30 aprile 2020

Titanic (James Cameron, 1997)

Titanic (id.)
di James Cameron – USA 1997
con Leonardo DiCaprio, Kate Winslet
****

Rivisto in DVD.

Il naufragio del RMS Titanic, transatlantico di lusso che calò a picco nella notte fra il 14 e il 15 aprile 1912, durante il suo viaggio inaugurale dall'Inghilterra verso gli Stati Uniti, a causa della collisione con un iceberg che provocò l'allagamento dello scafo e causò la morte di 1500 dei suoi 2200 passeggeri, è narrato attraverso la storia personale di una dei superstiti, la giovane Rose DeWitt (Kate Winslet), che ai giorni nostri la racconta da anziana (Gloria Stuart) all'equipaggio di una nave da recupero impegnata a cercare nel relitto una collana con un preziosissimo diamante, "Il cuore dell'oceano", acquistato per lei dall'allora fidanzato Cal Hockley (Billy Zane). Filo conduttore del suo racconto (e del film) è la storia d'amore "impossibile" fra Rose, facoltosa passeggera di prima classe, e Jack Dawson (Leonardo DiCaprio), spiantato artista che viaggia in terza classe ma che saprà far breccia nel cuore dell'irrequieta ragazza, strappandola a un destino che sembrava già scritto. Mettiamo subito le cose in chiaro: "Titanic" è un capolavoro, oltre che uno dei kolossal di maggior successo del cinema americano, fortemente voluto dal regista-sceneggiatore James Cameron contro tutto e contro tutti: costò uno sproposito (200 milioni di dollari, che all'epoca lo resero il film più dispendioso di sempre) e richiedette il coinvolgimento di non uno ma due grandi studios (la 20th Century Fox e la Paramount, che vollero dividersi le spese e i rischi), ma si rifece al botteghino con gli interessi (è stato il primo film nella storia a superare il miliardo di dollari di incassi; per la precisione arrivò a 1.843 milioni, che divennero poi 2.194 con la successiva riedizione in 3D: un record battuto soltanto dodici anni più tardi da un altro film dello stesso Cameron, "Avatar"). Eppure, prima della sua uscita, non pochi addetti ai lavori prevedevano un sonoro flop, anche per via delle eccessive ambizioni. E in effetti l'enorme successo nelle sale non fu immediato ma montò pian piano: contrariamente alla consuetudine che vede i film registrare la maggior parte del loro incasso nella prima settimana di programmazione, "Titanic" carburò lentamente ma continuò a riempire i cinema per mesi e mesi. A suggellare la sua strepitosa popolarità fu una combinazione di elementi: la grandiosità della pellicola, la maestria tecnica, gli agganci emotivi che facevano appiglio su pubblici diversi (gli appassionati di film d'azione o catastrofici, quelli attratti dalla ricostruzione storica, gli amanti dei kolossal spettacolari, i patiti delle storie d'amore) e naturalmente l'esplosione della "DiCaprio mania" (un aneddoto personale: quando il film giunse al cinema, lo vidi due volte a distanza di circa una settimana. La prima volta la sala era semivuota, ma la seconda, dopo pochi giorni, era già strapiena di ragazzine sognanti, pronte a gridare e a sospirare ad ogni inquadratura ravvicinata degli occhi azzurri del buon Leo).

Il successo e la popolarità, da sempre, hanno anche dei lati negativi. Non solo Cameron e il film stesso si attirarono gli strali snobistici dei cinefili anti-mainstream (compresi i molti ammiratori del regista rimasti irritati dalla sua scelta di abbandonare il cinema di genere, per lo più di fantascienza, che lo aveva reso celebre) e anche di molti spettatori che, pur avendolo segretamente apprezzato, lo denigravano in pubblico liquidandolo come un film buono solo per ragazzine adolescenti (che in effetti contribuirono agli incassi andando in sala a vederlo più volte), ma anche i due protagonisti rischiarono di restarne bollati per sempre: per alcuni anni soprattutto DiCaprio si fece la fama di attore belloccio la cui carriera era dovuta solo a questo unico titolo. Col tempo, però, seppe dimostrare (e lo stesso vale per la bravissima Winslet) di essere un interprete di grande calibro, collaborando con il fior fiore dei registi hollywoodiani (da Scorsese a Tarantino, da Nolan a Spielberg, da Scott a Iñárritu). E naturalmente il film riportò all'attenzione del grande pubblico il "mito" del Titanic, a dire il vero mai veramente tramontato (a parte gli innumerevoli film e romanzi sull'argomento, come la pellicola del 1958 "Titanic, latitudine 41 Nord" di Roy Ward Baker che avrebbe ispirato Cameron in più scene, si pensi solo alla canzone "Titanic" di Francesco De Gregori, dall'album omonimo), anche per via dei tantissimi sottotesti storici, sociali e culturali che portava con sé: la nave colossale e lussuosa, il cui nome tira in ballo addirittura la mitologia greca (i titani dominarono la Terra, prima di essere sconfitti e spodestati dai loro figli, gli dèi), pomposamente soprannominata "l'inaffondabile" e dunque simbolo dell'orgoglio e delle ambizioni dell'uomo; ma anche la divisione in classi al proprio interno, che ne fa un microcosmo dell'intera struttura sociale umana (le scene del film ambientate nell'enorme sala macchine, un livello ancora più in basso della terza classe, ricordano in maniera impressionante quelle delle fabbriche nel "Metropolis" di Fritz Lang, altro film incentrato su questo tema); e ovviamente il contesto cronologico, quell'inizio di un ventesimo secolo che tutti immaginavano foriero di conquiste scientifiche, di progresso e di belle arti (era la Belle Époque, dopotutto!): proprio l'affondamento del Titanic, prima ancora dello scoppio della prima guerra mondiale e della caduta dei grandi imperi, rappresentò un brusco risveglio per tutti coloro che si illudevano di un progresso continuo e di una conquista infinita. Come dice Massimo Polidoro, fu "la fine di una leggenda che sposava la tecnologia alla ricchezza, il materialismo al romanticismo, l'illusione alla fantasia".

Con una durata di oltre tre ore, il film si prende il suo tempo per raccontare tutto quello che ha da dire: si comincia con un prologo ambientato ai giorni nostri, la parte più tecnologica della pellicola e forse la più squisitamente "cameroniana" (il regista è sempre stato attratto dall'esplorazione delle profondità sottomarine, come si evince da titoli quali "Abyss" e dai documentari "Ghosts of the abyss" e "Aliens of the deep"). Un robot-sommozzatore teleguidato ci porta a esplorare il (vero!) relitto del transatlantico, ritrovato nel 1985, mostrandoci ambienti (il parapetto di prua, i saloni, i ponti) e oggetti (il lampadario, il camino, il fermacapelli, la cassaforte con il ritratto), ormai degradati dai batteri o ricoperti dalle alghe, che più tardi rivedremo nuovi fiammanti durante il viaggio inaugurale di 84 anni prima. Protagonisti di questa sezione sono i "cacciatori di tesori" guidati da Brock Lovett (Bill Paxton), che soltanto alla fine del film giungeranno a comprendere finalmente "l'elemento umano" della tragedia. Assai efficace è la trovata di mostrare, attraverso una simulazione al computer, tutte le fasi dell'affondamento della nave: quando poi ci ritroveremo a bordo di essa, sapremo già cosa ci aspetta e questo non farà che accrescere la tensione (un trucco ben noto a Hitchcock: conoscere già qualcosa incrementa la suspense, anziché andare a suo detrimento). Dicevamo della divisione in classi: la forbice non potrebbe essere più ampia di quella fra i due protagonisti, Jack e Rose, il primo in terza e senza un soldo in tasca (ha vinto i biglietti per il viaggio, per sé e l'amico Fabrizio, in una mano fortunata alle carte), la seconda in prima, in una delle cabine più lussuose, colma di gioielli e di oggetti preziosi (fra cui alcuni quadri "acquistati a Parigi": qualche critico si è lamentato della presenza fra questi di opere di Picasso o di Monet che non erano state ancora dipinte o che all'epoca erano già esposte in qualche museo, ma nulla esclude che si tratti di dipinti simili o di versioni alternative degli stessi, andate poi perdute nel naufragio; ben più gravi sono altri errori o anacronismi, come l'accenno a Freud, le costellazioni sbagliate nel cielo – poi corrette nella riedizione del 2012 – o alcuni brani musicali che anccora non erano stati composti). Fidanzata al ricco e arrogante Cal con il beneplacito della madre (Frances Fisher), Rose si sente prigioniera e intrappolata in una vita già scritta e che ovviamente le va stretta, lei che vuole sentirsi libera e indipendente. Indicativa una frase della madre: "L'università serve solo a trovare un buon marito, e questo Rose l'ha già fatto". Nonostante la differenza sociale, l'affinità con Jack sarà totale: dal primo incontro, quando lui sventerà il suo tentativo di suicidio (buttandosi dalla poppa della nave: il luogo opposto a quella prua dove invece si cementerà il loro amore, con l'iconica scena del "volo", appoggiati al parapetto e con le mani distese: "Ti fidi di me?" "Mi fido di te"), ai vari passaggi della loro (breve) relazione: conoscersi meglio (scoprendo i molti punti in comune, a partire dall'amore per l'arte), frequentarsi prima nell'ambiente di lei (la cena in prima classe) e poi in quello di lui (il ballo in terza classe), scoprire di amarsi.

Se pure ha giocato un ruolo ampio e forse decisivo per l'enorme successo del film, la trama romantica rappresenta anche il suo aspetto più scontato e retorico, quello più convenzionalmente hollywoodiano e "costruito a tavolino". Eppure non si può negare la sua efficacia (l'assenza parziale di lieto fine è anche assai commovente) e, in fondo, fa parte del gioco: senza contare che proprio l'ampio spazio dato alla storia sentimentale dei due personaggi, mentre sullo sfondo si dipana una tragedia di proporzioni storiche, imparenta il film con l'altro grande classicone del cinema americano, "Via col vento", tuttora il film con il maggior incasso di sempre se si tiene conto dell'inflazione. Entrambi rappresentano il meglio di quello che Hollwyood ha da offrire, in quanto "fabbrica di sogni" su vastissima scala, al pubblico di tutto il mondo. Ma torniamo alla nostra storia. Se per molti sarà una tragedia, per Rose in un certo senso l'affondamento del Titanic rappresenta una liberazione, l'occasione (grazie anche a Jack, certo) di rompere le catene della sua prigionia e di rifarsi una nuova vita: le fotografie che da anziana porta sempre con sé mostrano le varie tappe di una vita libera e avventurosa, piena di viaggi e di esperienze che non avrebbe certo mai potuto fare se fosse rimasta a fianco di Cal. "Lui mi ha salvato. In tutti i modi in cui una persona può essere salvata", spiegherà, riferendosi a Jack: ma il merito è un po' anche di quel transatlantico che è affondato (per lei) al momento giusto, portandosi dietro gran parte del "mondo di ieri", per dirla alla Stefan Zweig. I segni premonitori sul destino della nave sono presenti, nel film, in numerosi dialoghi sin dall'inizio: dall'armatore Ismay (Jonathan Hyde) che ordina al comandante Smith (Bernard Hill) "Questo viaggio inaugurale del Titanic deve finire in prima pagina", allo stesso Jack che proclama a Fabrizio "La nostra vita sta per cambiare". La sequenza del naufragio occupa l'intera seconda metà della pellicola e si svolge quasi in tempo reale (nella realtà passarono solo due ore e quaranta dall'urto con l'iceberg al completo affondamento), in un crescendo sempre più teso e spettacolare che trasforma il film da romantico a catastrofico. Naturalmente, a seconda del tipo di pubblico, c'è chi ha gradito più la prima parte e chi più la seconda: ma è l'insieme, e la perfetta fusione delle due anime (la vicenda di Jack e Rose continua a dipanarsi anche durante le varie fasi del naufragio), a renderla una pellicola eccezionale.

L'iceberg compare di colpo davanti allo scafo, in una notte serena e senza vento, con il mare "piatto come una tavola", sorprendendo chi è a bordo quasi come il pubblico in sala (che magari, preso dalla fuga d'amore dei protagonisti e dal conflitto con il "cattivo" Cal, si era quasi dimenticato cosa stava per arrivare). La falla sul fianco provoca l'allagamento dello scafo e della sala macchine, dando il via al lento sprofondare della nave. Di colpo ci torna in mente la simulazione al computer vista in precedenza, e sappiamo che il Titanic si inclinerà fino a spezzarsi in due. Equipaggio e passeggeri, chi prima e chi dopo, passano dall'iniziale incredulità al rendersi conto della situazione (in modo non dissimile dalla situazione che stiamo vivendo in questi giorni, dovuta all'epidemia di Coronavirus: c'è chi rifiuta di accettare la realtà e le sue conseguenze e chi la comprende quasi subito). Con grande anticipo ci è stato anche detto che le scialuppe non basteranno per tutti i passeggeri a bordo: mentre scoppia il caos e il panico, e assistiamo a piccoli e grandi episodi di codardia o di coraggio, verrà data la preferenza a donne e bambini, ma anche ai passeggeri di prima classe rispetto agli altri (Cal afferma che deve salvarsi "la metà giusta"). La tragedia monta inesorabilmente, il dramma collettivo si fonde con quello personale dei due protagonisti, mentre la regia costruisce una concretezza e una tensione da grande film d'azione e d'avventura, per esempio nella sequenza in cui Rose deve liberare Jack, falsamente accusato di furto e ammanettato, mentre sale il livello dell'acqua gelida (si nota tutta la maestria che Cameron ha accumulato e sfoggiato in lavori precedenti come "Aliens" e "Terminator"). Il destino dei due innamorati rimane in ballo fino all'ultimo, così come quello degli altri personaggi. Non tutti si salveranno, e a decidere chi lo farà non sarà il loro ruolo nella storia: ci sono personaggi negativi fra i superstiti (Cal, Ismay) e positivi fra i deceduti (Jack, l'ingegnere Andrews (Victor Garber) che rimane a morire sulla nave, così come il comandante Smith). Grazie anche alla fotografia di Russell Carpenter, ora così scura e fredda (quando nella prima parte era calda e avvolgente, capace di catturare spettacolari tramonti), percepiamo quanto l'acqua sia gelida. Le immagini ci mostrano la disperazione delle persone, di chi è stato abbandonato a morire, ma anche di chi è condannato a sopravvivere. Per inciso, il "mito" dell'orchestra che avrebbe continuato a suonare anche durante l'affondamento, incurante del naufragio, è parzialmente sbufalato: qui i membri del quartetto d'archi continuano a suonare sì, ma lo fanno consapevolmente, su ordine del capitano, per evitare il panico e per esorcizzare a proprio modo la fine imminente tramite il potere dell'arte.

Anche Jack, a sorpresa (essendo un personaggio immaginario, non legato dunque alla realtà degli eventi storici, poteva in fondo salvarsi, come ci si aspetterebbe da una pellicola mainstream con lieto fine hollywoodiano), lentamente ci dà l'addio mentre svanisce nelle scure profondità dell'oceano. La scena è ad effetto, ma chissà perché il ragazzo non ha potuto salire sulla zattera improvvisata che porta in salvo Rose, una dei soli 6 superstiti fra i 1500 passeggeri finiti in acqua (per non parlare del fatto che lei si tiene addosso i vestiti ghiacciati). E dopo tante immagini terribili dei cadaveri gelati in mare (anche una mamma col bambino!) e la scomparsa di Jack, quasi irreale, il racconto di Rose termina: chi l'ha ascoltato (nella "realtà filmica" come in sala) è in preda a forti emozioni, e sembra quasi di uscire da un film per tornare in un altro. Come il cacciatore di tesori, ci rendiamo conto di non aver mai veramente compreso cos'è stato il Titanic prima d'ora. La penultima scena, in cui l'anziana Rose getta il diamante in mare (filo conduttore di tutta la pellicola, ma in fondo un MacGuffin), ovvero restituisce all'oceano il suo "cuore", è una conclusione un po' scontata ma inevitabile. L'ultima è invece riservata all'ennesimo "passaggio" fra il passato e il presente, dal relitto sommerso alla nave del suo splendore primigenio, con Rose (defunta?) che viene accolta a bordo da tutti coloro che sono scomparsi nel naufragio, Jack in primis. La commozione sale a livelli esorbitanti e partono le note di "My Heart Will Go On", la popolarissima canzone di Céline Dion che si è legata indissolubilmente a questa pellicola, composta dall'autore della colonna sonora James Horner (inizialmente contro il volere di Cameron, che non voleva alcun brano vocale sui titoli di coda: ma cambiò idea dopo averla sentita) e il cui tema melodico aveva già accompagnato i momenti più romantici della vicenda di Jack e Rose. Capiamo che la storia è finalmente finita: una storia che ci ha coinvolti e tenuti avvinti per oltre tre ore, un'esperienza cinematografica come poche, un capolavoro (senza mezzi termini) del cinema epico, colossale, catastrofico e romantico, di una Hollywood al suo meglio. E anche un film d'altri tempi: non a caso, appunto, il paragone che viene più spontaneo da fare è quello con un titolo del 1939, "Via col vento". Per realizzarlo c'è voluto un "autore" visionario come Cameron, che ne ha fatto un proprio pet project, perché i dirigenti delle major (ormai pallidi simulacri di quelli del passato) non ne avrebbero mai avuto la visione, il desiderio o il coraggio di pensarlo o di produrlo da soli.

Parliamo un po' anche degli inevitabili aspetti tecnici: in un'epoca in cui il digitale era riservato soltanto ad effetti speciali aggiuntivi, fu necessario costruire un modello in scala 1:1 dell'intero Titanic (in realtà soltanto del 90% della nave, visto che alcune sezioni considerate ridondanti furono omesse), e le riprese vennero effettuate all'interno di una cisterna (una "horizon tank", che permette cioè di simulare l'oceano in tutte le direzioni) contenente decine di milioni di litri d'acqua. La lavorazione, lunga e faticosa, durò sei mesi, molto di più se si considera anche l'immenso lavoro di post-produzione. Quanto agli interpreti, il casting seppe anche andare contro alcuni luoghi comuni: se non c'è dubbio che DiCaprio fu scelto per l'aspetto efebico (e gli occhi azzurri!), la Winslet appare ben più "paffutella" della tipica eroina hollywoodiana, e la sua personalità guida la vicenda anche più di quella del suo co-protagonista. In ogni caso, l'alchimia fra di loro è innegabile: indimenticabili scene come quella (poi iper-parodiata, a partire da "Rat-Man") in cui lui la ritrae nuda, sul divano, con il diamante addosso e basta, un vero momento liberatorio per una fanciulla che tutti, tranne appunto Jack, vogliono reprimere (fu la prima scena che i due girarono insieme, fra l'altro). Entrambi gli interpreti, come già detto, si confermeranno grandi attori e avranno una carriera di successo (tornando occasionalmente a recitare in coppia, come nell'ottimo "Revolutionary Road" di Sam Mendes). Fra i molti ruoli minori, da ricordare Kathy Bates nei panni di Molly "l'inaffondabile", una dei pochi passeggeri di prima classe a prendere Jack in simpatia (d'altronde anche lei, in quanto "nuova ricca", è vista con snobismo e dall'alto in basso dagli aristocratici) e David Warner in quelli di Lovejoy, il valletto di Cal, vera spina nel fianco dei nostri eroi. Nominato a 14 premi Oscar (record di sempre, insieme a "Eva contro Eva" e "La La Land"), il film ne vinse ben undici (anche questo un record, spartito con "Ben-Hur" e "Il Signore degli Anelli: Il ritorno del re"): miglior film, regia, fotografia, montaggio, scenografia, costumi, sonoro, montaggio sonoro, effetti speciali, colonna sonora e canzone (gli sfuggirono quelli per l'attrice (Winslet), l'attrice non protagonista (Stuart) e il trucco; né DiCaprio né la sceneggiatura furono invece candidati). Nel ricevere la sua statuetta, Cameron ripetè sul palco una delle frasi più celebri della pellicola, quel "Sono il re del mondo!" pronunciato da Jack in preda all'entusiasmo per essere a bordo della nave e fare parte, a suo modo, della storia. Nel 2012, in occasione del centesimo anniversario del naufragio del Titanic, il film è stato riproposto nelle sale in versione 3D.

29 aprile 2020

Mississippi adventure (Walter Hill, 1986)

Mississippi Adventure (Crossroads)
di Walter Hill – USA 1986
con Ralph Macchio, Joe Seneca
**1/2

Visto in TV.

Grande appassionato di blues, il chitarrista diciassettenne Eugene (Ralph Macchio) individua in una casa di riposo il vecchio musicista nero Willie Brown (Joe Seneca) e lo fa fuggire dall'istituto, per recarsi con lui in Mississippi sulle tracce della mitica "canzone perduta" di Robert Johnson. Dopo molte avventure lungo la strada (che daranno ad Eugene l'esperienza necessaria a diventare un vero "uomo del blues"), accompagnati per un breve tratto da una coetanea del ragazzo, l'autostoppista Frances (Jami Gertz), i due giungeranno fino al crocicchio dove Johnson e lo stesso Brown vendettero l'anima al diavolo per poter suonare meglio di chiunque al mondo. Qui Eugene, vincendo una sfida musicale contro un chitarrista rock (interpretato da Steve Vai), aiuterà l'amico a rompere il patto che aveva firmato col demonio (Robert Judd). Road movie che trasuda amore per il delta blues e tutto il suo folklore, sul canovaccio della coppia maestro-allievo, con quest'ultimo che impara dalla strada (e dalla vita) quello che non si può apprendere dalla scuola o dai libri. Fra realtà (ma il vero Willie Brown è morto nel 1952) e leggenda (il "mito" del crocicchio del diavolo, legato indissolubilmente alla figura di Robert Johnson), una pellicola calda e piacevole, condita da molta bella musica. La colonna sonora è curata da Ry Cooder, mentre Joe Seneca interpreta personalmente le proprie canzoni. Il protagonista Ralph Macchio, che a dire il vero appare un po' spaesato, era reduce dal successo di "Karate Kid". Nella sfida finale, Eugene vince la gara grazie ai suoi studi di musica classica: esegue infatti con la chitarra elettrica un capriccio di Paganini!

28 aprile 2020

Moby Dick (John Huston, 1956)

Moby Dick, la balena bianca (Moby Dick)
di John Huston – USA 1956
con Gregory Peck, Richard Basehart
**

Rivisto in TV.

Comandata dal capitano Achab (Peck), ossessionato dall'odio e dal desiderio di vendetta, la baleniera Pequod viaggia per i sette mari alla ricerca di Moby Dick, la leggendaria balena bianca che anni prima aveva tranciato al capitano la gamba sinistra. La sua storia è narrata in prima persona da uno dei marinai, Ismaele (Basehart), che sarà anche l'unico sopravvissuto dell'impresa. Non la prima versione cinematografica del capolavoro di Herman Melville (c'erano già stati un film muto nel 1926, "Il mostro del mare", e uno sonoro nel 1930, "Moby Dick", entrambi con John Barrymore nel ruolo del capitano) ma senza dubbio la più celebre, anche per via dei grandi nomi coinvolti. La sceneggiatura è firmata da Ray Bradbury, la regia da un John Huston che progettava il film da dieci anni (e inizialmente pensava di affidare la parte di Achab a suo padre, Walter Huston: ma questi morì nel 1950) e che impiegò tre anni per realizzare la pellicola, girandola in esterni in Irlanda, in Galles, in Portogallo e alle Canarie (ma in alcune scene è evidente la retroproiezione) e con ampio uso di modellini di balene. Fu però un flop di pubblico e di critica: in effetti non riesce a restituire la complessità, la potenza e i significati di quello che è probabilmente il più grande romanzo della letteratura statunitense, conservandone solo gli aspetti più superficiali della trama. E nonostante il talento dei suoi realizzatori (e le ampie risorse spese), non aggiunge né fa nulla meglio del libro, di cui risulta alla fine una sorta di Bignami. Di tutta la simbologia della balena (il mitico leviatano come metafora della morte o del destino dell'uomo, il mostro "interiore" che si manifesta come forza esterna, feroce ma indifferente) e di ciò che si porta appresso (il misticismo del colore bianco, l'ossessione di Achab che diventa una lotta personale contro Dio e la natura, e dunque contro sé stesso) resta ben poco nelle scene di caccia e di avventura, nonostante le dichiarazioni dello stesso Huston ("Achab è l’uomo che odia Dio e che vede nella balena bianca la maschera della perfidia del creatore"). Fra le cose da salvare c'è senza dubbio Gregory Peck, in uno dei ruoli più celebri della sua carriera, caratterizzato dalla cicatrice che gli procura un ciuffo bianco su barba e capelli. Nel resto del cast (dove Leo Genn è il primo ufficiale Starbuck, Harry Andrews il secondo Stubb e Friedrich von Ledebur il ramponiere polinesiano Queequeg) sono da segnalare Royal Dano nel ruolo del "profeta" pazzo Elia, Joan Plowright in quello della moglie di Starbuck (nella scena in chiesa) e soprattutto Orson Welles nei panni di Padre Mapple, il parroco del villaggio di pescatori. La sua scena, nella quale predica (su Giona) da un pulpito a forma di prua di una nave su cui sale con una scaletta di corda, è però del tutto superflua nel contesto della pellicola. Da notare che l'anno precedente all'uscita del film (1955) Welles aveva scritto un testo teatrale su un gruppo di attori intenti a recitare Melville ("Moby Dick — Rehearsed"). Pur avendolo scelto personalmente, Huston entrò in conflitto con Ray Bradbury (che molti anni più tardi, nel 1992, raccontò i retroscena della lavorazione del film nel romanzo "Green Shadows, White Whale") e finì per modificarne il lavoro, facendosi poi accreditare come co-sceneggiatore.

27 aprile 2020

Xenogenesis (James Cameron, 1978)

Xenogenesis
di James Cameron e Randall Frakes – USA 1978
con William Wisher Jr., Margaret Umbel
*1/2

Visto su YouTube.

All'interno di una gigantesca nave spaziale, un uomo e una donna combattono contro un robot che si muove su cingoli. Uscito entusiasta dalla visione di "Guerre stellari", l'allora ventiquattrenne James Cameron riuscì a farsi finanziare da un consorzio di dentisti (per motivi fiscali!) questo suo primo cortometraggio, mai terminato e mai distribuito ufficialmente (in giro si trovano soltanto copie di lavorazione), scritto e diretto insieme all'amico Randall Frakes. Cameron firma (da autodidatta) anche fotografia, scenografie e montaggio, oltre naturalmente agli effetti speciali, ottenuti grazie all'animazione a passo uno (nello stile di Ray Harryhausen) di modellini da lui stesso disegnati e all'uso di mascherini. Il corto, della durata di 12 minuti (come accennato manca un vero finale, perché la lavorazione si interruppe per mancanza di fondi), non si sofferma più di tanto nell'approfondire i personaggi e il contesto, dedicandosi invece quasi interamente allo scontro con il robot, che vede protagonista l'uomo prima e la donna (ai comandi di un esoscheletro quadrupede) poi. Evidenti i temi che torneranno nelle opere immediatamente successive del regista (se si esclude il suo primo lavoro professionale, "Piranha paura"), vale a dire "Terminator" e "Aliens": lo scontro uomo-macchina, la lotta contro un robot apparentemente inarrestabile, un personaggio femminile forte. Rimane certo una pellicola amatoriale e sperimentale, poco più che una curiosità, ma è comunque significativa, e valse al cineasta un contratto con Roger Corman come realizzatore di effetti speciali. Il protagonista Wisher collaborerà alle sceneggiature dei due "Terminator", in cui farà anche dei brevi cameo e di cui Frakes scriverà le "novelization".

26 aprile 2020

Velluto blu (David Lynch, 1986)

Velluto blu (Blue velvet)
di David Lynch – USA 1986
con Kyle MacLachlan, Isabella Rossellini
***1/2

Rivisto in DVD.

Tornato a Lumberton, tranquilla cittadina in North Carolina ("Il paradiso dei tagliaboschi"), a causa di un malore del padre, il "bravo ragazzo" Jeffrey Beaumont (Kyle MacLachlan) si lascia coinvolgere da un mondo oscuro e perverso, che lo incuriosisce ed affascina tanto quanto lo terrorizza e lo repelle. Il rinvenimento di un orecchio umano mozzato in un campo vicino casa, infatti, lo spinge a indagare sull'accaduto insieme alla coetanea Sandy (Laura Dern), figlia del detective di polizia (George Dickerson) che si interessa del caso. Jeffrey si introduce così di nascosto nell'appartamento della cantante Dorothy Vallens (Isabella Rossellini), che si suppone implicata nella vicenda, scoprendo che questa è ricattata da Frank Booth (Dennis Hopper), trafficante di droga psicopatico e violento che le ha rapito il figlio, e intrecciando con lei una relazione malsana e sadomasochistica. Al quarto lungometraggio, dopo la delusione creativa e produttiva di "Dune", David Lynch affronta per la prima volta in maniera esplicita e compiuta molti dei temi che caratterizzeranno la sua filmografia: l'inquietudine che si cela sotto l'apparente quotidianità della vita di provincia, il mistero e la seduzione che si sposano con la violenza e l'assurdo, i crimini e le perversioni che convivono fianco a fianco con gli aspetti più rispettabili e normali di una comunità (particolarmente evidente qui il contrasto fra Sandy, ragazza ordinaria e acqua e sapone, e la problematica e seducente Dorothy). Ampio spazio è dedicato anche a simboli, oggetti e temi come i tessuti (il velluto blu del titolo, dalla veste da camera di Dorothy ma soprattutto dalla canzone "Blue velvet" di Tony Bennett – resa celebre dalla cover di Bobby Vinton – che lei intona in un locale notturno; le tende rosse in casa sua), gli insetti (le formiche sull'orecchio umano, i parassiti che brulicano sotto ogni superficie), i sogni, la fuga dalla realtà: tutte cose che torneranno a più riprese nel cinema del regista. "È uno strano mondo", commentano Jeffrey e Sandy, un mondo oscuro e corrotto di cui spesso non si ha cognizione, ma che una volta conosciuto può attrarre in maniera distruttiva, come il fuoco attrae le falene. Da segnalare anche i sottotesti psicologici ed edipici (Jeffrey "figlio" metaforico di una "coppia" problematica composta da Frank e Dorothy). La musica di Angelo Badalamenti (alla prima di molte collaborazioni con Lynch), ispirata a Shostakovich, la fotografia iperreale e colorata di Frederick Elmes, i set che evocano gli anni cinquanta (come a quegli anni risalgono i film noir e polizieschi che la madre e la zia di Jeffrey guardano di continuo, un genere caratterizzato proprio da figure archetipiche come la femme fatale) contribuiscono a creare un'atmosfera avvolgente e ineludibile, anch'essa marchio di fabbrica del regista, simile al mood fornito dalla canzone di Bobby Vinton. MacLachlan, già in "Dune", tornerà naturalmente in "Twin Peaks", la serie televisiva per la quale Lynch sembra qui fare le prove generali. Anche la Dern diventerà una sua habitué. Eccezionali e indimenticabili, naturalmente, Dennis Hopper e Isabella Rossellini. Per il ruolo di Frank, caratterizzato anche per l'uso del respiratore, il regista aveva inizialmente pensato a Willem Dafoe. Nel cast anche Dean Stockwell (il gangster omosessuale Ben Soave) e Brad Dourif (uno degli uomini di Frank).

25 aprile 2020

Giorni di gloria (De Santis, Visconti, et al, 1945)

Giorni di gloria
di Mario Serandrei, Giuseppe De Santis,
Luchino Visconti, Marcello Pagliero – Italia 1945
**

Visto in divx.

Dedicato "a tutti coloro che in Italia hanno sofferto e combattuto l'oppressione nazifascista" e co-prodotto dall'Anpi, un documentario (di montaggio) sulla resistenza, sui movimenti partigiani nell'Italia occupata e sui primi passi della rinascita e della ricostruzione nazionale dopo la guerra. Coordinato da Mario Serandrei (montatore) e Giuseppe De Santis (regista), e contenente anche spezzoni diretti da Luchino Visconti (il processo a Pietro Caruso, capo della polizia di Roma durante l'occupazione tedesca, e a Pietro Koch, dove il regista era presente come testimone) e Marcello Pagliero (l'apertura delle Fosse Ardeatine), il film utilizza materiale d'archivio (anche proveniente dal regime) e riprese effettuate in clandestinità per mostrare scorsi di vita e di lotta partigiana, raccontare piccoli e grandi episodi, far percepire l'atmosfera dei mesi immediatamente precedenti. E così si assiste all'organizzazione dei movimenti di resistenza sulle montagne e nelle città, si sentono i canti dei partigiani, si raccontano le azioni di sabotaggio e di guerriglia, si rievocano episodi come le Fosse Ardeatine e la strage di via Rasella, si documentano i processi ai complici delle forze di occupazione e la fucilazione delle spie, si odono le testimonianze delle vedove dei deportati o di coloro che furono uccisi dalle SS, si succedono scene di combattimento, scioperi e insurrezioni per riconquistare le città del nord, la folla che saluta l'arrivo delle truppe alleate per le strade di Milano, i cadaveri di Mussolini e degli altri gerarchi, e si termina mostrando i primi passi della ricostruzione ("con la forza paziente, onnipotente, del lavoro"). A raccontare il tutto c'è un narratore enfatico e una certa dose di retorica (inevitabile e giustificata, però, visto che gli eventi erano estremamente recenti), al netto dei quali non manca comunque l'evidente valore come testimonianza e documento storico.

24 aprile 2020

L'autunno della famiglia Kohayagawa (Y. Ozu, 1961)

L'autunno della famiglia Kohayagawa (Kohayagawa-ke no aki)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1961
con Ganjiro Nakamura, Setsuko Hara
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

La famiglia Kohayagawa gestisce una piccola distilleria di sakè a Kyoto, che versa in difficoltà economiche perché il patriarca Manbei (Ganjiro Nakamura) rifiuta la fusione con un'azienda più grande. Ma quello professionale è solo uno dei tanti grattacapi famigliari. Delle tre figlie di Manbei, solo la seconda, Fumiko (Michiyo Aratama), è felicemente sposata con Hisao (Keiju Kobayashi). La maggiore, Akiko (Setsuko Hara), vedova con figlioletto che abita a Osaka dove lavora in una galleria d'arte, rifiuta la proposta di risposarsi che lo zio acquisito (Daisuke Kato) gli avanza per conto di un amico (Hisaya Morishige); e anche la minore, Noriko (Yoko Tsukasa), non sembra intenzionata ad accettare un matrimonio combinato, essendo innamorata di un collega (Akira Takarada) che si è trasferito a Sapporo. In mezzo a tutto questo, il padre Manbei ha ripreso a frequentare la sua amante di un tempo (Chieko Naniwa), con tanto di (im)probabile figlia illegittima, la "moderna" e viziata Yuriko (Reiko Dan). Ma quando Manbei ha un attacco di cuore, l'intera famiglia si riunisce al suo capezzale... Il penultimo lavoro di Ozu è forse uno dei meno noti della sua filmografia (almeno di quelli a colori). Pur affrontando molti dei suoi soliti temi (la disgregazione della famiglia, il conflitto fra dovere e piacere, quello fra tradizione e modernità), con echi di titoli precedenti come "Inizio d'estate", "Tardo autunno" ed "Erbe fluttuanti", sembra soffrire per una trama complessa che, almeno all'apparenza, si sfilaccia in tanti rivoli paralleli, senza focalizzarsi su nessuno di loro. Le sottotrame relative ai matrimoni combinati di Akiko e Noriko, che all'inizio sembrano quelle portanti, si fanno infatti più marginali man mano che emerge la figura del padre, eccentrico e instancabile, che pur essendo in pensione (non gestisce più di persona la distilleria di famiglia) è ancora un punto di riferimento per tutti. Presente in ogni momento della vita dei parenti, al tempo stesso Manbei escogita ogni trucco per "fuggire" a trovare la sua (ex) amante (seminando l'impiegato Rokutaro che lo pedina, o scatenando la riprovazione di Fumiko), e passa da momenti di malattia ad altri di salute, catalizzando su di sé le attenzioni altrui. La sua dipartita nel finale chiude in fondo un'era, nel bene e nel male (la famiglia potrà ora mettere una pietra sopra a un'attività storica ma poco redditizia, Akiko e Noriko potranno seguire il proprio cuore anziché gli obblighi famigliari). Bellissimo, in ogni caso, il finale dedicato al funerale, con tutti i parenti che guardano commossi il fumo uscire dalla ciminiera del crematorio, per poi attraversare a piedi il ponte sul fiume (le ultime inquadrature sono invece simbolicamente riservate ai corvi sul greto del fiume e sulle tombe): una vera e propria meditazione sulla morte, che ne coglie tutti gli aspetti (il rimpianto, la consapevolezza, la spinta ad andare avanti). E sulla regia, nulla da aggiungere a quanto già detto nelle precedenti recensioni dei film del regista: tutto è misurato e perfetto, nella staticità, nelle inquadrature, nei raccordi, nelle ellissi. Nel grande cast corale, piccole particine per tanti habitué di Ozu: Haruko Sugimura è la sorella di Nagoya, Chishu Ryu il contadino presso il fiume. Compaiono brevemente anche due attori occidentali (!), che interpretano i "fidanzati" americani di Yuriko. Anziché dalla Shochiku, la sua solita casa di produzione, il film fu realizzato dalla Takarazuka, affiliata della Toho, come risarcimento per aver prestato a Ozu alcuni attori per il precedente "Tardo autunno", e dunque – a parte il consueto co-sceneggiatore Kogo Noda – senza i suoi soliti collaboratori (la fotografia è del "kurosawiano" Asakazu Nakai, il montaggio di Koichi Iwashita). La storia si svolge nel giro di pochi giorni alla fine dell'estate (il titolo con cui la pellicola è nota in inglese, infatti, è "The end of summer").

23 aprile 2020

Severance - Tagli al personale (C. Smith, 2006)

Severance - Tagli al personale (Severance)
di Christopher Smith – GB/Germania 2006
con Danny Dyer, Laura Harris
**

Visto in divx.

Sette manager e impiegati di un'industria di armi, in trasferta per lavoro nell'Est Europa, devono trascorrere una vacanza di alcuni giorni in un lodge isolato nella foresta ungherese per imparare a "fare squadra". Ma saranno presi di mira da alcuni misteriosi assassini psicopatici. Il canovaccio classico della "casa nel bosco" (valido sin dai tempi delle fiabe, passando per "La casa" di Sam Raimi fino agli horror più estremi) al servizio di una pellicola che mescola gli stilemi del genere con una spruzzatina di commedia (i personaggi scanzonati, l'ironia tutta british sui rapporti fra colleghi di lavoro), senza parlare della satira sull'industria degli armamenti (i protagonisti producono mine antiuomo e armi di ogni tipo, eppure si divertono infantilmente a giocare a paintball o si ritrovano vittima di trappole con le stesse armi che escono dalla loro fabbrica; per non parlare degli addetti al marketing che discutono della loro vendita come se si trattasse di un prodotto come un altro). Nel complesso, un survival horror onesto (niente contorsionismi o metaletture post-moderne!) e simpatico, anche se non particolarmente originale: il titolo (anzi, il sottotitolo) italiano, francamente, prometteva molto di più. Da notare l'inserto muto che cita il "Nosferatu" di Murnau.

22 aprile 2020

Gli incredibili 2 (Brad Bird, 2018)

Gli incredibili 2 (Incredibles 2)
di Brad Bird – USA 2018
animazione digitale
**

Visto in TV.

Sequel del film del 2004, che già era uno dei titoli meno originali della Pixar. E anche questo secondo capitolo non si distingue particolarmente per fantasia. Se sul versante supereroistico continua a riciclare cliché (dai "Fantastici quattro", soprattutto), su quello della commedia famigliare si focalizza – in chiave femminista – sul tema dell'equa divisione dei compiti all'interno del focolare domestico. In particolare: quando è la moglie a lavorare, tocca (giustamente) al marito badare alla casa e ai bambini. La trama riparte da dove si era interrotta nel film precedente. Frustrati perché l'attività di supereroe è vietata dalla legge, i nostri eroi sono contattati da una ricca coppia di fratelli che si offrono di aiutarli a riabilitarsi, organizzando una campagna mediatica per rendere di nuovo legali i supereroi. Frontwoman di tale campagna è Elastigirl, il che suscita la gelosia di Mister Incredibile, costretto a rimanere a casa, dove scopre che il neonato di famiglia, Jack-Jack, sta sviluppando a sua volta multipli superpoteri. Nel frattempo un misterioso criminale dai poteri ipnotici (l'Ipnotizzaschermi) trama nell'ombra, ma la sua vera identità non sarà certo una sorpresa per lo spettatore (di fatto c'erano solo due sospettati: o era l'uno o l'altra, se non entrambi). L'ottima animazione, morbida anche nelle scene d'azione, e la grande qualità tecnica (evidente in particolare nei fondali, nelle luci e nella resa dei materiali) compensano solo in parte una sostanziale mancanza di idee (persino a livello di regia), di fantasia e di sorprese, per un film che non si discosta molto da altre pellicole (anche non d'animazione) di genere supereroistico e dai luoghi comuni sulle dinamiche familiari (particolarmente sacrificati in questo i due bambini). E che quindi può risultare gradevole ma nulla più. Fra le new entry spicca la supereroina punk Void (in grado di aprire portali dimensionali), che in italiano ha la voce di Bebe Vio.

21 aprile 2020

Sukiyaki western Django (T. Miike, 2007)

Sukiyaki Western Django (id.)
di Takashi Miike – Giappone 2007
con Hideaki Ito, Kaori Momoi
*1/2

Visto in TV.

Un misterioso pistolero solitario (Hideaki Ito) giunge in un villaggio conteso fra il clan degli Heike e quello dei Genji (rispettivamente vestiti di rosso e di bianco), in guerra fra loro ed entrambi alla ricerca di un fantomatico tesoro nascosto. Il titolo del film esplicita già tutto: siamo di fronte a una rilettura degli spaghetti western in salsa nipponica ("Sukiyaki" è un tipico piatto giapponese), con la presenza di Quentin Tarantino nel cast (nel ruolo del narratore) a condire il tutto con una pennellata di post-modernismo. E infatti si sguazza nel regno del pop e del citazionismo, spesso fine a sé stesso. La fotografia iperfiltrata, le esplosioni di violenza e di splatter, l'atteggiamento dei personaggi, la mancanza di realismo (con costumi e quinte teatrali) svelano il desiderio del cineasta di esibire soprattutto il proprio stile (anzi, un miscuglio di stili, alla "Kill Bill") e i propri interessi, anziché raccontare una storia. La trama è infatti esile, incoerente, poco originale, e i personaggi hanno una caratterizzazione risibile o inesistente. Nell'azione violenta e ipercinetica e nella confusione narrativa e visiva si mescolano suggestioni storiche e moderne, occidentali e orientali: cowboy armati di pistola (o di mitragliatrici!) si battono con samurai con la spada, case e saloon da villaggio western ospitano paraventi e dipinti orientali, yakuza con i tatuaggi citano Shakespeare (il capo degli Heike si fa chiamare Enrico IV, i genitori del piccolo Heihachi sono di fatto Giulietta e Romeo). Una commistione che all'inizio può divertire, ma a lungo andare stanca. Anche perché la narrazione non offre appigli, gli eventi appaiono quasi random e lo stesso protagonista non fa praticamente nulla prima del finale (quando si batte con l'ultimo nemico rimasto, sotto la neve). Persino i molti rimandi agli spaghetti western (di Leone e Corbucci) sono appunto filtrati da un approccio pop e citazionista, alla Tarantino, che guarda solo in superficie (ed è un peccato: in fondo "Per un pugno di dollari" era già una rilettura de "La sfida del samurai" di Kurosawa, anch'esso qui citato, quindi si sarebbe potuti tornare al punto di partenza). Il tutto resta pertanto un'esperienza vuota, a differenza di altre pellicole di Miike che, pur estreme o bizzarramente "folli" anche più di questa, un sottotesto sociale o psicologico ce l'avevano ("Visitor Q", "Ichi the killer", "Audition"...). Quanto all'esperienza straniante di vedere attori asiatici vestiti da cowboy, non è nulla che non si fosse già fatto (meglio) in passato, per esempio nel thailandese "Le lacrime della tigre nera". Il legame col "Django" di Corbucci viene spiegato sui titoli di coda (cinque anni più tardi, lo stesso Tarantino firmerà una sua rilettura del personaggio, "Django unchained"). I clan Heike e Genji sono esistiti veramente (chiamati anche Taira e Minamoto, si batterono alla fine del dodicesimo secolo), ma quelli che si vedono sullo schermo, a parte i nomi, non hanno alcun legame con la realtà storica (e i loro colori, il bianco e il rosso, non recano nessun riferimento politico, pur essendo gli stessi – per esempio – delle fazioni della guerra civile russa). Nel cast anche Koichi Sato, Yusuke Iseya, Yoshino Kinora e Masanobu Ando. Kaori Momoi è la pistolera Ruriko, detta "Bloody Benten" (dal nome di una dea guerriera). Teruyuki Kagawa è lo sceriffo che parla con sé stesso.

20 aprile 2020

Fa' la cosa giusta (Spike Lee, 1989)

Fa' la cosa giusta (Do the right thing)
di Spike Lee – USA 1989
con Spike Lee, Danny Aiello
***1/2

Rivisto in TV.

In una caldissima giornata d'estate, con la canicola che dà alla testa, un isolato di Brooklyn (il film è stato girato nel quartiere di Bedford-Stuyvesant) ribolle di tensioni razziali. I suoi abitanti sono prevalentemente neri, ma non mancano ispanici, italiani e asiatici: un melting pot che convive più o meno pacificamente e pigramente, anche se la rabbia repressa è sempre pronta a esplodere. E a far scoccare la scintilla può bastare un minimo e insignificante pretesto. Al centro di una vicenda corale c'è la pizzeria gestita dall'italo-americano Sal (Danny Aiello), insieme ai figli Pino (John Turturro) e Vito (Richard Edson), sorta di luogo d'incontro condiviso fra le varie culture, dove Mookie (Spike Lee) lavora come fattorino per consegnare le pizze a domicilio. Mookie vive con la sorella Jade (Joie Lee, sorella di Spike), che lo considera un irresponsabile, e ha avuto un figlio da Tina (Rosie Perez, protagonista delle scene di street dancing che aprono la pellicola), una ragazza portoricana. Nei suoi giri per l'isolato incontra numerosi e variopinti personaggi: il "Sindaco" (Ossie Davis), vecchio ubriacone che è un po' la voce della coscienza del quartiere, non sempre ascoltata dai più giovani (è lui a pronunciare la frase del titolo, rivolta al protagonista); il problematico Buggin Out (Giancarlo Esposito), sempre in cerca di un'occasione per piantare grane in nome dell'"orgoglio nero" (per esempio boicottando la pizzeria di Sal perché sul muro sono appesi solo ritratti di celebrità italo-americane); il colossale Radio Raheem (Bill Nunn), che vaga con un gigantesco stereo da cui spara in continuazione musica ad alto volume ("Fight the Power" dei Public Enemy); Smiley (Roger Guenveur Smith), ragazzo mentalmente disabile che gira vendendo foto di Malcolm X e Martin Luther King; la vecchia Mother Sister (Ruby Dee), che osserva tutto ciò che accade nel quartiere dalla finestra del suo appartamento; e ancora, gruppi di nullafacenti che commentano ogni cosa stando seduti in strada, bande di ragazzi che gironzolano facendo scherzi, gang di portoricani, negozianti coreani, e la voce del DJ del quartiere, Love Daddy (Samuel L. Jackson), che fornisce l'incessante colonna sonora. Ispirato ad alcuni eventi reali (il pestaggio e l'omicidio di un afro-americano da parte della polizia di New York), il film intende mostrare come l'odio, la rabbia e la violenza possano esplodere in ogni momento, se la situazione sottostante ha raggiunto il livello di guardia, coinvolgendo tanto le persone intolleranti e razziste (da un lato e dall'altro: vedi Vito o Buggin Now) quanto quelle comprensive e tutto sommato ben disposte verso le altre etnie (è il caso di Sal o di Mookie). Alla sua uscita, il film suscitò stupide e cieche polemiche negli Stati Uniti, e fu accusato di fomentare la rabbia dei neri, mentre invece si limita a ritrarre (a volte in maniera realistica, a volte ai limiti della parodia) uno stato di cose, ed è quanto mai equilibrato nel mostrare ragioni e soprattutto torti di tutti (riuscitissimo il montaggio di insulti razziali che i personaggi si scambiano fra loro, rivolti ad etnie e minoranze che pure convivono a pochi metri di distanza: tutti sono sullo stesso piano e nessuno pare migliore degli altri) e nel raccontare di come la violenza possa nascere dal minimo casus belli e distruggere anche le poche occasioni di integrazione e di fratellanza. La pellicola si conclude con due citazioni di segno opposto su questo tema, rispettivamente di Martin Luther King e di Malcolm X (per uno la violenza porta a un'insensata spirale distruttiva, per l'altro è inevitabile e giustificata), ritratti insieme nella foto che Smiley gira vendendo e che alla fine viene affissa sulla parete della pizzeria distrutta. La contrapposizione fra amore e odio è resa esplicita dai tirapugni di Radio Raheem, che recano le parole "Love" e "Hate", come i tatuaggi di Robert Mitchum ne "La morte corre sul fiume".

19 aprile 2020

Where a good man goes (Johnnie To, 1999)

Where a good man goes (Joi gin a long)
di Johnnie To – Hong Kong 1999
con Lau Ching Wan, Ruby Wong
**

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Michael (Lau Ching Wan), gangster violento e iracondo da poco uscito di prigione, si stabilisce nell'albergo a conduzione familiare gestito a Macao da Judy (Ruby Wong), vedova con figlioletto. Nonostante l'uomo sia continua fonte di guai (anche perché cerca di riconquistare il proprio posto di potere fra le triadi della colonia), fra i due nasce un sentimento reciproco, tanto che Michael medita di mettere la testa a posto e di formare una famiglia, aiutando anche la donna a pagare i suoi debiti. Ma i suoi tentativi sono frustrati dalla realtà, sotto forma di una faida con un gruppo di tassisti con cui ha fatto una rissa, e soprattutto da un poliziotto ostile e vendicativo (Lam Suet) che cerca in ogni modo di incastrarlo. Titolo minore (e semisconosciuto) della filmografia di Johnnie To, scritto con il fido Wai Ka-fai, non sfugge da personaggi stereotipati, caratterizzazioni sopra le righe, situazioni e luoghi comuni di tanto cinema di Hong Kong (da "A better tomorrow" in poi), senza tralasciare qualche momento citazionista (la rapina in banca ricorda "Quel pomeriggio di un giorno da cani"), ma si lascia comunque vedere con piacere fino all'inaspettato lieto fine grazie alla bella fotografia e alle buone interpretazioni (dal sempre bravo Lau alla controllata Wong).

18 aprile 2020

Comma 22 (Mike Nichols, 1970)

Comma 22 (Catch-22)
di Mike Nichols – USA 1970
con Alan Arkin, Martin Balsam
**1/2

Visto in divx.

In una base aeronautica americana in Italia, da dove i piloti partono per bombardare gli obiettivi strategici (o meno) nel Mar Mediterraneo durante la seconda guerra mondiale, il capitano Yossarian (Alan Arkin) cerca inutilmente di farsi congedare dopo aver completato il numero di missioni necessarie per avere diritto all'avvicendamento. Inutilmente non solo perché il colonnello Cathcart (Martin Balsam) continua arbitrariamente ad alzare tale numero; ma soprattutto perché il famigerato "comma 22" del regolamento militare impone che l'unica condizione valida per essere sollevati dal servizio è quella di essere pazzi: ma chi chiede di essere sollevato dal servizio, per definizione, non è pazzo. Dal romanzo di Joseph Heller (da cui recentemente è stata tratta anche una serie televisiva), una pellicola che, sulle orme di "MASH", intende mettere in luce l'assurdità e la follia che circonda ogni attività bellica. Attorno a Yossarian, infatti, si muovono personaggi alienati, grotteschi, slegati dalla realtà e protagonisti di episodi all'insegna del paradosso, della pazzia, del cinismo e dell'assurdo, con il continuo contrasto fra follia e normalità (Yossarian, che fa di tutto per farsi passare per pazzo, compreso l'andare in giro senza vestiti, appare comunque più sano e lucido di coloro che gli stanno intorno: un mondo dove il capitalismo e l'opportunismo sembrano avere più valore della vita umana o persino dell'elemento cardine della propaganda bellica, ossia il patriottismo). Pur non privo di momenti brillanti, al film mancano però l'efficacia parodistica e l'ironia surreale del capolavoro di Altman, e la continua alternanza di registri (dal grottesco al realistico) lascia spesso disorientati. Al terzo lavoro, Nichols non ottenne lo stesso riscontro dei precedenti "Chi ha paura di Virginia Woolf" e "Il laureato", ma il film è rimasto comunque nell'immaginario collettivo anche grazie a un ampio cast dove spiccano Jon Voight (il tenente maneggione Minderbinder, che mette in piedi il "monopolio" M&M Enterprises, con il quale fa affari vendendo o barattando materiale della truppa: pian piano la sua impresa diventa più importante dell'esercito o della guerra stessa), Anthony Perkins (il cappellano), Bob Newhart (il maggiore Maggiore, che riceve nel proprio ufficio solo quando non c'è) e Orson Welles (il generale Dreedle). E ancora: Art Garfunkel (sì, il cantante, al debutto sullo schermo: tre anni prima, insieme a Paul Simon, aveva firmato la celeberrima colonna sonora de "Il laureato"), Buck Henry (anche sceneggiatore), Bob Balaban, Richard Benjamin, Jack Gilford (il medico), Norman Fell, Martin Sheen. Paula Prentiss è l'infermiera, Susanne Benton l'attendente di Dreedle, Olimpia Carlisi è Luciana (la ragazza conosciuta a Piazza Navona), Marcel Dalio il vecchio italiano nel bordello.

17 aprile 2020

Il palazzo delle notti arabe (G. Méliès, 1905)

Il palazzo delle notti arabe (Le palais des mille et une nuits)
di Georges Méliès – Francia 1905
con Georges Méliès, Jeanne Calvière
*1/2

Visto su YouTube.

Dopo i grandi successi degli anni precedenti, a partire dal 1905 i film di Méliès iniziano a riscuotere meno consenso presso un pubblico ormai abituatosi alla novità cinematografica e assuefatto ai “trucchi” da prestigiatore che caratterizzavano le pellicole del regista francese. Si tratta di un pubblico che non si stupisce più per le sparizioni o le sostituzioni di personaggi e oggetti sullo schermo, e che non si accontenta di sfondi e quinte palesemente teatrali, iniziando a pretendere dai film non solo intrattenimento ma anche dramma di un certo spessore, come quello che i cineasti inglesi e americani, con il loro realismo nella recitazione e negli ambienti, e anche i concorrenti francesi della Pathé e della Gaumont, con il loro dispiego di mezzi (numerose comparse, vasti studi per le riprese), possono mettere a disposizione di registi che, a differenza dell'artigiano Méliès, fanno parte di una “catena di montaggio” all'insegna della produzione collaborativa. Il tutto senza parlare della maggior sofisticazione del linguaggio cinematografico (il montaggio, gli inserti, i primi piani) che si inizia timidamente a vedere in alcuni lavori contemporanei (come quelli di Williamson, Porter o Zecca) ma che è del tutto assente nei pur affascinanti ma ingenui film di Méliès. Infine, le “favole avventurose” di cui il regista parigino era un maestro cominciano a lasciare il posto, nelle preferenze degli spettatori, ad altri generi più calati nella realtà, come quelli a sfondo sociale (storie famigliari o di crimine) o storico. Non a caso, proprio dal 1905, Gaston Méliès – il fratello di Georges che si occupava della vendita dei suoi film – fu costretto a ridurre il prezzo di tutte le pellicole del catalogo della Star Film nel tentativo di risollevarne le vendite, soprattutto negli Stati Uniti. Questo “Palazzo delle notti arabe” (che in originale durava ben 28 minuti, ma Méliès ne predispose anche delle versioni più corte), nonostante la sua evidente ambizione, la ricchezza dei costumi e delle scenografie esotiche e l'ampio uso di sagome mobili ed effetti pirotecnici, non riesce a offrire nulla di veramente nuovo rispetto ai lavori precedenti: ispirato ai racconti delle “Mille e una notte”, narra le avventure di un principe che, guidato da un genio (interpretato dallo stesso Méliès), parte alla ricerca di un tesoro che gli consentirà di poter sposare la donna che ama, attraverso una sarabanda di situazioni che si succedono con ritmo monotono e senza soluzione di continuità, fra stregoni, fate, odalische, scheletri che ballano (nella scena più interessante del film), giungle, templi, grotte e palazzi, annoiando forse tanto lo spettatore di allora (è alquanto difficile seguire la storia) quanto quello moderno.

16 aprile 2020

The nihilist (Wallace McCutcheon, 1905)

Il nichilista (The Nihilist)
di Wallace McCutcheon Sr – USA 1905
con Edward Dillon
**

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In Russia, un uomo anziano è denunciato come dissidente politico dal proprio domestico (in realtà una spia del governo, che ha controllato la sua posta: evidentemente era in corrispondenza con qualche oppositore dello zar). Arrestato dalle guardie mentre cena con la sua famiglia, viene portato in prigione dove è torturato e frustato. I suoi parenti fanno inutilmente appello al governatore, che non li ascolta. Spedito in Siberia con altri prigionieri, l'uomo muore durante il viaggio. In cerca di vendetta, i suoi famigliari (due maschi e una femmina: probabilmente il figlio, la figlia e il genero) si uniscono allora a un gruppo di rivoluzionari nichilisti. Uno di loro è scelto per compiere un attentato al governatore, gettando una bomba al passaggio della sua carrozza, ma viene ucciso durante l'agguato. Gli altri due assaltano allora il palazzo del governatore e lo fanno saltare in aria, a costo della propria vita. Pur non offrendo nulla di particolarmente innovativo dal punto di vista cinematografico, almeno rispetto alle precedenti pellicole dirette da McCutcheon per la Biograph (ma è apprezzabile il mix dinamico fra scene girate in interni ed esterni), il corto è degno di nota soprattutto per il soggetto e l'ambientazione, attenti all'attualità e al momento storico: il 1905 fu un anno di rivoluzione in Russia. Nonostante la brevità (circa 5 minuti), il film riesce a raccontare una storia abbastanza complessa, facendo anche un uso limitato dei cartelli (che precedono ogni scena a mo' di intertitoli) e costruendo una certa tensione. Da notare poi l'evidente simpatia con cui sono ritratti i terroristi, individui che lottano contro l'ingiustizia e l'oppressione.

15 aprile 2020

Rêve à la Lune (F. Zecca, G. Velle, 1905)

Rêve à la Lune, aka L'amant de la Lune
di Ferdinand Zecca, Gastón Velle – Francia 1905
con Ferdinand Zecca
**1/2

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Un ubriaco (interpretato dallo stesso Zecca) torna a casa dopo una serata di bagordi. Infilatosi a letto non senza fatica, sogna di trovarsi ancora all'aperto e comincia a bisticciare con la Luna nel cielo, dapprima tirandole contro una bottiglia e poi cercando di raggiungerla: ma salire su un lampione e poi arrampicarsi lungo la parete di un edificio fino al tetto non servirà a nulla (se non a svegliare la gente che dorme). Una folata di vento lo porta poi via insieme al caminetto cui è aggrappato. E dopo aver attraversato un temporale, fra le nuvole che si aprono scorge finalmente il suo obiettivo: il gigantesco faccione della Luna, che con uno sbadiglio lo ingoia per poi risputarlo a terra. Il sogno si conclude e l'uomo si risveglia nella propria stanza, ma la sua lotta non è terminata: a farne le spese è questa volta l'orologio a pendola della casa che, proprio come la Luna in precedenza, viene centrato con una bottigliata. Movimentato film comico-onirico nello stile di Méliès, con cui Zecca – che lo ha girato in collaborazione con Gastón Velle – ritorna in chiave comica sul tema dell'alcolismo che già aveva affrontato in maniera più seria nel precedente “Les victimes de l'alcoolisme”. La miscela di commedia, avventura e sogno è affascinante, ma la pellicola presenta anche alcune inquadrature e soluzioni tecniche innovative per l'epoca: su tutte la scena in cui Zecca si arrampica sulla parete del palazzo, girata mediante un carrello in movimento verso l'alto (la prospettiva sembra anticipare quella di videogiochi come “Donkey Kong”!). Da notare anche il primo piano della porta che mostra le difficoltà dell'uomo nell'infilare la chiave nella toppa, e soprattutto la pendola che oscilla incessantemente, sulla sinistra dell'inquadratura, nelle scene ambientate all'interno della casa, per essere arrestata soltanto dalla rottura dell'orologio nel finale: il suo movimento, che attira irresistibilmente lo sguardo dello spettatore (è quasi impossibile non catalizzare l'attenzione su di essa), è ipnotico nel vero senso della parola, visto che ricorda gli oggetti in movimento che gli ipnotizzatori usano per portare i propri pazienti nello stato di trance. E naturalmente l'oscillazione si ripresenta trasfigurata nel sogno, attraverso quella del lampione e poi del caminetto su cui l'uomo si arrampica nel suo tentativo di raggiungere la Luna.

14 aprile 2020

An interesting story (J. Williamson, 1904)

An interesting story
di James Williamson – GB 1904
**1/2

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Un gentiluomo è talmente immerso nella lettura di un libro da non rendersi conto dove cammina. Dopo svariati incidenti, viene schiacciato da un rullo compressore che lo appiattisce sulla strada: per fortuna due ciclisti provvederanno a “rigonfiarlo” con le loro pompe. Una gag da fumetto, o da cartoon (l'uomo appiattito dal rullo), è solo il culmine di un percorso che sembra anticipare certe comiche di Chaplin, Lloyd o Keaton, o addirittura i cartoni animati di Mr. Magoo, e in generale tutto il genere delle commedie slapstick. Williamson, con la sua regia innovativa, sa ormai sfruttare in maniera fluida e a scopi narrativi il montaggio di diverse scene e ambientazioni (si va dalla prima, in interni, che ci mostra l'uomo mentre fa colazione e si versa distrattamente il caffè nel cappello, alle successive in esterni, con gli incontri con le bambine che giocano al salto con la corda, il carretto con il mulo e un altro passante): rispetto a pochissimi anni prima, quando il montaggio era praticamente sconosciuto, il mezzo cinematografico sembra aver ormai acquisito la consapevolezza di come sia possibile raccontare una vicenda in modo fluido e naturale attraverso più inquadrature concatenate. La “storia interessante” del titolo potrebbe essere quella mostrata dal film stesso, ma anche quella del libro che il protagonista sta leggendo, talmente interessante appunto da distogliere la sua attenzione da ogni altra cosa. Oggi si potrebbe girare una pellicola del tutto simile, anche se la fonte di distrazione non sarebbe più un libro ma un tablet o un cellulare!

13 aprile 2020

Christophe Colomb (V. Lorant-Heilbronn, 1904)

Cristoforo Colombo (Christophe Colomb)
di Vincent Lorant-Heilbronn – Francia 1904
con Vincent Denizot
*1/2

Visto su YouTube.

Vincent Lorant-Heilbronn era un pittore e illustratore francese, autore a inizio secolo di diversi affreschi e manifesti pubblicitari. Per qualche anno si dedicò anche alla nascente industria cinematografica, lavorando come scenografo per la Pathé e dirigendo (dal 1904 al 1906) alcuni drammi storici come questo “Cristoforo Colombo”, che racconta le varie tappe della vita del navigatore. Si comincia in media res, ovvero in pieno mare, con una rivolta a bordo delle caravelle (ma forse nella copia giunta fino a noi – e restaurata – manca l'inizio, visto che questo primo quadro dura pochissimi secondi). Assistiamo poi allo sbarco di Colombo nelle Americhe, agli indigeni che lo accolgono con una danza, al ritorno in Spagna dove viene ricevuto trionfalmente dal re e dalla regina (davanti ai quali conduce alcuni “selvaggi”), alla sua caduta in disgrazia per via delle accuse del clero, e alla sua prigionia. Pur sfarzoso per scenografie e costumi (l'iconografia è quella classica), e sicuramente interessante in prospettiva storica (anche per documentare il punto di vista europeo con cui si guardava all'epoca alla conquista dell'America), il film appare oggi ben poco cinematografico: si tratta di una successione di tableaux vivants con i personaggi immersi in una ricostruzione ambientale, senza alcuna continuità drammatica fra l'una e l'altra scena (tutte riprese con macchina fissa) e senza nessuna delle interessanti soluzioni di montaggio o dei rudimenti del linguaggio cinematografico che già si potevano trovare nelle coeve opere britanniche, americane o di altri registi francesi. Da notare giusto l'uso del mascherino ellittico per mostrare in sovrimpressione i “ricordi” di Colombo (il momento in cui era stato accolto trionfalmente a corte) mentre si trova in prigione, e la conclusione enfatica con l'“apoteosi” (una sfilata di bandiere degli stati americani moderni, e una folla festante composta da donne e bambine di diverse etnie che inneggiano alla sua gloria): la prima trovata era stata già usata, sempre alla Pathé, da Ferdinand Zecca nel suo “Histoire d'un crime” del 1901; la seconda caratterizzerà per esempio il finale de “La presa di Roma”, il primo film italiano a soggetto, del 1905.

12 aprile 2020

La vie et la passion de Jésus-Christ (Zecca, Nonguet, 1903)

La vie et la passion de Jésus-Christ
di Ferdinand Zecca, Lucien Nonguet – Francia 1903
**

Visto su YouTube.

Ispirato nell'iconografia alle illustrazioni della Bibbia di Gustave Doré, questo vero e proprio kolossal dell'epoca porta sullo schermo il racconto evangelico, dall'annunciazione alla nascita di Gesù Cristo, dal massacro degli innocenti alla fuga in Egitto, dai primi miracoli alla predicazione, dall'arrivo a Gerusalemme all'ultima cena, dalla via crucis alla resurrezione ed ascensione. Non è la prima trasposizione cinematografica della vita di Gesù (fra il 1897 e il 1900 c'erano già state quelle firmate da Anthelme Léar, Georges Hatot, Gaston Breteau e Henry C. Vincent) ma, al momento della sua realizzazione, era senza dubbio la più ambiziosa. Iniziato nel 1902 e co-diretto da Lucien Nonguet e Ferdinand Zecca sotto la supervisione di quest'ultimo, con i suoi 44 minuti si trattava forse del più lungo film di finzione mai girato fino ad allora. In realtà è sbagliato parlarne come se si trattasse di un'opera unica: la pellicola è infatti composta da 32 tableaux (quadri o episodi) separati, autonomi e indipendenti, progettati per essere venduti – e proiettati – sia in gruppo che singolarmente. Secondo il progetto iniziale avrebbero dovuto essere soltanto 18, ma il grande successo spinse rapidamente la Pathé, la casa produttrice, a incrementarne il numero (in seguito vennero comunque allestiti anche dei pacchetti “ridotti”, composti da soli 12 o da 20 tableaux, a beneficio degli eventuali acquirenti). Pur non potendolo definire perciò un lungometraggio (o mediometraggio, secondo i criteri odierni), è comunque innegabile che il filo conduttore – il racconto evangelico – doni all'insieme una sua coerenza e un'identità ben precisa. A parte i titoli che introducono ogni episodio, sono assenti altri cartelli: d'altronde si presumeva che gli spettatori conoscessero già a menadito la storia narrata, rendendo facile seguire sullo schermo quella che non è altro che una rappresentazione di eventi già visti tante volte nell'arte e sulle pareti delle chiese, con episodi che si succedono senza bisogno di essere spiegati e personaggi introdotti senza presentazione (o caratterizzazione). Buona, comunque, la cura delle scenografie (quinte teatrali, evidentemente artificiali, ma in fondo realistiche e a tratti spettacolari) e dei costumi, per non parlare di occasionali “effetti speciali”, per lo più sovrimpressioni come nelle apparizioni degli angeli o nella scena di Gesù che cammina sulle acque (con l'attore sovrapposto a immagini del mare ondoso). La colorazione è fatta a mano, e si concentra sulle tuniche dei personaggi e su alcuni oggetti di scena. Pur sporadici, compaiono anche alcuni movimenti di macchina (carrelli) e stacchi (con due campi medi assai espressivi, entrambi durante la via crucis: Gesù con la corona di spine e la scritta “Ecce homo”, e la donna – santa Veronica – che mostra il panno in cui si è impresso il suo volto). Da notare come in ogni scenografia, per motivi di copyright, sia ben visibile il simbolo della Pathé (un gallo). I nomi degli attori sono sconosciuti, a parte quelli che interpretano Giuseppe e la vergine Maria (monsieur e madame Moreau). Il film riscosse un grande successo internazionale: la Gaumont lo imiterà nel 1906 (a opera di Alice Guy), mentre Zecca ne realizzerà un'altra versione nel 1907 (“Vie et passion de notre seigneur Jésus-Christ”), stavolta insieme a Segundo de Chomón.

11 aprile 2020

Parla con lei (Pedro Almodóvar, 2002)

Parla con lei (Hable con ella)
di Pedro Almodóvar – Spagna 2002
con Darío Grandinetti, Javier Cámara
***1/2

Rivisto in DVD.

Lo scrittore e giornalista Marco (Darío Grandinetti) si innamora della torera Lydia (Rosario Flores), che però finisce in coma dopo una corrida. Nella clinica in cui è ricoverata, Marco stringe amicizia con l'infermiere Benigno (Javier Cámara), che accudisce amorevolmente la giovane ballerina Alicia (Leonor Watling), anch'essa in stato vegetativo, e che gli insegna come prendersi cura di una donna in coma (prima regola: "Parla con lei"). Colmo di riferimenti e rimandi artistici (gli spettacoli di danza di Pina Bausch: è a uno di questi, "Café Müller", che Benigno e Marco, seduti a fianco, si incontrano per la prima volta, con il primo che rimane colpito dalla risposta emotiva del secondo; il cameo di Caetano Veloso che canta una versione particolarmente struggente di "Cucurrucucú paloma"; il cinema muto, grande passione di Alicia, che Almodóvar omaggia nella sequenza surreale in cui un uomo miniaturizzato va all'esplorazione del corpo gigantesco della sua amata (Paz Vega), forse ispirata a "Storie di ordinaria follia" di Charles Bukowski), è uno dei film più stimolanti del regista spagnolo, che nonostante i temi scabrosi si rivela anche commovente e delicato nel portare sullo schermo molteplici storie d'amore. Un amore spesso a senso unico (Marco ama Lydia, che però pensa solo al proprio ex; Benigno ama Alicia, che essendo in coma non può certo ricambiarlo) ma non per questo meno sincero e sofferto, che si manifesta in forma sia astratta che concreta, con tanto di invasione (anche non autorizzata) della sfera più intima di una persona, fino a perdersi in essa (lo spezzone del film muto, ancora una volta, ne è una perfetta rappresentazione). E che investe sia il lato mentale/intellettuale che quello fisico e corporeo (i corpi, specialmente quelli femminili, guidano tutta la storia: non a caso sia Lydia che Alicia sono legate ad attività che richiedono proprio un uso forte e consapevole del proprio corpo, la corrida e la danza classica). La sceneggiatura, che vinse l'Oscar, è strutturata con flashback e inserti che aiutano a vivacizzare la storia, ricostruendo il passato dei personaggi e in particolare di Benigno, raccontando l'origine della sua ossessione per Alicia. Proprio Benigno, nel suo misto di fragilità e ingenuità, di innocenza e "saggezza", resta un personaggio indimenticabile: le scene in cui parla delle proprie inclinazioni (omo)sessuali o dei crimini pedofili dei preti rimanda forse a esperienze autobiografiche del regista che ispireranno poi il successivo "La mala educación". Geraldine Chaplin è l'insegnante di danza di Alicia. La sequenza con Veloso è stata girata nella villa privata dello stesso Almodóvar. La colonna sonora, di Alberto Iglesias, comprende anche "Por toda minha vida" di Antônio Carlos Jobim e un brano di Henry Purcell da "The Fairy Queen".

10 aprile 2020

Niente di nuovo sul fronte occidentale (D. Mann, 1979)

Niente di nuovo sul fronte occidentale (All quiet on the western front)
di Delbert Mann – USA 1979
con Richard Thomas, Ernest Borgnine
**1/2

Visto in divx.

Arruolatosi volontario per combattere contro i francesi nella prima guerra mondiale, il giovane soldato tedesco Paul Bäumer (Richard Thomas) è testimone degli orrori del conflitto. Secondo adattamento dell'omonimo romanzo di Erich Maria Remarque dopo il classico di Lewis Milestone del 1930 ("All'ovest niente di nuovo"), di cui è praticamente un remake, questo TV movie è sicuramente ben fatto sotto tutti i punti di vista (per essere un prodotto televisivo, la qualità realizzativa è ottima: non a caso ha anche goduto di una limitata distribuzione cinematografica), ma ha il difetto di giungere fuori tempo massimo, quando i temi antibellici non fanno più notizia o scalpore e, anzi, sono stati ampiamente assimilati e sdoganati (anche in chiave dissacrante o parodistica, si pensi al "Dottor Stranamore", a "MASH" o a "Comma 22"). Inoltre le scene di battaglia non reggono minimamente il confronto con l'originale, per violenza o intensità, e appaiono più convenzionali e derivative. Bene invece il cast di contorno, in particolare i personaggi "adulti", interpretati da attori del calibro di Ernest Borgnine ("Kat", il veterano che prende Paul e agli altri giovani soldati sotto la propria ala protettrice, insegnando loro come sopravvivere al fronte), Ian Holm (il severo caporale istruttore Himmelstoss, personaggio a dire il vero un po' macchiettistico) e Donald Pleasence (il professor Kantorek, i cui discorsi retorici spingono gli studenti ad arruolarsi). Patricia Neal è la madre di Paul. Molte scene sono identiche a quelle del prototipo (come la nottata trascorsa da Paul nella fossa insieme al nemico che ha ucciso), altre sono inedite (l'incontro con il Kaiser), mentre altre ancora non hanno semplicemente la stessa intensità, anche per via di un protagonista meno convincente. Girato in Cecoslovacchia, come il film del 1930 anche questo è stato tagliato dalla produzione rispetto alla versione originale (di due ore e mezza). Borgnine era già stato interprete del film più famoso di Delbert Mann, "Marty, vita di un timido".

9 aprile 2020

All'ovest niente di nuovo (L. Milestone, 1930)

All'ovest niente di nuovo (All quiet on the western front)
di Lewis Milestone – USA 1930
con Lew Ayres, Louis Wolheim
***1/2

Visto in divx.

Germania, poco dopo l'inizio della prima guerra mondiale. Incitati dai discorsi retorici e patriottici del loro professore, lo studente Paul (Paolo) Bäumer (Lew Ayres) e i suoi compagni si arruolano con entusiasmo come volontari e vengono inviati al fronte occidentale a combattere contro i francesi. Qui scopriranno però cosa sia veramente la guerra, un mondo molto più duro, cupo e disperato di quanto immaginavano: sangue e fango, trincee e filo spinato, bunker e bombardamenti incessanti, fame e dolore, con la morte che incombe in ogni momento. Tratto dal romanzo "Niente di nuovo sul fronte occidentale" di Erich Maria Remarque (pubblicato solo due anni prima, nel 1928), un lungometraggio seminale per come propone un punto di vista fortemente antibellico e antimilitarista, fra i primi film "seri" a farlo (se escludiamo cioè le comiche di Charlot e affini). A colpire, ancora oggi, è la resa drammatica ma soprattutto realistica del conflitto. Le scene di battaglia sono incredibilmente dinamiche e potenti, spettacolari e violente (e non hanno nulla da invidiare a tanti blockbuster bellici moderni, da "Salvate il soldato Ryan" a "1917"), girate con profluvio di carrellate laterali e un montaggio serrato che sembra anticipare addirittura il Peckinpah de "Il mucchio selvaggio", vedi la mitragliatrice che falcia i soldati all'assalto della trincea. Il filo conduttore è la progressiva acquisizione di coscienza di Paolo, man mano che vede morire i suoi amici, impara a conoscere gli orrori (e la futilità) della guerra, perde l'idealismo e le illusioni dell'inizio ed è costretto a diventare adulto. Fra le scene memorabili: l'addestramento agli ordini dell'ex postino del villaggio, ora sergente istruttore; l'amicizia con un gruppo di veterani (fra cui Louis Wolheim e Slim Summerville) che prendono Paolo e compagni sotto la loro (sia pur ruvida) ala protettrice; la visita nell'ospedale da campo all'amico ferito e moribondo; la notte trascorsa in una fossa insieme al cadavere di un soldato francese (una delle pochissime scene in cui si vede anche il "nemico"), per la cui uccisione Paolo prova rimorso; l'episodio delle contadine francesi, che abitano oltre il fiume, cui Paolo e due compagni fanno visita durante la notte; la degenza in ospedale, da cui lotta per uscire vivo; la breve licenza a casa, in un mondo di cui ormai non sente più di far parte; e il finale, che fu cambiato rispetto al romanzo di Remarque: la mano di Paolo che estende fuori dalla trincea per prendere la farfalla è dello stesso Milestone (l'attore non era più disponibile perché si era già in fase di montaggio). Inoltre, momenti come quello in cui i soldati si interrogano sulle ragioni della guerra, concludendo che essa è voluta solo da chi ha qualcosa da guadagnarci (che siano politici o commercianti), o sul fatto di essere solo "carne da cannone", da mandare allo sbaraglio (d'altronde in tutto il film non si parla mai di tattiche o strategie e non si vedono mai comandanti o alti ufficiali: c'è solo caos e confusione), o ancora in cui si lascia intendere che la guerra ormai è persa, mancano uomini (tanto che vengono richiamati anche i sedicenni), armi e munizioni, eppure si parla ancora retoricamente di "marciare su Parigi": sono tutti momenti che testimoniano senza ambiguità l'afflato antimilitarista della pellicola (come del romanzo, scritto da un autentico veterano della prima guerra mondiale). Nonostante l'enorme successo (vinse l'Oscar per il miglior film e per il miglior regista, primo lungometraggio nella storia a conquistarli entrambi), i nazionalismi imperanti portarono a farla vietare un po' ovunque, a partire dalla Germania nazista. In Italia, per esempio, uscirà solo nel 1956. La versione originale durava oltre due ore e mezza, ma la produzione tagliò diverse sequenze. Fra le duemila comparse impiegate nelle scene di battaglia c'è anche il futuro regista Fred Zinnemann. Un remake per la TV nel 1979, "Niente di nuovo sul fronte occidentale" di Delbert Mann, e uno nel 2022, di Ed Berger.

8 aprile 2020

Panda Kopanda (Isao Takahata, 1972)

Panda! Go, Panda! (Panda Kopanda)
Il circo sotto la pioggia (Panda Kopanda - Amefuri sakasu no maki)
di Isao Takahata – Giappone 1972/73
animazione tradizionale
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Nel 1972 i panda godevano di una particolare popolarità presso il grande pubblico (era il periodo in cui la Cina, per motivi diplomatici, ne regalava o "prestava" degli esemplari agli zoo di tutto il mondo, Giappone compreso). I futuri fondatori dello Studio Ghibli, Isao Takahata (regista) e Hayao Miyazaki (sceneggiatore e fondali), insieme agli animatori Yoichi Kotabe e Yasuo Otsuka (quest'ultimo anche character designer), ne approfittarono per realizzare un cortometraggio (di una trentina di minuti) che anticipa in molte cose i loro lavori successivi, a partire da "Totoro". Pur essendo chiaramente destinato a un pubblico infantile, il corto venne proiettato nelle sale in abbinamento a un film di mostri, "Daigoro contro Goliath" (!). E visto l'ottimo riscontro, l'anno successivo fu prodotto un secondo episodio, "Il circo sotto la pioggia". Le storie sono minime ed episodiche. Mimiko è una bambina orfana che vive in una casa fuori città con la nonna: e quando questa deve assentarsi per un lungo periodo, la piccola si ritrova ad abitare da sola. Non per molto, però, perché in casa sua si presentano due panda, padre (Papanda) e figlio (Kopanda), con cui stringe subito amicizia e forma una sorta di "famiglia". Nel primo dei due film, si scoprirà che sono fuggiti dallo zoo, ma dopo alcune peripezie otterranno di rimanere a casa con la bambina (anche se durante il giorno Papanda si reca allo zoo a "lavorare"). Nel secondo, i nostri amici fanno la conoscenza di un cucciolo di tigre (Tora-chan) e salveranno lui e gli altri animali del circo da un'inondazione che ha ricoperto d'acqua l'intera campagna. Personaggi amichevoli, senso della famiglia e totale assenza di conflitti (ma anche un pizzico di pericolo) sono gli ingredienti di storie che sembrano uscire da un libro illustrato per bambini. A rendere il tutto assai gradevole anche per uno spettatore adulto, però, c'è la maestria tecnica dei suoi realizzatori, il design simpatico dei personaggi e l'animazione morbida e dolce. Oltre, per l'appunto, all'interesse che le due storie rivestono per gli esegeti dello Studio Ghibli. Le maggiori similitudini, come dicevo, sono quelle con "Il mio vicino Totoro": a parte la protagonista (Mimiko è una fusione fra Satsuki e Mei; le sue trecce rosse, invece, sono un omaggio a Pippi Calzelunghe, di cui Takahata e Miyazaki avrebbero voluto realizzare una serie animata) e l'accattivante canzoncina-filastrocca (di Masahiko Sato), Papanda ricorda Totoro in tutto e per tutto, dal nome con la prima sillaba ripetuta alle dimensioni, dal sorriso gigante al carattere. Fra gli altri elementi che torneranno nell'opera di Miyazaki e soci ci sono le capriole sulle mani di Mimiko (le faranno anche Heidi e Conan!) e l'inondazione che sommerge i dintorni della casa (che rivedremo in "Ponyo sulla scogliera"). Condiscono il tutto i rimandi a celebri fiabe (l'incipit del secondo episodio, quando i nostri amici scoprono che il tigrotto si è intrufolato in casa, è uguale a quello della favola di Riccioli d'oro e i tre orsi).

7 aprile 2020

Lock & Stock (Guy Ritchie, 1998)

Lock & Stock - Pazzi scatenati (Lock, stock and two smoking barrels)
di Guy Ritchie – GB 1998
con Nick Moran, Jason Statham
***

Rivisto in TV.

Per ripagare il boss del crimine con cui si sono indebitati, dopo aver perso alle carte una forte somma di denaro, quattro amici dell'East End londinese – Eddie (Nick Moran), Bacon (Jason Statham), Tom (Jason Flemyng) e Soap (Dexter Fletcher) – decidono di derubare una gang di rapinatori, subito dopo che questa ha a sua volta derubato un gruppo di coltivatori di marijuana, scatenando l'ira degli spacciatori che venivano da loro riforniti. Ne seguirà un marasma di vendette e rese dei conti incrociate. L'opera prima di Guy Ritchie, che segna anche l'esordio cinematografico di molti dei suoi attori (in particolare di Jason Statham, in precedenza modello e tuffatore, e di Vinnie Jones, ex calciatore), è una scatenata commedia ambientata in un sottobosco di piccoli e grandi criminali, fra professionisti e balordi, che guarda a Tarantino (senza farne mistero: uno dei personaggi, a un certo punto, commenta: "Ma che è, Pulp Fiction questo?") e alla sua commistione di anti-eroi, trame noir e pulp, stile pop, dialoghi scoppiettanti e citazioni cinematografiche (nella colonna sonora si echeggia Morricone), ma che riesce ad essere a suo modo originale per via dell'ambientazione londinese e della ricchezza con cui gli innumerevoli personaggi vengono caratterizzati. Inoltre, nonostante tutto (e non è una cosa scontata), fra sanguinose sparatorie e scommesse clandestine, i multipli fili della vicenda si lasciano seguire fino in fondo, consentendo allo spettatore di avere sempre ben chiara la situazione e di comprendere quali sono i legami fra i personaggi, grazie a una serie di MacGuffin che questi si contendono (il denaro, la droga, i due moschetti d'antiquariato). La successione di eventi tragicomici e senza un attimo di respiro (dalla sequenza della rapina fino al finale sospeso) segue proprie regole di coerenza e non una semplice casualità postmodernista (nulla a che spartire con i fratelli Coen, per fortuna!). Nel cast corale, oltre ai quattro protagonisti citati, spiccano P. H. Moriarty (il boss Harry "l'accetta"), Lenny McLean (il suo violento braccio destro Barry "il battista"), Vinnie Jones (Big Chris, l'esattore di Harry, che va sempre in giro con il figlioletto Little Chris), Stephen Marcus (l'intrallazzatore Nico il greco), Frank Harper (il capo dei rapinatori), Vas Blackwood (il capo degli spacciatori), Nicholas Rowe e Steven Mackintosh (due dei coltivatori di marijuana), Victor McGuire e Jake Abraham (i due ladruncoli assoldati da Barry). Sting interpreta il padre di Eddie, Vera Day il giudice della partita di carte sul ring (che si rifà a "The hard case", un precedente cortometraggio di Ritchie), Alan Ford è il narratore nella versione inglese. Il produttore Matthew Vaughn resterà al fianco di Ritchie anche nei successivi "Snatch" e "Travolti dal destino". La colonna sonora comprende anche musica da "Zorba il greco". Il titolo originale (quello italiano non ha alcun senso, sembra quasi che il film abbia come protagonisti due personaggi chiamati Lock e Stock!) si riferisce letteralmente alle parti di un'arma da fuoco ("Otturatore, impugnatura e due canne fumanti") ma è anche un modo di dire che significa "tutto quanto", analogo ai nostri "armi e bagagli" o "baracca e burattini".

6 aprile 2020

Stripes (Ivan Reitman, 1981)

Stripes - Un plotone di svitati (Stripes)
di Ivan Reitman – USA 1981
con Bill Murray, Harold Ramis
*1/2

Visto in divx.

Di fronte ai continui fallimenti, dopo aver perso il lavoro e la ragazza, il tassista John Winger (Bill Murray) decide di arruolarsi nell'esercito e convince l'amico Russell Ziskey (Harold Ramis) a fare lo stesso. L'addestramento sarà duro e difficile, per via della naturale irriverenza dell'indisciplinato John, dell'imbranataggine dei suoi commilitoni e dei continui contrasti con il rigido sergente istruttore Hulka (Warren Oates). Ma dopo molte disavventure, Winger e i compagni si dimostreranno degli eroi durante un'incursione fuori programma in Cecoslovacchia, a bordo di un innovativo "veicolo d'assalto urbano" (di fatto un camper corazzato!), per recuperare gli uomini del proprio plotone finiti per errore oltre la cortina di ferro a causa dell'insipienza del capitano Stillman (John Larroquette). Pensato inizialmente come film parodistico per la coppia di comici Cheech & Chong, che rifiutarono di interpretarlo senza un maggiore controllo creativo, il secondo film di Reitman con Bill Murray come protagonista dopo "Polpette" (di cui è quasi una versione adulta, con i soldati al posto dei bambini del campo estivo) è una spuntata satira dei film di ambientazione militare. Nonostante l'ampio spazio lasciato all'improvvisazione degli attori – fra i quali figurano John Candy, John Diehl, Conrad Dunn e Judge Reinhold – non si sfugge dai luoghi comuni e manca una precisa idea di fondo: è debole sia la satira antimilitarista (alla "MASH") che l'anarchia demenziale (alla "Animal House"). Ramis, anche co-sceneggiatore, era alla prima vera prova da attore cinematografico. P. J. Soles e Sean Young sono le due ragazze della polizia militare che amoreggiano con i nostri eroi. L'edizione "Director's cut" contiene una sequenza aggiuntiva in cui John e Russell, sotto LSD, si paracadutano fra un gruppo di guerriglieri in America Centrale. Il trio Reitman/Murray/Ramis, naturalmente, farà il botto tre anni più tardi con "Ghostbusters".

5 aprile 2020

Assassinio sull'Orient Express (K. Branagh, 2017)

Assassinio sull'Orient Express (Murder on the Orient Express)
di Kenneth Branagh – USA 2017
con Kenneth Branagh, Michelle Pfeiffer
**

Visto in TV.

Fra un caso (il delicato furto di una reliquia al Santo Sepolcro di Gerusalemme) e un altro (il film si chiude con l'aggancio a un'altra celebre avventura di Poirot, "Assassinio sul Nilo", di cui è in lavorazione una trasposizione cinematografica che conferma come siamo di fronte a una vera e propria serie), l'investigatore belga Hercule Poirot (Kenneth Branagh) sale a bordo dell'Orient Express, il treno di lusso che da Istanbul si inoltra fino al cuore dell'Europa. Con il convoglio momentaneamente bloccato nei Balcani dalla neve, il detective dovrà risolvere un intricato caso di omicidio. Il losco mercante d'arte Ratchett (Johnny Depp) viene infatti trovato morto nella sua cabina: e tutti i passeggeri del vagone, per un motivo o per l'altro, sembrano aver avuto un legame con lui e con il suo torbido passato (Ratchett infatti non era colui che dichiarava di essere)... Nuovo adattamento del romanzo di Agatha Christie, che nel 1974 godette già di una popolare versione cinematografica diretta da Sidney Lumet, di cui questa è a tutti gli effetti un remake. Il principale difetto è che la nuova versione non aggiunge in fondo nulla di nuovo, a parte dei visual teatrali e spettacolari e un tono più (melo)drammatico che da commedia. Chi già conoscesse la storia tramite il libro o il film precedente non avrà sorprese: è la stessa, pur con qualche sforbiciata nei dialoghi (che eliminano indizi e allusioni, come il riferimento alla giuria di dodici persone) e l'aggiunta di un paio di fugaci scene d'azione. La sequenza migliore è forse quella che mostra in flashback l'omicidio, girata in bianco e nero e con il solo accompagnamento musicale. A spiccare in negativo ci sono invece i fondali digitali un po' farlocchi (vedi il passaggio del treno a Istanbul o fra le montagne). Resta il piacere di vedere all'opera un ricco cast di celebrità (con nomi del calibro di Michelle Pfeiffer, Penélope Cruz, Willem Dafoe, Judi Dench, Derek Jacobi, Daisy Ridley, Olivia Colman), anche se non tutti apportano qualcosa di particolare al proprio personaggio, limitandosi a svolgere il compitino. Notevole invece lo spazio riservato al protagonista: Branagh dà vita a un Poirot megalomane ("Voi raccontate bugie e pensate che nessuno lo scoprirà, ma ci sono due persone che lo faranno, il vostro Dio... e Hercule Poirot"), ossessionato da equilibri e simmetrie, convinto che esistano "solo il giusto e lo sbagliato", senza vie di mezzo, che però dovrà mettere in discussione le proprie certezze di fronte a un caso diverso da tutti quelli che ha risolto in passato. Un Poirot tormentato e senza autoironia, che sovrasta e mette in ombra – nel bene e nel male – tutti gli altri personaggi, lontano dunque dalle caratteristiche del detective di un whodunit classico.

4 aprile 2020

La grande avventura del piccolo principe Valiant (I. Takahata, 1968)

La grande avventura del piccolo principe Valiant, aka
Il segreto della spada del sole (Taiyo no oji - Horusu no daiboken)
di Isao Takahata – Giappone 1968
animazione tradizionale
**1/2

Visto in divx.

Alla morte del padre, e armato della leggendaria "spada del sole", il giovane Hols parte verso il Nord per difendere gli abitanti di un villaggio dagli attacchi del demone Grunwald e dei suoi malvagi lupi argentati. Il nemico ordinerà alla propria sorella Hilda di infiltrarsi nel villaggio per carpire la fiducia di Hols e ucciderlo. Ma la ragazza, combattuta fra il bene e il male, finirà con l'aiutare il giovane eroe. Ambientato in un mondo scandinavo barbaro e fiabesco, popolato da mostri e animali parlanti, e realizzato (nel corso di tre anni!) quasi in totale autonomia creativa da un gruppo di giovani artisti dello studio d'animazione Toei (guidati dal direttore e supervisore dell'animazione Yasuo Otsuka), che dal canto suo ne consentì la lavorazione soltanto per andare incontro alle richieste dello staff in un periodo in cui lo studio era scosso da scioperi e rivendicazioni di vario genere (tanto che, una volta completato, ne boicottò la distribuzione nelle sale, dove rimase solo dieci giorni), questo film rappresenta uno spartiacque per l'industria dell'animazione giapponese. Innanzitutto si discosta notevolmente sia dagli altri lavori animati della Toei (e degli altri studi nipponici), che fino ad allora si rivolgevano a un pubblico esclusivamente infantile, sia dai coevi lungometraggi Disney, indicando la strada che farà la fortuna degli anime giapponesi negli anni a venire (storie più adulte e complesse, ricche di energia e di azione, con personaggi moralmente ambigui, temi politici e sociali, e violenza stilizzata). Inoltre segna l'inizio della lunga collaborazione fra Isao Takahata (all'esordio nella regia) e Hayao Miyazaki (qui animatore e disegnatore delle scene), che anni più tardi avrebbero dato vita allo Studio Ghibli. In effetti molti elementi sembrano anticipare i lavori successivi del duo, e in particolare di Miyazaki. Il protagonista, e l'incipit della pellicola, non possono non ricordare la serie televisiva "Conan il ragazzo del futuro". Gli scenari fantasy anticipano "Nausicaä della valle del vento", e non mancano suggestioni che torneranno in "Laputa", mentre il complesso personaggio femminile di Hilda (che da metà film in poi diventa di fatto la protagonista) sembra quasi l'archetipo dell'eroina miyazakiana che ritroveremo un po' ovunque: da Lana di "Conan" alla Clarissa de "Il castello di Cagliostro". Se Hols ha una caratterizzazione piuttosto semplice (come semplici e stilizzati sono i disegni, a volte poco più che bozzetti: attenzione, semplici ma non piatti o scialbi, anzi assai efficaci!), Hilda è sicuramente il personaggio più originale e memorabile di una pellicola che nel suo piccolo ha avuto un forte impatto sul mondo dell'animazione giapponese. Nonostante il nome del protagonista sia chiaramente Hols (o Horus, come il dio egizio, nella versione in lingua inglese), il titolo italiano – e solo il titolo! – lo identifica inspiegabilmente come "principe Valiant", attribuendogli il nome del personaggio del celebre fumetto di Hal Foster.

3 aprile 2020

The voices (Marjane Satrapi, 2014)

The voices (id.)
di Marjane Satrapi – USA/Germania 2014
con Ryan Reynolds, Anna Kendrick
**1/2

Visto in TV.

Lo schizofrenico Jerry (un ottimo Ryan Reynolds), quando non assume i farmaci che la sua psicoterapeuta (Jacki Weaver) gli prescrive, "sente le voci", che la sua mente malata gli fa percepire come provenienti dai suoi animali domestici, il cane Bosco e il gatto Mr. Whiskers. Questi rappresentano rispettivamente la sua coscienza buona (che lo invita a contenere i propri istinti) e quella cattiva (che lo incita a vivere secondo la "legge della giungla"). Invaghito della bella Fiona (Gemma Arterton), adetta alla contabilità presso la fabbrica di vasche da bagno dove lavora, la uccide senza volerlo: e con la testa della ragazza, anch'essa "parlante", rinchiusa nel suo frigo, finirà per trasformarsi suo malgrado in un serial killer... Il primo lavoro in lingua inglese della (ex?) fumettista Marjane Satrapi (già nota per "Persepolis") è una pellicola decisamente bizzarra, scritta dallo sceneggiatore televisivo Michael R. Perry (alla prima esperienza con il cinema), che parte come una rom-com leggera e dai toni surreali per poi trasformarsi in una black comedy, senza risparmiare momenti di puro horror e da cupo thriller psicologico. Complessivamente, però, la miscela funziona. E per due ragioni: la sceneggiatura, che non si prende mai troppo sul serio, mantenendosi in bilico fra il punto di vista allucinato e deformato del protagonista (la cui immaginazione "colora" il mondo che gli sta intorno) e i drammi familiari che stanno alla base dei suoi problemi mentali; e il buon cast, che comprende anche Anna Kendrick nei panni di Lisa, la collega di Fiona che, innamorata a sua volta di Jerry, riesce brevemente a far breccia nella sua personalità. Co-prodotto dalla Germania, pur essendo ambientato negli Stati Uniti (nella fittizia cittadina di Milton) il film è stato girato a Berlino, con attori tedeschi in ruoli di contorno.