31 ottobre 2014

Guardiani della galassia (James Gunn, 2014)

Guardiani della galassia (Guardians of the Galaxy)
di James Gunn – USA 2014
con Chris Pratt, Zoë Saldaña
**1/2

Visto al cinema Uci Bicocca.

Sull'onda del successo dei film sui supereroi "classici", la Marvel ha cominciato a sfornare pellicole anche su personaggi minori del vasto universo della "Casa delle idee". E i risultati non sembrano darle torto, visto il grande riscontro di pubblico, e pure di critica, per un lungometraggio che diverte e intrattiene con il suo mix di azione e ironia. I protagonisti sono un gruppo di criminali di varie razze aliene, uniti dal caso e dal destino, che si trasformano in eroi quando si ritrovano a salvare la galassia dalla minaccia di Ronan l'Accusatore (Lee Pace), terrorista Kree che mira a distruggere il pianeta civilizzato di Xandor, capitale dell'impero Nova. Il gruppo è formato dal terrestre Peter Quill, alias Star-Lord (Chris Pratt), prelevato dal suo pianeta quando aveva solo otto anni; dall'assassina Gamora (Zoe Saldaña), figlia adottiva del malvagio tiranno galattico Thanos; dai cacciatori di taglie Rocket Raccoon (un procione geneticamente modificato!) e Groot (un albero senziente); e dal massiccio Drax il Distruttore (David Bautista), la cui famiglia è stata sterminata da Ronan. Debordante, fracassone, senza un attimo di tregua (e non oso immaginare come sarebbe stato a guardarlo in 3D!), ma condito da un robusto filo di ironia e di understatement (i personaggi sono tutt'altro che eroi senza macchia: anzi, sono pieni di difetti e con caratteri improbabili, il che dà ancora più valore alla loro amicizia), il film è una cavalcata ininterrotta fra ambientazioni in CGI, battaglie spaziali, minacce aliene, citazioni varie dall'universo Marvel (il suddetto Thanos, le gemme dell'infinito, il Collezionista) e il lato più surreale e grottesco del suddetto (per intenderci, siamo più dalle parti di Howard il Papero – che infatti fa capolino nel controfinale dopo i titoli di coda – che non della solennità di un Silver Surfer o della tragicità di un Adam Warlock). Nei fumetti i Guardiani della Galassia avevano debuttato addirittura nel lontano 1969, ma l'incarnazione portata sullo schermo è quella nata nel 2008 per mano degli scrittori Dan Abnett e Andy Lanning, che pure hanno radunato characters che già da tempo bazzicavano le testate Marvel, in particolare quelle di ambientazione cosmica (non a caso la maggior parte dei personaggi – come Gamora, Drax e Thanos – è stata creata da autori come Jim Starlin). Del gruppo originario sopravvive sullo schermo soltanto Yondu, qui nei panni del brigante che fa da mentore/rivale a Star-Lord. La produzione Disney garantisce un divertimento adatto a tutte le età. Grandiosa la scelta della colonna sonora di affidarsi a hit degli anni settanta/ottanta (i brani che Peter ha portato con sé, su un'audiocassetta, quando è stato prelevato dalla Terra: robe come "Moonage daydream" di David Bowie, "I want you back" dei Jackson 5 o "Ain't No Mountain High Enough" di Marvin Gaye e Tammi Terrell). Oltre al cameo del solito Stan Lee (nei panni di uno xandariano), da segnalare la presenza di Benicio Del Toro (il Collezionista, già apparso in "Thor 2"), Glenn Close (Nova Prime) e John C. Reilly (Rhomann Dey, agente dei Nova Corps). Il cast è completato da Karen Gillan (Nebula, la figlia di Thanos), Michael Rooker (Yondu) e Djimon Hounsou (Korath, lo sgherro di Ronan). In originale, Vin Diesel e Bradley Cooper danno la voce rispettivamente a Groot e Rocket (personaggi completamente digitali).

28 ottobre 2014

Boyhood (Richard Linklater, 2014)

Boyhood (id.)
di Richard Linklater – USA 2014
con Ellar Coltrane, Ethan Hawke
***

Visto al cinema Uci Bicocca, con Sabrina.

L'infanzia e l'adolescenza di Mason jr (Ellar Contrane), figlio di genitori separati (Patricia Arquette ed Ethan Hawke), che cresce con la sorella Samantha (Lorelei Linklater, figlia del regista) in una cittadina del Texas. La particolarità di "Boyhood", e forse anche il suo maggior pregio, sta nel concetto alla base della sua realizzazione: Linklater ha infatti girato "in tempo reale" per dodici anni (dal 2002 al 2013, ogni volta per pochi giorni) con attori che nel frattempo crescevano proprio come i loro personaggi. Si parte quando il protagonista è un bambino di sei anni e si termina quando compie diciott'anni, si diploma e lascia la casa per andare al college. Nel mezzo, i rapporti con i genitori e la sorella, i traslochi prima a Houston e poi a San Marcos, le amicizie, i primi amori, la scuola, l'interesse per la fotografia, e via dicendo. Il risultato è un romanzo di coming of age (definito addirittura "tolstoiano" da Hawke) che procede con il realismo della vita vera, visto che la sceneggiatura veniva quasi improvvisata anno dopo anno (con gli stessi attori che contribuivano a scrivere i dialoghi dei propri personaggi, una pratica consueta per Linklater: vedi per esempio la trilogia di "Prima dell'alba", sempre con Hawke). Assistiamo così a scene di vita quotidiana che scandiscono le diverse vicissitudini che capitano alla famiglia (la madre cerca un paio di volte di ricostruirsi una vita con un altro uomo, senza fortuna; il padre, d'altro canto, rimane comunque affezionato ai suoi due figli, tornando a visitarli ogni volta che può), con tanti siparietti che coinvolgono personaggi che entrano ed escono dalle vite dei bambini/ragazzi (memorabile la festa per i quindici anni di Mason, con i nonni acquisiti che gli regalano un fucile e una bibbia!). Tutta una successione di "momenti", dunque, incorniciata dalla frase finale: "Non siamo noi a cogliere i momenti, sono i momenti a cogliere noi". Da notare la cospicua presenza di riferimenti culturali che aiutano a caratterizzare i vari periodi in cui si svolge la storia e soprattutto lo scorrere del tempo: videogiochi (con il passaggio dal Game Boy alla Xbox e alla Wii), cartoni animati ("Dragonball") e film ("Faranno mai un nuovo Guerre Stellari?"), libri ("Harry Potter", "Twilight"), musica, l'avvento dei social network... ma anche eventi politici (la guerra in Iraq, la campagna di Obama). Fra i tanti camei, c'è quello del chitarrista Charlie Sexton (Jimmy, l'amico musicista del padre). Al tempo stesso "epico" e ad ampio respiro (per la vastità del progetto) e intimo e minimalista (per la normalità e l'umanità dei personaggi), è sicuramente un film unico nel suo genere (anche se in passato non sono mancati esperimenti dello stesso tipo: ricordo per esempio "Anna: 6-18" di Nikita Michalkov, con protagonista la figlia del regista russo; oppure, per restare in Italia, "Sorelle mai" di Marco Bellocchio; per non parlare della serie di documentari "Up" di Michael Apted, della saga di François Truffaut dedicata ad Antoine Doinel o, perché no?, dello stesso "Harry Potter"). E chissà che regista e attori non continuino a narrare le vicende di Mason: magari fra una decina di anni vedremo in sala un sequel. Certo, rimane da chiedersi se il film avrebbe lo stesso valore se fosse stato concepito in modo tradizionale, ovvero girandolo tutto in una volta, con attori differenti a interpretare i bambini nelle varie fasi della crescita e un apposito make-up per "invecchiare" gli adulti. Ma forse non è lecito scindere il risultato finale dalla sua caratteristica fondante, visto che (come già detto) Linklater non era partito con una sceneggiatura completa e che anche questa è stata il frutto di un'evoluzione in tempo reale.

26 ottobre 2014

Mean streets (Martin Scorsese, 1973)

Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno
(Mean Streets)
di Martin Scorsese – USA 1973
con Harvey Keitel, Robert De Niro
***

Rivisto in DVD.

La carriera di Scorsese spicca definitivamente il volo con questo lungometraggio, che lo pone al centro dell'attenzione di critica e di pubblico e che in un certo senso è una rilettura della sua pellicola d'esordio, "Chi sta bussando alla mia porta?", di cui riprende molti temi, l'ambientazione (le strade di Little Italy) e il protagonista (Harvey Keitel). Il regista ha dichiarato che si tratta di un lavoro in parte autobiografico, essendo basato su fatti cui aveva assistito negli anni della sua crescita nel quartiere newyorkese, del quale cattura la vita e le atmosfere in maniera accurata, anche attraverso lo slang ("Right?" "Come on!"). Keitel è Charlie, rampante nipote di un boss che intende farne il suo erede e che ha per lui grandi progetti, come quello di dargli in gestione un ristorante. Ma nel frattempo il ragazzo trascorre il tempo con gli amici nei locali notturni e si dà da fare per tenere fuori dai guai l'impetuoso Johnny Boy (Robert De Niro), sconsiderata testa calda e perennemente indebitato con tutti. Come Francesco d'Assisi, la sua figura di riferimento, Charlie è disposto a sacrificare ogni cosa per l'amico: gli fa da garante con i creditori, cerca di trovargli un lavoro, e finirà col fare le spese della sua irresponsabile tendenza all'autodistruzione. In un ambiente caotico (per le strade ci sono continuamente feste, sagre e confusione) e che pure segue leggi ferree, dove le conoscenze e le amicizie (giuste o sbagliate) possono indirizzare il destino di una persona, Charlie è ritratto in balia delle proprie contraddizioni (alcune delle quali sono esplicitate, forse eccessivamente, dal sottotitolo italiano). Devoto cattolico, è convinto che per farsi perdonare i propri peccati non bastino le preghiere recitate in chiesa ma si debbano scontare penitenze di persona e nelle strade (spesso lo vediamo avvicinare le dita della mano a una fiamma viva, quasi per provare com'è il bruciore dell'inferno) e cerca a fatica di barcamenarsi fra responsabilità di diverso tipo: verso la famiglia (lo zio, che pretende da lui un comportamento più consono a un futuro boss), l'amicizia (per Johnny Boy; ma anche per Tony, proprietario di un locale notturno; e per Michael, "affarista" con le mani in pasta in ogni cosa e principale creditore dell'amico), l'amore (ha una relazione segreta con Teresa, cugina epilettica di Johnny Boy, che ovviamente lo zio non approva) e tentazioni varie (come l'infatuazione "inappropriata" per una spogliarellista di colore). Scorsese mette ordine in questo potpourri con una regia realistica e avvolgente, che porta lo spettatore a sentirsi parte del mondo in cui si svolge la storia, esibendo dunque sin dall'inizio la sua grande capacità di narratore per immagini (fondamentale la fotografia di Kent Wakeford) ma anche la sua cinefilia (Charlie, che si dichiara fan di John Wayne, va spesso al cinema: nella pellicola sono mostrati spezzoni di "Sentieri selvaggi" di John Ford e de "I vivi e i morti" di Roger Corman, il mentore dello stesso Scorsese; e nel finale, la scena in cui il protagonista esce dalla macchina dopo l'attentato si rispecchia in una sequenza analoga del film in bianco e nero che lo zio Giovanni sta guardando in televisione, "Il grande caldo" di Fritz Lang). La donna che soccorre Teresa dopo l'attacco epilettico è Catherine, madre del regista e comparsa frequente nei suoi film. Ricca colonna sonora, che comprende diversi classici napoletani, e grande acclamazione per la prova di un De Niro quasi agli esordi, che prenderà presto il posto dello stesso Keitel come attore feticcio del regista.

25 ottobre 2014

Il canto del paese natale (K. Mizoguchi, 1925)

Il canto del paese natale (Furusato no uta)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1925
con Shigeru Kido, Sueko Ito
*1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Il più antico film di Mizoguchi a essere sopravvissuto è un lavoro realizzato su commissione per conto del Ministero dell'Educazione, allo scopo di celebrare la vita in campagna e stigmatizzare la fuga dei giovani nelle città e le tentazioni della modernità. Il protagonista è Naotaro, brillante figlio di una coppia di poveri contadini di un villaggio rurale, che a differenza di alcuni suoi coetanei non ha potuto proseguire gli studi dopo la scuola primaria per aiutare la famiglia lavorando come vetturino. Quando i suoi ex compagni tornano in paese per le vacanze scolastiche, la tranquilla vita del villaggio viene messa in scompiglio: anche perché uno di loro, il ricco e superficiale Taro, organizza un circolo privato dove si danza e si balla "alla maniera di Tokyo", instillando inevitabilmente in tutti i giovani la voglia di lasciare la campagna e di partire per la grande città. Sarà proprio Naotaro, con un accorato discorso, a far capire a tutti l'importanza dell'agricoltura e della tradizione per la sopravvivenza del paese. Più simile a certe pellicole di propaganda sovietica che al resto della produzione futura di Mizoguchi, il film è probabilmente più interessante come documento storico e sociale che non per meriti artistici (sono ancora assenti, fra l'altro, quasi tutti i marchi stilistici del regista, a partire dai movimenti di macchina e dai lunghi piani sequenza: c'è invece abbondanza di stacchi di montaggio e di cartelli). Nel finale il protagonista rinuncerà anche all'offerta di un mecenate straniero di finanziare i suoi studi, pur di non tradire i propri ideali e di rimanere nel villaggio a coltivare la terra. Il termine Furusato che compare nel titolo originale, traducibile con "paese natale", esprime un concetto molto particolare, velato di nostalgia e simile al tedesco Heimat.

24 ottobre 2014

La mandragora (Henrik Galeen, 1928)

La mandragora (Alraune)
di Henrik Galeen – Germania 1928
con Brigitte Helm, Paul Wegener
**

Visto su YouTube.

Interessato a indagare scientificamente se la leggenda della mandragora (la pianta dalle cui radici, nel medioevo, si credeva potesse nascere un homunculus) abbia un fondo di verità, uno scienziato (Paul Wegener) insemina artificialmente una prostituta e "crea" così una ragazza (Brigitte Helm) che adotta come se fosse sua figlia. Cresciuta in un convento, Alraune si rivela una donna senza morale, incapace di amare e di seguire le convenzioni sociali. Dopo svariate avventure (in fuga dal convento si aggrega a un circo, passando da un uomo a un altro), venuta a conoscenza della propria origine, decide di vendicarsi del professore, seducendo anche lui e portandolo alla rovina. Da un romanzo di Hanns Heinz Ewers pubblicato nel 1911 (e trasposto più volte sullo schermo: questa – insieme all'adattamento sonoro del 1930, sempre con la Helm – è la versione più celebre), una storia che aggiorna all'era della genetica il mito di Pigmalione ma soprattutto quello di personaggi come Frankenstein e il Golem (di quest'ultimo, proprio Wegener e Galeen avevano diretto la prima versione cinematografica nel 1915; lo stesso Wegener sarà il regista di altre due versioni del "Golem", fra cui quella più nota del 1920). Al tema della creazione di un essere umano in laboratorio si sovrappone, come nel romanzo di Ewers, quello dell'individualità e dell'eredità genetica che si contrappone alle influenze ambientali. Ma nonostante il soggetto e gli autori coinvolti, la pellicola non appartiene al genere horror/fantastico quanto a quello del melodramma sofisticato; e anche lo stile ha poco del classico espressionismo tedesco: persino la scena della nascita di Alraune non viene mostrata. Notevole, invece, la carica erotica di alcune scene, su tutte quelle della seduzione del professore-padre da parte di Alraune, che si colorano dunque anche di sfumature edipiche e incestuose. La Helm, già protagonista di "Metropolis", è una perfetta femme fatale che trasuda sensualità e immoralità da tutti i pori. Ma il messaggio di fondo è ovviamente moralista ("La natura avrà la sua vendetta"). Galeen è forse noto soprattutto per essere stato lo sceneggiatore del "Nosferatu" di Murnau: qui mette in mostra una certa abilità per la messa in scena e per i dettagli, evidente in particolare in sequenze d'ambiente come quelle del circo e del casinò. Curiosità: quando il film fu distribuito in Inghilterra, la censura eliminò del tutto l'incipit con l'origine della ragazza, rendendo di fatto incomprensibile gran parte della trama.

22 ottobre 2014

Il club dei 39 (Alfred Hitchcock, 1935)

Il club dei 39, aka I 39 scalini (The 39 steps)
di Alfred Hitchcock – GB 1935
con Robert Donat, Madeleine Carroll
***

Visto in divx.

Richard Hannay (Donat), canadese che vive a Londra, viene coinvolto in un caso di spionaggio da una misteriosa donna che ha incontrato in un music hall e che si rivela un agente britannico. Sospettato dell'omicidio della sconosciuta, pugnalata alle spalle mentre era ospite in casa sua, è costretto a fuggire verso la Scozia per rintracciare il capo dell'organizzazione segreta, denominata "i 39 scalini", che è in procinto di trafugare informazioni vitali per la sicurezza del paese: trovare il vero colpevole è infatti l'unico modo per dimostrare la propria innocenza. Adattando un romanzo di John Buchan, Hitchcock e i suoi sceneggiatori (Charles Bennett e Alma Reville) non badano alla plausibilità della vicenda e non si soffermano sui dettagli sulla natura dei codici trafugati (si accenna soltanto al fatto che si tratta di piani per un motore aeronatico: ma in fondo, è solo un "MacGuffin"), preferendo incentrare la pellicola sulla fuga di Hannay, vittima innocente di una caccia all'uomo scatenatagli contro tanto dalla polizia quanto dagli uomini dell'organizzazione nemica. Ed ecco dunque che il nostro protagonista, un normale cittadino costretto dalle circostanze a trasformarsi in eroe d'azione, deve seminare i suoi inseguitori a bordo di un treno, rifugiarsi in una fattoria scozzese (dove viene aiutato dalla moglie del proprietario, il quale invece lo consegnerebbe volentieri per riscuotere la taglia su di lui), evadere dall'ufficio dello sceriffo dopo che una bibbia lo ha provvidamente salvato da una pallottola, improvvisare un comizio elettorale su un palco al posto di un candidato locale, ritrovarsi ammanettato a una ragazza (Carroll) che lo ritiene un criminale e che solo dopo lunghe avventure finalmente crede alla sua innocenza, e infine rintracciare il "Professore" che guida la banda (riconoscibile per la mancanza di una falange) e individuare il modo in cui intende portare i piani segreti fuori dal paese (ovvero facendoli memorizzare a un uomo dal cervello prodigioso, che si esibisce nei cabaret come "Mister Memoria"). Un thriller spionistico, dunque, senza un attimo di respiro, che mescola avventura e azione, ironia e suspense: uno dei più perfetti e compiuti lungometraggi del periodo inglese di Hitchcock, che fungerà da modello per pellicole successive come "Sabotatori" o "Intrigo internazionale". Ottimi e autoironici gli interpreti, e numerose le scene e i siparietti degni di essere ricordati: da quelli marginali, come il dialogo fra i due piazzisti di biancheria intima sul treno o il comizio improvvisato di Hannay sul palco, a momenti clou come tutta la sequenza nell'albergo dove Hannay e Pamela sono costretti a passare la notte ammanettati, fingendosi marito e moglie (una sequenza non priva di momenti decisamente erotici per l'epoca, come la scena in cui la Carroll deve togliersi le calze bagnate). Per non parlare dell'inquadratura finale, con le mani di Hannay e di Pamela che si cercano. Il romanzo originale è stato portato altre tre volte sullo schermo: nel 1959 (basandosi sulla sceneggiatura del film di Hitchcock), nel 1978 (la versione più fedele al libro) e nel 2008 (per la televisione inglese).

20 ottobre 2014

L'uomo che sapeva troppo (A. Hitchcock, 1934)

L'uomo che sapeva troppo (The man who knew too much)
di Alfred Hitchcock – GB 1934
con Leslie Banks, Edna Best
**1/2

Visto in divx.

I coniugi inglesi Bob e Jill Lawrence sono in vacanza sulla neve a Sankt Moritz, in Svizzera, quando la loro figlia Betty viene rapita da una banda di terroristi internazionali per costringerli a non rivelare alla polizia gli indizi di cui sono venuti casualmente in possesso, relativi a un tentativo di omicidio ai danni di un diplomatico europeo durante un concerto sinfonico alla Royal Albert Hall di Londra. Uno dei più celebri film del periodo britannico di Alfred Hitchcock, e il suo primo vero grande successo di critica e di pubblico dopo "Il pensionante". La pellicola diede la svolta definitiva alla carriera del regista, che finalmente trovò nella spy story e nel thriller il terreno più fertile per la propria creatività, di fatto non abbandonando mai più il genere (che in precedenza aveva frequentato solo saltuariamente). Temi seminali del suo cinema, come il coinvolgimento di un uomo comune in una vicenda più grande di lui, con conseguente indagine parallela a quella delle forze dell'ordine, ma anche la suspense crescente (memorabile la sua costruzione nella sequenza del concerto, con Jill che si scruta attorno in preda alla tensione, consapevole che da un momento all'altro il sicario sparerà con il fucile) e la resa dei conti all'aperto fanno qui la loro prima compiuta apparizione. Da ricordare anche la galleria dei villain, guidati da un impressionante Peter Lorre (appena fuggito dalla Germania nazista: pare che non sapesse ancora parlare inglese, e che leggesse le sue battute da un copione con la pronuncia fonetica). Il titolo deriva da una raccolta di racconti di Gilbert K. Chesterton del 1922 (con cui il plot non ha niente a che fare: inizialmente la storia avrebbe dovuto coinvolgere Bulldog Drummond, personaggio creato da H. C. McNeile, ma poi Hitchcock adattò la sceneggiatura in corso d'opera, escludendo il detective). Rifatto da sir Alfred stesso nel 1956 a colori, con James Stewart e Doris Day (uno dei rari casi di remake di un film da parte dello stesso regista dell'originale) e con diverse modifiche: l'incipit sarà spostato in Marocco anziché in Svizzera, e mancheranno sequenze come quella del dentista, il combattimento con le sedie nella sede della setta, e il drammatico finale con la madre che colpisce con il fucile il sicario in fuga sui tetti di Londra. Il brano musicale che viene eseguito durante il concerto all'Albert Hall ("Storm Clouds Cantata") fu scritto appositamente dal compositore Arthur Benjamin, e venne riutilizzato anche nella versione a colori del 1956.

18 ottobre 2014

Fiori d'equinozio (Yasujiro Ozu, 1958)

Fiori d'equinozio (Higanbana)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1958
con Shin Saburi, Ineko Arima
***

Rivisto in DVD, in originale con sottitoli (registrato da "Fuori Orario").

Hirayama (Shin Saburi), imprenditore di mezza età, è giunto a quel punto della vita in cui deve cominciare a preoccuparsi del futuro delle proprie figlie. Ma se in pubblico manifesta una mentalità aperta e moderna (favorevole cioè al diritto dei giovani di determinare da sé il proprio futuro, specialmente in campo sentimentale), fra le mura di casa si dimostra invece intransigente e conservatore. In particolare, non approva la scelta della figlia maggiore Setsuko (Ineko Arima) di sposarsi per amore con Taniguchi (Keiji Sada), un giovane collega di lavoro: e non perché il ragazzo non sia l'uomo giusto per lei, ma per ostinazione e ripicca per non essere stato consultato. Un inganno di Yukiko (Fujiko Yamamoto), amica di Setsuko che finge di chiedere il suo parere su una situazione simile a proposito di sé stessa, gli estorcerà l'approvazione alle nozze; e le insistenze di amici e parenti condurranno infine all'accettazione dello stato di cose e alla riconciliazione fra padre e figlia. Con il suo primo film a colori (l'operatore Yuharu Atsuta gioca su tinte accese e ben definite: si pensi a quel bollitore rosso che focalizza lo sguardo dello spettatore in ogni scena in cui si intravede), Ozu torna ai suoi soliti temi: il conflitto fra tradizione e modernità, la disgregazione della famiglia, e soprattutto i rapporti fra genitori e figli, ribaltando di fatto l'assunto di "Tarda primavera" (qui è la figlia a volersi sposare e il padre a metterle i bastoni fra le ruote). Centro unico di tutta la narrazione è il protagonista Hirayama, alle prese con più situazioni che si intrecciano e che gestisce in maniera contraddittoria e incoerente: consiglia a Yukiko di seguire il proprio cuore e non il parere dei genitori nelle questioni sentimentali; aiuta l'amico Mikami (Chishu Ryu) a riappacificarsi con la figlia che è scappata di casa per andare a vivere con un uomo; tiene un accorato discorso alle nozze della figlia di un altro amico (Nobuo Nakamura), elogiando il diritto dei giovani di sposarsi per amore e non per dovere; eppure farà un enorme fatica ad accettare il fidanzato della figlia, e opporrà a lungo un deciso rifiuto alle sue nozze, prima di ammettere a sé stesso che la propria ostinazione è frutto di un capriccio, e che il vero obiettivo da raggiungere è la felicità di Setsuko.

Rispetto alle due pellicole immediatamente precedenti ("Inizio di primavera" e "Crepuscolo di Tokyo"), il film non soltanto presenta un notevole cambio di tono (al pessimismo si sostituisce una certa leggerezza, a tratti quasi da commedia, per non parlare di un lieto fine decisamente commovente), ma sembra certificare la rinuncia – da parte di Ozu e dello sceneggiatore Kogo Noda – al tentativo di adattarsi ai mutamenti che i nuovi registi giapponesi stavano portando in quegli anni nel cinema nipponico. Nonostante l'introduzione del colore (il primo film giapponese a colori risaliva a soltanto sette anni prima, nel 1951; Akira Kurosawa, per citare un cineasta considerato ben più "innovativo" di Ozu, passerà al colore solo nel 1970), con questa pellicola Ozu sembra voler tornare definitivamente ai temi e alle atmosfere tradizionali del suo cinema, in una strada ben collaudata dalla quale non devierà mai più, tanto che negli ultimi film della sua carriera (dopo di questo ce ne saranno ancora soltanto cinque) non esiterà a riproporre quasi dei remake di pellicole precedenti ("Buon giorno" riecheggierà "Sono nato, ma..."; "Erbe fluttuanti" aggiornerà il classico "Storie di erbe fluttuanti"; "Tardo autunno" e "Il gusto del saké" saranno due riletture di "Tarda primavera"). Basterà lo stile, ormai giunto alla sua estrema perfezione, a renderli preziosi e irrinunciabili. Risultano particolarmente significativi, pertanto, alcuni momenti in cui viene esplicitata la nostalgia per un passato ormai scomparso: la gita familiare ad Hakone, con la moglie (Kinuyo Takako) che ricorda i momenti della guerra (quando "le difficoltà della vita quotidiana rendevano la famiglia più unita"), e la rimpatriata fra Hirayama e i suoi compagni di scuola, dove vengono cantati un poema tradizionale e una canzone di guerra che rievocano valori ormai andati perduti. Miyuki Kuwano è la figlia minore Hisako, Teiji Takahashi è l'impiegato Kondo, protagonista di divertenti siparietti, in compagnia del suo capo Hirayama, nel locale dove lavora la figlia di Mikami. Il titolo si spiega alla luce delle considerazioni finali di Hirayama: "Fare i genitori è il mestiere più difficile del mondo. I figli crescono [...] e troppo presto la primavera cede il passo all'autunno". Curiosità: nel sottofondo musicale, durante le scene ambientate in casa di Hirayama, è riconoscibile in un paio di occasioni il tema di "Hanyū no yado" (ovvero "Home, sweet home"), canzone nostalgica assai popolare in Giappone e utilizzata anche nelle colonne sonore de "L'arpa birmana" e de "La tomba delle lucciole".

17 ottobre 2014

Rambo 2 - La vendetta (G. P. Cosmatos, 1985)

Rambo 2 - La vendetta (Rambo: First Blood Part II)
di George Pan Cosmatos – USA 1985
con Sylvester Stallone, Richard Crenna
*1/2

Rivisto in TV.

Spedito ai lavori forzati dopo la conclusione del precedente film, a Rambo viene offerta una possibilità di riabilitazione: dovrà tornare nella giungla vietnamita alla ricerca dei soldati americani che sono rimasti in mano ai guerriglieri come prigionieri di guerra. In realtà, a sua insaputa, si tratta di una missione fittizia (il governo vuole soltanto salvare la faccia di fronte alle associazioni dei reduci). Ma Rambo ovviamente troverà davvero i prigionieri e li porterà in salvo da solo, sgominando intere pattuglie di soldati vietnamiti e pure russi (!) a colpi di coltello, di arco (a un certo punto con tanto di frecce esplosive!) e di mitra. Tre anni dopo la pellicola originale, Stallone riprende il ruolo del soldato John Rambo (che secondo le intenzioni del suo creatore originale, lo scrittore David Morrell, sarebbe dovuto morire alla fine della precedente avventura) e lo trasforma in un super-eroe macho, patriottico e invincibile, che "vendica" la sconfitta degli Stati Uniti in Vietnam (il sottotitolo "La vendetta" può essere letto in chiave sia personale che nazionale) tenendo testa a innumerevoli nemici (esterni ed interni, questi ultimi identificati nei burocrati del governo che preferiscono lasciare i propri soldati nei campi di prigionia piuttosto di dover ammettere di non aver fatto nulla per salvarli). La sceneggiatura – dello stesso Stallone, che ha riscritto quella originale di James Cameron – è ridicola (con dialoghi come: "Ci lasceranno vincere stavolta?" - "Stavolta dipende da te!") e ha l'aria di essere improvvisata in pochi giorni: l'incipit è assai brusco, i personaggi sono tagliati con l'accetta, le svolte sono prevedibili, e l'unico vero impegno sembra essere stato profuso nelle scene d'azione, quelle in cui il personaggio mette in mostra i suoi muscoli, sopporta le più efferate torture, pone in atto incredibili tecniche di guerriglia, sbaraglia interi plotoni di soldati nemici, e da solo (o con l'aiuto di una ragazza che ovviamente alla fine ci lascia le penne) porta a termine, contro ogni avversità, la propria missione. Nel complesso un film semplicistico, retorico ("Tu cosa vuoi, Rambo?" - "Voglio che il nostro paese ci ami quanto noi lo amiamo"), implausibile, testosteronico, che si prende terribilmente sul serio (a differenza, per esempio, del contemporaneo "Commando" con Schwarzenegger)... e che ciononostante è entrato in pianta stabile nell'immaginario collettivo degli anni ottanta, tanto che quando si cita il personaggio si pensa subito a questa pellicola e non certo al più sofferto e ambiguo prototipo. Ma il terzo capitolo sarà pure peggio. Il regista, di origine greca, dirigerà Sly anche in "Cobra".

14 ottobre 2014

I 400 colpi (François Truffaut, 1959)

I 400 colpi (Les quatre-cents coups)
di François Truffaut – Francia 1959
con Jean-Pierre Léaud, Claire Maurier
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele, Marta, Beatrice, Costanza, Daniela, Florian, Sabine e Sabrina.

Il film d'esordio di François Truffaut (fino ad allora "solo" critico militante per la rivista "Cahiers du cinema"), oltre a costituire uno dei più sinceri e teneri omaggi al mondo dell'infanzia e dell'adolescenza, è una delle pellicole che hanno contribuito a fondare il movimento cinematografico della Nouvelle Vague. E proprio nel tema del ragazzo incompreso dagli adulti che vivono attorno a lui (insegnanti e genitori) ma carico di pulsioni verso la libertà e l'indipendenza, è possibile leggere metaforicamente la lotta dei giovani cineasti francesi contro un modo di fare cinema che ritenevano sterile, vecchio e standardizzato, basato non sulla descrizione della "vita vera" ma su meccanismi (spesso dipendenti quasi esclusivamente dalla sceneggiatura) intesi a "impressionare" gli spettatori anziché a "esprimere" i sentimenti e le emozioni degli autori. A partire dalla fine degli anni cinquanta, giovani registi come Truffaut, Godard, Chabrol, Rohmer (più altri come Malle o Resnais) cominciarono dunque a proporre pellicole di "rottura", non più girate in studio ma direttamente nelle strade e nelle case, rivendicando libertà e controllo creativo contro le regole del meccanismo produttivo fino ad allora in voga. "Il cinema di domani", disse lo stesso regista, "non sarà diretto da servitori civili della macchina da presa, ma da artisti per i quali girare un film costituisce un'avventura magnifica ed eccitante". E il piccolo Antoine Doinel (interpretato da un allora quattordicenne Jean-Pierre Léaud), personaggio in cui Truffaut riversa molti tratti di sé stesso e che nel corso degli anni si tramuterà sempre più in una sorta di suo alter ego, ne diventa un simbolo immediato, con le sue numerose e piccole "infrazioni" alle regole che ne testimoniano il desiderio di evadere e di "vivere la propria vita in maniera diversa". Proiettato con grande successo al Festival di Cannes del 1959, il film lanciò la carriera di Truffaut (e di Léaud). Negli anni a venire il regista proseguì a narrare di vicende di Doinel, seguendo la crescita del personaggio in una "saga" semi-autobiografica che conterà altri quattro pellicole: "Antoine e Colette" (1962, episodio del film collettivo "L'amore a vent'anni"), "Baci rubati" (1968), "Non drammatizziamo... è solo questione di corna" (1970) e "L'amore fugge" (1979).

Antoine è un bambino di dodici anni, irrequieto e in "rotta" con il mondo che lo circonda. Incompreso a scuola (con gli insegnanti che si accaniscono contro la sua creatività indisciplinata) e in famiglia (la madre non lo ama, il padre lo sopporta perché figlio illegittimo), preferisce vagabondare per le strade di Parigi da solo o in compagnia dell'amico René, con il quale va al cinema o alle giostre. Punito ripetutamente in classe (per essersi giustificato di un'assenza dicendo che la madre era morta o per aver copiato un testo di Balzac durante un tema), scappa di casa. Ruba una macchina da scrivere nell'ufficio dove lavora il padre, ma impossibilitato a rivenderla tenta di riportarla indietro, facendosi scoprire. Finito al riformatorio, riuscirà a fuggire e raggiungerà la spiaggia, dove vedrà per la prima volta il mare. Costruito come una successione di episodi che raccontano la crescita di un ragazzino, senza una vera e propria trama, il film avrebbe dovuto essere inizialmente soltanto un cortometraggio di venti minuti, ambientato nella Parigi dell'occupazione tedesca, la storia di un bambino che marinava la scuola e trascorreva poi la notte per le strade. Fra le ispirazioni, la più evidente (nelle sequenze della scuola) è quella di "Zero in condotta" di Jean Vigo: ma non mancano citazioni cinefile qua e là (la foto che Antoine e René rubano al cinema, per esempio, è quella di Harriet Andersson, protagonista di "Monica e il desiderio" di Ingmar Bergman). Nel cast, in piccoli ruoli, si riconoscono Jeanne Moreau (la donna che perde il cane), Jean-Claude Brialy (l'uomo che la aiuta) e Jacques Demy (un poliziotto). Per il resto, dalle sequenze di apertura che mostrano la Torre Eiffel da diverse angolazioni, fino al bellissimo finale con la corsa di Antoine fino alla spiaggia (con un fermo immagine finale che ne mostra i dubbi e le sensazioni contrastanti: il mare è la libertà oppure solo un altro limite?), il film racchiude in sé tutta l'energia ribelle e impetuosa dell'adolescenza, desiderosa di esprimersi in maniera indipendente ma incapace di farsi accettare da un mondo, quello degli adulti, che appare sordo e cieco di fronte alle sue esigenze (tanto le istituzioni, scolastiche o correttive, quanto la famiglia, con la madre infedele e il padre superficiale, sembrano rappresentare una barriera fra la sensibilità di Antoine e la sua piena espressione). Il film è dedicato alla memoria di André Bazin, grande teorico del cinema e padre spirituale di Truffaut, morto la sera stessa del giorno in cui iniziarono le riprese. Il titolo italiano traduce letteralmente un modo di dire francese che andava semmai adattato, e che significa "fare il diavolo a quattro" (il povero François non sarà mai fortunato, da questo punto di vista, con i nostri distributori).

12 ottobre 2014

Rambo (Ted Kotcheff, 1982)

Rambo (First blood)
di Ted Kotcheff – USA 1982
con Sylvester Stallone, Brian Dennehy
***

Rivisto in TV.

John Rambo (Stallone), reduce del Vietnam da poco tornato in patria, sta attraversando il paese quando viene preso di mira dall'arrogante sceriffo (Dennehy) di una cittadina dello stato di Washington, che lo accusa di vagabondaggio. Fuggito fra i boschi che ricoprono le impervie montagne circostanti, è oggetto di una caccia all'uomo da parte della polizia locale: ma la situazione si complica, visto che Rambo è un berretto verde addestrato nelle più svariate tattiche di guerriglia e di sopravvivenza. Nemmeno l'intervento della guardia nazionale e l'arrivo del generale Trautman (Richard Crenna), comandante di Rambo in Vietnam, risolvono la situazione, la cui escalation porta a un confronto diretto fra Rambo e lo sceriffo. Tratto da un romanzo di David Morrell (che terminava con la morte del protagonista), il film che ha dato vita alla seconda serie più popolare della carriera di Stallone (dopo "Rocky"): ma se nei capitoli successivi il personaggio si tramuterà in un simbolo della forza militare americana (e segnatamente dell'amministrazione reaganiana), impegnato in una serie di missioni all'estero, qui i toni sono ben diversi, quasi intimi e psicologici, e si sviluppano all'insegna del disagio dei reduci di una guerra diventata sinonimo di sconfitta e di tragedia nazionale, che hanno vissuto l'inferno sulla propria pelle (memorabile il "crollo" emotivo di Rambo nel finale, quando si rende finalmente conto di essere rimasto l'unico sopravvissuto della sua vecchia squadra) e che al rientro in patria hanno trovato soltanto ostilità, contestazione e antipatia. Anche se Stallone, intervenendo sulla sceneggiatura, ha cercato di accrescere l'empatia del personaggio, in questo primo film Rambo è di fatto un perdente e un emarginato, nonostante le sue incredibili abilità gli permettano di tenere testa da solo contro un numero soverchiante di avversari. Al di là della spettacolarità e della tensione delle scene di combattimento (che comunque non mancano) e di una trama che si incentra sullo scontro fra un tutore dell'ordine deviato (lo sceriffo) e un innocente perseguitato (in fondo non dissimile da pellicole come "Convoy" o "L'imperatore del nord"), il film acquista dunque valore come documento di un disagio di natura sia personale (i "flashback" con i ricordi delle torture e degli orrori vissuti durante la guerra) sia socio-culturale, quando non addirittura politico, specchio e metafora di tutte le contraddizioni dell'America. Dietro le apparenze di un "semplice" film d'azione e d'avventura, dunque, la carne al fuoco è tanta. E Stallone è perfetto nell'equilibrare l'energia e la fragilità nascosta del personaggio. Peccato solo per il finale, che non conclude degnamente la storia ma preserva il protagonista per i successivi sequel (dal maggiore successo di pubblico ma non altrettanto di critica).

10 ottobre 2014

Sin City: Una donna per cui uccidere (Rodriguez, Miller, 2014)

Sin City: Una donna per cui uccidere
(Sin City: A dame to kill for)
di Robert Rodriguez, Frank Miller – USA 2014
con Mickey Rourke, Eva Green
**

Visto al cinema Arcobaleno.

Nove anni dopo il primo "Sin City", Robert Rodriguez e lo sceneggiatore Frank Miller (dai cui fumetti sono tratte le storie narrate) tornano nella "città del peccato" per raccontare nuove vicende hard boiled a base di uomini duri e violenti, donne fatali, giocatori d'azzardo, politici corrotti e prostitute vendicative. Temi, stile e atmosfere sono essenzialmente gli stessi della prima pellicola, con le vignette e le tavole del fumetto che prendono vita sullo schermo in un bianco e nero altamente contrastato, dove il colore fa capolino solo occasionalmente (le chiome di alcune ragazze, l'impermeabile blu e gli occhi verdi di Eva Green, e altri dettagli: ma la trovata ha ormai fatto il suo tempo e risulta molto meno suggestiva) e il voice over accompagna immancabilmente i tormentati protagonisti. Anche la miscela narrativa è quella solita, a base di sesso e violenza (irreale, adrenalinica e fumettosa), in un mondo in cui il confine fra buoni e cattivi non esiste o non segue le solite direttive. Proprio perché la pellicola non offre niente di nuovo (e quello che offre, lo fa peggio del prototipo), ci si chiede se c'era davvero il bisogno di tornare "sul luogo del delitto", addirittura riproponendo gli stessi personaggi del capitolo precedente (alcuni dei quali, come Marv, tornano in vita per lo sfasamento cronologico delle vicende). Probabilmente no, e infatti nel complesso si esce delusi. Le trame che si intrecciano sono essenzialmente tre, ma la principale è quella che dà il titolo alla pellicola: Dwight (Josh Brolin), detective privato con un passato burrascoso, viene convinto dalla sua ex fiamma Eva (Eva Green) a uccidere l'uomo che ha sposato e che la maltratta. Si tratta però di un tranello, architettato dalla donna per ereditare l'immensa fortuna del marito, incastrando l'amante con l'accusa di omicidio. Sfuggito alla morte, Dwight – dopo aver cambiato volto (assumendo quello che sfoggerà nel primo film, dove il personaggio era interpretato da Clive Owen) – si vendicherà con l'aiuto del forzuto Marv (Mickey Rourke) e delle prostitute Gail (Rosario Dawson) e Miho (Jamie Chung, che sostituisce – ahimè – Devon Aoki). Le altre storie, più marginali, vedono l'arrivo in città del giovane Johnny (Joseph Gordon-Levitt), giocatore di poker che sfida (e incautamente batte) il potente e corrotto senatore Roark (Powers Boothe); e il tentativo della spogliarellista Nancy (Jessica Alba) di uccidere lo stesso senatore per vendicare la morte di John Hartigan (Bruce Willis), il poliziotto che le aveva salvato la vita e che continua a tenerle compagnia sotto forma di fantasma. Un po' brusco (per non dire moscio) il finale. Nel cast anche Dennis Haysbert (Manute, la guardia del corpo di Eva), Julia Garner (Marcie, la ragazza che "porta fortuna" a Johnny), Christopher Lee (il medico che lo opera), Ray Liotta e Juno Temple (la coppia di amanti fotografata da Dwight). Rodriguez, oltre che regista (ma pare che abbia lasciato in gran parte mano libera a Miller), come suo solito è anche montatore, direttore della fotografia e co-autore della colonna sonora.

7 ottobre 2014

Guerre stellari (George Lucas, 1977)

Guerre stellari (Star Wars)
aka Star Wars Episodio IV: Una nuova speranza
(Star Wars Episode IV: A new hope)
di George Lucas – USA 1977
con Mark Hamill, Harrison Ford, Carrie Fisher
***1/2

Rivisto in DVD, con Sabrina.

"Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana...": comincia così, come se fosse una fiaba, una delle più celebri saghe cinematografiche (di fantascienza e non solo), nonché uno dei film che hanno maggiormente influenzato l'industria hollywoodiana dell'intrattenimento. Personalmente ritengo l'originale "Guerre stellari", insieme a "Nascita di una nazione", "Quarto potere" e forse "Pulp fiction", uno dei tre-quattro film più importanti della storia del cinema americano per il suo ruolo di assoluto spartiacque fra un "prima" e un "dopo": tutti i kolossal action/fantascientifici/supereroistici ad alto budget che escono ancora oggi, rivolti a un pubblico per lo più adolescente e con l'inevitabile contorno di merchandising (giocattoli, fumetti, videogiochi), ne sono diretti discendenti. Negli anni successivi alla sua prima apparizione sullo schermo, lo sceneggiatore e regista George Lucas ha dichiarato di aver sempre avuto in mente questo film come un semplice tassello di una saga molto più lunga e già pianificata in tutti i dettagli (tanto che, nelle riedizioni successive, al titolo della pellicola verrà aggiunta la dicitura "Episodio IV", ben prima che i prequel fossero effettivamente messi in cantiere). Ma in realtà, come vedremo, il lungometraggio è frutto di un complesso work in progress, e ha subito diverse modifiche in corso d'opera, al quale hanno contribuito molti fattori. E in ogni caso, al momento della sua uscita ben pochi avrebbero scommesso sull'enorme successo di pubblico che si apprestava a riscuotere (all'epoca fece registrare il maggior incasso al botteghino di tutti i tempi, ed è tuttora – tenendo conto dell'inflazione – al terzo posto nel mondo). Si dice che persino gli attori e la troupe, durante la lavorazione, faticassero a prendere sul serio quello che stavano facendo, e che soltanto Lucas – con un misto di ostinazione e di incoscienza – credesse fermamente nel proprio lavoro. Oggi "Star Wars" (con il titolo in inglese che ha sostituito quello italiano dell'epoca) è una franchise di grande successo, che dai film si è espansa ai videogiochi, ai fumetti, ai cartoni animati, ai giocattoli, ai parchi a tema e a tutte le categorie dell'intrattenimento commerciale, e che ha generato un fandom a livello globale con pochi termini di paragone. Dopo sei film principali e una miriade di altri prodotti collaterali, la property è stata ceduta alla Disney che si occuperà di produrre e distribuire (a partire dal 2015) nuove pellicole, ovvero gli episodi dal VII in poi. Nel frattempo, per prepararmi all'evento, eccomi (finalmente) a scrivere sul blog a proposito dei primi capitoli, la leggendaria "trilogia classica" (gli episodi dal IV al VI, usciti fra il 1977 e il 1983) e la tanto discussa trilogia dei prequel (gli episodi da I a III, usciti fra il 1999 e il 2005).

La pellicola inizia in media res, comunicando dunque allo spettatore che ci troviamo in un universo con una storia e un passato (che verrà raccontato appunto nei film successivi, ma che per ora è accennato in frammenti di dialoghi che contribuiscono a donare spessore ai personaggi e all'ambientazione). A presentare brevemente gli antefatti è una scritta che scorre sullo schermo allontandosi verso l'orizzonte, caratteristica che diventerà un'icona della serie (tutti i film, infatti, si apriranno in tal modo): nella galassia è in corso una guerra civile fra il tirannico impero che la governa e un'allenza di ribelli. Di questi fa parte la principessa Leila del pianeta Alderaan (Leia Organa in originale: quasi tutti i nomi furono – un po' incautamente – modificati nell'adattamento italiano), che è entrata in possesso dei piani di costruzione della Morte Nera (Death Star), la nuova stazione spaziale dell'impero, talmente potente da essere in grado di disintegrare un intero pianeta. Prima di essere catturata dalle truppe d'assalto imperiali guidate dal malvagio Dart Fener (Darth Vader), la principessa riesce a inviare i piani – per mezzo dei due droidi C1-P8 (R2-D2) e D-3BO (C-3PO) – sul pianeta desertico Tattoine, dove finiscono nelle mani del giovane Luke Skywalker, che vive in una fattoria con gli zii Owen e Beru, e dell'anziano Obi-Wan "Ben" Kenobi, uno degli ultimi depositari dei segreti della "Forza", una sorta di campo energetico che pervade l'intero universo e che i cavalieri Jedi – come Kenobi, ma anche come Dart Fener, un tempo suo allievo e ora votatosi al "lato oscuro" – sono in grado di controllare a piacimento. Dopo la morte degli zii per mano delle truppe imperiali, Luke accetta di seguire Obi-Wan nel suo viaggio verso Alderaan, e a questo scopo assoldano il contrabbandiere e avventuriero Ian Solo (Han Solo) e il suo secondo pilota Chewbacca affinché li portino a destinazione con la loro astronave Millenium Falcon. Ma nel frattempo il pianeta Alderaan è stato distrutto dalla Morte Nera, e i nostri eroi si trovano attratti da un raggio magnetico a bordo della stazione spaziale imperiale. Qui liberano la principessa Leila e riescono a fuggire con lei e con i piani, non prima però che Obi-Wan abbia perso la vita in un duello con le spade laser (le armi dei cavalieri Jedi) contro Dart Fener. Raggiunta la base dei ribelli, Luke e Ian (quest'ultimo con una certa riluttanza iniziale) partecipano all'attacco contro la Morte Nera: sfruttando i piani segreti, infatti, viene individuato un difetto che permette di distruggere, con un colpo ben calibrato, la potente stazione spaziale. Dart Fener sopravvive all'esplosione, fuggendo via con una navetta, mentre Luke, Ian e Chewbacca vengono premiati da Leila e dai capi dei ribelli per il successo della missione.

A che genere narrativo appartiene "Guerre stellari"? Scenari ed elementi (pianeti, astronavi, razze aliene, androidi) sono quelli della fantascienza, e più precisamente della space opera, sottogenere caratterizzato dall'epopea di ampio respiro e dall'avventura ingenua e quasi "vecchio stile". Ma naturalmente, dietro le immediate apparenze, non è difficile trovare nella trama e nei personaggi caratteristiche proprie della fiaba (come suggeriva, per l'appunto, quell'incipit) e della leggenda: abbiamo una principessa, un eroe, un saggio "mago", un cavaliere nero... Per molti critici, in effetti, il film è più da ascrivere al genere fantasy che a quello della science fiction (di "scientifico", in fondo, c'è ben poco!). Le fonti di ispirazioni di Lucas sono le più disparate: i fumetti di fantascienza anteguerra (Flash Gordon), le fiabe e il fantasy (con la magia importante quasi quanto la tecnologia), la grande cinematografia epica e d'avventura. Un debito specifico è quello verso Akira Kurosawa, in particolare al film del 1958 "La fortezza nascosta", da cui provengono personaggi come Leila (la principessa Yuki) e i due droidi (i contadini Tahei e Matakishi): ma in generale gran parte dell'estetica (il casco di Lord Fener ricorda quelli dei guerrieri samurai) e delle tematiche (la Forza è una specie di religione new age, come quelle che negli anni '60 e '70 si ispiravano alle filosofie dell'estremo oriente) devono qualcosa al Giappone. A tutto ciò, comunque, Lucas aggiunge qualcosa di nuovo: porta sullo schermo per la prima volta un mondo dove esseri umani e specie aliene convivono in un poutpurrì affascinante e suggestivo (basti pensare al campionario di creature che si possono vedere nella "cantina" di Mos Eisley), dove la vita si è diffusa e allargata su pianeti di ogni tipo (desertici o lussureggianti, naturali o artificiali), tutti più o meno abitabili, mondi come quelli che un lettore di fantascienza poteva ritrovare spesso nei libri di Jack Vance, di Gordon Dickson o di Frank Herbert, ma che quasi mai aveva incontrato nelle sale cinematografiche. E ancora: androidi con una personalità, gadget indimenticabili (le spade laser su tutti), astronavi, armature e altri dettagli che conquisteranno l'immaginario di generazioni di nerd. Non c'è da sorprendersi se "Star Wars" fa subito breccia nell'immaginario popolare, diventando un'icona culturale riconoscibile in tutto il mondo e contribuendo fra l'altro a "sdoganare" la fantascienza cinematografica dal campo dei B-movie a quello dei kolossal. Curiosamente, fra i personaggi più popolari della serie non ci sarà il protagonista Luke Skywalker, ma piuttosto la sua nemesi Dart Fener (ancor più a partire dal secondo film) e il comprimario Ian Solo, protagonista di indimenticabili schermaglie con la principessa Leila.

L'idea di realizzare un film di space opera girava nella testa di Lucas sin dai tempi del suo primo lungometraggio, "L'uomo che fuggì dal futuro" ("THX 1138") del 1971, in seguito al cui successo il giovane regista firmò un contratto con la United Artists che prevedeva la realizzazione di due pellicole: la prima fu "American graffiti" (1973), la seconda avrebbe dovuto essere un adattamento di "Flash Gordon". L'acquisto dei diritti del fumetto non andò però a buon fine, e Lucas decise allora di scrivere una propria sceneggiatura, intitolandola "The Star Wars". Né la United Artists né la Universal (che aveva finito col produrre "American graffiti") si mostrarono però interessati a un film di fantascienza, un genere ampiamente in declino nei primi anni settanta, e dunque Lucas vagò per diverse case produttrici prima di trovare un accordo con la 20th Century Fox. Il budget di lavorazione, pur consistente per quello che molti consideravano un B-movie, non era certo paragonabile a quanto sarà richiesto per gli episodi successivi: una decina di milioni di dollari in tutto. La sceneggiatura subì numerose revisioni e modifiche, frutto di ispirazioni provenienti dalle fonti più diverse – il protagonista passò dall'essere un esperto generale (nello stile del Toshiro Mifune de "La fortezza nascosta") a un adolescente di nome Luke Starkiller, con tanto di fratelli come nelle fiabe più tradizionali – fino ad approdare alla forma finale soltanto a lavorazione già in corso. Le riprese furono effettuate per la maggior parte in Tunisia (il pianeta desertico Tattoine), in Guatemala (Yavin, la base dei ribelli) e in teatri di posa in Inghilterra, non senza intoppi e problematiche di vario tipo (cattive condizioni atmosferiche, difficoltà economiche, incomprensioni fra lo staff e il cast, inevitabili inesperienze con "effetti speciali" che all'epoca erano ancora artigianali). Proprio per gestire modellini, costumi ed effetti visivi, Lucas – quando venne a sapere che la 20th Century Fox aveva dismesso la divisione che se ne occupava – diede vita a un reparto tecnico apposito, l'Industrial Light & Magic, che avrebbe fatto la storia negli anni a venire. Responsabile principale degli effetti, comprese tecniche pionieristiche di fotografia digitale nelle scene con le astronavi, fu John Dykstra. Le navi spaziali furono realizzate a partire da disegni di Joe Johnston e da illustrazioni di Ralph McQuarrie. Il direttore della fotografia, invece, è Gilbert Taylor (già d.o.p. nel "Dottor Stranamore"), con cui Lucas fu spesso ai ferri corti e in discussione sui più minimi dettagli. Problemi sorsero anche in fase di montaggio, che richiese diverse revisioni prima di raggiungere il risultato finale.

Non si può parlare di "Guerre stellari" senza citare altre persone che vi hanno collaborato in maniera significativa. Innanzitutto John Williams, compositore della colonna sonora e autore di temi (uno su tutti quello principale, riconoscibilissimo e seminale) carichi di energia e di emozioni, che si stagliano indimenticabili nella memoria degli spettatori. Assunto su suggerimento di Steven Spielberg (con il quale aveva lavorato ne "Lo squalo"), Williams si affida a una partitura orchestrale che evoca sensazioni da poema sinfonico, con una serie di leitmotiv su cui è possibile costruire variazioni di ogni tipo (da ricordare, per esempio, il poetico "tema della Forza"). L'orchestrazione è di Herbert W. Spencer, frequente collaboratore di Williams. Per i film successivi, il musicista rielaborerà i temi già composti e ne aggiungerà di nuovi (in particolare la celebre "Marcia imperiale"). Altri nomi indissolubilmente legati alla realizzazione della pellicola sono quelli dei produttori Gary Kurtz (indipendente) e Alan Ladd jr. (20th Century Fox), al fianco di Lucas durante le iniziali difficoltà. E poi, la moglie stessa del regista, Marcia, che ha collaborato al montaggio. Per non parlare, naturalmente, degli attori: pare che sul set Lucas non interagisse molto con loro, lasciandoli di fatto liberi di interpretare a piacimento i propri personaggi. Ad alcuni veterani già noti – Alec Guiness (Obi-Wan Kenobi) e Peter Cushing (Tarkin, il comandante della Morte Nera) – si affiancano giovani agli esordi o quasi – Mark Hamill (Luke), Carrie Fisher (Leila) – che troveranno qui il loro ruolo più celebre (praticamente l'unico nel caso di Hamill). Harrison Ford (Ian Solo) aveva invece già lavorato con Lucas in "American graffiti" e sarebbe diventato uno degli attori più noti e pagati di Hollywood anche grazie al successivo progetto della coppia Lucas-Spielberg, ovvero "I predatori dell'arca perduta". Quanto agli interpreti che "non si vedono in faccia", sotto l'armatura di Darth Vader c'è David Prowse (ma la voce è di James Earl Jones), in quella di D-3B0 c'è Anthony Daniels, in quella di C1-P8 il nano Kenny Baker, e sotto il costume di Chewbacca c'è Peter Mayhew. E visto che abbiamo parlato di voci, vanno ricordati anche gli effetti sonori, fondamentali almeno quanto quelli visivi e opera per lo più del sound designer Ben Burtt: si va dai segnali elettronici emessi dai robot (da C1-P8 in particolare) ai versi delle varie specie di alieni, dal rumori prodotti da armi e astronavi (su tutti il "ronzio" delle spade laser degli Jedi) al caratteristico respiro di Darth Vader (prodotto inserendo il microfono all'interno di una maschera per immersioni subacquee).

Uscito negli Stati Uniti il 25 maggio 1977 (dopo che la prevista data iniziale del dicembre 1976 era stata "mancata" per via dei ritardi nella lavorazione) in pochissime sale cinematografiche, il film registrò subito un grande successo che lo portò a diventare, settimana dopo settimana, la pellicola con il maggior incasso di tutti i tempi, superando il record precedente de "Lo squalo": manterrà il primato fino al 1983, quando sarà battuto da un altro film di Spielberg, "E.T.". Al successo di pubblico corrispose anche, forse in maniera ancor più inaspettata, un successo di critica: le candidature agli Oscar furono 10 (fra cui quella per il miglior film), le statuette vinte 6 (miglior scenografia, costumi, montaggio, colonna sonora, suono ed effetti visivi). Ridistribuito in sala più volte negli anni seguenti, acquisì il titolo completo di "Star Wars Episode IV: A New Hope" ("Guerre Stellari Episodio IV: Una nuova speranza") soltanto nel 1981, l'anno successivo all'uscita nei cinema del sequel "L'impero colpisce ancora" (che riportava il sottotitolo "Episodio V", con conseguente disorientamento dei primi spettatori). Ma la vita del film non terminò lì: in seguito allo sviluppo delle tecnologie digitali, Lucas rielaborò la pellicola più volte, rieditandola sia al cinema che in home video con l'inserimento di scene aggiuntive e – soprattutto, a partire dal 1997 – di moderni effetti digitali che andavano a sostituire quelli artigianali dell'epoca, in alcuni casi cambiando anche drasticamente il significato di alcune scene (spesso con il disappunto dei fan: celebre l'indignazione popolare per la scena in cui Ian, di fronte al cacciatore di taglie Greedo, non spara più "per primo"). La cosiddetta "Edizione speciale" ha sostituito ormai ufficialmente la versione originale del film, difficilmente reperibile in home video, nonostante la maggior parte degli appassionati continui a preferirla. Da solo o insieme ai suoi seguiti ("L'impero colpisce ancora" del 1980, "Il ritorno dello Jedi" del 1983, e tutti i successivi prequel o spin-off, non soltanto cinematografici ma anche nei campi della narrativa, dei fumetti, dei videogiochi, e via dicendo), "Guerre stellari" è stato – ed è – senza dubbio uno dei film che più ha influenzato l'immaginario popolare degli ultimi decenni. Le successive variazioni e rielaborazioni non hanno fatto che cementare il suo posto d'onore nella cultura popolare (personaggi come Dart Fener, frasi come "Che la Forza sia con te", armi come la spada laser, brani musicali come il tema di John Williams sono noti anche a chi non ha mai visto il film). E la saga non si è ancora esaurita, se mai lo farà, come dimostra la messa in cantiere di nuovi film, serie a cartoni animati, fumetti e videogiochi.

6 ottobre 2014

Getaway - Via di fuga (Courtney Solomon, 2013)

Getaway - Via di fuga (Getaway)
di Courtney Solomon – USA 2013
con Ethan Hawke, Selena Gomez
*

Visto in TV, con Sabrina.

L'ex pilota di rally Brent Magna (Ethan Hawke) è costretto a guidare un'automobile super-potenziata per conto di un misterioso individuo (Jon Voight, mai inquadrato in volto) che gli ha rapito la moglie e lo controlla attraverso microfoni e telecamere. A dargli man forte, nel tentativo di rintracciare il rapitore e sventare il suo piano (che consiste nel rapinare una banca "tecnologica"), c'è una ragazza appassionata di auto e computer (Selena Gomez). Trama implausibile, personaggi senza caratterizzazione, un montaggio frenetico ma incoerente e novanta minuti ininterrotti di inseguimenti e "botti" fra auto (la Shelby GT500 Super Snake del protagonista e le macchine della polizia) nelle strade di Sofia: il film è tutto qui. Senza un plot o idee interessanti, senza ritmo (ma con un unico e monotono climax che dura tutta la pellicola), senza interpreti (Hawke non si impegna più di tanto, Voight presta solo la voce, e la Gomez è un'attrice? da questo film non lo si direbbe). Una pellicola noiosa e da dimenticare in fretta, che ha pure rubato il titolo da un lungometraggio di Sam Peckinpah (di cui non è, fortunatamente, un remake).

5 ottobre 2014

Out of time (Carl Franklin, 2003)

Out of time (id.)
di Carl Franklin – USA 2003
con Denzel Washington, Eva Mendes
**

Visto in TV, con Sabrina.

Matthias Whitlock (Denzel Washington), capo della polizia in una piccola città della Florida, è in fase di separazione dalla moglie Alex (Eva Mendes) e ha una relazione clandestina con Ann (Sanaa Lathan). Quando Ann e il marito muoiono nell'incendio doloso della loro casa, Whitlock si rende conto che numerosi indizi potrebbero indicare proprio lui come l'assassino: non soltanto era l'amante segreto della donna, ma questa, appena prima di morire, lo aveva nominato beneficiario della sua assicurazione sulla vita. Comincia dunque una corsa contro il tempo per individuare il vero colpevole, cercando frattanto di nascondere le prove che lo incastrerebbero prima che i suoi colleghi (guidati da Alex, che coordina le indagini essendo stata promossa a detective della squadra omicidi) giungano a false conclusioni. Un thriller poliziesco che parte decisamente lento, sembra carburare alla lunga (con il protagonista impelagato in una situazione apparentemente senza via di scampo), ma si conclude nella maniera più prevedibile e scontata. La tensione continua (c'è di mezzo anche una cospicua somma di denaro sequestrata a un trafficante di droga, che Whitlock aveva incautamente affidato all'amante scomparsa nel rogo e che deve recuperare prima che venga reclamata dagli agenti federali) non basta per passare sopra a una sceneggiatura imperfetta e piena di buchi. Ma se ci si lascia andare, l'ambientazione di provincia e la prova solida di Washington (che con il regista Franklin aveva già collaborato nel più noto "Il diavolo in blu") valgono almeno un paio d'ore di intrattenimento.

3 ottobre 2014

Il giullare del re (M. Frank, N. Panama, 1955)

Il giullare del re (The court jester)
di Melvin Frank, Norman Panama – USA 1955
con Danny Kaye, Glynis Johns, Basil Rathbone
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Visto in divx.

Siamo nel medioevo: per permettere al giustiziere mascherato Volpe Nera (una sorta di Robin Hood) di penetrare nel castello di re Roderigo (Cecil Parker), usurpatore del trono d'Inghilterra, l'impacciato saltimbanco Hawkins (Danny Kaye) si traveste da Giacomo, celebre giullare italiano ("il re dei giullari, il giullare dei re"). L'obiettivo di Hawkins è quello di sottrarre al sovrano la chiave del passaggio segreto che conduce all'interno del castello, ma ignora che in realtà il vero Giacomo (John Carradine) era un sicario, invitato a corte dall'infido cancelliere Ravenhurst (Basil Rathbone) per eliminare i suoi rivali, che vorrebbero che il re stringesse una scomoda alleanza con il brutale cavaliere Griswold. Le cose si complicano per l'intervento della strega Griselda, che ipnotizza Hawkins/Giacomo, rendendolo eroico e impavido, affinché conquisti l'amore della principessa Guendolina (Angela Lansbury), promessa sposa di Griswold. E nel frattempo, nel castello giunge anche Jean (Glynis Johns), capitano dei ribelli, conducendo con sé l'infante, vero erede al trono, riconoscibile dalla voglia a forma di primula rossa... sul sedere. Divertente e colorata farsa comico-musicale che da un lato fa la parodia delle epopee cavalleresche alla Robin Hood, appunto, e dall'altra vive di vita propria grazie all'estro di Kaye e alla vivacità di un intreccio che prende mille direzioni e non si ferma mai (anche per via dei numerosissimi personaggi, dei continui scambi di persona, dei capovolgimenti di scena). Le canzoni, per fortuna poche, sono comunque apprezzabili, ma il vero cuore della vicenda è dato dalle trovate comiche: su tutte, l'esilarante sequenza che precede il duello fra il protagonista e Griswold, consapevoli che uno dei boccali da cui dovranno bere prima di battersi è stato avvelenato, e costretti a recitare un'ingarbugliata filastrocca per poterlo distinguere ("La pillola col veleno sta nel calice col pestello, il boccale col maniero porta il vino che è sincero").