuni difetti come l'abuso di ralenti e di primissimi piani (particolarmente evidenti ne "La compagnia", anche per motivi pratici), nonché il ricorso ad alcune abusate tecniche dell'horror (come i jump scare), ma nel complesso presenta graditissime caratteristiche da cinema "povero" e artigianale.

Gli effetti visivi, come detto, fondono le tecniche digitali con quelle più tradizionali, memori delle lezioni di Ray Harryhausen e di altri grandi artigiani del cinema fantastico. E così, a fianco di scenari, creature e mostri generati al computer (come il troll di Moria, l'Osservatore nell'Acqua, il Balrog o l'aquila Gwaihir) vengono usati anche animatroni e modellini. A occuparsene furono la Weta Digital e la Weta Workshop, società fondate dallo stesso Jackson in occasione del suo precedente film "Creature del cielo". La differente statura delle varie razze (hobbit, nani, elfi, uomini, stregoni) è resa per mezzo di una commistione di tecniche basilari, come la prospettiva forzata (i personaggi vengono collocati su piani diversi rispetto alla macchina da presa, creando però l'illusione che si trovino affiancati) o il semplice utilizzo di controfigure molto alte o molto basse (nani o bambini). E proprio la scelta di non abusare della CGI, soprattutto quando c'era un'alternativa pratica, è uno dei segreti del film (oggi, abituati come siamo a fare tutto in digitale, questo può sembrare strano): i materiali non sembrano finti perché non lo sono, anzi se ne percepisce la concretezza. Aiuta anche il dettaglio nel disegno di abiti, armi, armature, e in generale tutta l'art direction, alla quale hanno collaborato gli illustratori Alan Lee e John Howe, già habitué del mondo tolkieniano. Una delle scene in questo primo film che più resta impressa, e in cui si fondono le tecniche artigianali (i modellini) con quelle digitali, è il lungo piano sequenza che esplora le fabbriche sotterranee a Isengard (non certo fine a sé stesso: quello dell'industrializzazione e della distruzione della natura era un tema assai caro a Tolkien, e Jackson lo esplicita visivamente per sottolinearlo ancora di più, anticipando peraltro situazioni che nel romanzo venivano introdotte molto più in là). In generale la sceneggiatura (firmata dal regista insieme a sua moglie Fran Walsh e a Philippa Boyens), pur riducendo il materiale, fa un buon lavoro nel lasciar intravedere allo spettatore un mondo più vasto e sottostante rispetto alla storia narrata: per esempio lasciando che Aragorn canti di Lúthien Tinúviel, accennando a Elendil e Gil-galad, all'origine degli Istari, ai Dúnedain, senza scendere in troppi particolari o spiegare nel dettaglio di cosa si tratti, ma mettendo una pulce nell'orecchio al pubblico cinematografico, come a dire: "Se volete saperne di più, andate a leggervi i libri!".

L'aspetto dei personaggi, in gran parte ispirato all'iconografia pre-esistente, e la scelta degli interpreti sono un altro dei punti vincenti. Grazie anche alla collaborazione di Lee e Howe, molti di essi appaiono proprio come ce li siamo sempre immaginati (su tutti Gandalf, Gollum, Gimli, e in generale gli hobbit), mentre altri sono ormai diventati lo standard quando pensiamo ai personaggi (Aragorn, Legolas, Boromir, Arwen). Il casting fa uso di pochi attori già noti (per lo più in parti minori) e di molti sconosciuti che proprio con questa trilogia sono diventati delle star (uno su tutti, Orlando Bloom). Elijah Wood, nel ruolo più celebre di una carriera iniziata da quando era bambino (apparve nel secondo "Ritorno al futuro"!), è un Frodo perfetto, dallo sguardo espressivo. Gli hobbit furono inventati da Tolkien per caso (com'è noto, scrisse l'incipit de "Lo Hobbit" su una pagina rimasta bianca di un compito in classe che stava correggendo) e soltanto in un secondo momento integrati nel suo legendarium, ma ne costituiscono uno degli elementi più amati e distintivi (al punto da essere stati copiati sotto varie forme: dagli halfling di "Dungeons & Dragons" ai nelwyn di "Willow"). Protagonista assoluto del primo film, Frodo lascerà più spazio ad altri nelle successive pellicole, ma rimarrà sempre il centro focale della vicenda. Fondamentale è anche Ian McKellen nel ruolo di Gandalf il grigio, il saggio stregone che guida la compagnia dell'anello. La sua magia è più legata al carisma e alla conoscenza che non al potere fisico (anche se Jackson non ha saputo resistere, e ha inscenato un duello "a bastonate" con Saruman): conosce tutte le lingue e comunica con gli animali, ed è l'unico fra i grandi saggi, elfi compresi, a interessarsi all'esistenza degli hobbit e alle loro usanze (come l'erba pipa). A lui sono riservate alcune delle scene più iconiche del film, come lo scontro con il Balrog sul ponte di Khazad-dûm ("Tu non puoi passare!"). E la sua scomparsa durante l'attraversamento di Moria giunge un po' a sorpresa, ma trattandosi di uno stregone non è difficile immaginarsi un suo ritorno in seguito. McKellen è stato l'unico attore in tutta la trilogia a ricevere una nomination agli Oscar come interprete, proprio per questo primo lungometraggio. Curiosità: la scena in cui sbatte comicamente la testa contro una trave del tetto di Casa Baggins fu un "incidente" (uno dei tanti) non previsto nella sceneggiatura iniziale.

Viggo Mortensen non era la prima scelta per il ruolo di Aragorn/Grampasso: le riprese erano già iniziate con Stuart Townsend nella parte (dopo che Daniel Day-Lewis aveva rifiutato), ma Jackson percepì che l'attore non era adatto, essendo troppo giovane per dare il giusto peso e carisma al personaggio. A differenza che nel libro, nella trilogia cinematografica Aragorn appare dubbioso e tormentato sul suo futuro ruolo di re di Gondor, il che lo rende più sfaccettato e tridimensionale. Da questo dipende un altro scostamento: la spada Narsil non verrà riforgiata fino a "Il ritorno del re". Di Sean Astin, Dominic Monaghan e Billy Boyd, che interpretano i tre hobbit Sam, Merry e Pipino, parlerò più diffusamente in occasione dei film successivi, ma basti dire che già da subito sono chiare le intenzioni dei cineasti di accentuare il ruolo comico degli ultimi due, e soprattutto di Pipino, protagonista di irresistibili siparietti con Gandalf (a Moria) e Aragorn (la scena della "seconda colazione") e di uscite divertenti (come la frase che conclude il consiglio di Elrond: "Dov'è che andiamo?"). Poco da dire, in questo primo film, anche su Orlando Bloom (Legolas, l'elfo arciere proveniente dal Reame Boscoso), ma va sottolineato un aspetto che oggi si tende a dare per scontato: gli elfi, in Tolkien, sono creature molto originali e diverse da quelle che il folklore tradizionalmente associa a questo nome, ovvero folletti di piccole dimensioni. Nella Terra di Mezzo, invece, si tratta della razza più antica e nobile di tutte, dotata di vita eterna (possono morire solo per propria scelta o se feriti in battaglia) e, nell'iconografia dei film, di un'aria di superiorità che si traduce nell'aspetto "arianeggiante" (fanno eccezione i mezzelfi come Elrond e Arwen, dai capelli corvini anziché biondi). Quanto a John Rhys-Davies (il nano Gimli, figlio del Glóin che fu uno dei tredici compagni di Thorin Scudodiquercia ne "Lo Hobbit"), fa del suo meglio per interpretare il personaggio sotto una grande barba e un pesante trucco che sul set gli provocò non pochi problemi (compresa un'irritazione alla pelle). La bassa statura dei nani lo costringe a frequenti primissimi piani, non apparendo quasi mai per intero insieme agli altri attori (tranne quelli che interpretano gli hobbit). Anche nel suo caso Jackson sceglie di ampliarne il lato comico, cosa che diventerà ancora più evidente nelle pellicole successive.

Uno dei personaggi centrali della seconda parte del film è senza dubbio Boromir (Sean Bean), l'unico altro uomo della compagnia dell'anello oltre ad Aragorn e l'unico a soccombere durante la missione. Per concludere la pellicola con la sua morte e con lo scioglimento della compagnia, Jackson ha inserito nella sceneggiatura anche quello che era il primo capitolo de "Le due torri" (aggiungendo inoltre una climatica battaglia contro gli orchi di Isengard guidati da Lurtz). Da notare come, nel corso dell'intera storia, la compagnia dell'anello propriamente detta rimanga unita per relativamente poco tempo: soltanto la seconda metà del primo film. La prova di Bean è una delle migliori della pellicola, con l'attore che è stato in grado di fornire regalità (non è un rozzo vichingo come nel cartone di Bakshi!), spessore ed empatia a un personaggio difficile e controverso, vittima della tentazione dell'anello. Ben riuscita anche l'evoluzione del suo rapporto con Aragorn, dall'iniziale antagonismo al riconoscimento finale del diritto regale del Ramingo. Nei film successivi verremo a sapere di più sul regno da cui proviene (Gondor) e conosceremo anche suo padre e suo fratello. Quanto al principale "cattivo" delle prime due pellicole, Saruman il bianco, il ruolo dello stregone corrotto è stato affidato al leggendario Christopher Lee, l'unico degli attori ad aver incontrato in passato Tolkien di persona. La sua voce profonda, le mani adunche, lo sguardo malevolo sono perfetti per il personaggio, il cui peso nell'economia della vicenda è stato ampliato parecchio (è lui, per esempio, che provoca la tempesta di neve sul Caradhras). Un altro grande attore, Ian Holm, interpreta Bilbo (con vari gradi di invecchiamento): le sequenze in cui si trova in scena insieme a Gandalf sono probabilmente le meglio recitate dell'intera trilogia. Indimenticabile il momento in cui, a Gran Burrone, l'anziano hobbit soccombe improvvisamente al nefasto effetto tentatore dell'anello, facendo sobbalzare di paura tutti gli spettatori. Holm aveva già recitato nella parte di Frodo nell'adattamento radiofonico del "Signore degli Anelli" della BBC nel 1981, che Jackson conosceva bene. Nella successiva trilogia cinematografica de "Lo Hobbit", il ruolo di un Bilbo giovane (è il prequel di questa) sarà affidato a Martin Freeman.

Completiamo la carrellata degli interpreti con alcuni ruoli minori. Hugo Weaving è il mezzelfo Elrond, signore di Gran Burrone. Liv Tyler è Arwen, sua figlia nonché promessa sposa di Aragorn: si tratta di uno dei personaggi il cui ruolo, decisamente limitato nel romanzo, è accresciuto, senza dubbio per dare più spazio a una delle rare figure femminili e al contempo per fornire maggiori appigli emotivi al personaggio di Aragorn. A parte sostituire Glorfindel nel salvataggio di Frodo al guado, molto del materiale aggiuntivo su Arwen proviene dalla "Appendice A" del libro di Tolkien. Cate Blanchett è Galadriel, la dama dei boschi di Lothlórien, personaggio che amo molto anche se non sono un fan dell'effetto visivo e sonoro con cui nel film viene manifestato il suo potere. Del resto del cast basti citare Lawrence Makoare (Lurtz: ma interpreterà altre parti nei film successivi, sempre sotto un pesante trucco), Marton Csokas (Celeborn, il compagno di Galadriel), Craig Parker (l'elfo Haldir) e Harry Sinclair (Isildur). Il regista stesso, che apparirà in tutti e tre film in un breve cameo "hithcockiano", è qui uno degli uomini per le strade di Brea, intento a mangiarsi una carota. In alcune scene intravediamo Gollum, anche se le sue fattezze definitive non erano ancora state messe a punto, e dunque per parlare di lui e del suo "interprete" Andy Serkis bisognerà aspettare "Le due torri". Quanto a Sauron, nell'incipit lo vediamo in forma fisica e in armatura, con tanto di anello (un po' comicamente) sul dito del guanto di metallo: come al solito, Jackson ne esplicita il potere "fisico", lasciando che grazie ad esso Sauron faccia volare via i nemici che colpisce con i suoi fendenti. Se molti mostri e nemici sono generati in computer grafica, gli orchi e i Cavalieri Neri sono invece attori in costume sotto un pesante trucco. La scena del Nazgûl che "fiuta" la presenza dei quattro hobbit sul sentiero per Brea è palesemente ispirata a quella analoga del film a cartoni animati di Bakshi. A proposito di quest'ultimo, vorrei rendergli giustizia citando alcune (poche) scene che a mio parere erano state rese meglio che nella versione in live action, come l'intera sequenza nella locanda di Brea e quella dello specchio di Galadriel (dove, come nel libro, ci guarda anche Sam: Jackson invece assegna al solo Frodo la visione della Contea in fiamme).

Molto bella la colonna sonora sinfonica di Howard Shore, ricca di temi evocativi e memorabili che accompagnano alla perfezione ciò che si vede sullo schermo, come quello dell'Anello, quello della compagnia (ripreso più volte) e quello della Contea ("Concerning Hobbits"). La canzone sui titoli di coda, l'eterea "May It Be", è cantata da Enya, musicista irlandese che già in precedenza si era ispirata nei suoi brani al mondo di Tolkien. Tornando a me, non credo di essere mai stato tanto in trepidazione per l'uscita di un film come accadde per questa pellicola e per i suoi due seguiti (e dubito che lo sarò mai più). Alla sua uscita, lo vidi al cinema ben quattro volte: il giorno della "prima", poi altre due a distanza ravvicinata (di cui una in lingua originale), e infine qualche mese più tardi in occasione di una riedizione che aveva, come punto di forza, un "teaser" di immagini del secondo capitolo. Due anni più tardi, rividi in sala "La compagnia dell'anello", stavolta in versione estesa, nel corso di una maratona di tutti i tre film in occasione dell'uscita del terzo. E non sono certo stato il solo a cedere al suo fascino: che si trattasse di lettori del libro o di spettatori occasionali per i quali ha rappresentato il primo punto di contatto con la Terra di Mezzo, il film ha colpito l'immaginario popolare e si è ritagliato un posto di prim'ordine quando si parla di grandi saghe cinematografiche, riuscendo persino a scalzare "Guerre stellari" nelle preferenze di molti (complici anche i sequel di Lucas). E, cosa rara per un blockbuster, è arrivata anche la fortuna critica, che si concretizzerà con la pioggia di Oscar sul terzo film (da intendersi, però, come riconoscimento all'intera trilogia). Oggi, quasi vent'anni dopo, la sua fama non è scemata e, anzi, continua a conquistare nuove generazioni (l'unico effetto avverso, forse, è che per molti la visione dei film ha sostituito la lettura del libro). Scene e dialoghi della pellicola hanno dato vita a meme, tormentoni e modi di dire (si pensi a frasi come "All right then, keep your secrets", "So you have chosen death", "One does not simply walk into Mordor", "You have my sword... and my bow... and my axe", e naturalmente il già citato "You shall not pass!"). Il fatto che il primo film si concluda lasciando in sospeso il destino dell'anello e dei personaggi, infine, non fa altro che invogliare a proseguire al più presto la visione con il secondo di questi tre meravigliosi film: "Le due torri".

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