30 aprile 2021

The New Mutants (Josh Boone, 2020)

The New Mutants (id.)
di Josh Boone – USA 2020
con Blu Hunt, Anya Taylor-Joy
**

Visto in TV (Now Tv).

Cinque mutanti adolescenti (siamo nell'universo filmico degli X-Men) si ritrovano rinchiusi in un misterioso edificio, a metà fra istituto psichiatrico e carcere minorile, dove vengono sottoposti a minuziosi esami e devono imparare ad usare e controllare i propri poteri sotto la guida della enigmatica dottoressa Reyes (Alice Braga). Ma si scoprono minacciati dalle materializzazioni dei loro traumi e delle paure più o meno inconsce. Spin-off della celebre serie della Marvel, tratto dal fumetto ideato da Chris Claremont a metà degli anni ottanta: la pellicola ha però avuto una gestazione lunga e travagliata, con numerose interferenze della produzione che ne ha cambiato di continuo il mood (e il fatto che la Fox sia stata acquistata dalla Disney a lavorazione in corso, riportando i diritti della franchise nell'alveo della Marvel ma senza inglobare la pellicola nel MCU, non ha certo aiutato). Pur avendomi regalato il piacere di vedere sullo schermo personaggi che ho assai amato nella loro versione fumettistica (e ai quali tutto sommato rende giustizia), non c'è dubbio che il film abbia i suoi problemi. La scelta di un approccio da teen horror ha sicuramente il suo perché, visto che la sceneggiatura (di Boone e Knate Lee) ha voluto affidarsi a sottotrame – come quella del Demone Orso – sviluppate nel periodo in cui il fumetto era disegnato in maniera astratta, nervosa e stilizzata da Bill Sienkiewicz; peccato che la tensione e i colpi di scena latitino. In effetti il mix fra horror soprannaturale e abilità supereroistiche funziona poco su entrambi i livelli. Gran parte della suspense è costituita dal mistero relativo al potere di Danielle Moonstar/Mirage (Blu Hunt), che però è ben noto a chi conosce il personaggio avendo letto i fumetti. Inoltre nessuno dei cinque protagonisti è mai veramente a rischio di rimetterci la pelle, il che elimina anche l'appeal da "totomorti". Sarebbe stato meglio introdurre un sesto personaggio fittizio, da far fuori subito, per illuderci del pericolo. Rimangono i temi della crescita e della scoperta di sé (i ragazzi si trovano in quel momento in cui devono imparare ad esplorare, controllare e convivere con i propri desideri e le proprie paure: d'altronde nel mondo Marvel i poteri mutanti sono sempre stati visti come una metafora della pubertà), con tanto di love story spuria (in chiave lesbica!). Anya Taylor-Joy è una convincente Illyana Rasputin/Magik, demoniaca e psicopatica (con un Lockheed di pezza!), Maisie Williams è la complessata ma risoluta licantropa Rahne Sinclair/Wolfsbane, Charlie Heaton è un Sam Guthrie/Cannonball un po' sacrificato, Henry Zaga è Roberto da Costa/Sunspot (con qualche polemica in USA per il suo colore della pelle "troppo chiaro" rispetto ai comics: da notare che il personaggio era già apparso in "X-Men: Giorni di un futuro passato" interpretato da un altro attore). Nessuna menzione del fatto che Illyana è la sorella di Colosso; d'altronde, a parte un breve riferimento agli X-Men (e alla Essex Corporation), non ci sono legami diretti con gli altri film della franchise, benché le frasi della dottoressa Reyes facciano inizialmente pensare che lavori per Charles Xavier. Pensata come primo capitolo di una trilogia, la pellicola ha avuto pure la sfortuna di uscire in pieno periodo Covid: inoltre l'accoglienza della critica non è stata favorevole, e dunque difficilmente vedremo il sequel (che avrebbe dovuto introdurre anche Karma e Warlock).

29 aprile 2021

An elephant sitting still (Hu Bo, 2018)

An Elephant Sitting Still (Da xiang xi di er zuo)
di Hu Bo – Cina 2018
con Peng Yuchang, Zhang Yu
***

Visto in TV (RaiPlay), in originale con sottotitoli.

Nell'arco di una sola giornata, quattro personaggi che abitano in un quartiere popolare della città di Shijiazhuang vivono il loro dramma esistenziale mentre le rispettive storie si intrecciano. Il giovane Wei Bu (Peng Yuchang), per difendere un amico accusato di furto dal bullo della scuola, fa cadere senza volerlo quest'ultimo giù dalle scale. La sua compagna di classe Huang Ling (Wang Yuwen) viene accusata di avere una relazione con il vicepreside. L'anziano Wang Jin (Liu Congxi) rifiuta di essere rinchiuso dai parenti in un ospizio con la scusa di dover badare al proprio cagnolino, ma l'animale viene ucciso da un cane randagio. Il gangster Yu Cheng (Zhang Yu), fratello maggiore del bullo di cui sopra, è testimone del suicidio del proprio miglior amico dopo che questi ha scoperto che la moglie lo tradiva proprio con Yu. Tutti e quattro manifesteranno a più riprese il desiderio di abbandonare la città e di fuggire lontano, magari a Manzhouli, nella Mongolia Interna, il cui zoo ospita un elefante che "resta seduto tutto il giorno"... Primo e unico lungometraggio (dopo tre corti) diretto dallo scrittore Hu Bo, che si è suicidato a soli 29 anni subito dopo averne terminato le riprese e il montaggio: e il tema del suicidio (visto come fuga dalla disperazione) adombra tutte le vicende dei vari personaggi, che si arrabattano fra disillusione e pessimismo in un ambiente disagiato, fra l'ostilità dei parenti e la mancanza di vie di scampo. "Il mondo è una terra desolata", dice a un certo punto un amico di Wei Bu. Tutti, sia giovani che vecchi, sono privi di speranza e di futuro, attorniati da tragedie che capitano loro quasi per caso o per incidente, ma i cui sensi di colpa li spingeranno a una fuga impossibile da portare fino in fondo (nessuno arriverà a Manzhouli: né con il treno, che viene soppresso, né con l'autobus, che si fermerà in uno spiazzo in mezzo al nulla, da dove peraltro si udrà il barrito dell'elefante durante la notte). D'altronde, come spiega Wang Jin a Wei Bu, è inutile fuggire perché anche altrove "non c'è nessuna differenza": tanto vale provare a sopravvivere dove ci si trova. Dall'andamento lento ma avvolgente, con i suoi tempi (dura quasi quattro ore), una fotografia plumbea e spesso in controluce, una macchina da presa che segue sempre da vicino gli attori e con lunghi piani sequenza, il film coinvolge e fa partecipare insieme ai personaggi a un frammento della loro esistenza, con grande realismo ma anche un ampio respiro che rende quasi universali le loro storie corali e interconnesse.

28 aprile 2021

Six shooter (Martin McDonagh, 2004)

Six shooter (id.)
di Martin McDonagh – Irlanda/GB 2004
con Brendan Gleeson, Rúaidhrí Conroy
**1/2

Visto su YouTube, in originale.

Mentre torna a casa in treno, subito dopo la morte della moglie in ospedale, un uomo (Brendan Gleeson) si ritrova a viaggiare insieme a uno strano giovane scapestrato e psicotico (Rúaidhrí Conroy) che lo sovrasta con discorsi bizzarri e irriverenti, senza apparente rispetto per la morte e il dolore suo e degli altri occupanti della carrozza, una coppia (Dan Wilmot e Aisling O'Sullivan) che ha appena perso il figlio. Questo breve corto, pluripremiato dalla critica (ha vinto anche l'Oscar come miglior cortometraggio dal vivo), segna il debutto come regista cinematografico di Martin McDonagh, già sceneggiatore e autore di teatro (nonché fratello minore di un altro regista, John Michael McDonagh), che poi dirigerà "In Bruges" e "Tre manifesti a Ebbing, Missouri". Il tema – condito da alcuni tocchi di humour nero e con qualche colpo di scena nel finale – è quello dell'insensatezza della morte improvvisa di una persona cara, che ciascuno affronta a proprio modo: chi chiudendosi nel proprio dolore (il protagonista), chi esternandolo (la coppia di passeggeri), chi prendendosi beffe del mondo intero (il ragazzo, che racconta barzellette e non ha peli sulla lingua). La pellicola segna anche l'esordio come attore di Domhnall Gleeson, figlio di Brendan, nella piccola parte del venditore di bevande e snack a bordo del treno.

27 aprile 2021

Le italiane e l'amore (aavv, 1961)

Le italiane e l'amore
di Nelo Risi, Lorenza Mazzetti, Piero Nelli, Francesco Maselli, Giulio Questi, Gianfranco Mingozzi, Marco Ferreri, Florestano Vancini, Carlo Musso, Giulio Macchi, Gian Vittorio Baldi – Italia 1961
*1/2

Visto su YouTube.

Film a episodi pensato da Cesare Zavattini, che ha scelto i soggetti ispirandosi ai casi reali narrati nelle lettere ai giornali e ai settimanali raccolte da Gabriella Parca nel libro "Le italiane si confessano". Il tema è quello della condizione femminile (e del rapporto delle donne con il sesso, il matrimonio, la maternità e la società in generale) nell'Italia del dopoguerra, un paese – nonostante il boom economico – ancora retrogrado e maschilista. Come recita una voce fuori campo, si tratta di una "protesta appassionata contro antichi e umilianti pregiudizi che persino le leggi qualche volta consacrano". La pellicola segna l'esordio alla regia per Giulio Questi e Nelo Risi (nonché l'unica esperienza di questo tipo per Carlo Musso). La sola donna del gruppo è Lorenza Mazzetti. Un dodicesimo episodio ("Il prezzo dell'amore" di Piero Nelli, che già ne aveva un altro) è stato tagliato al montaggio. Nel complesso è una raccolta di storie esili e quotidiane, un po' semplicistica ma comunque interessante dal punto di vista storico-sociale. Musiche di Gianni Ferrio.

"Ragazze madri" di Nelo Risi, con Lucia Gabrioli e Gaddo Treves
Una ragazza, abbandonata dal fidanzato dopo che si è scoperta incinta, si confida con uno psicologo e poi fantastica sul possibile bambino che nascerà e che dovrà crescere da sola.

"I bambini" di Lorenza Mazzetti, con Anna Brignole
Dopo aver spiato una coppia amoreggiare sull'erba, un gruppo di bambini e bambine giocano a baciarsi e discutono su come nascono i bambini. E vengono puniti perché dicono che escono dalla pancia delle mamme, anziché essere portati dalla cicogna.

"Lo sfregio" di Piero Nelli, con Maria Di Giuseppe, Michele Stasino
Due fidanzati litigano in strada, in mezzo alla folla curiosa: lei vuole lasciarlo e lui la sfregia in faccia con un coltello. Ma poiché "l'ha fatto per amore", la colpa va a lei.

"Le adolescenti" di Francesco Maselli, con Efi Kamper, Consalvo Dell'Arti.
Studentessa quattordicenne finisce nei gusti quando i genitori leggono il diario nel quale confessa i sentimenti per un compagno di classe. Mentre il padre le fa la ramanzina, lei però è persa nelle sue fantasticherie e pensa solo al ragazzo.

"Viaggio di nozze" (o "La prima notte") di Giulio Questi, con Antonietta Caiazzo, Mario Colli
Due freschi sposi in viaggio di nozze, sulla nave che va da Napoli a Palermo, litigano quando lei gli confessa di aver vissuto un'altra storia d'amore prima di conoscerlo. Lui non glielo perdonerà.

"Le tarantate" (o "Il morso della tarantola") di Gianfranco Mingozzi
In un paese pugliese, una donna lasciata dal marito è in preda al "morso della tarantola" e scatena la propria crisi ossessiva in una danza liberatoria. Semi-documentaristico (con la consulenza di Ernesto De Martino), è forse l'episodio migliore del lotto.

"Gli adulteri" di Marco Ferreri, con Renza Volpi, Silvio Lillo, Rosalba Neri
Un marito tradisce la moglie con la propria segretaria, ma ignora che la consorte, casalinga stressata e sempre a casa ad accudire i bambini, ha a sua volta un amante, e soprattutto che è al corrente dei suoi tradimenti ma fa finta di nulla: si tira avanti solo per ipocrisia.

"La separazione legale" di Florestano Vancini, con Graziella Galvani, Giuseppe Fina
Una coppia va dal giudice per separarsi (all'epoca il divorzio in Italia ancora non esisteva), nonostante l'amico avvocato cerchi di dissuaderli, e ha l'occasione per un ultimo confronto, doloroso ma tutto sommato sereno.

"Un matrimonio" di Carlo Musso, con José Greci, Roberto Miali
Sospettosa per le sempre minori attenzioni che marito le rivolge, una moglie lo segue di nascosto e scopre che ha un "amico", con il quale si apparta su una panchina al parco. Alla sceneggiatura ha contribuito Alberto Bevilacqua.

"Il successo" di Giulio Macchi, con Tania Raggi, Laura Forest, Elisabetta Velinski
Alcune giovani cantanti, reginette del ballo e aspiranti attrici vengono intervistate e parlano della difficoltà di giungere al successo. Ne esce un mondo di raccomandazioni, di frustrazioni, di inganni, di illusioni e di gelosie (compresa l'invidia degli uomini nei loro confronti).

"La prova d'amore" di Gian Vittorio Baldi, con Mariella Zanetti, Michele Francis
Dopo un ballo sul Po (siamo nel mantovano), una ragazza cede alle richieste del suo fidanzato meridionale di fare l'amore con lui: ma questi, dopo il fatto, la lascia perché "Se mi volevi bene dovevi rifiutarti, al mio paese una ragazza seria dice di no".

26 aprile 2021

Funky forest (Katsuhito Ishii et al, 2005)

Funky Forest: The First Contact (Naisu no mori)
di Katsuhito Ishii, Hajime Ishimine, Shunichiro Miki – Giappone 2005
con Tadanobu Asano, Susumu Terajima
**

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Di film giapponesi comico-surreali ne ho visti parecchi (a partire dal folle "Symbol" di Hitoshi Matsumoto), ma questo probabilmente li batte tutti. E dico "surreale" nel vero senso del termine: indecifrabile e nonsense, non si può giudicare come se fosse una pellicola normale; è più uno psichedelico flusso di coscienza, o meglio un sogno dove le cose non hanno un significato esplicito (o lo hanno soltanto a metà). Innanzitutto manca una vera trama: il film è composto da tanti piccoli sketch o episodi (spesso segmenti di pochi minuti, ma radunati in "serie" come se fossero puntatine di programmi tv, con tanto di loghi in sovrimpressione: non a caso uno dei possibili termini di paragone sono quelle pellicole demenziali americane degli anni Settanta e Ottanta come "Ridere per ridere" di John Landis, che simulavano una programmazione televisiva con tanto di zapping casuale; o forse sarebbe più corretto paragonarlo a "E ora qualcosa di completamente diverso" dei Monty Python), a volte con situazioni e personaggi ricorrenti, interpretati da un nutrito gruppo di attori. Fra questi spiccano Tadanobu Asano ("Guitar brother", capellone che strimpella la chitarra acustica: impagabile quando intona il tema originale di "Capitan Harlock"), Susumu Terajima (suo fratello, ma anche insolito insegnante), Ryo Kase (DJ amatoriale, innamorato della bella Notti (Erika Nishikado) e protagonista di un lungo sogno fatto di strane danze sulla spiaggia notturna), Rinko Kikuchi, Mariko Takahashi... oltre a vari camei, come quello di Hideaki Anno (il regista di "Evangelion", qui uno degli studenti in classe). E assistiamo ai deliranti racconti non sequitur delle ospiti di una stazione termale, ad anarchiche lezioni in una classe scolastica, a creature deformi "coltivate" e poi usate come strumenti musicali, a stravaganti "riti" praticati a scopi non precisati (ma c'entrano gli alieni), a inquietanti sport a base di body horror, a film d'animazione diretti da un cane, a una sessione di registrazione onirica in mezzo alla foresta, il tutto intervallato dalle disastrose esibizioni di una coppia di comici manzai. Se più si va avanti nella visione più le vicende diventano random e incoerenti (il "lato B" del film è ancora più estremo del "lato A"), la cosa strana è che pian piano l'assurdità sembra quasi acquistare un senso, proprio come accade nei sogni. Poi ci si ferma a riflettere e il senso svanisce, non si riesce più ad afferrarlo, ma qualcosa rimane comunque dentro, anche perché è impossibile non apprezzare la totale assenza di pretenziosità (il film non pretende di essere capito, dopo tutto). Dei tre registi-sceneggiatori, il primo responsabile nonché il più noto è Katsuhito Ishii, già autore dell'eccentrico (e bellissimo) "The taste of tea".

25 aprile 2021

Cosmic sin (Edward Drake, 2021)

Cosmic sin (id.)
di Edward Drake – USA 2021
con Frank Grillo, Bruce Willis
*

Visto in TV (Prime Video).

Nell'anno 2524, gli esseri umani entrano in contatto per la prima volta con una razza di alieni, che purtroppo sono ostili. Per fortuna un gruppo di soldati, guidati dal vecchio generale James Ford (Bruce Willis), li stermineranno. Un filmaccio di fantascienza militarista senza uno straccio di idea, condito da una regia dilettantesca, una recitazione da tv movie (con l'unico nome noto, Willis appunto, che sembra un pesce fuor d'acqua ed è visibilmente disinteressato a ciò che accade attorno a lui), una fotografia luminosissima e fastidiosa, e una generale povertà produttiva (l'epica guerra fra due razze aliene si riduce a un pugno di persone che si prendono a pistolettate in un bosco). Tutti difetti che avrebbero potuto essere compensati da qualche pregio... ma non lo sono. Da evitare, anche perché completamente privo di ironia, e dunque nemmeno divertente.

24 aprile 2021

La prima missione (Sammo Hung, 1985)

La prima missione (Long de xin, aka Heart of dragon)
di Sammo Hung – Hong Kong 1985
con Jackie Chan, Sammo Hung
**1/2

Visto in TV (Now Tv).

Il poliziotto Thomas (Jackie Chan) ha un fardello costante sulle spalle: il fratello Dodo (Sammo Hung), ritardato mentale ed eterno bambinone che gli procura continue preoccupazioni e grattacapi, impedendogli di portare avanti i suoi progetti di vita (nel lavoro e con la fidanzata). Di tutti i film girati da Jackie con l'amico Sammo, questo è sicuramente il più insolito e particolare: certo, non mancano le scene d'azione e i combattimenti (anche se in numero limitato: da ricordare il breve inseguimento fra le moto della polizia e l'auto guidata da Thomas e lo scontro finale fra poliziotti e gangster nel cantiere edile; ma l'unico che è brevemente in grado di battersi alla pari con Jackie nell'uno contro uno è Dick Wei), ma il cuore della vicenda è da un'altra parte, ovvero nel rapporto fra i due fratelli e nella condizione comico-patetica di Dodo, un vero e proprio bambino nel corpo di adulto, che viene sbeffeggiato e maltrattato da tutti coloro che gli stanno intorno, con l'eccezione dei quattro bambini con cui bazzica e gioca per le strade della città. L'interpretazione di Hung è incredibilmente convincente e a tratti toccante, e nonostante le molte ingenuità nella sceneggiatura si può apprezzare il tentativo di uscire dai soliti cliché del cinema di azione/kung fu per proporre dinamiche e personaggi diversi dal solito. Girato in contemporanea con "Police story", sembra quasi anticipare l'americano "Rain man". Soltanto nella seconda metà del film viene introdotta una sottotrama poliziesca (legata a una valigetta piena di gioielli rubati, che per puro caso finisce nelle mani di Dodo). E naturalmente, com'è tipico del cinema popolare hongkonghese, i generi si mischiano e si compenetrano, passando dal melodramma al comico-demenziale (vedi la scena in cui Dodo deve fingersi il padre di uno dei suoi amici bambini per incontrare il direttore della scuola). Emily Chu è la fidanzata di Thomas, Lam Ching-ying l'istruttore di polizia, Wu Ma il proprietario del ristorante che si prende gioco di Dodo. Fra gli amici di Thomas si riconoscono Mang Hoi, Chin Kar-lok, Yuen Wah e Corey Yuen, mentre fra i "cattivi" ci sono James Tien (il boss), Blackie Ko e Chung Fat (Moose). Yuen Biao ha collaborato come stuntman in alcune scene.

23 aprile 2021

Protector (James Glickenhaus, 1985)

Protector (The Protector)
di James Glickenhaus – USA/Hong Kong 1985
con Jackie Chan, Danny Aiello
*1/2

Rivisto in divx.

Due poliziotti di New York (Chan e Aiello) si recano a Hong Kong sulle tracce di una ragazza rapita da un trafficante di droga (Roy Chiao). La rintracceranno anche grazie all'aiuto di alcuni amici locali (Peter Yang, Moon Lee, Kim Bass). Secondo tentativo di Jackie Chan di sfondare nel cinema americano, dopo "Chi tocca il giallo muore" del 1980 (se non contiamo i due episodi de "La corsa più pazza d'America", dov'era solo un comprimario): per certi versi siamo di fronte a un prototipo di "Rush Hour", con Danny Aiello nel ruolo della spalla comica. Purtroppo si tratta di un film noioso e convenzionale, un poliziesco senza ritmo e adrenalina, il cui regista e sceneggiatore è visibilmente incapace di sfruttare l'energia e l'estro del protagonista che si ritrova fra le mani (che pure era al culmine della sua forma e nel miglior periodo della sua carriera). Di fatto non ci sono scene degne di nota (Jackie si limita giusto a qualche salto e acrobazia) e i combattimenti sono mostrati al ralenti e mal serviti dal montaggio, mentre l'ambientazione si appoggia a un immaginario scontato, turistico ed esotico della città di Hong Kong come vista da un occidentale. Pare che sul set Jackie si fosse reso conto ben presto del disastro che si stava preannunciando e si sia offerto di dirigere personalmente le scene d'azione, ma Glickenhaus rifiutò. Il risultato è una pellicola senza nerbo, con una sceneggiatura dozzinale, priva di ironia, di sorprese o di personaggi interessanti e con scene slegate le une dalle altre (completamente avulsa dal resto, per esempio, è la lunga parte iniziale ambientata a New York). Jackie rimontò comunque il film per la distribuzione a Hong Kong: la sua versione, rispetto a quella USA, contiene delle sequenze aggiuntive (con Sally Yeh e Hoi Sang Lee) mentre ne elimina altre (tutte le "lungaggini" ma anche le numerose scene con le ragazze nude). E poi, quasi in risposta a questa pellicola, metterà in cantiere il suo "Police story".

21 aprile 2021

Ombre (John Cassavetes, 1959)

Ombre (Shadows)
di John Cassavetes – USA 1959
con Lelia Goldoni, Ben Carruthers, Hugh Hurd
***

Visto in TV (Prime Video).

Tre fratelli, neri ma con diverse tonalità di colore della pelle, abitano insieme a Manhattan: Hugh, il maggiore, fa il cantante nei locali notturni della città e di tutto il paese, e per questo motivo è spesso assente per lavoro; il tormentato Ben, musicista jazz e trombettista, trascorre il suo tempo bighellonando con gli amici a caccia di ragazze; e Lelia, solo ventenne, è aspirante pittrice e scrittrice. Quando incontra il giovane bianco Tony, Lelia se ne invaghisce e fa l'amore con lui per la prima volta: ma il ragazzo, scoprendo la sua origine etnica, ha un momento di riluttanza, e tanto basta a Hugh per cacciarlo via. L'opera prima di Cassavetes, pellicola indipendente finanziata grazie a un appello in radio e con attori reclutati in parte attraverso un annuncio sul giornale (tranne i protagonisti, studenti del corso di recitazione tenuto dallo stesso regista), rappresentò un autentico shock nel mondo del cinema americano dell'epoca, così dominato dagli studios di Hollywood. Qui siamo in tutt'altro ambiente, quello della costa est, e con un metodo di lavoro del tutto nuovo, basato sull'improvvisazione (la didascalia finale recita infatti: "The film you have just seen was an improvisation"), il che lo accumuna alla musica jazz che per molti versi è il filo conduttore della pellicola dal punto di vista formale (la macchina da presa libera, il montaggio rapido e aggressivo, gli "attacchi" dei vari personaggi, i dialoghi realistici). Anche la scelta del tema da trattare, il vissuto quotidiano di personaggi "normali", è quanto mai lontano dall'artificialità e della spettacolarizzazione melodrammatica del cinema di Hollywood, avvicinandosi semmai alla Nouvelle Vague francese (che stava per esplodere in contemporanea) e fornendo – per dirla alla Mereghetti – un "primo assaggio di quella nevrosi newyorkese che tanta parte avrà nel cinema americano anni settanta" (da Woody Allen a Martin Scorsese). E se una relazione interrazziale era ancora tabù nel cinema e nella società americana degli anni cinquanta, a Cassavetes più che del razzismo in sé interessa raccontare del "disorientamento esistenziale" che colpisce un po' tutti, bianchi e neri, giovani e vecchi. Da notare che nella realtà né Lelia Goldoni (di origine italiana) né Carruthers erano afro-americani. Una prima versione del film, girata nel 1957 e proiettata in pubblico nel 1958 con scarso successo, è stata considerata per lungo tempo perduta, prima di essere ritrovata nel 2004. La versione comunemente diffusa è invece la seconda, girata nel 1959 e preferita dallo stesso regista (che riteneva la prima "troppo fredda e intellettuale"). La colonna sonora è in parte opera del jazzista Charles Mingus, con improvvisazioni del sassofonista Shafi Hadi. Tony, il fidanzato bianco di Lelia, è interpretato da Anthony Ray, figlio del regista Nicholas. Apprezzato anche all'estero (vinse un premio della critica alla mostra di Venezia), il film fu responsabile in gran parte della nascita del movimento del cinema d'avanguardia negli Stati Uniti.

20 aprile 2021

Spirits of the air, gremlins of the clouds (A. Proyas, 1989)

Spirits of the air, gremlins of the clouds
di Alex Proyas – Australia 1989
con Michael Lake, Rhys Davis, Norman Boyd
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Il misterioso Smith (Norman Boyd), in fuga da qualcuno, attraversa il deserto fino a giungere alla fattoria sperduta dove vivono i fratelli Felix (Michael Lake) e Betty (Rhys Davis). Mentre la donna teme l'arrivo dello straniero che ritiene essere un demone e progetta di mandarlo via, l'uomo, inventore paralitico e ossessionato dal volo, chiede l'aiuto di Smith per costruire una "macchina volante", necessaria per superare l'alta muraglia di montagne invalicabili che circondano il deserto verso nord. L'opera prima (dopo alcuni cortometraggi) di Alex Proyas, per lungo tempo quasi irreperibile (ma è stata restaurata e riproposta in home video nel 2018), è una bizzarra pellicola con soli tre personaggi, visionaria e ricca di suggestioni, a partire dalla fotografia colorata e ipersatura di David Knaus che sembra anticipare certi lavori di Darius Khondji (come i primi film di Jeunet). Lo scenario è quasi un incrocio fra il mondo post-apocalittico di "Mad Max" (sempre di deserto australiano si tratta, in fondo), un western e un manga (vedi anche il trucco e gli abiti eccentrici ma di stampo "nipponico" della sciroccata Betty), con notevoli sottotesti onirici e religiosi (la fattoria dei due fratelli è letteralmente tappezzata di croci), dominato dal tema del volo. Interessante anche la colonna sonora di Peter Miller. Nel complesso è un film originale e fumettoso, interessante anche se dall'andamento lento e statico, che Proyas ha scritto, diretto e prodotto con un budget limitato prima di fare il gran salto a Hollywood dove realizzerà "Il corvo" e "Dark city".

19 aprile 2021

Frank (Lenny Abrahamson, 2014)

Frank (id.)
di Lenny Abrahamson – Irlanda/GB 2014
con Domhnall Gleeson, Maggie Gyllenhaal
***

Visto in TV (Prime Video).

Jon (Domhnall Gleeson), giovane musicista e aspirante songwriter, viene assunto per caso come tastierista dai Soronprfbs, scalcinata e stravagante band sperimentale, il cui misterioso e carismatico leader Frank indossa sempre un capoccione gigante di cartapesta che ne nasconde le reali fattezze. Dopo un anno trascorso in un cottage nei boschi irlandesi a scrivere canzoni e a registrare un album, Jon convince Frank e i riottosi membri del gruppo – fra cui l'ostile e aggressiva Clara (Maggie Gyllenhaal), che suona sintetizzatore e theremin – a recarsi in America per partecipare al festival di musica indie South by Southwest: qui, però, i problemi di salute mentale di Frank prenderanno una brutta piega... Ispirato alla storia vera di Chris Sievey (cui il film è dedicato) e del suo alter ego Frank Sidebottom, una pellicola bizzarra e con una qualità surreale che, almeno nella prima parte, la fa accomunare a certi film giapponesi. L'eccentricità di Frank (e un po' di tutta la banda) si scontra con la quotidianità e il realismo dell'ambientazione (che a tratti ricorda i film musicali di John Carney, irlandese come Abrahamson): e se il protagonista (nonché punto di vista dello spettatore) è Jon, la vera figura centrale della storia è senza dubbio Frank, sotto la cui maschera recita (e canta) l'ottimo Michael Fassbender: creativo, geniale, capace di trovare ispirazione in ogni cosa, eppure insicuro e sociopatico, con trascorsi in un ospedale psichiatrico, Frank diventa una figura di riferimento per Jon, che si convince che per diventare un artista di successo bisogna aver avuto un passato di difficoltà e sofferenza (lui invece è vissuto nella noia e nella serenità di una famiglia borghese e di una cittadina tranquilla): scoprirà che non necessariamente è così. A latere, il film affronta anche il tema del conflitto fra la musica più sincera ma ostica al pubblico che Frank suona e quella più commerciale e accessibile che Jon vorrebbe produrre, desiderando (come tutti) "essere amato". Nel cast anche Scoot McNairy (il manager Don, a sua volta problematico), Carla Azar (la batterista) e François Civil (il chitarrista).

18 aprile 2021

Casa Shakespeare (Kenneth Branagh, 2018)

Casa Shakespeare (All is true)
di Kenneth Branagh – GB 2018
con Kenneth Branagh, Judi Dench
**

Visto in TV (Netflix).

Dopo aver diretto e recitato in moltissime pellicole tratte dalle commedie e dalle tragedie di Shakespeare, Kenneth Branagh interpreta direttamente il grande Bardo in questo biopic incentrato sugli ultimi anni della sua vita, da quando (nel 1613) lasciò definitivamente Londra, le scene teatrali e l'attività di scrittore per fare ritorno al proprio villaggio natale, Stratford-upon-Avon, dove morì tre anni più tardi. La scelta di tornare a casa, dove lo aspettavano la moglie Anne (Judi Dench) e le figlie Susanna (Lydia Wilson) e Judith (Kathryn Wilder), fu dovuta anche all'amarezza per il grande incendio che distrusse il Globe Theatre durante una rappresentazione del suo Enrico VIII (con il titolo alternativo "All is true", da cui il titolo originale di questo film). La pellicola, dall'andamento compassato e austero, non si incentra dunque sull'attività o la produzione letteraria di Shakespeare ma sul suo vissuto famigliare, sul difficile rapporto con la moglie e i parenti, e in particolare sul legame con il figlio Hamnet, morto undicenne di peste e che William sperava potesse seguire le sue orme, ritenendolo estremamente dotato come poeta. Nonostante piccoli colpi di scena e alcune sorprese nel finale, ne esce un personaggio – a dire il vero – poco interessante ("La vostra vita è stata piccola", gli dice il conte di Southampton (Ian McKellen), che invece ammira le sue opere, nella scena forse più significativa del film, quella in cui si suggerisce un amore omosessuale fra i due: in effetti lo scrittore dedicò al lord numerosi sonetti), che si dedica al giardinaggio, si tiene lontano dalle beghe locali e assiste quasi da spettatore ai piccoli problemi delle figlie (la maggiore è sposata con un medico puritano, la minore resiste al corteggiamento di un commerciante di liquori). Nemmeno tanto tra le righe, comunque, si analizza la società del tempo con tutti i suoi difetti (le pressioni religiose, il limitato ruolo della donna). Particolarmente curato l'aspetto visivo del film, con una fotografia iperrealistica. L'uscita in sala è stata annunciata e rinviata più volte: alla fine è arrivato il Covid e la pellicola è finita direttamente in TV.

17 aprile 2021

L'uomo ombra torna a casa (R. Thorpe, 1945)

L'uomo ombra torna a casa (The thin man goes home)
di Richard Thorpe – USA 1945
con William Powell, Myrna Loy
**

Visto in divx.

In visita ai genitori di lui, nella cittadina rurale di Sycamore Springs (nel New England) dove è nato e cresciuto, Nick e Nora Charles (senza il figlio, rimasto "all'asilo", ma con il cagnolino Asta) rimangono coinvolti nell'ennesimo delitto che l'uomo, aiutato a suo modo dalla moglie, dovrà risolvere. Questa volta a essere ucciso sulla soglia della loro casa è un giovane pittore, le cui tele sembrano essere ambite un po' da tutti nel villaggio. Il quinto film della serie dell'uomo ombra, il primo non diretto da W.S. Van Dyke (morto due anni prima), è sempre gradevole ma rappresenta un passo indietro rispetto ai precedenti. La trama gialla, in particolare, è poco interessante, così come i personaggi di contorno (e la risoluzione è sempre la solita: tutti i sospettati riuniti in un'unica stanza, con il colpevole che si rivela essere quello meno atteso). La sceneggiatura (a questo giro è di Robert Riskin e Dwight Taylor, su un soggetto di Riskin e Harry Kurnitz: Dashiell Hammett non è più coinvolto) si incentra soprattutto sulle dinamiche famigliari fra Nick e Nora, e fra il detective e il padre Bertram (Harry Davenport), medico che disapprova il lavoro del figlio. Dopo aver conosciuto la famiglia di Nora (nel secondo film), ora dunque è il turno di quella di Nick, anche se il suo background si rivela ben diverso da quanto suggerito nel romanzo originale (dove era il figlio di un immigrato greco). Un po' spuntate le gag, e assai ridotto (per non dire assente) il consumo di alcol: evidentemente i tempi erano cambiati rispetto agli anni Trenta. Nel cast anche Lucile Watson (la madre di Nick), Gloria DeHaven, Anne Revere, Helen Vinson, Leon Ames, Lloyd Corrigan ed Edward Brophy (in un ruolo diverso rispetto al film originale). Da notare che per la prima volta il titolo della pellicola suggerisce esplicitamente che "l'uomo ombra" sia Nick Charles (ricordiamo che si trattava invece dello scienziato sulla cui scomparsa Nick indagava nel primo film). I personaggi torneranno sullo schermo ancora nel 1947 ("Il canto dell'uomo ombra").

15 aprile 2021

Evita (Alan Parker, 1996)

Evita (id.)
di Alan Parker – USA 1996
con Madonna, Antonio Banderas, Jonathan Pryce
***1/2

Rivisto in DVD.

Questo adattamento cinematografico dell'omonimo musical di Tim Rice (testi) e Andrew Lloyd Webber (musiche), incentrato sulla vita della leggendaria "first lady" argentina Evita Perón, colpisce innanzitutto per gli interpreti. Nelle tre parti principali (le uniche di rilievo, peraltro) troviamo la cantante pop Madonna, non nuova a prove cinematografiche (non sempre ben accolte dalla critica: per questo ruolo, invece, vinse a sorpresa il Golden Globe come attrice), e due attori che danno ottima prova di sé anche come cantanti, l'accalorato spagnolo Antonio Banderas (in un ruolo "multiplo": il musical originale lo accredita come Che Guevara, ma nel film è semplicemente un testimone ubiquo delle vicende della protagonista, alle quale assiste e che commenta – spesso con toni caustici, distaccati o critici – lungo tutto l'arco della sua vita, nei panni di volta in volta di barista, giornalista, contadino, contestatore, ecc.) e il flemmatico britannico Jonathan Pryce (nei panni di Juan Domingo Perón). Ma non è da sottovalutare l'approccio scelto dal regista Alan Parker (non nuovo ai film musicali, avendo già diretto "Saranno famosi" e "Pink Floyd – The Wall", e che ha preso il posto di Oliver Stone, inizialmente legato al progetto), che rinuncia del tutto alla via del "teatro filmato" (tipica di molte pellicole di questo tipo, basti pensare al "Jesus Christ Superstar" tratto da un altro lavoro di Lloyd Webber) in favore di quella cinematografica. "Evita" sembra un film che si svolge nelle strade e nei luoghi reali, non su un palcoscenico. E le immagini accompagnano in modo appropriato ogni cambio di mood della colonna sonora, valorizzando la musica (e venendone valorizzate a loro volta), grazie anche all'ottima ricostruzione storica, alle scene di massa, e all'eccellente fotografia (di Darius Khondji) dai colori caldi e luminosi. Come a sottolineare la natura cinematografica dell'opera, si comincia proprio nella sala di un cinema, nell'Argentina del 1952, quando la proiezione viene interrotta per dare la notizia della morte (a soli 33 anni: come Gesù!) di Evita. E dopo le immagini dell'immenso e sontuoso funerale di stato, con un flashback torniamo indietro a raccontare l'infanzia della nostra protagonista, seguita dalla sua lenta scalata verso il successo e la gloria. L'obiettivo è quello di analizzare come nasce un'icona sociale, senza tralasciare – anche se restano in secondo piano – le questioni politiche (si mostrano le proteste di piazza, la repressione, il fascismo peronista, il torbido passato della stessa ragazza).

Per molti versi Evita è una figura simile al Gesù di "Jesus Christ Superstar", con tanto di connotati religiosi (il suo popolo la venera come una santa), l'ascesa e il calvario, nonché la presenza di un personaggio (lì Giuda, qui il Che) che la osserva dall'esterno e si interroga – o fa interrogare noi spettatori – sulla sua vera natura nel grande schema delle cose, la sua personalità, i suoi desideri, le sue ambizioni. Certo, in assenza di questioni teologiche-metafisiche, la lettura qui è più semplice: la classica ragazza povera che sogna il riscatto e il successo ("La più grande arrampicatrice sociale dopo Cenerentola"), utilizzando ogni mezzo a propria disposizione e, in particolare, il fascino che esercita sugli uomini. Nella prima fase del film, dunque, assistiamo alla sua scalata sfruttando chi credeva di sfruttare lei (dal cantante Magaldi a un fotografo di moda, dal proprietario di una radio a un ufficiale dell'esercito: tutti uomini che vengono sedotti e abbandonati uno dopo l'altro), fino a raggiungere l'obiettivo finale: il colonnello Perón, che proprio grazie a lei diventerà presidente-dittatore dell'Argentina (grazie a una campagna dai toni populisti ma incredibilmente efficaci: la stessa Evita lo presenta alle masse più umili affermando "È uno di voi. Altrimenti come potrebbe amare me?", e in generale la sua salita verso il cielo è vista come il riscatto di tutti gli oppressi, i "descamisados"). La seconda parte ci narra di Evita al potere, del duro scontro con la realtà, dell'amore del popolo e dell'odio delle classi agiate, e infine della malattia e della morte (con la veglia davanti alla Casa Rosada), ricongiungendosi con l'incipit. Quasi privo di dialoghi (tanto da non essere mai stato doppiato in italiano: è uscito anche in sala semplicemente con i sottotitoli), il film si appoggia sulla bellissima colonna sonora dalla vena melodica (anche se non mancano occasionali dissonanze), con influenze latine e rock, ricca di brani iconici come la celeberrima "Don't Cry for Me, Argentina" (il cui tema è preannunciato sin dall'inizio, in "Oh, What a Circus": in generale molte melodie vengono introdotte e poi riprese più volte), "Another Suitcase in Another Hall" (che viene fatta cantare ad Evita, a differenza del musical originale dove era riservata all'amante di Perón), "I'd Be Surprisingly Good For You", "High Flying Adored", "Rainbow High". Webber e Rice hanno anche composto una canzone espressamente per il film, "You Must Love Me", che si è aggiudicata l'Oscar (l'unico vinto dalla pellicola, su cinque nomination). Curiosità: Alan Parker interpreta, in una breve scena, il regista che dirige Evita in una delle sue prove d'attrice.

14 aprile 2021

La collina dei papaveri (Goro Miyazaki, 2011)

La collina dei papaveri (Kokuriko-zaka kara)
di Goro Miyazaki – Giappone 2011
animazione tradizionale
**1/2

Visto in TV (Netflix).

Orfana di padre, un marinaio morto nella guerra di Corea, la sedicenne Umi (soprannominata "Mer": entrambi i nomi significano "mare" rispettivamente in giapponese e in francese) abita nella vecchia casa dei nonni materni, ora trasformata in un ostello, e frequenta il liceo a Yokohama. Quando conosce Shun, ragazzo più grande di lei di un anno e impegnato attivamente a proteggere dalla demolizione il "Quartier Latin", il vecchio edificio che ospita svariati circoli culturali scolastici, fra i due scatta subito una simpatia reciproca, che sfocia in amore ma si scontra anche con la scoperta che potrebbero essere fratello e sorella... Secondo film da regista per Goro Miyazaki, sicuramente migliore del precedente "I racconti di Terramare". Sceneggiato da suo padre Hayao a partire da un breve shojo manga di Tetsuro Sayama e Chizuru Takahashi, ha fra i suoi punti di forza la ricostruzione ambientale e l'atmosfera quotidiana, retrò e nostalgica (siamo nel 1963), resa meravigliosamente tramite i disegni morbidi, gli scenari curati, una colonna sonora che ingloba canzoni di quegli anni (come la celebre "Sukiyaki" di Kyu Sakamoto) e personaggi simpatici. Peccato per la trama semplicistica e non troppo originale ("Sembra uno sceneggiato di terz'ordine", commentano gli stessi protagonisti). La versione italiana, pur con l'adattamento farraginoso del pessimo Cannarsi, mi è parsa più accettabile del solito (forse qualcuno gli avrà "aggiustato" un po' i dialoghi?). Il titolo fa riferimento alla collina su cui sorge la casa di Umi, che domina le acque del porto e sulla quale la ragazza issa ogni mattina delle bandiere di segnalazione su un pennone. Il quartiere Yamate di Yokohama è tuttora assai noto per le antiche dimore in stile europeo.

13 aprile 2021

The odd one dies (Patrick Yau, 1997)

The Odd One Dies (Liang ge zhi neng huo yi ge)
di Patrick Yau – Hong Kong 1997
con Takeshi Kaneshiro, Carman Lee
**1/2

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Il giovane delinquente Mo (Kaneshiro), taciturno e testa calda, viene assoldato come killer a pagamento per uccidere un gangster thailandese che sta per giungere a Hong Kong. Dopo aver vinto inaspettatamente una forte somma di denaro al gioco, però, Mo decide di "subappaltare" il pericoloso incarico a un'ex detenuta dal passato torbido (Carman Lee). Ma nell'attesa del momento in cui dovranno colpire, i due finiranno per innamorarsi e progetteranno di fuggire all'estero. Prodotto da Johnnie To e scritto da Wai Ka-fai, il primo film di Patrick Yau (regista che nel resto della carriera non combinerà poi molto: dopo altre due pellicole per la Milkyway, "The longest nite" e "Expect the unexpected", si dedicherà per lo più alla tv) è interessante soprattutto sotto l'aspetto stilistico, che a tratti ricorda i primi lavori di Wong Kar-wai (forse anche per la presenza dell'attore protagonista, che per Wong aveva recitato in "Hong Kong Express" e "Angeli perduti"): molto stilizzato, fa ampio uso di inquadrature sghembe, macchina da presa mobile, ricchezza di primi piani e una fotografia notturna e colorata. L'atmosfera dunque non manca, condita da una robusta dose di fatalismo romantico da neo-noir e black humour: ma la storia dei due loser in cerca di una via di fuga dalle proprie miserie appare a tratti un po' troppo disgiunta, fra occasionali tormentoni comici (il boss della triade cui vengono tagliate le dita) alternati a momenti (melo)drammatici.

12 aprile 2021

Il verde prato dell'amore (Agnès Varda, 1965)

Il verde prato dell'amore (Le bonheur)
di Agnès Varda – Francia 1965
con Jean-Claude Drouot, Marie-France Boyer
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

François (Drouot) lavora come falegname a Fontenay-sous-Bois, appena fuori Parigi, ed è felicemente sposato con Thérèse, che gli ha dato due figli piccoli. Quando conosce la graziosa commessa delle poste Émilie (Boyer), si innamora anche di lei. Convinto che "la felicità si somma", e che dunque gli è permesso amare le due donne contemporaneamente, confida con totale sincerità i suoi nuovi sentimenti alla moglie durante un picnic sull'erba... Il terzo film di Agnès Varda (e il primo a colori) racconta con leggerezza l'illusione (maschile) della libertà amorosa e della condivisione aperta della propria felicità, in un contesto quasi idilliaco e bucolico, sottolineato dalla colonna sonora con musiche di Mozart e dal montaggio sbarazzino, che si fa spezzettato a seconda dello stato d'animo dei personaggi (vedi per esempio il momento dell'incontro di François ed Émilie sulla soglia dell'appartamento di lei). Molto interessante anche la fotografia, che punta sui colori primari (verde, giallo, rosso) come per rispecchiare le varie stagioni (la storia si svolge dalla primavera all'autunno) e che rende le scene in campagna quasi dei dipinti di Renoir. Naturalmente la tragedia farà capolino all'improvviso, a indicare che si trattava solo di un'illusione. Da notare che i membri della famiglia Chevalier (François, la moglie e i due bambini) sono interpretati da una vera famiglia (Jean-Claude, Claire, Olivier e Sandrine Drouot). Orso d'argento al festival di Berlino.

11 aprile 2021

Aliens of the deep (James Cameron, 2005)

Aliens of the deep (id.)
di James Cameron e Steven Quale – USA 2005
con James Cameron, Dijanna Figueroa
**

Visto in divx.

In compagnia di alcuni biologi marini, ma anche di scienziati dello spazio (perché l'esplorazione dell'ignoto sulla Terra è simile a quello su altri pianeti), James Cameron viaggia in diversi siti nell'Oceano Atlantico e Pacifico per immergersi con un mini-sottomarino e osservare le creature che vivono negli abissi, veri e propri "alieni" come quelli che, immagina, potrebbero trovarsi su altri mondi. Dopo "Expedition: Bismarck" e "Ghosts of the abyss", il regista continua a coltivare e a sguazzare nelle sue passioni con un altro documentario sul tema dell'esplorazione subacquea. Stavolta l'obiettivo non è il relitto di una nave, ma semplicemente la fauna (compresi batteri e molluschi!) che vive nei luoghi più remoti del nostro pianeta, a chilometri di profondità sotto il livello del mare, in particolare in corrispondenza di particolari conformazioni geologiche come i camini idrotermali: creature a tratti irreali, spesso sconosciute, e dall'aspetto decisamente "alieno". Non mancano divagazioni sulla tecnologia, sulle missioni della NASA (come l'invio dei rover su Marte o le ipotetiche esplorazioni di Europa) e la ricerca di vita extraterrestre, argomenti su cui il documentario specula e si interroga (con tanto di ricostruzione digitale: il film si conclude immaginando l'incontro con una razza di alieni sottomarini sul satellite di Giove). Nel complesso interessante, anche se salta un po' di palo in frasca e non approfondisce veramente l'argomento della vita sottomarina se non a livello di suggestione (si confronti per esempio con "Atlantis" di Luc Besson). Alla regia è accreditato anche Steven Quale, già direttore della seconda unità in "Titanic".

10 aprile 2021

Ghosts of the abyss (James Cameron, 2003)

Ghosts of the Abyss (id.)
di James Cameron – USA 2003
con Bill Paxton, James Cameron
**

Visto in divx.

"Tu lasci il Titanic, ma lui non lascia mai te". Nel 2001, quattro anni dopo l'uscita del film che gli regalò una (meritata) montagna di Oscar, James Cameron torna sul luogo dell'affondamento del celebre transatlantico per esplorarne il relitto sul fondale marino grazie a nuove tecnologie, in particolare i mini-sommergibili Mir della nave oceanografica Akademik Keldysh e i due robot dotati di videocamera Jake ed Elwood progettati da suo fratello Mike. Ad accompagnarlo, e a fungere da voce narrante, ci sono l'attore Bill Paxton (che nel film interpretava il cacciatore di tesori Brock Lovett) più numerosi scienziati, ricercatori e storici. Si sa, le immersioni subacquee e il Titanic sono due pallini del regista canadese, che in questo documentario (uscito nelle sale in 3D, e "rimpolpato" fino a un'ora e mezza di durata per la distribuzione in home video) cerca di coinvolgere anche uno spettatore che però, se non condivide la passione per l'argomento, rischia di annoiarsi. Non che il documentario non sia fatto bene o esaustivo: il problema è che non racconta nulla di davvero nuovo e di importante sulla nave, sui personaggi a bordo e sul loro destino che non si fosse già detto o compreso a sufficienza nel film del 1997. Chi ha visto quello, troverà questo ridondante (a meno di non appassionarsi alle vicissitudini degli scienziati che cercano di recuperare i robot sottomarini con cui hanno perso brevemente i contatti). L'anno precedente Cameron aveva realizzato un documentario simile su un'altra nave, la tedesca Bismarck, e due anni più tardi tornerà nelle profondità oceaniche a osservarne le forme di vita ("Aliens of the deep").

9 aprile 2021

Expedition: Bismarck (James Cameron, 2002)

Expedition: Bismarck
di James Cameron, Gary Johnstone – USA 2002
con James Cameron, Mike Cameron
**1/2

Visto su YouTube, in lingua originale.

Documentario televisivo (realizzato per Discovery Channel) in cui James Cameron, in compagnia del fratello Mike (che ha progettato due robot dotati di videocamera per le riprese sottomarine, ribattezzati Jake ed Elwood, come i Blues Brothers!), di alcuni storici e di un gruppo di superstiti del naufragio, va alla ricerca del relitto della nave da battaglia tedesca Bismarck, affondata dalla flotta inglese al largo delle coste francesi nel 1941, in piena seconda guerra mondiale. In effetti lo scafo era già stato individuato sul fondale dell'Oceano Atlantico nel 1989, ma qui per la prima volta viene raggiunto ed esplorato da vicino, grazie alla nave oceanografica russa Akademik Keldysh e ai suoi mini-sommergibili chiamati Mir. Il film ne ricostruisce la dinamica dell'affondamento, oltre a raccontarne le ultime ore attraverso le testimonianze dei sopravvissuti (soltanto un centinaio di membri dell'equipaggio, su oltre 2200 che erano a bordo, riuscirono a salvarsi) e brevi filmati con attori ed effetti speciali. Le vicende sono anche collocate nel più ampio contesto della guerra e del tentativo dei tedeschi di controllare il traffico navale attorno alla Gran Bretagna. La voce narrante è quella di Lance Henriksen (che per Cameron aveva recitato in "Piraña paura", "Terminator" e "Aliens"). Da notare che la spedizione è stata effettuata nel maggio del 2002, dunque otto mesi dopo quella analoga che il regista canadese, sempre a bordo della stessa nave e con il medesimo equipaggiamento, aveva compiuto per esplorare nuovamente il Titanic, quattro anni dopo il suo celebre film, e che sarà narrata in un altro documentario (stavolta in 3D e distribuito nelle sale cinematografiche), "Ghost of the abyss".

8 aprile 2021

Voglio danzare con te (M. Sandrich, 1937)

Voglio danzare con te (Shall we dance)
di Mark Sandrich – USA 1937
con Fred Astaire, Ginger Rogers
**1/2

Visto in divx.

Il ballerino classico Peter P. Peters (Astaire), che sulle scene si fa passare per il russo "Petrov", si innamora della danzatrice di varietà Linda Keene (Rogers) e la segue da Parigi a New York. Per via di un equivoco, tutti però si convincono che i due si siano sposati in segreto. L'unico metodo per risolvere la situazione, pensano, è quello di sposarsi veramente per poi divorziare... Settimo film di Fred e Ginger, il quarto diretto da Sandrich: a questo giro il valore aggiunto sono le musiche di George Gerschwin, con canzoni (su testi di Ira Gerschwin) come "They Can't Take That Away from Me" e "Let's Call the Whole Thing Off" (con il celebre verso "You like tometo, and I like tomato..."), nonché svariati numeri di ballo, anche se rispetto alle altre pellicole della coppia qui i due danzano relativamente poco insieme, giusto nella sequenza della grande sala da pranzo dell'albergo (dopo quasi un'ora di film!). In generale la partitura sinfonica gioca a mescolare la musica classica e il jazz, che rappresentano i due personaggi. Altre sequenze di danza sono quelle nella sala macchine della nave ("Slap That Bass", con Fred che balla il tip tap accompagnato da una banda di musicisti di colore, che ricorda un numero analogo di "Seguendo la flotta") e quella finale, dove a fianco di Astaire non c'è Rogers ma la ballerina Harriet Hoctor (accreditata nei panni di sé stessa), seguita da un gruppo di venti coriste con la maschera di Linda. Edward Everett Horton (l'impresario di Petrov) ed Eric Blore (l'usciere dell'albergo a New York) forniscono il consueto supporto comico. Nel cast anche Jerome Cowan (amico e impresario di Linda, che complotta affinché non lasci le scene), Ketti Gallian (l'ex partner di Petrov, che sparge la falsa voce del suo matrimonio) e William Brisbane (il corteggiatore di Linda). Coreografie di Astaire, Hermes Pan e Harry Losee.

7 aprile 2021

Amores perros (Alejandro G. Iñárritu, 2000)

Amores perros (id.)
di Alejandro González Iñárritu – Messico 2000
con Gael García Bernal, Emilio Echevarría
***

Rivisto in TV (Prime Video).

Tre storie di persone e di cani (perros, parola che in spagnolo, come in italiano, può essere usata come aggettivo denigrativo: "amori cattivi") si intrecciano a Città del Messico. Il giovane Octavio (Gael García Bernal), innamorato di Susana (Vanessa Bauche), moglie del suo violento fratello Ramiro (Marco Pérez), sogna di fuggire con lei e a questo scopo comincia a procurarsi il denaro necessario facendo combattere il suo cane Kofi in un ring di combattimenti clandestini. La fotomodella Valeria (Goya Toledo), dopo aver perso l'uso delle gambe in un incidente stradale, vede incrinarsi il rapporto con l'amante Daniel (Álvaro Guerrero) anche per le peripezie del suo cagnolino Richie nel nuovo appartamento della coppia. Il barbone El Chivo (Emilio Echevarría), che si procura da vivere per sé e per i suoi numerosi cani lavorando come sicario per un corrotto agente di polizia (José Sefami), cerca di riallacciare i rapporti con la figlia che aveva abbandonato vent'anni prima per andare a fare il guerrigliero. Pellicola d'esordio per Iñárritu, scritta dall'amico Guillermo Arriaga, con cui collaborerà anche nei due lavori successivi ("21 grammi" e "Babel"). Come quelli, anche questo è un film corale con numerosi personaggi e storie che si intrecciano, al punto da non consentire una semplice divisione in tre parti: situazioni e protagonisti di ciascuna delle vicende appaiono anche nelle altre due, con diversi punti di contatto (in particolare l'incidente stradale che cambia il destino di tutti), in maniera non dissimile da "Prima della pioggia" e "Pulp fiction". Il tema principale è quello della fedeltà e del tradimento, evidente non solo nei rapporti con i cani ma anche fra le persone, spesso imparentate fra loro: da fratelli che si odiano (Octavio e Ramiro, ma anche il mandante e la vittima dell'omicidio che viene commissionato al Chivo) a coniugi che si tradiscono (Susana e Ramiro, Daniel e la moglie). E la violenza fa capolino da ogni parte, mescolata all'amore, spesso trasfigurata nel rapporto con gli animali. E così c'è chi uccide od odia le persone ma ama i cani (El Chivo) e chi li sfrutta soltanto per far soldi (Mauricio (Gerardo Campbell), il "rivale" di Octavio), cani che a loro volta rispecchiano il ventaglio di ruoli e sfumature dei personaggi umani. Esemplare Kofi, il rottweiler di Octavio, che si rivela un killer talmente spietato da innescare un cambiamento nel Chivo e costringerlo a ripensare la propria esistenza. Piuttosto lungo, è un film duro, spietato e intenso, adrenalinico e cruento, capace però di raccontare storie che scuotono nel profondo, senza divisioni nette fra bene e male o fra buoni e cattivi, dove le persone si comportano come cani e viceversa. Da guardare, magari, a fianco del "Dogman" di Garrone. Le sequenze dei combattimenti fra cani sono impressionanti, ma a quanto pare sono simulate: un cartello nel finale sottolinea che a nessun animale è stato recato danno durante le riprese. Grande successo di critica, con premi a numerosi festival e nomination agli Oscar per il miglior film straniero: sia il regista, sia lo sceneggiatore, sia l'attore protagonista (García Bernal) avvieranno da qui una fortunata carriera hollywoodiana.

6 aprile 2021

Birds of prey (Cathy Yan, 2020)

Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn (Birds of Prey (and the Fantabulous Emancipation of One Harley Quinn))
di Cathy Yan – USA 2020
con Margot Robbie, Ewan McGregor
**

Visto in TV (Now Tv).

Lasciata dall'amato Joker, la psicopatica Harley Quinn (Margot Robbie) decide che è l'occasione giusta per cambiare vita e mettersi in proprio. Sulle tracce di un prezioso diamante/MacGuffin, inghiottito dalla giovane borseggiatrice Cassandra Cain (Ella Jay Basco) e concupito dal boss criminale Roman Sionis/Maschera Nera (Ewan McGregor), sarà costretta ad allearsi con altre super(anti-)eroine, quali Black Canary (Jurnee Smollett-Bell), la Cacciatrice (Mary Elizabeth Winstead) e la detective di polizia Renee Montoya (Rosie Perez). Narrato (in maniera disgiunta) dalla protagonista in prima persona, e rivolgendosi direttamente agli spettatori, un film che rispetto al precedente "Suicide Squad" – dove era stato introdotto il personaggio – schiaccia più esplicitamente sul pedale della commedia action/supereroistica alla "Deadpool" (o "Kick-Ass"): un divertimento decerebrato (e femminista: le eroine sono tutte donne, i cattivi tutti uomini e spesso picchiati senza pietà), stupido e irriverente, certo, ma pur sempre divertimento. Il ritmo frenetico senza pause, la natura anarchica del personaggio principale, i costumi punk e colorati, il profluvio di gag e battutine (anche visive: si pensi alle tante scritte o ai disegnini in sovrimpressione), un pizzico di understatement e i tocchi cinici e grotteschi arricchiscono una trama generica che sembra solo un pretesto per far interagire i vari personaggi. Anche le sequenze d'azione non vanno prese sul serio: l'abbondante violenza, in fondo, è sempre da cartone animato. Fra le tante citazioni, da segnalare quella alla Marilyn de "Gli uomini preferiscono le bionde". Pur essendo ambientato a Gotham City, nel film non appaiono né il Joker né Batman (ma sono menzionati). Harley Quinn, senza le Birds of Prey, tornerà in "The Suicide Squad - Missione suicida".

5 aprile 2021

Triple agent (Éric Rohmer, 2004)

Triple agent - Agente speciale (Triple Agent)
di Éric Rohmer – Francia 2004
con Katerina Didaskalou, Serge Renko
**1/2

Visto in TV (RaiPlay), in originale con sottotitoli.

La pittrice greca Arsinoe (Katerina Didaskalou) e suo marito Fiodor Voronin (Serge Renko), esule russo, vivono a Parigi nella seconda metà degli anni Trenta. Fiodor, che prima di lasciare il proprio paese aveva militato nell'armata bianca durante la guerra civile in opposizione ai bolscevichi, lavora ora per l'associazione degli espatriati russi e sembra sempre molto informato sui fatti e i retroscena politici che scuotono l'Europa e le varie diplomazie. Al punto che molti, e a volte anche la moglie, sospettano che si tratti di una spia e che faccia il doppio (o il triplo!) gioco. Ma a favore di chi? Dei comunisti sovietici? Dei nazisti tedeschi? O del governo francese? Ispirato a una storia vera (quella di Nikolai Skoblin, ex generale della Russia bianca e agente segreto sovietico, coinvolto nella misteriosa sparizione di un altro generale esule a Parigi e poi a sua volta sparito nel nulla), un film intelligente e dai risvolti interessanti con cui Rohmer, dopo "La nobildonna e il duca", torna ad affrontare a proprio modo un periodo cruciale della storia europea, anche se come sempre nel suo cinema c'è parecchia artificiosità e una forte preponderanza dei dialoghi. Anche grazie all'inserimento di materiali di repertorio (cinegiornali degli anni 1936-1940), i complessi eventi socio-politici dell'epoca (le dinamiche di governo interne alla Francia, con il tentativo del Fronte Popolare di opporsi all'avanzata fascista; la guerra civile in Spagna; i rapporti fra la Germania nazista, l'URSS e le altre potenze europee alla vigilia della guerra) fanno da sfondo alle vicende "interne" narrate soprattutto dal punto di vista ingenuo e disincantato di Arsinoe, che ne ignora i retroscena e non è al corrente delle attività del marito, di cui le giungono a tratti solo voci e accenni da parte di amici o colleghi. L'ambiguità di Fiodor ("A volte è più intelligente dire la verità che mentire, perché nessuno ti crederà"), che sembra nascondere qualcosa o simulare anche quando apparentemente parla con sincerità (non solo di politica, ma anche di arte, viaggi o progetti di vita) e che si barcamena fra punti di vista contrapposti (non esitando a discutere con colleghi zaristi, vicini di casa comunisti, amici o parenti di varie estrazioni), lascia la moglie – e noi spettatori! – nel dubbio fino alla fine (si è parlato di "opacità delle motivazioni umane"), e la sua scomparsa finale cela un enigma destinato a non essere svelato del tutto. Alla fine il valore maggiore del film sta soprattutto nel calare lo spettatore in un particolare contesto, fornendo (attraverso i dialoghi) spunti e informazioni su un periodo critico ben preciso ma poco noto della storia europea. Nel cast anche Cyrielle Clair, Grigori Manukov e Dimitri Rafalsky.

4 aprile 2021

La naissance, la vie et la mort du Christ (A. Guy, 1906)

La naissance, la vie et la mort du Christ
aka La vie du Christ
di Alice Guy, Victorin Jasset – Francia 1906
**

Visto su YouTube.

Alice Guy è stata la prima regista donna nella storia del cinema. Aveva esordito nel 1896 con "La fée aux choux" (film andato perduto, ma di cui sono sopravvissuti due remake con lievi differenze, girati dalla stessa Guy nel 1900 e nel 1902), realizzato mentre lavorava come segretaria di Léon Gaumont, fondatore dell'omonima società di materiale fotografico (divenuta in seguito un'importante casa di produzione cinematografica, la più antica tuttora in attività). Dal 1897 al 1907 diresse e supervisionò l'intero settore cinematografico della Gaumont: oltre a realizzare numerose pellicole, sperimentò anche nei campi più tecnologici della sincronizzazione del suono, della colorazione e degli effetti speciali. Dopo aver sposato il produttore britannico Herbert Blaché nel 1907, si trasferì in America insieme a lui, fondando a New York la Solax (una delle maggiori compagnie cinematografiche precedenti l'era di Hollywood) e lasciando la Gaumont nelle mani del suo assistente Louis Feuillade. Negli Stati Uniti, fra le altre cose, pare che abbia realizzato alcuni dei primi film con un cast composto soltanto da attori afro-americani.

Questo kolossal sulla vita di Cristo, da lei diretto insieme a Victorin Jasset, fu la risposta della Gaumont al grande successo della rivale Pathé, "La vie et la passion de Jésus-Christ", firmato da Ferdinand Zecca e Lucien Nonguet nel 1903. All'epoca era perfettamente normale realizzare veri e propri "remake" di pellicole di successo, anche perché le leggi sul copyright non esistevano o venivano raramente applicate, e anche in questo caso un confronto con il film della Pathé mostra tantissime similitudini, forse inevitabili visto l'identico soggetto trattato. Rispetto al film di Zecca, però, questo presenta scenografie più ricche e sontuose e risulta complessivamente più elaborato nei costumi e nella messa in scena, oltre a vantare un maggior numero di comparse (in totale ne furono usate ben 300). L'iconografia si rifà a quella classica ma anche alle celebri illustrazioni del Nuovo Testamento di James Tissot. Per quanto riguarda la regia, invece, non si notano particolari novità di rilievo, anche se la scelta delle inquadrature è varia (alcune sequenze, come l'ultima cena, non sono frontali ma in leggera prospettiva), e non mancano profondità di campo, inserti con piano americano (santa Veronica) e movimenti di macchina (la salita al Golgota). La recitazione è enfatica, con gli attori – i cui nomi restano sconosciuti – che ricorrono ad ampi gesti delle braccia. Essenzialmente si tratta della rappresentazione illustrata di episodi con cui il pubblico aveva già familiarità (non ci sono dialoghi o spiegazioni di quello che si vede sullo schermo, e se qualcuno ipoteticamente non conoscesse i Vangeli comprenderebbe poco o nulla della storia). Ogni episodio è introdotto da un cartello con il suo titolo: lo spazio maggiore è dedicato alla passione e alla via crucis, che occupano due terzi del film. L'unico vero effetto speciale (a parte le apparizioni di angeli e angioletti) è nella scena della resurrezione, in cui si vede Gesù ascendere al cielo. Nota: il film fu la prima grande produzione girata alla Cité Elgé, all'epoca il maggiore complesso di studi cinematografici e teatri di posa al mondo, costruito l'anno precedente dalla Gaumont a La Villette.

3 aprile 2021

Emma. (Autumn de Wilde, 2020)

Emma. (id.)
di Autumn de Wilde – GB 2020
con Anya Taylor-Joy, Johnny Flynn
**1/2

Visto in TV (Now Tv), con Sabrina.

La giovane aristocratica Emma Woodhouse (Anya Taylor-Joy), che vive con il padre ipocondriaco (Bill Nighy) nella campagna inglese di inizio Ottocento, ha come passatempo – per capriccio o vanità – quello di "combinare" matrimoni fra le persone che le gravitano attorno, trascurando al contempo la propria vita sentimentale. Decisa a trovare un partito all'altezza per l'amica Harriet (Mia Goth), ragazza di umili origini ma che lei è convinta essere di nascita illustre, la spinge a rifiutare la proposta dell'agricoltore Martin (Connor Swindells) in favore del benestante vicario Elton (Josh O'Connor). Scoprirà di essersi sbagliata una prima volta quando Elton si dichiarerà innamorato invece di lei, e una seconda quando il bel gentiluomo Frank Churchill (Callum Turner), su cui aveva puntato gli occhi, convola segretamente a nozze con la "rivale" Jane Fairfax (Amber Anderson). Per fortuna troverà il vero amore nella persona più vicina e inaspettata, il sensibile George Knightley (Johnny Flynn), l'unico che sa tenerle testa e parlarle con sincerità. Dal romanzo di Jane Austen (già portato sul grande schermo nel 1996 con Gwyneth Paltrow e più volte in tv, senza dimenticare la rilettura moderna in "Ragazze a Beverly Hills"), l'opera prima della fotografa e ritrattista Autumn de Wilde, figlia d'arte: ovvio che proprio la fotografia, le scenografie e i costumi siano gli elementi messi maggiormente in risalto, fra abiti elaborati e pareti dai colori pastello che donano alla pellicola un tono pop e lezioso (a metà strada fra la "Marie Antoniette" di Sofia Coppola e il cinema di Tarsem Singh e Wes Anderson). Per fortuna, dietro l'aspetto formale (comunque assai gradevole) ci sono le complesse sfumature psicologiche dei personaggi del romanzo originale, a partire dall'irriverente, capricciosa e ostinata protagonista, in un contesto di nobili ricchi, oziosi, formali, eleganti e frivoli, impelagati in un ginepraio di rompicapi amorosi. Nel cast anche Miranda Hart, Rupert Graves, Gemma Whelan e Tanya Reynolds. Nomination agli Oscar per i costumi e per il trucco. Il titolo del film comprende anche il punto finale.

2 aprile 2021

Il mercante delle quattro stagioni (R. W. Fassbinder, 1972)

Il mercante delle quattro stagioni (Händler der vier Jahreszeiten)
di Rainer Werner Fassbinder – Germania 1972
con Hans Hirschmüller, Irm Hermann
***

Visto in divx.

Disprezzato dalla madre, dai parenti e dagli amici, con un passato di poliziotto e soldato nella legione straniera, l'umile Hans Epp (Hirschmüller) lavora come venditore ambulante di frutta e verdura nella Monaco del dopoguerra ed è sposato con l'asfissiante Irmgard (Hermann), che lo rimprovera per ogni cosa e lo tradisce con un amante. E anche se gli affari lentamente cominciano ad andare meglio, Hans si lascerà cadere in depressione fino a morire... Scritto dallo stesso Fassbinder, che lo ha prodotto con la sua neonata Tango Film, il primo film del regista tedesco a riscuotere un certo successo anche in ambito internazionale è un dramma famigliare stratificato e ricco di temi, raccontato però con semplicità e realismo. Se in certe cose ("l'universo opprimente del miracolo economico tedesco dell'«era Adenauer» con le sue contraddizioni sociali") sembra anticipare il cinema di Ken Loach o dei fratelli Dardenne, in realtà Fassbinder è interessato più all'aspetto intimo e psicologico del suo personaggio, al suo "mal d'essere" che lo porta a voler morire ("Vivrà se ne ha voglia", dice di lui la sorella Anna (Hanna Schygulla), l'unica che lo difende e lo comprende in mezzo all'ipocrisia degli altri). In questo ricorda lavori precedenti di RWF come "Perché il signor R. è diventato matto?". E una struttura non del tutto lineare (scene del passato di Hans in polizia e nella legione straniera si alternano con quelle del presente) e un protagonista illustrato "dall'esterno" (vediamo e sentiamo ciò che tutti gli altri pensano di lui, ma non abbiamo mai accesso diretto ai suoi pensieri) aggiungono spessore all'insieme. Il titolo, spiega Wikipedia, è una traduzione letterale dell'espressione francese "marchand des quatre-saisons", che indica appunto gli ambulanti di frutta e verdura. Il cast comprende Karl Scheydt (l'amante di Irmgard), Klaus Löwitsch (l'amico Harry), Kurt Raab (il cognato) e Ingrid Caven (il "grande amore" di Hans).

1 aprile 2021

Ingeborg Holm (Victor Sjöström, 1913)

Ingeborg Holm, aka Il calvario di una madre (Ingeborg Holm)
di Victor Sjöström – Svezia 1913
con Hilda Borgström, Aron Lindgren
**

Visto in TV (Netflix).

Dopo la morte del marito, una donna (Hilda Borgström) si ritrova sommersa dai debiti ed è costretta a dare in adozione i suoi tre figli, mentre lei viene rinchiusa in un ricovero per poveri. Da qui evaderà (è la parola giusta!) per correre al capezzale della figlia maggiore, malata. E a causa delle avversità della vita, diverrà pazza. Rinsavirà soltanto quando, quindici anni più tardi, potrà rivedere il secondo figlio Erik, ora cresciuto e giunto a cercarla. Da un dramma teatrale di Nils Krok (ispirato forse a una storia vera), un romanzo d'appendice di puro interesse storico, essendo uno dei primi lavori importanti del futuro regista de "I proscritti" e "Il carretto fantasma". Pare che contribuì a portare all'attenzione del pubblico in Svezia le difficili condizioni degli indigenti e il modo discutibile in cui erano gestite le case di accoglienza (il direttore e il contabile del ricovero sono ritratti come particolarmente insensibili), ma a parte la buona prova della Borgström c'è poco di interessante qui a livello cinematografico (la macchina da presa è statica e sempre fissa nella stessa posizione, e gran parte delle scene, con poche eccezioni, sono girate in interni e in campo medio o lungo). Aron Lindgren interpreta sia il marito della protagonista sia il figlio da adulto.