30 giugno 2012

Anatomia di un rapimento (A. Kurosawa, 1963)

Anatomia di un rapimento (Tengoku to jigoku)
di Akira Kurosawa – Giappone 1963
con Toshiro Mifune, Tatsuya Nakadai, Tsutomu Yamazaki
***1/2

Rivisto in DVD alla Fogona.

Il ricco industriale Gondo (Mifune) sta per concludere l'affare della vita: per non essere estromesso dal consiglio di amministrazione della sua società, ha ipotecato ogni proprietà e ha radunato abbastanza denaro da acquistare la maggioranza delle azioni. Ma prima che possa chiudere l'accordo, riceve una terribile telefonata: qualcuno ha rapito suo figlio Jun e chiede un forte riscatto. Gondo si dichiara subito pronto a pagare: la salvezza del figlio vale infatti più del denaro o dell'azienda. Presto, però, si scopre che il rapitore ha sbagliato persona: non ha rapito Jun ma un suo compagno di giochi, Shinichi, figlio di un semplice autista. Ciò nonostante il criminale non modifica la sua richiesta, e Gondo si ritrova di fronte a un terribile dilemma morale: sacrificare tutto ciò che possiede per salvare il bambino di un altro? Già la prima tesissima mezz'ora (ambientata tutta in una sola stanza, il soggiorno della villa di Gondo) sarebbe bastata a qualsiasi altro regista per dar vita a un film memorabile, ma Kurosawa va persino oltre. La sezione centrale della pellicola diventa un police procedural con i fiocchi, nel quale assistiamo alle lunghe e meticolose indagini del commissario Tokura (Nakadai) e dei suoi uomini alla ricerca del rapitore: viene esaminato ogni dettaglio e seguita ogni possibile pista per ricostruire dove il bambino è stato tenuto prigioniero e dove si nasconde il colpevole, fino alla sua identificazione. Nella parte conclusiva, infine, il rapitore – lo studente di medicina Takeuchi (Yamazaki) – viene pedinato dai poliziotti (al porto, nei locali e nel quartiere dei derelitti di Yokohama) per coglierlo in flagrante mentre cerca di eliminare i complici che potrebbero incriminarlo. Ispirato a un romanzo di Ed McBain ("Una grossa somma") ma anche a un fatto reale di cronaca, il ventiduesimo film di Kurosawa – realizzato quattrordici anni dopo il suo primo approccio al genere con "Cane randagio" – è un giallo serratissimo che rappresenta al contempo una parabola umanista sul bene e il male, sul denaro e l'avidità, sul delitto e sull'integrità morale, e in cui si capovolgono diversi luoghi comuni: per una volta il ricco è il "buono" e il povero è il "cattivo". Il titolo originale, che significa "Fra cielo e inferno", si riferisce al limbo in cui vivono i personaggi: Gondo, nella sua villa che domina la città dall'alto, e Takeuchi, che dai bassifondi sviluppa un odio per il ricco industriale (non vuole solo il suo denaro, ma anche umiliarlo e ridicolizzarlo davanti all'opinione pubblica), si confronteranno soltanto nel finale, quando "vittima" e "carnefice" si troveranno l'uno di fronte all'altro durante il colloquio in carcere. Più che McBain, sembra quasi che Kurosawa avesse in testa ancora Dostoevsky! Toshiro Mifune, con la solita recitazione intensa e nervosa, dà vita a un personaggio ricco di sfumature: inizialmente ritratto come un cinico "squalo" della finanza (il suo motto è "uccidere o essere uccisi"), mostra poi la sua umanità quando decide di sacrificare il proprio patrimonio, anche perché in qualche modo si sente responsabile dell'accaduto. La notizia, diffusa sui giornali, gli varrà il plauso e il rispetto di tutti (contro le aspettative del rapitore), tanto che persino uno dei poliziotti commenterà: "Non ho mai avuto simpatia per i ricchi, forse perché sono nato povero, ma quell'uomo è realmente ammirevole". Una bella differenza rispetto ai dirigenti corrotti che il regista aveva ritratto tre anni prima ne "I cattivi dormono in pace". Memorabile la sequenza – anche questa di grande tensione – ambientata sul treno, quando Gondo deve consegnare il riscatto al rapitore, così come la scena in cui il fumo rosso che esce dalla ciminiera dell'inceneritore (il colore è dipinto sui fotogrammi in bianco e nero, un "effetto speciale" che oltre a ricordare il cinema delle origini rappresenta il primo utilizzo della policromia in un film di Kurosawa!) darà agli investigatori la traccia decisiva per identificare il colpevole. Nella curiosa colonna sonora, fra i brani che si sentono alla radio ci sono "La trota" di Schubert e una versione strumentale di "'O sole mio".

28 giugno 2012

Quando la moglie è in vacanza (B. Wilder, 1955)

Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch)
di Billy Wilder – USA 1955
con Tom Ewell, Marilyn Monroe
***1/2

Rivisto in DVD, con Eleonora e Ilaria.

Rimasto da solo durante l’estate nell’afosa Manhattan, dopo aver spedito in villeggiatura la moglie e il pestifero figlioletto, il redattore Richard Sherman si lascia tentare dalla possibilità di un’avventura extraconiugale con un'affascinante vicina di casa, la "ragazza del piano di sopra" (il personaggio non ha nome: nella sceneggiatura è indicata semplicemente come "the girl"). Irriverente satira sull’infedeltà matrimoniale (il titolo originale significa "il prurito del settimo anno" e si riferisce al periodo di tempo dopo il quale – secondo gli psicologi – ogni matrimonio comincia a usurarsi), tratta da una commedia scritta tre anni prima da George Axelrod per Broadway (il cui interprete Tom Ewell venne scritturato anche per l’adattamento cinematografico), è una delle pellicole più celebri con Marilyn Monroe, quella in cui l’attrice incarna il suo personaggio più tipico e iconico: la bionda bella e svampita, che seduce gli uomini quasi senza accorgersene. Fenomenale nella sua leggerezza e fisicità, Marilyn farebbe girare la testa a chiunque: figuriamoci a uno come Sherman, che vive già di suo nel mondo dei sogni (sono numerose le sequenze in cui la sua immaginazione gli fa fare voli pindarici, in cui si vede come un irresistibile dongiovanni o, al contrario, immagina che sia la propria consorte a tradirlo durante la villeggiatura), perennemente incerto se rimanere fedele alla moglie o cedere alla tentazione di una scappatella con la nuova vicina, e che pensa che per conquistarla bastino l'aria condizionata nell'appartamento, un bicchiere di champagne e soprattutto le romantiche note del secondo concerto per pianoforte di Rachmaninov (Marilyn, invece, preferisce le “tagliatelle”, un brano facilissimo da suonare con solo due dita). Dall’incipit che azzarda un paragone fra il comportamento degli antichi abitanti di Manhattan (gli indiani) e quelli odierni, passando per una serie di trovate indimenticabili (la semplicità e l’ingenuità di Marilyn che tiene la biancheria intima nel frigo; il lavoro stesso di Sherman, che consiste in “erotizzare” le copertine di grandi classici della letteratura per renderli più appetibili a un pubblico in cerca di emozioni), il film è una collezione di momenti divertenti, leggeri e sbarazzini, molti dei quali si prendono gioco dell’ipocrisia e della morale dell'epoca e della censura cui Hollywood era soggetta (e che si riflette nel fatto che l’affaire fra Sherman e la ragazza non va a buon fine). Va però ricordato soprattutto per la più celebre scena con Marilyn come protagonista, entrata a pieno diritto nella cultura popolare: quella in cui lo spostamento d’aria provocato da una carrozza della metropolitana, passando sotto una grata, le solleva la gonna. Curiosamente, durante questa scena, nell’inquadratura Marilyn non si vede a figura intera: l’immagine che circola in giro (in cui la bionda cerca inutilmente di tenere già il vestito) è stata scattata sul set dal fotografo di scena Matty Zimmerman della Associated Press. L’abito bianco indossato dall’attrice in quell’occasione è diventato a sua volta una celebrità come uno dei costumi più popolari di tutta la storia del cinema. Da notare che a un certo punto Tom Ewell esclama, a proposito della ragazza che si nasconde nel suo appartamento, “Forse è Marilyn Monroe!”: mi chiedo se la battuta fosse presente anche nella commedia originale (all’epoca Marilyn iniziava a essere già nota), dove però il ruolo della ragazza era interpretato da un’altra attrice, Vanessa Brown.

25 giugno 2012

Cannes e dintorni 2012 - conclusioni

Come si era già detto da più parti, l'ultima edizione del Festival di Cannes non ha offerto veri capolavori, e questo si è riflesso anche nella rassegna milanese. Il vincitore della Palma d'Oro ("Amour" di Michael Haneke), pur essendo un buon film, non mi è parso alla stessa altezza del precedente lavoro del regista austriaco ("Il nastro bianco"). E nulla di ciò che ho visto in questi giorni sembrerebbe destinato a lasciare il segno. L'unica pellicola che si è stagliata (e anche piuttosto nettamente) al di sopra delle altre è stato l'affascinante affresco notturno di Nuri Bilge Ceylan, "C'era una volta in Anatolia": ma guarda caso, proveniva dal Festival dell'anno scorso e non da quello del 2012. Per il resto, meritano comunque una segnalazione i film di Ulrich Seidl ("Paradise: Love") e di Tony Kaye ("Detachment"). Interessanti, ma con qualche riserva, quelli di Michel Gondry ("The We and the I") e di Cristian Mungiu ("Beyond the Hills"). Delusione per Audiard ("De rouille et d'os") e per le "Relazioni pericolose" cinesi. Divertente il giapponese "Thermae Romae", e tutto sommato anche il consueto giocattolo di Wes Anderson ("Moonrise Kingdom"): insieme al documentario kubrickiano "Room 237", hanno rappresentato i pochi momenti di allegria in una rassegna permeata da atmosfere cupe e tragiche, dai temi della malattia e del disagio giovanile (ben tre erano i film ambientati attorno a una scuola!). C'è da dire che forse il caldo afoso ha inciso sul mio scarso gradimento complessivo. Il peggio? Difficile salvare qualcosa nel pretenzioso Carlos Reyagdas ("Post tenebras lux") e nel ricattatorio coreano "Silenced".

24 giugno 2012

Oltre le colline (C. Mungiu, 2012)

Oltre le colline (După dealuri)
di Cristian Mungiu – Romania 2012
con Cosmina Stratan, Cristina Flutur
**

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Alina e Voichiţa sono due ragazze cresciute insieme all'orfanotrofio: ora la prima ha trovato un lavoro in Germania, mentre la seconda è entrata in un piccolo convento ortodosso sulle colline. Nel tentativo di convincere l'amica – di cui è innamorata – a lasciare il convento e partire con lei, Alina soggiorna temporaneamente a sua volta nel monastero: ma il suo temperamento irascibile e impaziente turba quel luogo di pace e di preghiera, mettendo in subbuglio la già difficile vita (non immune da sacrifici e problemi economici) della comunità formata dalle monache e del pope ortodosso (che le ragazze, come in una famiglia, chiamano "papà": e il tema della famiglia ricorre continuamente nella pellicola, come nella scena in cui Alina torna a visitare i suoi "genitori" adottivi, che hanno già preso un'altra ragazza per sostituirla e fare i lavori in casa). Resasi conto che ormai Voichiţa "ha Dio nel cuore" e che non intende seguirla, Alina si farà prendere da una furia sempre più violenta e distruttrice, tanto da essere considerata "indemoniata". Dopo "4 mesi, 3 settimane e 2 giorni", Mungiu racconta un'altra storia di dolore e sofferenza femminile, ispirata a un episodio avvenuto realmente (un caso di esorcismo, con conseguenze tragiche, in un monastero in Moldavia) all'insegna del contrasto fra fede e amore (più che Alina, resa cieca dai suoi desideri e incapace di accettare la realtà, la vera protagonista e vittima della vicenda è Voichiţa, che ama sinceramente l'amica – anche se "in maniera diversa rispetto al passato" – e soffre per lei). Lo stile austero del regista (sobri piani sequenza, assenza di musica) si sposa bene con l'ambientazione (l'angusto e spartano monastero di campagna) e con l'ottima prova delle protagoniste (premiate a Cannes). Peccato, però, che il film risulti inefficace nel comunicare qualcosa allo spettatore: il conflitto fra fede e amore non è risolto, le intenzioni rimangono confinate in uno sterile esercizio di estetica cinematografica pura ed essenziale, e persino lo scenario così fuori dal mondo e dal tempo finisce col repellere ogni significato anziché catalizzarne uno universale. Insomma, Bresson era un'altra cosa. In una pellicola complessivamente cupa, spicca almeno una scena assai divertente: quella in cui, per preparare Alina alla confessione, le viene letto l'elenco numerato di tutti i possibili peccati.

23 giugno 2012

Paradise: Love (Ulrich Seidl, 2012)

Paradise: Love (Paradies: Liebe)
di Ulrich Seidl – Austria 2012
con Margarethe Tiesel, Peter Kazungu
***

Visto al cinema Colosseo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Teresa, viennese di mezza età, parte per una breve vacanza esotica sulle spiagge del Kenya. Le amiche conosciute durante il soggiorno, ben più "navigate" di lei, la introducono alla pratica del turismo sessuale, incitandola a prendersi come amante uno dei numerosi giovani e aitanti indigeni che si offrono alle villeggianti straniere in cambio di denaro. Dapprima incerta e titubante, vittima di aspiranti "gigolò" che intendono solo approfittare del suo portafoglio, si farà lentamente prendere la mano e da sfruttata (patetica e in cerca di amore e tenerezza) diventerà sfruttatrice senza scrupoli (adescando anche chi, come il timido impiegato dell'albergo, non vorrebbe concedersi a certe pratiche ma essendo in condizioni di inferiorità non può opporre un netto rifiuto). Primo capitolo di una trilogia incentrata sulle vacanze dei vari membri di una stessa famiglia in luoghi "paradisiaci" (gli episodi successivi saranno "Paradise: Faith" e "Paradise: Hope", dedicati rispettivamente alle missioni religiose e ai campi per dimagrire), il film affronta un tema finora poco frequentato dal cinema, quello appunto del turismo sessuale al femminile. Lo sfruttamento (in atto da ambedue le parti, a dire il vero), il razzismo strisciante e il substrato colonialista vengono portati efficacemente sullo schermo attraverso una serie di scene difficili da dimenticare (le file di sdraio con i turisti bianchi a prendere il sole, separati da un cordino – e da uno spiegamento di poliziotti – dal resto della spiaggia dove i neri sono in piedi e in attesa che qualcuno dei visitatori si azzardi a fare un passo verso di loro; le spoglie stanze in case dei quartieri poveri, dedicate esclusivamente agli incontri occasionali fra i rappresentanti di due mondi mai così distanti; le ipocrite frasi "d'amore" che le anziane donne e i giovani neri si scambiano per ammantare di un fasullo romanticismo la cruda realtà). La regia di Seidl mette il tutto in risalto lasciando che la sua camera voyeuristica si soffermi sui corpi vecchi e grassi delle turiste (durante le sue passeggiate Teresa è quasi sempre ripresa impietosamente da dietro), sull'imbarazzo o l'audacità dei vari approcci, sulla stupidità degli spettacoli di ballo e danza messi in scena dagli animatori dell'albergo. E il forte equilibrio nella descrizione del fenomeno, di cui si mostrano tutte le sfaccettature, fa paragonare il film a un'altra recente pellicola "turistica" austriaca ("Lourdes" di Jessica Hausner).

22 giugno 2012

Detachment (Tony Kaye, 2011)

Detachment – Il distacco (Detachment)
di Tony Kaye – USA 2011
con Adrien Brody, Sami Gayle
**

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

"Non mi sono mai sentito così profondamente distaccato da me stesso, e al contempo così presente al mondo", recita la frase di Albert Camus da cui proviene il titolo del film. Anche il professor Barthes (un sofferto e intenso Adrien Brody) la pensa così: chiamato a insegnare come supplente in un problematico liceo di periferia, frequentato dai "peggiori elementi del distretto", per svolgere al meglio il suo ruolo si presenta ormai privo di sentimenti da ferire o da offendere, quasi anestetizzato dalle durezze della vita. Il suo cinismo, la sua disillusione e i suoi modi spicci gli consentono di non lasciarsi coinvolgere dalla spirale di pessimismo e di negatività che circonda invece i suoi colleghi, docenti e consulenti scolastici lasciati soli nel lavoro come nella vita. E apparentemente gli forniscono pure uno scudo contro i suoi tormenti interiori (ricordi d'infanzia, problemi personali e famigliari). Anche lui, però, sarà costretto a prendere atto del proprio fallimento: il suo breve passaggio come supplente lascerà poche tracce, e come gli altri insegnanti continuerà a essere percepito come una "non persona". Con uno stile da cinema indipendente e un realismo quasi documentaristico, ma senza rinunciare ad attori di fama hollywoodiana (oltre a Brody ci sono, fra gli altri, James Caan, Lucy Liu e Marcia Gay Harden), il regista pubblicitario Tony Kaye realizza un film sulla scuola e sulle problematiche degli studenti osservate dal punto di vista degli educatori, colmo – come il precedente "American History X" – di filosofia nichilista e apocalittica e che non offre facile soluzioni o improbabili riscatti finali. "Ogni insegnante, a un certo punto, crede di poter fare la differenza", si sente dire all'inizio. Ma quelli come Barthes hanno perso da tempo questa illusione, di fronte a ragazzi senza alcun interesse o ambizione (tranne quei pochi che invece, proprio per la loro acuta sensibilità, sono destinati a soffrire o addirittura a spingersi fino al suicidio), a burocrati che non si rendono conto della reale situazione della scuola, a genitori assenti (esemplare la scena dell'incontro con gli insegnanti, disertata da tutti) oppure violenti e oppressivi. Persino Barthes rifiuta inizialmente di fare da padre a Erica (Sami Gayle), la giovanissima prostituta che ha salvato dalla strada e accolto temporaneamente in casa sua, mentre d'altro canto cerca a fatica di insegnare ai suoi alunni il libero pensiero e la forza dell'immaginazione contro le imposizioni del marketing e le idee assimilate. Un po' di retorica (nei dialoghi fra studenti e insegnanti), qualche banalità (tutta la sottotrama con la baby prostituta) e un eccesso di riflessioni metafisiche appesantiscono però un film che per l'argomentro trattato avrebbe meritato di meglio, soprattutto a livello di scrittura (alcune scene, come quella in cui Barthes sclera con la collega che l'ha visto abbracciato a una delle sue studentesse, vanno davvero troppo sopra le righe). Kaye sovrappone elementi – ricordi del protagonista, disegni infantili sulla lavagna, divagazioni con altri personaggi che però risultano sacrificati rispetto alla trama principale, arditi accostamenti fra gli sfoghi degli insegnanti e i discorsi di Hitler – che aggiungono poco al quadro generale e finiscono con accrescere la confusione, incrementando il "distacco" emotivo dallo spettatore, al quale alla fine il messaggio arriva talmente amplificato da perdere in efficacia.

20 giugno 2012

Room 237 (Rodney Ascher, 2012)

Room 237
di Rodney Ascher – USA 2012
documentario
**1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

“Shining” di Stanley Kubrick è uno dei massimi capolavori del genere horror, ma non solo: come per tutti i lavori del regista americano, la ricchezza di temi, contenuti e dettagli ha spinto critici e spettatori a leggerlo in chiave differente, uscendo cioè dai confini del semplice “film di paura” per tentare di cogliervi metafore o significati più vasti e profondi. Questo bizzarro documentario – il cui sottotitolo è “Un’indagine su Shining in nove parti” – espone alcune di queste interpretazioni. Diciamo subito che non è da prendere sul serio: è vero che Kubrick, noto per la sua maniacalità e l’attenzione ai dettagli, non lasciava nulla al caso; ma pensare che ogni singolo oggetto o elemento che si vede sullo schermo servisse per lanciare un messaggio allo spettatore sembra davvero esagerato. Solo in questo modo si possono avallare alcune delle sconcertanti ipotesi avanzate da sedicenti studiosi o critici: da quella che si tratti di una sorta di “confessione” di Kubrick a proposito del suo coinvolgimento nella falsificazione dello sbarco sulla Luna (una teoria cospirazionista piuttosto diffusa, infatti, afferma che il regista di “2001: Odissea nello Spazio” avrebbe girato in studio tutti i materiali che documentano l’allunaggio; lo rivelerebbe, fra le altre cose, il maglioncino con la scritta “Apollo 11” indossato dal piccolo Danny in una scena topica del film) all’idea che l’intera pellicola sia una denuncia del genocidio degli indiani d’America da parte dell’uomo bianco; dalla convinzione che il film parli in realtà dell’Olocausto, a quella secondo cui “Shining” è una lettura moderna dei miti greci (e segnatamente di quello del Minotauro: da qui il labirinto). Alcune di queste ipotesi sono suggestive, e non mancano di fondamento, ma complessivamente siamo di fronte a un semplice gioco: con la ricchezza di elementi che il film fornisce, non sarebbe difficile costruire teorie alternative che puntino in qualsiasi altra direzione; lo dimostra il fatto che ognuno dei critici può leggere gli stessi dettagli in maniera diversa. Divertente e ben assemblato (anche attraverso spezzoni di altre celebri pellicole, di Kubrick e non), alla fine “Room 237” lascia un po’ il tempo che trova e brilla soprattutto di luce riflessa: ma è sempre bello (ri)vedere le immagini del film sul grande schermo, scoprire tanti dettagli che a una prima visione possono sfuggire, accorgersi dei numerosi “errori di continuità” (molti dei quali probabilmente voluti) e sentirsi suggerire nuove modalità di visione di un capolavoro (come quella di guardarlo proiettato al contrario e sovrapposto). Alla fine, non si può non essere d’accordo con chi azzarda un’analogia con la fisica quantistica: l’osservatore modifica l’oggetto osservato.

19 giugno 2012

Moonrise Kingdom (Wes Anderson, 2012)

Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore (Moonrise Kingdom)
di Wes Anderson – USA 2012
con Jared Gilman, Kara Hayward
**

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Nel 1965, sull’isola di Penzance nel New England, due dodicenni trascurati e incompresi intraprendono un’ardita fuga d’amore: si tratta dell’orfano Sam, scappato dal locale campo scout estivo, e di Suzy, figlia maggiore di una coppia di avvocati che abitano presso il faro dell'isola. Lui è il meno popolare della truppa, lei è depressa e senza amici: troveranno conforto l’uno nell’altra e si dichiareranno amore eterno (unendosi anche in matrimonio in una parodistica cerimonia). Verranno però inseguiti dallo sceriffo (Bruce Willis), dal capo scout (Edward Norton), dai genitori di Suzy (Bill Murray e Frances McDormand) e da un’attivista dei servizi sociali che minaccia di rinchiudere Sam in riformatorio (Tilda Swinton), il tutto mentre sta per avvicinarsi un tifone dalla forza inaudita. Wes Anderson (un regista che proprio non riesco ad amare) non rinuncia agli elementi che contraddistinguono il suo cinema artificioso e macchiettistico (personaggi eccentrici, famiglie disfunzionali, una comicità ingessata, tanta "carineria" e uno stile grafico retrò che si ispira a Burton e Tarantino). Almeno stavolta la natura di “film-giocattolo” è resa meno fastidiosa dal tono fiabesco e vacanziero, nonché dal fatto che i protagonisti siano due bambini: quando sono in scena loro, la pellicola si fa seguire con piacere e richiama quegli esili romanzi d’avventura per adolescenti di cui proprio la giovane Suzy è appassionata. Velo pietoso, invece, sui personaggi adulti (mi chiedo spesso come attori di una certa caratura – oltre ai citati, nel ricco cast c'è anche Harvey Keitel – possano accettare parti così ridicole: l'unico che ne esce decentemente è l'inossidabile Bruce Willis). L’invadente colonna sonora di Alexandre Despiat è integrata da brani di Benjamin Britten e Hank Williams (oltre che da una canzone di Françoise Hardy).

18 giugno 2012

Post tenebras lux (C. Reygadas, 2012)

Post tenebras lux (id.)
di Carlos Reygadas – Messico 2012
con Adolfo Jiménez Castro, Nathalia Acevedo
*1/2

Visto al cinema Apollo, in lingua originale (rassegna di Cannes).

Una famiglia (padre, madre e due bambine piccole) si trasferisce a vivere in aperta campagna. Il rapporto fra marito e moglie non va benissimo, e l’uomo – ossessionato dalla pornografia – rimane vittima di un’aggressione da parte di El Siete (“Sette”), uno sbandato che si guadagna da vivere con lavoretti non sempre legali e che aveva tentato di svaligiargli la casa: ma saprà perdonarlo, aiutandolo a rintracciare a sua volta la propria famiglia. Il cinema di Reygadas non è certo facile e lineare: lo spettatore è chiamato a districarsi in una successione di scene lunghe e criptiche, che solo in parte presentano un collegamento fra loro (alcune sembrano davvero avulse dal resto: la sequenza con gli scambisti nella sauna, l’incontro di rugby, la riunione di famiglia). Si fatica a trovare un filo conduttore che vada oltre una pretenziosa collezione di esperienze, sogni, desideri o fantasie personali. Il film è infatti da leggere in chiave semiautobiografica (non a caso le due bambine – Rut ed Eleazar – sono interpretate dalle figlie stesse di Reygadas). Questo tipo di approccio può essere soddisfacente se ci si lascia “catturare” dalla ragnatela di immagini e dalla suggestione dei possibili significati (si pensi a Tarkovskij, a Lav Diaz o a certe cose – non tutte – di Lynch); fallisce miseramente quando – come in questo caso – si ha la sensazione di assistere al semplice montaggio di sequenze in libertà (o, peggio, ai filmini delle vacanze) di un regista senza idee che si limita ad accatastare materiale sperando che sia poi lo spettatore a connettere il tutto al posto suo. Certo, è innegabile la bellezza di alcune sequenze (come quella d’apertura, con la bambina piccola – scopriremo poi che si tratta di un sogno – che si aggira sul campo, fra le pozzanghere, in mezzo agli animali che corrono, mentre il sole tramonta e lentamente cala il buio), pur distorte da curiose scelte stilistiche (il filtro sulla telecamera, che dona alle immagini un fastidioso “effetto lente”). Ma è troppo poco, anche perché a tratti la pellicola scade invece nel ridicolo involontario, soprattutto quando cerca di proporre grossolane suggestioni soprannaturali (il demonio rosso, il finale in cui un personaggio si stacca la testa con le mani). Difficile da condividere la decisione di assegnargli a Cannes il premio per la miglior regia, un riconoscimento peraltro in linea con le assurde Palme d’Oro regalate negli ultimi due anni ad altri film su questa falsariga, lo “Zio Boonmee” di Weerasethakul e "The Tree of Life" di Malick.

Dangerous liaisons (Hur Jin-ho, 2012)

Dangerous liaisons (Wiheomhan gyangye)
di Hur Jin-ho – Cina 2012
con Jang Dong-gun, Zhang Ziyi, Cecilia Cheung
*1/2

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Ambientando “Le relazioni pericolose” di Pierre de Laclos nella Shanghai degli anni ’30, un periodo in cui la Cina era il crocevia di più culture ma anche in preda a forti disordini politici (si cita l’occupazione giapponese in Manciuria, si mostrano le influenze europee sulle classi più agiate o aristocratiche), il regista coreano Hur Jin-Ho (quello di “Christmas in August”) compie un’operazione che avrebbe potuto dare risultati interessanti. E invece il film fatica a decollare, anche perché lo stile è estremamente calligrafico e patinato, come conferma anche la scelta di un cast di stelle “internazionali”: il divo coreano Jang Dong-gun interpreta l'intrigante playboy Xie Yi-fan; la cinese Zhang Ziyi è la sua “virtuosa” cugina Du Fen-yu, che lui scommette di riuscire a sedurre in breve tempo, finendo però con l’innamorarsene; e l'hongkonghese Cecilia Cheung è Mo Jie-yu, la spregiudicata donna d’affari che chiede a Xie di conquistare la giovane vergine Bei-bei per vendicarsi di un amante che l’ha tradita. Come nel testo originale, chi manipola e gioca con i sentimenti altrui finirà con il perdere tutto: ma nella cultura cinese alcuni concetti e valori morali (il peccato, per esempio) hanno significati e pesi diversi che nella nostra, e dunque la forza “scandalosa” della vicenda ne risulta annacquata, risolvendosi in un melodramma quasi convenzionale. Anche per questo motivo, nonostante la novità dell’ambientazione e la cura tecnica, nel complesso questa versione non aggiunge nulla a quelle che sono state fatte in precedenza (da notare che una versione asiatica già esisteva: “Untold Scandal”, girata in Corea nel 2003).

17 giugno 2012

The We and the I (Michel Gondry, 2012)

The We and the I
di Michel Gondry – USA 2012
con Michael Brodie, Teresa Lynn
**

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

È l'ultimo giorno di scuola prima delle vacanze estive: gli alunni di un liceo del Bronx escono dalla classe e prendono d'assalto il bus che li porterà a casa, attraversando tutta la città. Durante il viaggio ridono e scherzano, disturbano gli altri passeggeri, fanno scherzi pesanti, si offendono e si umiliano, progettano le imminenti vacanze, organizzano una festa, si scambiano pettegolezzi, discutono di problemi sentimentali e di amicizia... Ambientata interamente nel bus e caratterizzata da un estremo realismo (i nomi di tutti i personaggi sono gli stessi dei loro interpreti, il che suggerisce che si tratti di attori non professionisti a cui è stato chiesto di "recitare sé stessi": tutti sono bravissimi, comunque), una pellicola che offre uno spaccato di vita giovanile e che ritrae umori, sentimenti e personalità di un "branco" di teenager della periferia newyorkese. Gli scherzi crudeli e l'insensibilità diffusa di quando sono in gruppo lascia progressivamente spazio, man mano che l'autobus si svuota mentre la corsa procede, a momenti di raccoglimento e a una conversazione più "seria" e personale: quando rimangono in pochi si passa da "Noi" all'"Io", escono i veri sentimenti e vengono al pettine tutti i nodi di una storia assai corale e frammentata. L'ottima regia di Gondry (autore anche della sceneggiatura, benché – come detto – c'è il sospetto che ai ragazzi sia stata lasciata molta libertà) tiene sempre ogni cosa sotto controllo e si concede giusto un paio di divagazioni videoclippare.

Thermae Romae (Hideki Takeuchi, 2012)

Thermae Romae (id.)
di Hideki Takeuchi – Giappone 2012
con Hiroshi Abe, Aya Ueto
**1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Che cosa hanno in comune gli antichi romani e i moderni giapponesi? La cultura delle terme! Il protagonista di questa bizzarra pellicola, tratta da un manga di Mari Yamazaki, è Lucius Modestus, architetto al servizio dell'imperatore Adriano (siamo nel secondo secolo dopo Cristo). Questi, convinto che per il bene dell'impero sia essenziale aiutare i cittadini a ritemprare il corpo e lo spirito, lo incarica di costruire per lui delle terme mai viste prima. Attraverso un misterioso varco che collega le thermae romane con gli onsen giapponesi, Lucius compie incredibili viaggi nel ventunesimo secolo, da cui prende ispirazioni e idee per ricreare a Roma delle terme simili a quelle nipponiche. E conquisterà l'amore della giovane Mami, aspirante disegnatrice di manga che lo eleggerà come "eroe" carismatico, protagonista ideale della sua opera d'esordio. Superato lo shock di vedere un attore con gli occhi a mandorla recitare nella parte di un antico romano che parla in latino e veste la toga, e l'assurdità di una trama incentrata su viaggi nel tempo attraverso vasche da bagno e stazioni termali (uno spunto, fra l'altro, che ricorda un paio di episodi di "Lamù"), rimane un film divertente e autoironico, per quanto sia essenzialmente una stupidaggine. In ogni caso la ricostruzione storica e l'attenzione ai dettagli sono più curate che in blockbuster hollywoodiani come "Il gladiatore". Non mancano curiosi spunti di approfondimento sociale: Lucius che afferma "nessuno ama le terme come noi romani" ma che poi si cruccia per aver copiato, senza alcun slancio creativo, le idee della "tribù dei volti piatti" (il che è ironico, visto che spesso sono i giapponesi a essere stati accusati di copiare le idee altrui); Adriano che intende "dominare gli altri popoli con la cultura, e non con la forza"; i romani che ammirano il "lavoro di squadra" dei giapponesi. La colonna sonora, un po' scontata a dire il vero, è a base di brani d'opera (di Verdi e di Puccini): impagabile il cantante simil-Pavarotti che intona le arie durante i "viaggi" di Lucius.

Silenced (Hwang Dong-hyeuk, 2011)

Silenced (Do-ga-ni)
di Hwang Dong-hyeuk – Corea del Sud 2011
con Gong Yoo, Jeong Yu-mi
*

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Il giovane insegnante d'arte In-ho si trasferisce nella cittadina di Mujin, perennemente avvolta dalla nebbia, per lavorare in un istituto privato frequentato da bambini sordomuti. Ben presto però scopre che gli alunni – molti dei quali sono orfani o con problemi famigliari o psicologici, e assai chiusi in sé stessi – vengono regolarmente maltrattati e sono persino vittime di abusi sessuali da parte del preside e degli insegnanti. Con l'aiuto di un'attivista per i diritti umani, l'eccentrica Seo Yu-jin, denuncerà i responsabili e li porterà (a fatica, trattandosi di "pilastri" della società e della chiesa locale) in tribunale: ma giustizia non sarà fatta. Fra bambini dagli occhi lucidi, cattivi ghignanti e corrotti, burocrati ottusi e insensibili e tanto manicheismo, un film che gioca tutte le carte del sensazionalismo e dei colpi bassi per indignare lo spettatore e ricattare il suo coinvolgimento emotivo. Siamo dalle parti delle fiction italiane, solo con una miglior confezione (nella prima metà, quella ambientata nella scuola, pare quasi di essere immersi in atmosfere horror). Non aiuta di certo, poi, un protagonista inespressivo e inadeguato.

16 giugno 2012

Un sapore di ruggine e ossa (J. Audiard, 2012)

Un sapore di ruggine e ossa (De rouille et d'os)
di Jacques Audiard – Francia/Belgio 2012
con Marion Cotillard, Matthias Schoenaerts
**

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Lui, Ali, è un ex pugile giunto in Costa Azzurra con il figlioletto di cinque anni – che sembra essere l'ultimo dei suoi pensieri – per rifugiarsi dalla sorella e cercare lavoro (prima come buttafuori in una discoteca, poi come sorvegliante notturno). Lei, Stéphanie, è un'addestratrice di orche in un parco acquatico, cui vengono amputate le gambe dopo un incidente. La coppia che formano si basa dapprima solo sull'amicizia, il conforto reciproco e il sesso: ma alla lunga arriverà anche l'amore. Con un film di estrema fisicità (si mostrano corpi feriti o mutilati; feroci combattimenti a mani nude – Ali entra in un circuito di lotte clandestine in stile "Fight Club" – e torride scene di sesso; per non parlare della sequenza più bella, quella in cui Ali porta Stéphanie a nuotare e ad immergersi in un mare illuminato dal sole al tramonto), Audiard racconta la storia dell'incontro di due personaggi soli e chiusi in due "prigioni" esistenziali: lui (incapace di esprimere i propri sentimenti) in quella di una vita senza scopi e senza prospettive, fatta di relazioni e di rapporti occasionali, di indifferenza verso il figlio e le persone che gli stanno attorno, di ricerca del brivido e del rischio per puro "divertimento"; e lei in quella della malattia, in fuga da una vita infelice (di cui l'esibizionismo in discoteca e la crisi del rapporto con il precedente compagno non erano che prodromi) e alla disperata ricerca di nuova forza e di una nuova stabilità. Ma rispetto ai lavori precedenti del regista francese, il film (dedicato a Claude Miller, scomparso da poco) non convince appieno: molti sono gli snodi forzati, gli elementi dispersivi (non casualmente: la pellicola è tratta da una raccolta di racconti, "Rust and Bone" del canadese Craig Davidson), i passaggi melodrammatici (come il licenziamento della sorella, l'incidente del bambino sul ghiaccio, Stéphanie che diventa il manager di Ali durante gli incontri clandestini) messi lì senza un adeguato approfondimento oppure inseriti ad hoc per "pilotare" la vicenda nella giusta direzione e poi dimenticati (lo stesso handicap di Stéphanie, cui poi si rimedia con delle protesi di metallo, cessa di avere peso nella vicenda da metà film in poi). Bravi i due protagonisti. Nel cast c'è anche il belga Bouli Lanners nei panni di Martial, il barbuto mentore di Ali.

15 giugno 2012

C'era una volta in Anatolia (N. B. Ceylan, 2011)

C'era una volta in Anatolia (Bir zamanlar Anadolu'da)
di Nuri Bilge Ceylan – Turchia 2011
con Muhammet Uzuner, Yilmaz Erdoğan
***1/2

Visto al cinema Apollo (rassegna di Cannes).

Tre auto si muovono a fari accesi nell'oscurità, sulle strade sterrate delle colline e delle desolate campagne dell’Anatolia centrale (ci troviamo nella remota provincia di Kirikkale), attraversando campi arati o incolti, piantagioni di ulivi e villaggi sperduti. A bordo – fra gli altri – ci sono il commissario Nuci (Yılmaz Erdoğan), il medico Cemal (Muhammet Uzuner) e il procuratore Nusret (Taner Birsel), che scortano due fratelli arrestati per omicidio: uno di questi, Kenan (Fırat Tanış), ha promesso di condurli fino al luogo dove è sepolto il cadavere della loro vittima, ma non ricordandosi con precisione la località finisce per costringere gli uomini della scorta a una lunga odissea notturna, che terminerà soltanto all’alba. Più che un poliziesco sui generis, un film corale e di grande fascino ed atmosfera, costruito attorno a un minuscolo fatto di cronaca (di cui peraltro non tutto ci viene rivelato), che ritrae un nucleo di figure complesse e sfaccettate in un forte crescendo narrativo e cinematografico. La sceneggiatura cesella con lievi tocchi le psicologie dei numerosi personaggi, rinchiusi in una sorta di limbo o sul ciglio di un abisso: ad alcuni è dato giusto qualche breve “momento di gloria” (l’autista Arap, il comandante militare, lo stesso sospettato Kenan), mentre altri (il commissario, il procuratore, il medico) assurgono al ruolo di veri protagonisti: tutti hanno un doloroso passato da raccontare – o magari da tenere segreto – e un difficile presente da vivere, e le loro storie personali si inseriscono con grande naturalezza all’interno della vicenda comune. Molti i dialoghi che si sovrappongono nel corso della notte: si parla o si filosofeggia di futilità (lo yogurt di bufala, il nuovo cimitero del villaggio, gli strumenti in dotazione all’ospedale), di lavoro, di problemi famigliari (malattie, matrimoni, morti, divorzi); si fanno battute ("Così non si entra nell'Unione Europea!"), ci si vanta di assomigliare a Clark Gable, affiorano malumori, frustrazioni, rimorsi, sensi di colpa ("In fin dei conti, chiunque si suicidi lo fa per punire qualcun altro"). E mentre la notte è sferzata dal vento, dai lampi, dalla pioggia e dalla tempesta, non mancano gli squarci soprannaturali: fa pensare a Tarkovskij, per esempio, la scena del cane del morto (un pastore tedesco) che si ripresenta sulla fossa dove è stato sepolto il suo padrone, come un messaggero che collega il mondo dei vivi con quello dei defunti. Se dobbiamo trovare un difetto a un film nel complesso assai riuscito, è probabilmente l’eccessiva lunghezza (quasi due ore e mezza): l’ultima parte, quella che ci conduce fino all’autopsia, poteva forse essere un po’ sforbiciata. Ma è evidente che Ceylan, da vero artista, non può essere imbrigliato e ha realizzato il suo film inserendovi tutti gli spunti che gli provenivano da varie direzioni (da Tarantino a Cechov, per non parlare del titolo che scherza con l’epica alla Sergio Leone). Fra le tante scene memorabili, brilla di luce propria – è davvero il caso di dirlo! – quella in cui la figlia del sindaco porta il tè agli uomini che attendono nell’oscurità, illuminando con la lanterna e la propria presenza “angelica” l’ambiente e l’animo dei presenti. Tutti rimangono colpiti da lei, e Kenan addirittura vede il fantasma dell’uomo ucciso. Magnifica, come sempre nei lavori del regista turco, la fotografia, qui rivolta soprattutto alla resa dei paesaggi notturni (con quelle luci – così abbaglianti – delle vetture che illuminano la strada). Fra gli interpreti spicca l’intenso Uzuner nella parte del medico, carico di malinconici segreti, che nel finale si concede un profondo sguardo in camera. Una possibile lettura che mi è sorta in mente mentre vedevo il film, probabilmente nemmeno pensata o voluta dal regista, è cristologica: gli uomini che si muovono a bordo delle tre vetture sono in tutto tredici (i due arrestati, il commissario e un agente, il procuratore e il suo assistente, il medico, i due militari, i due uomini con le pale, i due autisti); e Kenan, che si autoaccusa del delitto (quando è evidente che è stato commesso dal fratello ritardato), è un Cristo che si sacrifica per espiare le colpe altrui: unico con i capelli lunghi e la barba, al momento dell’arresto viene insultato dalla folla che gli tira addosso anche delle pietre; se si aggiungono la sua affermazione di essere il “padre” anche del figlio della sua vittima, l’apparizione soprannaturale del morto, la visione “angelica” della figlia del sindaco, l’ambientazione medio-orientale (i campi pietrosi e gli ulivi) e le varie tappe del viaggio notturno che configurano una sorta di “via crucis”, direi che le suggestioni in tal senso non mancano!

14 giugno 2012

Amour (Michael Haneke, 2012)

Amour (id.)
di Michael Haneke – Francia/Germania/Austria 2012
con Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva
***

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Due anni dopo “Il nastro bianco”, Haneke torna a vincere la Palma d’Oro a Cannes con un altro film forte e terribile, anche se stavolta il dramma è tutto intimo e personale, senza risvolti politico-sociali: e questo, forse, limita un po’ la pellicola, così austera e minalista, incentrata su un unico tema e ambientata interamente fra le quattro mura di un appartamento (se si eccettua l’incipit al concerto e una breve sequenza in cui i paesaggi dei dipinti appesi alle pareti sembrano quasi prendere vita, donando “ariosità” all’ambiente). Haneke gira con il consueto rigore e lo sguardo privo di compiacimento, impietoso anche quando parla di amore: un amore pieno di sofferenza e di dolore, che trova la sua misura proprio nella tragedia che i due protagonisti devono affrontare. Georges (un intenso Trintignant) e Anna (Emmanuelle Riva, che torna protagonista di un grande film oltre cinquant’anni dopo “Hiroshima mon amour”) sono un’anziana coppia colta e benestante, la cui vita è messa a dura prova dall’improvvisa malattia di lei: operata per un’occlusione alla carotide, rimane paralizzata e costretta su una sedia a rotelle. Georges le promette che non la farà mai ricoverare in un istituto di cura e la accudisce personalmente in casa, accettandone la sofferenza e affrontando coraggiosamente le difficoltà della rapida progressione di una malattia che renderà la donna sempre più dipendente e meno autosufficiente. In un crescendo angosciante e crudele, osserviamo il progressivo “spegnimento” di Anne, un tempo brillante insegnante di pianoforte, che pian piano perde ogni capacità di movimento e l’uso della parola. Alternando momenti di sconforto (“Non c’è ragione per continuare a vivere”) ad altri di ostinata lotta per la vita, il film esprime in maniera diretta e coinvolgente i temi della malattia e della vecchiaia, del suicidio e dell’eutanasia, fra echi di Buñuel e di Polanski (la sequenza del piccione che entra nell’appartamento, il sogno di Georges, l’ostinazione con cui i due si “chiudono” al mondo esterno e persino alla propria figlia, interpretata da Isabelle Huppert). “All’origine della sceneggiatura”, ha dichiarato il regista, “c’è un fatto avvenuto realmente che mi aveva molto colpito. Questo film è l’illustrazione del patto che mia moglie e io ci siamo fatti se a uno di noi capitasse qualcosa del genere”. A Cannes vincono spesso film così: realisti, cupi, opprimenti, claustrofobici (penso ai lavori di Mungiu o dei Dardenne). Una porta viene lasciata aperta giusto nel finale: il destino di Georges non è rivelato, se non attraverso la sequenza “onirica” in cui esce di casa. Il brano suonato al concerto da Alexandre (l’ex allievo di Anne) è l’Impromptu op. 90 n. 1 di Schubert (ma nel film si sente anche il n. 3, più una Bagatelle di Beethoven).

13 giugno 2012

Cannes e dintorni 2012

Anche quest'anno è giunto il momento di seguire la rassegna dei migliori film del Festival di Cannes da poco concluso. A partire da oggi (si comincia con "L'amour" di Haneke, vincitore della Palma d'Oro), mi guarderò – fra le altre – le pellicole di Audiard, Mungiu, Reygadas e Gondry... (mancano purtroppo Garrone, Kiarostami, Loach, Resnais, Vinterberg, Bertolucci, Miike e Akin...). La rassegna prevede anche alcuni film provenienti dal Bergamo Film Meeting, dal Far East Film Festival di Udine (un coreano e un giapponese che sembrerebbero interessanti) e vari titoli in anteprima (fra cui gli ultimi lavori di Tony Kaye e Nuri Bilge Ceylan). Speriamo bene!

10 giugno 2012

Mystic Pizza (Donald Petrie, 1988)

Mystic Pizza (id.)
di Donald Petrie – USA 1988
con Annabeth Gish, Julia Roberts
*1/2

Visto in TV.

Nella cittadina portuale di Mystic in Connecticut, popolata da un’ampia comunità di origine portoghese, tre ragazze che lavorano come cameriere nella locale pizzeria sognano un futuro diverso e vivono le loro prime storie romantiche: Kat (Annabeth Gish), aspirante studentessa di astronomia, fa da babysitter per il figlio di un affascinante uomo sposato, di cui si innamora; la sua disinibita sorella Daisy (Julia Roberts) riesce a conquistare un rampollo dell’alta borghesia; mentre la minuta Jojo (Lili Taylor) si sente troppo giovane per sposare il suo storico fidanzato Bill (Vincent D’Onofrio). Fra pressioni individuali, sociali e religiose, non tutte le vicende andranno a buon fine: in compenso, la pizzeria verrà visitata da un celebre gastronomo che ne parlerà in televisione con toni entusiastici. Un filmetto che, a parte la bella ambientazione e il mood anni ottanta, non offre granché di interessante: piccoli drammi minimalisti per tre vicende di coming-of-age che non prendono mai quota, anche perché la caratterizzazione dei personaggi rimane abbastanza superficiale (fa parzialmente eccezione solo Jojo, il personaggio che sfida i cliché e coinvolge maggiormente lo spettatore). Buona, comunque, la prova delle tre (allora sconosciute) protagoniste. Di lì a poco, la Roberts sarebbe diventata una star (a partire da “Pretty Woman”), la Taylor avrebbe continuato ad apparire in interessanti pellicole indipendenti (fra cui “Arizona Dream”), mentre la Gish, a parte alcune comparsate televisive, sarebbe finita nel dimenticatoio. Minuscola parte per un Matt Damon al debutto (è il ragazzino che mangia l’aragosta). La pizzeria al centro della storia esiste davvero, ed è ormai divenuta un’attrazione turistica.

5 giugno 2012

La bella e la bestia (J. Cocteau, 1946)

La bella e la bestia (La belle et la bête)
di Jean Cocteau – Francia 1946
con Josette Day, Jean Marais
***

Visto in divx, con Marisa.

Tratto dalla fiaba resa celebre dalla versione di Jeanne-Marie Leprince di Beaumont, un film romantico, raffinato e sontuoso che negli anni a venire è diventato un importante punto di riferimento per il modo di riprodurre al cinema le suggestioni magiche e favolistiche: evidenti, per esempio, le influenze esercitate sulla versione animata della stessa fiaba prodotta dalla Disney nel 1991 (a livello visivo, ma non solo: si pensi al personaggio di Gaston, modellato sullo Splendore/Avenant del film di Cocteau, o alla scelta di chiamare “Bella” la protagonista). Nel doppio ruolo della “Bestia” (dietro un pesante trucco che gli dona fattezze feline) e appunto di Splendore, lo spasimante umano di Bella, c'è Jean Marais, amante e “musa” di Jean Cocteau: nel finale, quando la maledizione viene spezzata, i due personaggi si scambiano d’aspetto. Meravigliosi i costumi, la fotografia (di Henri Alekan), gli scenari e le location, in particolare il castello del mostro dove braccia e mani spuntano dalle pareti per reggere le lampade, volti umani sono incastonati nei mobili, le porte si aprono da sole: una “umanizzazione” di oggetti e arredi che assume tratti inquietanti ma mai terrificanti. Le scenografie, barocche ed eleganti, sarabbero ispirate – fra le altre cose – alle incisioni di Gustave Dorè e ai dipinti di Jan Vermeer. A differenza della fiaba originale (e della versione Disney), non viene rivelata esplicitamente la natura e l'origine della maledizione del mostro, ma tutti gli altri elementi (il padre di Bella che, rubando una rosa dal giardino del castello, scatena l'ira della Bestia; la ragazza che per salvare il genitore – a differenza delle sue sorelle egoiste – accetta di prendere il suo posto e di trasferirsi a vivere con il mostro; l'amore che nasce lentamente fra i due e che superà la barriera delle apparenze fisiche; lo specchio incantato e altri oggetti magici) sono presenti e concorrono, insieme all'atmosfera onirica e ipnotica, al suggestivo risultato finale. La sottotrama di Splendore e del fratello di Belle che si introducono nel castello con l’intenzione di uccidere la Bestia e sottrargli i suoi tesori è invece un’aggiunta di Cocteau. Nel 1994 Philip Glass ha composto un’opera ispirata direttamente al film, di fatto una colonna sonora alternativa a quella di Georges Auric.

4 giugno 2012

Ice Princess (Tim Fywell, 2005)

Ice Princess - Un sogno sul ghiaccio (Ice Princess)
di Tim Fywell – USA 2005
con Michelle Trachtenberg, Hayden Panettiere
*1/2

Visto in divx, con Sabrina.

Impegnata in una ricerca di fisica applicata, necessaria per essere ammessa ad Harvard, la giovane Casey (Michelle Trachtenberg) si iscrive a un corso di pattinaggio artistico sul ghiaccio. Grazie ai suoi studi, sia le sue compagne che lei stessa miglioreranno notevolmente le proprie prestazioni in gara. E presto Casey si renderà conto che il suo sogno è proprio quello di diventare pattinatrice, e non intraprendere la carriera accademica cui la destinava la madre femminista (Joan Cusack). Il percorso inverso sarà invece scelto dall’amica Jennifer (Hayden Panettiere), che la madre-allenatrice (Kim Cattrall) sognava campionessa a ogni costo e che invece preferirà lo studio. Teen movie a sfondo sportivo prodotto dalla Disney, lanciato pochi mesi prima delle Olimpiadi di Torino 2006: senza particolari guizzi, è reso in parte interessante dal rapporto fra le protagoniste e le rispettive madri che proiettano in loro le proprie aspirazioni (i padri sono invece del tutto assenti, così come altre figure maschili – se si eccettua un accenno di love story fra Michelle e il fratello di Jennifer). La rivale Zoey è interpretata da una vera pattinatrice, Juliana Cannarozzo. Una curiosità: il commentatore televisivo della gara finale è Brian Boitano, olimpionico americano reso celebre, cinematograficamente parlando, da una canzone del film di “South Park” (“What would Brian Boitano do?”).