28 luglio 2012

Barbarossa (Akira Kurosawa, 1965)

Barbarossa (Akahige)
di Akira Kurosawa – Giappone 1965
con Yuzo Kayama, Toshiro Mifune
***

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

Siamo ai primi dell'ottocento: l'orgoglioso e giovane medico Yasumoto, che ha appena completato gli studi e ambisce a diventare un importante dottore alla corte imperiale, deve trascorrere controvoglia un periodo di tirocinio in un ospedale pubblico di Edo. La struttura, quasi un lazzaretto riservato ai malati più poveri o considerati incurabili, è gestita con il pugno di ferro e metodi fuori dall'ordinario dal primario Kyojo Niide, chiamato da tutti "Barbarossa" per via della folta barba rossiccia (lui stesso si presenta con questo nome). Inizialmente ostile al superiore e deciso a non sottomettersi alle sue "bizzarrie", col tempo Yasumoto si rende conto che dietro l'apparente arroganza di questi si cela un uomo che opera con disinteresse, abnegazione e sensibilità, le cui azioni sono tutte indirizzate verso l'obiettivo ultimo di aiutare la gente (anche e soprattutto i disperati o quelli che non possono pagare le cure), e che le regole da lui imposte nella struttura (come l'obbligo per i medici di indossare un'umile e ruvida divisa) sono basate sul puro buon senso. Convinto che "la medicina non appartiene a nessuno: è del popolo" (Yasumoto gli è prezioso anche perché a Nagasaki ha avuto accesso ai trattati dei dottori olandesi: all'epoca la conoscenza della medicina occidentale non era liberamente diffusa), e che "dietro le malattie c'è la povertà, l'ignoranza e l'infelicità", Barbarossa – che spesso si comporta più da psicologo che da medico: "visita i corpi degli ammalati ma al contempo si avvicina alla loro anima" – diventa per il giovane apprendista un vero e proprio maestro di vita, aiutandolo a entrare in contatto con gli aspetti fondamentali del suo mestiere (compresa la morte, quando gli impone di assistere un paziente nei suoi ultimi istanti di vita) e a riscoprire l'umiltà e la profonda umanità che alberga in sé stesso, il che gli consentirà di risolvere anche i suoi conflitti personali e di rappacificarsi con la sua famiglia.

Oltre alla vicenda principale, il film (che dura ben tre ore) dedica ampio spazio alle storie collaterali di numerosi pazienti, vittime di terribili esperienze dalle quali non sempre escono vincitori: notevoli, in particolare, gli episodi della "donna mantide", una ragazza fatta segregare dal proprio padre per le sue tendenze omicide, conseguenza dei traumi subiti in passato; dell'anziano Tokusuke, che muore senza poter riabbracciare la figlia e i tre nipotini, vittime a loro volta di una triste vicenda familiare; e del carpentiere Sahachi, che prima di morire racconta l'emozionante storia del suicidio della propria moglie. Ma lo spazio maggiore, quasi l'intera seconda metà del film, è dedicato alla giovane Otoyo (Terumi Niki), una ragazzina schizofrenica che Barbarossa e Yasumoto salvano dal bordello dove veniva sfruttata e maltrattata e accolgono nella clinica, riuscendo faticosamente a ottenere la sua fiducia e a restituirle la speranza e la gioia di vivere. Otoyo stessa (personaggio probabilmente ispirato alla Nelly del romanzo di Dostoevsky "Umiliati e offesi") stringerà poi amicizia con il piccolo Chobo, "il topino", un ladruncolo che ruba cibo dalla cucina dell'ospedale e che per sfuggire alla miseria tenterà il suicidio con la sua intera famiglia. In mezzo a tante storie tragiche, per fortuna non tutte senza lieto fine, risaltano ancora di più gli sforzi di Barbarossa e del suo staff per aiutare gli ammalati e le persone in maggior difficoltà (e, in contrasto, la rudezza con cui il medico tratta i suoi pazienti più ricchi e crapuloni, come il principe Matsudaira). Ultimo film di Kurosawa in bianco e nero, la pellicola – tratta in parte da un romanzo di Shugoro Yamamoto – è parente de "I bassifondi" nel ritrarre gli emarginati e gli strati più poveri della società, all'insegna di un umanesimo che nei lavori del regista nipponico si sposa sempre con l'esistenzialismo. Il lungometraggio segna anche l'ultima collaborazione di Kurosawa con Toshiro Mifune (mettendo fine a un sodalizio che proseguiva ininterrottamente dal 1948, anno de "L'angelo ubriaco", per un totale di 16 film). Il regista non approvò l'interpretazione troppo granitica e solenne data da Mifune al personaggio di Barbarossa, che avrebbe voluto più misurato e "umano", dotato di quell'umiltà e quella modestia tipica di altri "maestri" kurosawiani (dal Kambei de "I sette samurai" a Dersu Uzala): forse ci sarebbe voluto un attore come Takashi Shimura. Mifune, invece, dà vita a un personaggio eroico e sempre sicuro di sé (anche quando si autocritica, sembra che non parli sul serio), che in una sequenza fa persino a pugni e usa le arti marziali contro un gruppo di malviventi. In ogni caso, un character vivace e indimenticabile. I genitori di Yasumoto sono invece interpretati da due classici attori di Ozu e di Mizoguchi: Chishu Ryu e Kinuyo Tanaka.

25 luglio 2012

Susanna (Howard Hawks, 1938)

Susanna (Bringing Up Baby)
di Howard Hawks – USA 1938
con Cary Grant, Katharine Hepburn
***1/2

Rivisto in TV, con Sabrina, in originale con sottotitoli.

Il timido paleontologo David Huxley (Grant), in procinto di sposarsi e alla disperata ricerca di un finanziamento per il proprio museo, viene coinvolto dalla svagata e capricciosa ereditiera Susan (Hepburn, la “Susanna” del titolo italiano) in una serie di guai senza fine, soprattutto a causa di un leopardo addomesticato, Baby, che è stato inviato alla ragazza dal fratello, cacciatore in Africa, e che deve essere trasportato fino alla fattoria di famiglia nel Connecticut. A complicare le cose si aggiungono una zia impicciona, un cagnolino che trafuga un prezioso osso di dinosauro, una fidanzata da sposare e un altro leopardo fuggito dallo zoo (a differenza di Baby, tutt’altro che mansueto). Se si dovesse eleggere il film che più di ogni altro esemplifica cos'è la "screwball comedy", ovvero quel particolare sottogenere di commedia romantica all'insegna del ritmo incalzante, delle situazioni eccentriche e della "guerra fra i sessi", non pochi sceglierebbero proprio questa pellicola. Fra gag e sottili allusioni sessuali imposte dal codice Hays (i dialoghi frizzanti della prima parte, la scena al ristorante in cui si strappano gli abiti, il travestitismo di Grant), eventi che si concatenano l’uno nell’altro in maniera sublimamente lineare, il comportamento stravagante e sopra le righe della Hepburn che ignora o travalica le leggi e le regole sociali (esilarante la sua performance, nell’ufficio dello sceriffo, quando si cala nei panni di una poco di buono), gli equivoci e gli scambi di persona, e ovviamente il classico tema dello scontro fra due personaggi che, attraverso peripezie di ogni tipo, finiranno con l’innamorarsi, il film si snoda con pochi attimi di tregua (giusto le ripetute scene della caccia al leopardo nella seconda parte si dilungano un po’ troppo) fino all’immancabile – e “catastrofico” – lieto fine. Meravigliosi i due interpreti (ma ottimi anche i comprimari, da Charles Ruggles a May Robson) e indimenticabili i due animali: il leopardo Baby, che si calma soltanto udendo la canzone “I can’t give you anything but love, Baby”, e il cagnolino George (Skippy, ovvero l'Asta de "L'uomo ombra"), che Grant insegue in continuazione nella speranza di recuperare il suo prezioso osso. Il film ebbe scarso successo alla sua uscita (contribuendo alla momentanea fama della Hepburn come “box office poison”, anche se al contempo la liberò dalla gabbia dei “drammoni melodrammatici” lanciandola verso la commedia sofisticata) ma venne rivalutato in seguito, fino a conquistare un posto di prestigio nella storia della commedia cinematografica americana. Da vedere, se possibile, in lingua originale: il ridoppiaggio italiano altera infatti i dialoghi (per esempio eliminando quello che passò alla storia come il primo utilizzo sullo schermo della parola "gay" nel senso di omosessuale, quando Grant – interrogato sul perché indossi una vestaglia femminile – sbotta in un "Perché sono diventato gay tutto d’un tratto!") e appiattisce il tono generale, riducendo il divertimento.

23 luglio 2012

A walk through H (P. Greenaway, 1978)

A Walk Through H: The Reincarnation of an Ornithologist
di Peter Greenaway – GB 1978
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.


Con l'aiuto di 92 mappe di varia provenienza e affidabilità, un anonimo ornitologo (il narratore del film) ripercorre il viaggio da lui compiuto da una città all'altra di un paese immaginario ("H"). La voce narrante – che descrive le diverse mappe e racconta aneddoti ed episodi a loro legati – si sovrappone ai disegni cartografici (opera dello stesso Greenaway), spesso confusi o di ambigua lettura, e occasionalmente a immagini di uccelli osservati in volo o a terra. Più che il percorso da compiere o il territorio da attraversare, alla fine – nello spirito di Borges – sono le mappe stesse (appese come tanti quadri in una galleria d'arte) il vero scenario del viaggio: tanto che l'inquadratura non è mai statica e la macchina da presa si muove lungo le cartine, seguendone i sentieri e isolandone i particolari. Mediometraggio (40 minuti) inventivo e surreale, senza attori (tranne che nella scena finale), forse ispirato in parte a "Le città invisibili" di Calvino. Prodotto dal British Film Institute, è il punto d'arrivo della lunga serie di corti realizzati dal regista negli anni '70 e per molti versi anticipa il più complesso "The Falls". Ci si trovano infatti molti elementi che diventeranno una vera ossessione per Greenaway: il numero 92, la tendenza a catalogare ed enumerare luoghi, persone, eventi ed oggetti, il tema del volo, personaggi immaginari come Tulse Luper (alter ego del regista, qui ipermenzionato ispiratore del viaggio, nonché guida e manipolatore del protagonista) e il suo "rivale" Van Hoyten (guardiano dei gufi allo zoo di Amsterdam, che sta compilando un catalogo degli uccelli migratori dell'emisfero nord, ma che Tulse Luper "brucerà" sul tempo). La musica è di Michael Nyman.

21 luglio 2012

Ricomincio da tre (M. Troisi, 1981)

Ricomincio da tre
di Massimo Troisi – Italia 1981
con Massimo Troisi, Fiorenza Marchegiani
***

Rivisto in divx alla Fogona, con Sabrina.

Il timido e irrequieto Gaetano lascia Napoli per Firenze, dove spera di "ricominciare da tre" ("Tre cose mi sono riuscite nella vita, perché devo perdere pure queste?"). Qui sarà raggiunto dall'invadente amico Lello (Arena) e si innamorerà della bella Marta, infermiera in un istituto di igiene mentale e scrittrice a tempo perso, con la quale sceglierà di crescere un figlio forse non suo (memorabile la gag – che chiude il film – sul nome da dare al bambino: corto, come Ugo, e non lungo, come Massimiliano, altrimenti "crescerà scostumato"). Il folgorante esordio (anche alla regia) di Massimo Troisi, già attore teatrale e televisivo, fa conoscere anche al cinema un nuovo talento della comicità napoletana, che innesta temi esistenzialisti su uno sfondo al tempo stesso realista e surreale (vedi gli esercizi di telecinesi), contemporaneo e astratto, con dialoghi talvolta ai limiti della commedia dell'assurdo. L'utilizzo di un dialetto assai stretto rende forse poco comprensibile parte dei dialoghi a un'ampia fetta di pubblico, ma ha il pregio di favorire la spontaneità e la naturalezza degli interpreti (anche se il lavoro di scrittura sottostante c'è e si vede: non siamo di fronte a improvvisazioni ma a una vera sceneggiatura – opera dello stesso Troisi in collaborazione con Anna Pavignano – che scava a fondo nelle psicologie e negli atteggiamenti dei personaggi). Gaetano, già goffo e impacciato di suo, si trova di fronte a una serie di caratteri eccentrici e caricaturali (dai pazzi del manicomio dove lavora Marta, a figure come l'amante della zia o il dottore tedesco che cura Lello dopo la caduta in bicicletta; o ancora, dal cugino americano Frank, che lo conduce con sé come predicatore porta a porta, allo sventurato "Robertino", vessato e recluso in casa dalla madre bigotta) di fronte ai quali la sua personalità risalta ancor di più come libera e sincera. Ma anche Marta, moderna e indipendente, potrebbe sembrare fin troppo sofisticata per lui: e difatti lo mette di fronte a dilemmi morali e a questioni di gelosia per le quali Gaetano è decisamente impreparato. Efficaci le gag verbali, spesso costruite su un crescendo a partire da uno spunto minimale (come quella su San Francesco, alla cui logorrea nei confronti degli animali si dovrebbe persino la migrazione degli uccelli!); e non mancano i tormentoni (ogni volta che Gaetano dichiara di venire da Napoli, per esempio, viene creduto un emigrante; a un certo punto lui sbotta: "Qui pare che i napoletani non possono viaggiare, possono solo emigrare!"). Grande successo di pubblico (oltre 600 giorni di programmazione nelle sale!) e di critica (due David di Donatello, per il miglior film e il miglior attore). La colonna sonora è di Pino Daniele. Il papà di Gaetano (che attende perennemente un miracolo che gli faccia ricrescere l'arto) è interpretato dal vero padre dell'attore, Lino Troisi.

18 luglio 2012

L'appartamento (Billy Wilder, 1960)

L'appartamento (The apartment)
di Billy Wilder – USA 1960
con Jack Lemmon, Shirley MacLaine
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele, Ilaria, Paola, Ginevra, Eleonora, Marco, Sabrina.

Nella speranza di essere promosso a un incarico più prestigioso, l’umile C.C. Baxter (Jack Lemmon), impiegato come contabile in una grande ditta di assicurazioni, si garantisce la benevolenza dei propri superiori prestandogli il suo appartamento, a turno, come pied-à-terre per le scappatelle con le loro amanti. Ma quando uno dei dirigenti (Fred MacMurray) vi porterà la ragazza dell’ascensore (Shirley McLaine) di cui anche lui è innamorato, e questa tenterà il suicidio dopo essersi resa conto che l’uomo la sta ingannando, Baxter se ne prenderà cura e troverà la forza di ribellarsi, a scapito anche dell’ambita promozione. Pellicola geniale, multiforme e stratificata, con una struttura narrativa lineare, personaggi magistralmente caratterizzati (e interpretati in maniera perfetta) e un ritmo che non scade mai, giustamente premiata con l’Oscar per il miglior film (più altre quattro statuette, fra cui regia e sceneggiatura). È considerata una delle vette della pur ricchissima filmografia di Billy Wilder (autore anche dello script, insieme al solito I.A.L. Diamond): dietro gli stilemi della commedia romantica c’è un'impronta di forte satira contro l'ipocrisia e l'arrivismo, le difficoltà di stringere rapporti sociali e il malessere della vita cittadina (gran parte dell’azione si svolge durante le festività natalizie e di capodanno, ma il sottofondo è amaro e malinconico). I due protagonisti sono vittime della società (proprio "vittima" è l'espressione con la quale a un certo punto un personaggio – la moglie del medico – si riferisce alla MacLaine), usate per i propri comodi da ipocriti "uomini di potere" che rubano loro le cose più preziose (l'intimità del domicilio, l'illusione di un amore sincero), ma anche delle proprie stesse debolezze (che il regista sottolinea in maniera quasi spietata), ovvero il servilismo e l'arrivismo di lui, l'ingenuità e la fragilità di lei. Se non ci fosse il lieto fine, sarebbe un film davvero triste. L’ispirazione per il soggetto sarebbe stata fornita a Wilder dalla sceneggiatura di Noël Coward per il film “Breve incontro”: ma il progetto fu a lungo messo da parte, perché il codice Hays rendeva difficile realizzare una storia essenzialmente basata sul tema del tradimento coniugale. Indimenticabile la MacLaine con i capelli corti e la divisa da ascensore, così come Lemmon che scola gli spaghetti con una racchetta da tennis (o che attende che termini la pubblicità per vedersi un film in televisione) e le buffe partite a ramino fra i due protagonisti. Da ricordare, nel cast, anche Jack Kruschen nei panni del dottor Dreyfuss, il medico di origine tedesca convinto che Baxter – suo vicino di pianerottolo – conduca una vita sconsiderata, e Joyce Jameson in quelli della bionda che abborda Baxter nel bar a Capodanno. Fra i dirigenti che approfittano dell’appartamento di Baxter spiccano Ray Walston e David Lewis. L’art director Alexandre Trauner utilizzò diversi trucchi del mestiere (come la prospettiva forzata) per rendere al meglio le dimensioni dell’enorme ditta di assicurazioni in cui lavora il protagonista. Fra i locali dell'azienda e l’appartamento di Baxter, gli ambienti stessi in cui si muovono i personaggi assurgono al rango di coprotagonisti. Una curiosità: si tratta dell’ultimo film completamente in bianco e nero ad aver vinto l’Oscar come migliore pellicola (fino a “The Artist” nel 2012; “Schindler List”, che vinse nel 1994, conteneva alcune sequenze a colori).

17 luglio 2012

La leggenda del pianista sull'oceano (G. Tornatore, 1998)

La leggenda del pianista sull'oceano
di Giuseppe Tornatore – Italia/USA 1998
con Tim Roth, Pruitt Taylor Vince
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Nato nei primi giorni del ventesimo secolo e abbandonato ancora in fasce su un transatlantico in servizio fra l’Europa e l’America, Danny Boodman T. D. Lemon Novecento – come viene battezzato dal macchinista che lo adotta (fondendo insieme il suo stesso nome, la scritta sulla scatola che conteneva il neonato e un omaggio al nuovo secolo che stava cominciando) – trascorrerà tutta la propria vita a bordo della nave, senza mai scendere a terra e senza mai farsi registrare all’anagrafe. A bordo si guadagnerà da vivere come pianista: la sua incredibile abilità con la tastiera gli procurerà fama e onori, che però rifuggirà (“La mia musica non va dove non sono io”, risponde al discografico che vorrebbe mettere in commercio un’incisione delle sue esibizioni). Dopo la fine della seconda guerra mondiale, la sua storia sarà narrata attraverso una serie di flashback dall'amico Max Tooney, trombettista americano che è convinto che Novecento si trovi ancora a bordo del transatlantico, ormeggiato in un porto inglese e destinato ormai alla demolizione. Tratto da un monologo teatrale di Alessandro Baricco intitolato per l’appunto “Novecento” (ma era francamente impensabile mantenere per la pellicola lo stesso titolo, già usato da Bernardo Bertolucci per il suo epico affresco contadino), il film è una coproduzione italo/americana sontuosa e patinata, con un cast internazionale. A differenza però dei film del citato Bertolucci, che potrebbero essergli paragonati per ambizione, confezione e scala produttiva, quello di Tornatore risulta meno “personale” e più colmo di romanticismo poetico, con poca attenzione al realismo, alla verosimiglianza della narrazione (alcune scene, pur belle e anzi forse le migliori del film, spiccano per l’aspetto “cartoonistico”: si pensi alla “danza” del pianoforte durante la tempesta, o alla sfida virtuosistica con Jelly Roll Morton, “l’inventore del jazz”, quasi una parodia dei duelli western), alla denuncia sociale (il ritratto degli emigranti che vanno a cercare fortuna in America, così come quello della vita a bordo della nave, è fin troppo idilliaco) o alla ricostruzione storica (dei grandi eventi del ventesimo secolo non si fa menzione, se si eccettuano un paio di fugaci riferimenti alla seconda guerra mondiale). E anche il finale, a ben vedere, ha poco senso: dopo che Novecento è rimasto da solo (per anni?) sulla nave in disuso, sceglie di morire lasciandosi esplodere insieme a essa perché ha capito che non potrebbe mai adattarsi alla vita sulla terraferma (“La terra è una nave troppo grande per me”): ma perché non trasferirsi semplicemente su un’altra imbarcazione? In ogni caso, non è sul piano del realismo che andrebbe giudicato un film che è prima di tutto una fiaba e poi una metafora della vita attraverso i temi del viaggio e dell’arte. E da questo punto di vista non delude, anche se in fondo la sua ragion d’essere risiede più nella confezione che nei contenuti: da sottolineare a questo proposito la fotografia, le scenografie e soprattutto la colonna sonora di Ennio Morricone, con un tema principale (quello che Novecento si fa ispirare dalla visione di una bella ragazza, interpretata dall’attrice francese Mélanie Thierry) semplice e dolce.

16 luglio 2012

Un sogno per domani (Mimi Leder, 2000)

Un sogno per domani (Pay it forward)
di Mimi Leder – USA 2000
con Haley Joel Osment, Kevin Spacey, Helen Hunt
**

Visto in TV, con Sabrina.

Stimolato da un compito assegnato in classe dall’insegnante di scienze sociali (ideare un metodo per cambiare in meglio il mondo), il sensibile undicenne Trevor (Haley Joel Osment, appena reduce da "Il sesto senso") escogita una sorta di catena di Sant’Antonio composta da “buone azioni”: chi riceve un favore dovrà ricambiare aiutando a sua volta, e in maniera del tutto disinteressata, altre tre persone sconosciute. Il generoso meccanismo si propagherà per tutto il paese, fino a quando un giornalista – “risalendo” all’indietro la catena dei favori – rintraccerà il bambino e lo intervisterà, contribuendo a diffondere ancora di più la sua idea. Fra coloro che ne beneficeranno, tra gli altri, ci saranno anche la madre di Trevor (Helen Hunt) e il suo insegnante (Kevin Spacey), che troveranno l’uno nell’altra un conforto alle rispettive solitudini. Idealistico e ottimista, un film ad alto rischio di retorica: i buoni sentimenti non mancano, il meccanismo narrativo è farraginoso e la filosofia di fondo può sembrare innovativa giusto agli americani, così assuefatti a una società individualista e menefreghista (non a caso la pellicola si svolge a Las Vegas, località “antisociale” per eccellenza) da trovare insolita o addirittura “eroica” l’idea di mostrarsi gentili con gli sconosciuti (non più di tre, però, mi raccomando!). Ma le discrete prove degli interpreti (su tutte quella di Spacey, nei panni di un uomo ferito e vulnerabile; ma bene anche la Hunt, madre alcolizzata e spogliarellista, e Jim Caviezel, il barbone che per primo sperimenta la generosità di Trevor), il valore dello spunto di partenza (di fatto l’idea del bambino consiste nel dar vita a un “social network” offline) e un finale non del tutto lieto (al quale peraltro non sono mancate critiche) valgono almeno una visione. Il titolo originale della pellicola, “Pay it forward”, ribalta il “Pay it back” con cui di solito si definisce l’atto di restituire – per gratitudine o per senso del dovere – un favore a chi l’ha fatto.

15 luglio 2012

Two weeks notice (Marc Lawrence, 2002)

Two weeks notice - Due settimane per innamorarsi (Two weeks notice)
di Marc Lawrence – USA 2002
con Sandra Bullock, Hugh Grant
*1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Un’avvocatessa impegnata nel sociale, abituata a battersi per le cause perse (come il salvataggio di un centro comunitario a Coney Island, minacciato da una speculazione immobiliare), viene assunta proprio dal ricco e affascinante miliardario la cui società è coinvolta nel progetto di demolizione. Naturalmente, nonostante le differenze di vedute e la fama di playboy di lui, finirà con l’innamorarsene. Commedia romantica prevedibilissima e senza guizzi, che ha i suoi unici punti a favore nella buona alchimia fra i due protagonisti e nel ritmo vivace di una sceneggiatura che però elargisce ben poche battute o momenti memorabili. Gli spunti potenzialmente interessanti del soggetto (il contrasto politico fra lei, ambientalista e di sinistra, e lui, arricchito e privo di coscienza sociale) sono sviluppati all’acqua di rose, mentre la mancanza di invenzioni cinematografiche o di comprimari degni di nota (non si può infatti considerare tale la “rivale”, sia in amore che sul lavoro, interpretata da Alicia Witt) lo rendono un film appetibile soltanto per i fan dei due interpreti.

The pet – La sottomissione di Mary (D. Stevens, 2006)

The pet – La sottomissione di Mary (The Pet)
di D. Stevens – USA 2006
con Pierre Dulat, Andrea Edmondson
*

Visto in divx, con Sabrina.

Dopo aver perso l’amato cane, un riccone decide di sostituirlo “allevando” una ragazza (consenziente) come se fosse un animale domestico: nuda, con collare e guinzaglio, obbligo di dormire in gabbia, e così via. Il soggetto di partenza (sul tema del ‘pet play’) sarebbe stato anche interessante, ma l'esigenza di sviluppare la trama a ogni costo porta ben presto il film in tutt’altre direzioni: l’erotismo (quel poco che c’era) si perde per strada quando la sceneggiatura vira in una sottotrama sul traffico illegale di esseri umani e di donatori di organi, dalla quale la pellicola ha tutto da perdere. Regia, recitazione e confezione tecnica, in ogni caso, sono sotto il livello di guardia.

12 luglio 2012

The way back (Peter Weir, 2010)

The Way Back (id.)
di Peter Weir – USA 2010
con Jim Sturgess, Ed Harris, Colin Farrell
***

Visto al cinema Uci Bicocca, con Marisa, Candida e altri.

Era da tempo (da “Master and commander” del 2003, per la precisione) che non usciva un nuovo film di Peter Weir, regista fra i più grandi degli ultimi quarant’anni. E per di più arriva nelle nostre sale con qualche stagione di ritardo, indice della scarsa fiducia dei distributori in una pellicola di non facile impatto (nonostante la presenza di attori di nome), il cui argomento (la fuga di un gruppo di prigionieri da un gulag siberiano e il loro lungo cammino per tornare a casa), l’incedere lento e lo stile cinematografico d’altri tempi potrebbero forse tenere lontani gli spettatori più giovani. Ispirato a un celebre resoconto (quello di Sławomir Rawicz, pubblicato negli anni cinquanta) della cui attendibilità si è recentemente cominciato a dubitare (per stare sul sicuro, Weir si è avvalso della consulenza storica della giornalista Anna Appelbaum), il film si svolge nel 1941, quando numerosi polacchi furono rinchiusi nei gulag staliniani dopo l’invasione sovietica della Polonia in risposta a quella tedesca. Fra questi c’è Janusz, condannato come “spia” in seguito a una confessione estorta alla moglie. Approfittando di una tempesta di neve, l’uomo riesce a evadere in compagnia di quattro compatrioti, ai quali si aggiungono un prigioniero americano (Ed Harris), ovvero uno dei non pochi statunitensi che avevano cercato fortuna in Russia dopo la Grande Depressione; una ragazza (Saoirse Ronan); e un urka (Colin Farrell), ovvero un criminale russo (nei gulag ladri e banditi godevano di privilegi rispetto ai prigionieri politici e venivano lasciati “spadroneggiare” dalle guardie, perché a differenza di quelli non erano considerati “nemici del popolo”). La fuga a piedi verso la libertà si trasformerà in un viaggio lunghissimo: in quasi un anno, dirigendosi sempre verso sud e combattendo contro il freddo, la fame e la sete, gli uomini percorreranno oltre 6.000 chilometri (evitando accuratamente villaggi e centri abitati per non correre il rischio di essere riconsegnati ai sovietici), dapprima attraverso le foreste e le steppe siberiane, poi lungo le coste del lago Baikal fino alla Mongolia, quindi nelle aride distese di sabbia del deserto dei Gobi, e infine attraverso le vette himalayane del Tibet fino all’India. Con un soggetto simile, è ovvio che il tema tanto caro a Weir del rapporto fra l’uomo e l’ambiente circostante (qui rappresentato da una natura estrema, che sa essere al contempo ostile o fornire acqua e cibo nel momento del bisogno) sia costantemente al centro della pellicola, forse più che in ogni altro suo film. Di fronte a esso passano in secondo piano anche le relazioni fra i personaggi, legati fra loro soltanto dall’obiettivo comune, quello della sopravvivenza: persino il loro passato conta poco (alcuni, come l’americano Smith, sono assai reticenti al proposito). Ciò nonostante, le figure emergono con vigore e personalità, grazie anche agli ottimi interpreti: meritano una particolare menzione l’intenso Ed Harris (che per Weir aveva già recitato in "The Truman Show") e il sorprendente Colin Farrell (nel ruolo della "simpatica canaglia"). Il regista australiano si prende i tempi giusti per descrivere il lungo cammino, le fatiche e le sofferenze dei fuggitivi, stimolando ai massimi livelli il coinvolgimento di uno spettatore che, se ricettivo e disposto a partecipare, si ritrova quasi a vivere insieme ai personaggi tutte le difficoltà del viaggio. All’anelito per la libertà e al desiderio di sopravvivere in ogni modo si sovrappongono i temi della colpa e del perdono, visto che sono proprio queste le motivazioni che spingono almeno due dei personaggi principali (Janusz e Smith) a proseguire nel cammino e a non cedere di fronte alla fatica e alle difficoltà: Janusz, in particolare, non potendo tornare “indietro” a casa perché la sua patria è occupata dai Sovietici, continuerà ad andare “avanti”, ossia a camminare per il mondo fino a quando, dopo il crollo del Comunismo, potrà riabbracciare la moglie (“Solo io posso perdonarla”, spiega). Eccezionali gli scenari naturali (non a caso, cosa insolita per una pellicola di fiction, fra i produttori c’è National Geographic), solida la regia che non perde mai la presa sulla materia trattata e non si concede divagazioni di gusto hollywoodiano, anche perché può contare su una sceneggiatura senza sbavature.

10 luglio 2012

Alice non abita più qui (M. Scorsese, 1974)

Alice non abita più qui (Alice doesn't live here anymore)
di Martin Scorsese – USA 1974
con Ellen Burstyn, Kris Kristofferson
***

Rivisto in TV, con Sabrina.

Dopo la morte improvvisa di un marito violento e che non amava, Alice Hyatt prende con sé il figlio Tommy (Alfred Lutter), lascia la cittadina del New Mexico dove abitava e si mette in viaggio con l’intenzione di raggiungere Monterey, in California, il luogo dove aveva vissuto felicemente in gioventù. Durante il percorso sarà costretta ad alcune tappe forzate per guadagnare il denaro necessario per proseguire il cammino: a Phoenix riuscirà a farsi assumere come cantante in un piano bar, ma un altro uomo violento e inaffidabile (Harvey Keitel) la costringerà a ripartire; a Tucson, dove si ridurrà a fare la cameriera in un bar di quart’ordine (il Mel’s Diner), si innamorerà invece del proprietario di una fattoria (Kris Kristofferson) e, dopo alcuni alti e bassi, sceglierà di rimanere con lui. Appassionante spaccato di vita “on the road” sul tema del cambiamento e sulle difficoltà di una vedova (con figlioletto vivace al seguito) nel ricostruirsi una nuova esistenza, fra sogni di gioventù e speranze di un futuro migliore, disillusioni e l’impossibilità di stare senza un uomo. Si tratta del quarto film di Scorsese ma anche del suo primo lavoro hollywoodiano dopo tre pellicole indipendenti (il film è prodotto dalla Warner Bros, studio con cui la Burstyn aveva appena girato “L’esorcista”). Fu proprio l’attrice, che desiderava fare un “diverso tipo di film, con una storia vista da una prospettiva femminile”, a scegliere il copione e a chiedere di lavorare con un regista “giovane e nuovo”. Il nome di Scorsese le venne suggerito dall’amico Coppola, e il regista accettò di buon grado di dirigere il film come risposta a quei critici che dopo "Mean Streets" lo accusavano di saper fare solo film "maschili". Il titolo è ispirato a una canzone degli anni trenta, così come “datate” sono molte delle canzoni che fanno parte della colonna sonora. Oltre alla viva e vibrante atmosfera di fondo, che fortunatamente non sfocia mai nel melodrammatico o nella soap opera (nonostante l'ironico incipit in stile retrò e alla Douglas Sirk), rimane impressa la fotografia iperrealista, dai toni accesi e – soprattutto nella prima parte – virati sul rosso e sui colori caldi. Ellen Burstyn vinse l’Oscar per la miglior interpretazione femminile. Diane Ladd è l'estroversa e sboccata Flo, una delle colleghe di Alice al bar, mentre Audrey, il “maschiaccio” amico di Tommy, è interpretata da una dodicenne Jodie Foster, che due anni dopo farà sensazione in un altro film di Scorsese, “Taxi Driver”. Dal film fu tratta anche una serie televisiva, la sitcom “Alice”, durata per ben nove stagioni.

8 luglio 2012

Profumo di donna (Dino Risi, 1974)

Profumo di donna
di Dino Risi – Italia 1974
con Vittorio Gassman, Alessandro Momo
**1/2

Visto in divx, con Marisa.

Il giovane attendente Giovanni "Ciccio" Bertazzi (Momo) riceve l'incarico di accompagnare il capitano in pensione Fausto Consolo (Gassman) in un viaggio in treno da Torino a Napoli. Ma ignora che l'uomo – rimasto cieco e senza un braccio in seguito a un incidente – ha progettato, una volta giunto a destinazione, di uccidersi insieme a un suo collega, cieco a sua volta. Nel corso delle varie tappe del viaggio – Genova, dove Fausto si intratterrà con una prostituta (Moira Orfei), e Roma, dove farà visita a un cugino prete – il legame fra il capitano e il suo giovane accompagnatore si farà sempre più stretto; a Napoli sarà invece un’ostinata ragazza, Sara (Agostina Belli), a far breccia nel cuore dell’uomo e a farlo desistere dal suo proposito di chiudersi in sé stesso, rifiutare ogni aiuto e rinunciare alla vita. Come nel successivo remake hollywoodiano (“Scent of a woman”, del 1992, con Al Pacino), quasi tutto il “peso” del film si regge sulle spalle dell’attore protagonista, qui un superbo Gassman che dà vita a un personaggio carismatico ed eccentrico, esuberante e sgarbato, che nasconde la depressione e la tristezza di vivere dietro a un comportamento sopra le righe che soltanto la giovane Sara, innamorata di lui sin da bambina, riesce a “leggere” in maniera positiva. Privo della vista, Fausto si affida agli altri sensi (e soprattutto all’olfatto) per godere di quello che ritiene essere il principale piacere della vita, ovvero le donne. Nel cast, comparsata per Alvaro Vitali (il barista). Bel tema musicale di Armando Trovajoli. La sceneggiatura (di Dino Risi e Ruggero Maccari) è ispirata a un romanzo ("Il buio e il miele") di Giovanni Arpino.

6 luglio 2012

Il cammino per Santiago (E. Estevez, 2010)

Il cammino per Santiago (The Way)
di Emilio Estevez – USA/Spagna 2010
con Martin Sheen, Deborah Kara Unger
**

Visto al cinema Apollo, con Sabrina.

Dopo che il figlio (Emilio Estevez) è rimasto vittima di un incidente sui Pirenei proprio nel primo giorno del suo cammino verso Santiago de Compostela, un anziano oftalmologo americano (Martin Sheen) decide di compiere il pellegrinaggio al suo posto, portando con sé una cassetta con le sue ceneri. Lungo la strada, che inizialmente intendeva percorrere in totale solitudine e spinto solo dall'ostinazione, farà amicizia con compagni occasionali (un estroverso olandese che spera di dimagrire, una scostante americana in fuga da un marito violento, un bizzarro scrittore irlandese in cerca di ispirazione) e imparerà a conoscere meglio anche sé stesso e la propria vita: è questo, in fondo, il vero senso del pellegrinaggio (al di là di ogni motivazione religiosa o salutista). Se come film in fondo non è niente di speciale (trama semplice e senza guizzi, personaggi caratterizzati banalmente, una struttura episodica che raramente “cattura” lo spettatore), avendo a mia volta affrontato l’anno scorso un tratto del cammino (purtroppo non tutto: ma spero prima o poi di tornare a completarlo) devo ammettere che mi ha fatto piacere rivedere quei luoghi sullo schermo. Ho inoltre apprezzato il tentativo di rappresentare, senza un’eccessiva drammatizzazione hollywoodiana e tutto sommato anche con sufficiente realismo e assenza di retorica, alcune delle caratteristiche che fanno del pellegrinaggio verso Santiago un’esperienza unica: ottocento chilometri a piedi e con zaino in spalla attraverso campi, altopiani, paesi e città, lungo una via battuta sin dal medioevo e che ancora oggi è percorsa da migliaia di persone ogni anno, di tutte le età e le nazionalità, e per i motivi più disparati. La pellicola è nata tutto in famiglia: Estevez, infatti, è figlio di Martin Sheen anche nella vita reale, e l’idea del film è sorta dopo che Sheen e il nipote Taylor (figlio di Estevez) avevano percorso il cammino nel 2003.

3 luglio 2012

Una storia vera (David Lynch, 1999)

Una storia vera (The Straight Story)
di David Lynch – USA 1999
con Richard Farnsworth, Sissy Spacek
***

Rivisto in DVD, con Eleonora, Paola e Ilaria.

Per far visita al fratello Lyle, reduce da un infarto e con cui non parla da oltre dieci anni, l'anziano e malandato Alvin Straight decide di percorrere le 240 miglie che lo separano da lui (attraverso gli stati dello Iowa e del Wisconsin) a bordo di un tagliaerba: non possiede infatti la patente, a causa dei suoi problemi di vista e di deambulazione, e "sente" di dover compiere il viaggio da solo. Lungo il percorso, effettuato con estrema lentezza, bivaccherà sotto le stelle, farà diversi incontri interessanti (fra gli altri: una ragazza scappata di casa perché incinta e un'automobilista che continua a investire cervi "che escono dal nulla") e sperimenterà la solidarietà altrui. Bizzarro road movie che celebra la calma e la forza di volontà, oltre che i valori morali e il desiderio di riconciliazione del protagonista (che trasudano anche dalle conversazioni con il vecchio reduce di guerra e con il prete). Come hanno fatto notare diversi critici, è curioso il contrasto fra la "lentezza" con cui procede il viaggio di Alvin e la teorica esigenza di arrivare a destinazione il più presto possibile, viste le condizioni del fratello e la propria vecchiaia. Nel complesso si tratta di un oggetto davvero particolare all'interno della filmografia di Lynch (che lo ha definito come il suo film "più sperimentale"): pacato e riflessivo, lontanissimo dalle atmosfere inquietanti e oniriche dei suoi altri lavori, è l'unico del quale il regista non ha scritto la sceneggiatura, nonché l'unico distribuito dalla Walt Disney (e senza restrizioni di pubblico). Come rivela il titolo italiano – quello originale è invece un gioco di parole sul nome del protagonista, visto che Straight significa "diritto, retto" – si tratta di una storia accaduta davvero (nel 1994, quando Alvin aveva 73 anni). La pellicola è stata girata lungo il percorso realmente effettuato da Straight, e le riprese (cosa insolita durante la lavorazione di un film) sono state effettuate in stretto ordine cronologico. Bella la colonna sonora di Angelo Badalamenti. Fondamentale l'interpretazione di Richard Farnsworth (a sua volta gravemente malato per un tumore alle ossa che gli paralizzava le gambe: durante le riprese non doveva fingere di camminare con le stampelle), morto suicida l'anno successivo all'età di 80 anni. Il fratello di Alvin, Lyle, che appare solo nella scena finale, è interpretato da Harry Dean Stanton, mentre Sissy Spacek è la figlia con qualche disabilità mentale.