26 dicembre 2013

Regalo di Natale (Pupi Avati, 1986)

Regalo di Natale
di Pupi Avati – Italia 1986
con Carlo Delle Piane, Diego Abatantuono
***1/2

Visto in TV, con Marisa.

A Bologna, nella notte di Natale, quattro amici di lunga data (Diego Abatantuono, Gianni Cavina, Alessandro Haber e George Eastman) si ritrovano dopo parecchi anni per giocare a poker in una lussuosa villa fuori città. L'intenzione è quella di spennare un "pollo" di passaggio, un bizzarro e ricco industriale dai modi eccentrici (lo straordinario Carlo Delle Piane, premiato a Venezia come miglior attore): ma non tutto è come sembra, e nel corso della nottata verranno alla luce vecchi rancori e nuovi retroscena. Uno dei film più celebri e belli di Avati, che innesta sul tema dell'amicizia – costante di gran parte del cinema italiano – una riflessione amara e malinconica sul fallimento, la solitudine e la discontinuità fra passato e presente, per non parlare dell'abile costruzione della suspense legata alla partita a poker: la posta si alza vertiginosamente man mano che il gioco procede, fino al punto di non ritorno, con tanto di colpo di scena finale. Se la sceneggiatura asciutta e precisa (dello stesso Avati) è efficace nello scavare a fondo nei personaggi (Franco è il proprietario di un cinema di Milano, l'unico del gruppo che ha fatto fortuna; Ugo è un conduttore di scalcinate televendite su una tv locale; Lele è un giornalista e critico cinematografico fallito, con una passione per John Ford; Stefano è il gestore di una palestra gay), attraverso l'unità di tempo e d'azione (a parte i brevi incipit che presentano i personaggi e alcuni flashback che illustrano le ragioni della rivalità tra Franco e Ugo – per colpa di una donna, ovviamente, interpretata da Kirstina Sevieri – quasi tutta la pellicola è ambientata al tavolo da gioco) riesce a mescolare abilmente commedia e dramma. Fu grazie a questo film che Abatantuono cominciò ad abbandonare lo stereotipo del "terrunciello" e a farsi apprezzare anche come attore drammatico. Musiche di Riz Ortolani. Con un seguito nel 2004, "La rivincita di Natale".

24 dicembre 2013

The family man (Brett Ratner, 2000)

The Family Man (id.)
di Brett Ratner – USA 2000
con Nicolas Cage, Téa Leoni
**

Visto in divx, con Sabrina.

Jack Campbell (Nicolas Cage), ricco broker finanziario con un lussuoso appartamento a Wall Street, il lavoro come unica priorità e una donna diversa ogni notte, è convinto di non aver null'altro da chiedere alla vita. Proprio alla vigilia di Natale, per dimostrargli che ha torto, una misteriosa entità (Don Cheadle) gli mostra cosa sarebbe accaduto se tredici anni prima avesse scelto di sposare la sua fidanzata dell'epoca, Kate (Téa Leoni), anziché volare a Londra per cogliere un'opportunità di carriera: sarebbe diventato un "padre di famiglia", con due bambine, un impiego modesto, una piccola casetta nei sobborghi, ma anche tanta felicità. Fra Dickens ("Canto di Natale") e Frank Capra ("La vita è meravigliosa"), una commedia romantica-natalizia-fantastica a sfondo morale. I temi sono quelli soliti: le scelte che facciamo ci cambiano, la famiglia è la cosa più importante e la ricchezza è incompatibile con la felicità (un concetto, quest'ultimo, ipocritamente onnipresente nel cinema americano mainstream, dove peraltro sembra che ogni cosa ruoti intorno al denaro). Bravo Cage (che all'inizio canta "La donna è mobile") e il resto del cast (che graziosa la bambina!), ma tutto è assai schematico e prevedibile, anche se il finale è quello giusto.

23 dicembre 2013

Frozen (C. Buck, J. Lee, 2013)

Frozen - Il regno di ghiaccio (Frozen)
di Chris Buck, Jennifer Lee – USA 2013
animazione digitale
**1/2

Visto al cinema Uci Bicocca, con Sabrina.

Elsa, principessa del regno di Arundell, ha il magico potere di generare e controllare ghiaccio e neve. Nel timore che possa fare involontariamente del male alla sorellina Anna o ad altre persone, i genitori le impongono di non uscire mai dalle sue stanze del castello. Quando è cresciuta, il giorno della sua incoronazione, perde però il controllo dei suoi poteri e ricopre l'intero reame di una coltre di neve, dando il via a un gelido e perenne inverno. Ritenuta una strega malvagia, fugge sulle montagne: spetterà alla sorella minore andarla a cercare e riportare tutto alla normalità. Ispirato alla fiaba "La regina delle nevi" di Andersen, un film che procede sulla strada segnata da "Rapunzel" ("Tangled" in originale: c'è continuità anche nei titoli, con l'uso di un participio passato): versioni moderne e "leggere" delle classiche favole, con protagoniste "super-simpatiche", numerose canzoni (non memorabili in verità, a parte "Let it go", in italiano "All'alba sorgerò"), spalle comiche come nel periodo d'oro dell'animazione disneyana, anche se con meno profondità (non siamo alla Pixar, nonostante John Lasseter figuri come produttore esecutivo) e un utilizzo spinto delle gag fisiche e visive (bisogna pur tenere il passo di DreamWorks, Fox e compagnia!). Non che manchino, dal punto di vista della sceneggiatura, alcune soluzioni di "rottura" rispetto al passato – su tutte, la "regina malvagia" che per una volta è in realtà buona, e la principessa che salva sé stessa (Anna, moribonda, può essere salvata solo da un "atto di puro amore": ma non si tratta del bacio del principe, come tutti credevano, bensì da un'azione che lei stessa deve compiere) – ma per il resto siamo nella routine e nel puro intrattenimento, con la consueta maestria tecnica per quanto riguarda l'animazione. Perfetto per i bambini (ma qualcuno si annoierà comunque), molto meno per gli adulti. Ciò nonostante, enorme il successo di pubblico, tanto che la pellicola ha fatto segnare il record di incassi per un film d'animazione. Non eccezionale il character design, che rende le due protagoniste delle bamboline. E a proposito delle spalle comiche, raramente se n'è vista una così inutile dal punto di vista narrativo come Olaf, il pupazzo di neve: molto meglio l'alce Sven, anche se non parla (o forse proprio per questo). Due premi Oscar (miglior film d'animazione, il primo per la Disney (!) da quando esiste la categoria, e miglior canzone). Un sequel nel 2019.

21 dicembre 2013

Burn after reading (Joel ed Ethan Coen, 2008)

Burn After Reading - A prova di spia (Burn After Reading)
di Joel ed Ethan Coen – USA 2008
con Frances McDormand, George Clooney
*

Visto in TV.

Un agente della CIA di terz'ordine (John Malkovich), licenziato per alcolismo, decide per vendetta di scrivere le proprie memorie. Ma il CD con le bozze, smarrito negli spogliatoi di una palestra, viene trovato da due impiegati della struttura (Brad Pitt e Frances McDormand), che provano a ricattare l'agente e poi, dopo il suo rifiuto, a vendere le presunte informazioni segrete ai russi. La storia si complica per una serie di tradimenti incrociati: la moglie di Malkovich (Tilda Swinton), per esempio, è amante di un poliziotto (George Clooney) che – fra le sue mille scappatelle – ha anche una relazione con la McDormand. Raccontata con i toni di una farsa che non fa mai ridere, questa presunta satira di costume non è altro che una delle tante scemenze a cui i Coen ci hanno purtroppo da tempo abituati. I due sopravvalutati fratelli si rifanno stavolta al modello di "Fargo", mettendo in scena una serie di personaggi stupidi, traditori ("Tutti vanno a letto con tutti", si commenta a un certo punto), egocentrici e fasulli, uno più deprecabile dell'altro. Nessuno si salva, fra adulteri, alcolizzati, ipocriti, nevrotici, incompetenti, triviali, ossessionati dalla cura del corpo (la McDormand pensa soltanto a procurarsi il denaro necessario ai suoi interventi di chirurgia estetica) o semplici cazzoni (Pitt): ne esce un ritratto di un'America decerebrata, amorale e senza speranza, dove a guidare la vicenda (che non può che finire male) non è nemmeno il caso o il destino ma la stupidità dei suoi stessi protagonisti. Peccato però che la sceneggiatura sia non meno superficiale dei personaggi, senza una direzione precisa e incapace di dar vita non dico a una satira tagliente ma semplicemente a una black comedy di discreto livello. Ogni volta che sembra che la storia stia per decollare (buoni i momenti che illustrano la paranoia di George Clooney, per esempio), la sequenza successiva fa immancabilmente cambiare idea. E il tutto sfocia in un finale tanto inconcludente quanto anticlimatico (come nel precedente "Non è un paese per vecchi", alcune scene clou vengono raccontate da altri personaggi anziché mostrate allo spettatore), al punto da far recriminare – nonostante il buon cast – per il tempo dedicato alla visione.

17 dicembre 2013

Lo Hobbit: La desolazione di Smaug (Peter Jackson, 2013)

Lo Hobbit: La desolazione di Smaug
(The Hobbit: The Desolation of Smaug)
di Peter Jackson – USA/Nuova Zelanda 2013
con Martin Freeman, Richard Armitage
**

Visto al cinema Orfeo (in 3D), con Sabrina.

L'hobbit Bilbo Baggins e i tredici nani guidati da Thorin Scudodiquercia proseguono il loro viaggio verso Erebor, la Montagna Solitaria, dove il drago Smaug riposa a guardia del tesoro rubato. Sempre braccati dagli orchi di Dol Guldur (capeggiati stavolta da Bolg, figlio di quell'Azog che ha un conto aperto con Thorin), i nostri eroi dovranno separarsi dallo stregone Gandalf, che preferirà dirigersi verso sud per indagare sulla reale natura del misterioso Negromante; attraversare l'inospitale Bosco Atro, dove combatteranno contro una nidiata di ragni giganti; fuggire dalle prigioni degli elfi di Thranduil, signore del Reame Boscoso (e padre di Legolas, che torna prepontentemente in azione); viaggiare lungo il fiume – nascosti in tredici barili – fino a raggiungere Esgaroth, cittadina sulle sponde del lago, dove faranno la conoscenza dell'arciere Bard, in rotta con il corrotto governatore della cittadina; arrampicarsi sui fianchi della Montagna Solitaria, dove si cela un ingresso segreto per i saloni al suo interno; e infine affrontare il possente Smaug, senza però riuscire a sconfiggerlo e anzi scatenando la sua ira. Il resto (Battaglia dei Cinque Eserciti compresa) è rimandato al terzo e conclusivo capitolo, in uscita nelle sale fra un anno. La decisione di dividere l'avventura in ben tre parti, ora si può cominciare a dirlo, non è stata delle più felici: se la Terra di Mezzo rimane senza dubbio un posto meraviglioso da visitare, la narrazione qui soffre per i ritmi dilatati, intervallati da lunghissime ed elaborate scene d'azione (la fuga nei barili, la lotta col drago) che tendono più ad annoiare che ad esaltare lo spettatore, mentre la sottotrama che coinvolge Gandalf (a proposito: la scoperta che il Negromante è in realtà Sauron non contraddice quanto si sapeva all'inizio de "Il Signore degli Anelli"?) è quasi una fonte di distrazione.

Anche stavolta non mancano diversi cambiamenti al testo originale, con una sceneggiatura che, ahimè, non sempre convince appieno: al ridimensionamento forse eccessivo di Beorn (manca purtroppo la divertentissima scena dell'introduzione dei nani – uno a uno – nella sua casa) fa da contraltare l'approfondimento di Bard, una scelta saggia visto la futura importanza del personaggio nella risoluzione del conflitto con Smaug. E sempre nell'ottica di aggiungere stratificazione e complessità alla vicenda va letta l'introduzione dell'elfa Tauriel, personaggio del tutto originale, e la sua "love story" (chiamiamola così) con il nano Kili, che riesce contemporaneamente a caratterizzare meglio uno dei compagni di Thorin (che nel libro di Tolkien, nomi e pochi dettagli a parte, erano quasi indistinguibili l'uno dall'altro) e ad aggiungere sottotrame ulteriori a una storia che per il resto – e giustamente, trattandosi di una fiaba – è molto più lineare di quella de "Il Signore degli Anelli". Non aggiunge invece moltissimo il ritorno di Legolas, che come quelli di Saruman e Galadriel nel film precedente è soprattutto una strizzatina d'occhio per i fan della prima trilogia, anche se non si tratta di una forzatura visto che in effetti l'elfo interpretato da Orlando Bloom è di casa proprio nel Reame Boscoso (divertente lo scambio di battute con Glóin a proposito del figlioletto di quest'ultimo, Gimli). Thorin inizia a mostrare il suo lato oscuro, che si focalizza nell'avidità e nel desiderio di impadronirsi dell'Archengemma (e dunque del potere) a qualunque costo, anche a quello di sacrificare le vite dei suoi compagni, così come l'Anello comincia lentamente a esercitare il suo influsso nefasto su Bilbo, anche se per ora è più un utile oggetto magico che una reale minaccia.

Se il secondo episodio de "Il Signore degli Anelli" brillava per l'introduzione di Gollum, il capitolo centrale de "Lo Hobbit" sarà ricordato per il drago Smaug, creatura digitale stupefacente, dinamica e carismatica. Si temeva che mostrare una tale belva che parla (la voce in originale è di Benedict Cumberbatch) potesse risultare ridicolo o "disneyano", ma così non è stato. Anzi, le sequenze di Bilbo alle prese con il mostro sono forse le più visivamente impressionanti e memorabili dell'intera pellicola, ravvivandola nel finale, giusto in tempo perché la storia si interrompa sul più bello (nessuno degli altri quattro film tolkieniani di Jackson aveva mai avuto un simile cliffhanger). Per il resto, sul versante degli attori sono da segnalare le new entry Luke Evans nei panni di Bard (il cui ruolo, come già detto, è stato considerevolmente aumentato rispetto al romanzo, dandogli un notevole background), Lee Pace in quelli di re Thranduil (già apparso brevemente nel film precedente) ed Evangeline Lilly in quelli dell'elfa Tauriel. Mikael Persbrandt è Beorn, Lawrence Makoare (già pluri-cattivo ne "Il Signore degli Anelli") è Bolg, Stephen Fry è il Governatore di Esgaroth. Quanto ai camei, Peter Jackson continua a mangiare carote per le strade di Brea, mentre le due figlie di Bard sono interpretate dalle figlie di James Nesbitt (Bofur). A proposito dei nani, oltre al già citato Kili e agli evidenti Thorin e Balin, c'è un po' più di spazio e di caratterizzazione per Bombur, Bofur, Glóin e Dwalin. Meno memorabile del solito la colonna sonora di Howard Shore, e niente canzoni stavolta, mentre l'unico flashback è all'inizio e mostra l'incontro a Brea fra Gandalf e Thorin (narrato da Tolkien nei "Racconti incompiuti").

16 dicembre 2013

La tragedia di un uomo ridicolo (B. Bertolucci, 1981)

La tragedia di un uomo ridicolo
di Bernardo Bertolucci – Italia 1981
con Ugo Tognazzi, Anouk Aimée
*1/2

Visto in divx, con Marisa.

Una misteriosa banda di rapitori sequestra Giovanni, unico figlio dell'industriale parmense Primo Spaggiari. Quando l'uomo si convince che il figlio sia stato ormai ucciso, progetta di utilizzare i soldi del riscatto (ottenuti attraverso prestiti particolarmente favorevoli) per salvare il proprio caseificio dal fallimento. Un film confuso e non troppo riuscito, che da un lato vorrebbe far riflettere sul rapporto fra padri e figli (tema cardine di tutto il cinema di Bertolucci) e dall'altro offrire un amaro ritratto dei piccoli imprenditori in un'Italia che aveva ormai passato il momento del boom economico ed era scossa dalle contestazioni giovanili e dal terrorismo (evidente il distacco fra le vecchie e le nuove generazioni, incapaci di capirsi o di parlarsi). Il tutto attraverso lo sguardo e la voce (spesso fuori campo, rivolgendosi direttamente agli spettatori) di un personaggio consapevole di essere inadeguato, o meglio – come recita il titolo – "ridicolo", e che cerca disperatamente di tenersi a galla pur trovandosi inviluppato in una ragnatela di misteri (portati avanti anche dagli evasivi personaggi interpretati da Laura Morante e Victor Cavallo, rispettivamente la ragazza di Giovanni e il "prete operaio" suo amico) la cui matassa viene lasciata da sbrogliare allo spettatore (il film si conclude con le parole "Il compito di svelare l'enigma lo lascio a voi": eh no, Bertolucci, così è troppo facile!). La pellicola, che punta le sue carte sull'ambiguità e su un'impalpabilità quasi metafisica, risulta al tempo stesso semplicistica e contraddittoria, e soffre – oltre che per il finale onirico e appicicaticcio – per una malriuscita e ondivaga fusione fra dramma e satira (si pensi alla presenza di macchiette sopra le righe, se non grottesche, come il commissario di polizia o gli usurai; per non parlare di scene del tutto fuori contesto, come Laura Morante che si denuda o l'inciampo del suddetto commissario). Non riescono purtroppo a salvarla né la buona interpretazione degli attori (Tognazzi vinse a Cannes) né la consueta ambientazione tanto cara al regista (la "Bassa", con i suoi argini e le sue fattorie, i formaggi, i prosciutti, la musica di Verdi). Volendo, il film potrebbe essere considerato "speculare" a "Strategia del ragno": a parte il setting simile, lì c'era un figlio che indagava i segreti del padre, qui è il contrario (Primo scopre per esempio che Giovanni frequentava e proteggeva estremisti di sinistra). Per una volta Bertolucci (autore anche del soggetto e della sceneggiatura) non si affida a Vittorio Storaro per la fotografia ma a Carlo Di Palma. Colonna sonora di Ennio Morricone. Giovanni è interpretato da Ricky Tognazzi, figlio di Ugo anche nella realtà.

14 dicembre 2013

Un uomo a nudo (Frank Perry, 1968)

Un uomo a nudo (The swimmer)
di Frank Perry – USA 1968
con Burt Lancaster, Janice Rule
***1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli.

Ospite di alcuni amici nella loro villa con piscina sulle colline del Connecticut, in un'assolata domenica di fine estate, Ned Merrill decide di tornare a casa a piedi, o meglio "a nuoto", bagnandosi, una dopo l'altra, in tutte le piscine delle ville della contea che lo separano dalla sua formando una sorta di catena (o un "fiume", come lo chiama lui). Quella che sembra soltanto una bizzarria da parte di un uomo di successo, che si distingue dai suoi amici di mezza età per essere rimasto ancora un sognatore e un ottimista come quando era giovane, un dongiovanni tuttora atletico e con una famiglia felice che lo aspetta (una moglie e due figlie, che cita continuamente e con orgoglio), si rivelerà una sorta di Odissea al contrario, una parabola dove il viaggio verso casa comporta l'amara e dolorosa presa di coscienza del proprio fallimento. Piscina dopo piscina, scopriremo infatti – e forse anche lui con noi, visto che sembrava averlo rimosso – che l'immagine idilliaca che ci era stata presentata poggiava su basi ormai crollate, fino al più completo sfacelo. Ogni tappa del viaggio rappresenta un aspetto della personalità del protagonista che viene alla luce, in maniera non sempre piacevole, cancellando il falso sorriso che sfoggiava all'inizio (l'incontro con il bambino è un tuffo nella propria infanzia solitaria, quello con l'amante mette in crisi il suo orgoglio di dongiovanni, la festa e la piscina pubblica rappresentano le fasi di un'umiliazione sociale, dapprima da parte dei membri della sua stessa classe alto-borghese e poi da quelli del proletariato). Frank Perry ("David e Lisa", "Brevi giorni selvaggi") è uno dei registi più interessanti – e purtroppo misconosciuti – del cinema americano degli anni sessanta: qui tratteggia magistralmente, con un linguaggio che a volte assume i tratti surreali dell'allegoria, un'epoca in cui i miti del successo, del benessere e dell'american dream cominciavano a incrinarsi e a venarsi di inquietudine e di dubbi. Lancaster (a petto nudo e in costume da bagno – o addirittura senza – per l'intera durata della pellicola) è il mattatore, mentre fra i comprimari si segnalano Janet Landgard (la giovane babysitter), Joan Rivers (la donna alla festa) e Janice Rule (l'ex amante). La sceneggiatura di Eleanor Perry (moglie e collaboratrice abituale del regista) è tratta da un racconto breve di John Cheever. Alcune scene sarebbero state rigirate da Sydney Pollack (non accreditato) su richiesta dei produttori, che ritenevano "troppo intellettuale" l'interpretazione di Perry.

12 dicembre 2013

Ferro 3 (Kim Ki-duk, 2004)

Ferro 3 - La casa vuota (Bin-jip)
di Kim Ki-duk – Corea del Sud 2004
con Jae Hee, Lee Seung-yeon
***

Rivisto in DVD, con Sabrina.

Un ragazzo taciturno si introduce nelle case lasciate temporaneamente vuote dai loro abitanti (ovvero quelle in cui nessuno ha tolto dalle porte i volantini pubblicitari che lui stesso aveva precedentemente piazzato) e le "abita" per un breve periodo di tempo. Non ruba nulla, ma si fa il bagno, mette in ordine, si lava i vestiti, dorme, mangia, ripara piccoli oggetti o elettrodomestici rotti, si scatta una "foto ricordo" e poi va via prima che i proprietari tornino. Un giorno, in una villa di lusso, incontra una ragazza triste e solitaria come lui, una modella maltrattata dal marito, e decide di "salvarla" portandola via con sé. Per un po' la ragazza lo seguirà nelle sue scorrerie, fino a quando la polizia li arresterà, chiudendo lui in prigione e rimandando lei dal marito. Ma il ragazzo imparerà a essere silenzioso e invisibile come un fantasma, e potrà così tornare da lei all'insaputa di tutti... Bizzarro, romantico e metafisico, fatto di silenzi e di poesia, insieme a "Primavera, estate..." è stato il film che ha aiutato Kim a far breccia nei cuori del grande pubblico occidentale. Presentato a sorpresa alla Mostra del cinema di Venezia, vinse il premio per la miglior regia. Le molte peculiarità (il fatto che i due protagonisti non si scambino mai nemmeno una parola; l'incredibile capacità del ragazzo di risultare "invisibile" nel finale, dando così vita a un ménage à trois segreto) lo rendono un film davvero memorabile, dove la vena visionaria e metaforica di Kim si sviluppa in più direzioni (oggetti, immagini, fotografie, specchi, per non parlare in inquadrature simboliche come quella che conclude la pellicola, con i due amanti in piedi sulla bilancia la cui lancetta segna lo zero). In colonna sonora, solo una canzone: l'arabeggiante "Gafsa" di Natacha Atlas. Il titolo occidentale ("Bin-jip" significa semplicemente "La casa vuota") fa riferimento alla mazza da golf con cui il marito si vendica del ragazzo, che a sua volte lo aveva colpito con le palline al momento di "rapire" la donna. Il "ferro 3" è una delle mazze meno usate durante il gioco; e proprio al golf sono legati i pochi momenti di violenza che Kim si porta dietro dalle pellicole precedenti (su tutte, la scena in cui la pallina scagliata dal protagonista colpisce una donna in macchina). Però, ci sono anche dei difetti: a tratti la trama sembra improvvisata, come se il regista avesse cominciato a dirigere il film avendo in mente solo lo spunto iniziale, e va un po' a casaccio, puntando sull'atmosfera e sull'impalpabilità dei personaggi: difetti che, amplificati nei lavori immediatamente successivi, condurrano a pellicole inguardabili come "Soffio".

11 dicembre 2013

Yattaman (Takashi Miike, 2009)

Yattaman - Il film (Yattaman)
di Takashi Miike – Giappone 2009
con Sho Sakurai, Kyoko Fukada
**1/2

Visto in divx.

Adattamento di un popolarissimo anime degli anni settanta (il più celebre della serie "Time Bokan" prodotta dalla Tatsunoko), presenta il talentuoso Takashi Miike nella sua vena più comica e meno violenta. Protagonisti sono due gruppi contrapposti che si battono, per mezzo di buffi e scalcinati robot, per la conquista della misteriosa Dokrostone, un antico cimelio a forma di teschio che è stato diviso in quattro parti e che, se riunito, permetterà di infrangere le barriere dello spazio-tempo. I buoni sono due ragazzini, Ganchan e Janet, che si trasformano nei paladini della giustizia Yatta 1 e Yatta 2; i cattivi sono invece i tre malfattori Miss Dronio, Boyakki e Tonzura, in arte il Trio Drombo, che organizzano complicate truffe per ottenere il denaro necessario alla costruzione dei loro robot. I tre sono al servizio del misterioso Dokrobei, "il re dei ladri", che impartisce ordini solo tramite la propria voce e li "punisce" dopo ogni fallimento. L'umorismo demenziale, surreale e infantile, le avventure in giro per il mondo (pur con una geografia comicamente distorta), le assurde e variopinte tecnologie (quasi tutti i robot hanno le sembianze di animali), le impagabili canzoncine sceme con tanto di scenografie e balletti, e soprattutto la personalità dei cattivi (il Trio Drombo è quasi il vero protagonista del film) si sposano con l'inventiva di Miike e con l'ottimo lavoro di adattamento: tanto i personaggi quanto gli scenari e le tecnologie sono stati trasposti con grande cura dal disegno allo schermo cinematografico, il che fa di "Yattaman" uno dei migliori e più fedeli live action tratti da un anime fra tutti quelli visti finora. Poche le modifiche rispetto al materiale di partenza, segnatamente la natura della Dokrostone e l'identità di Dokrobei (forse per lasciare qualche sorpresa agli spettatori che conoscevano già la serie animata), mentre l'accenno di una love story fra buono e cattiva era presente anche nel cartone. Fra gli attori, spiccano la bella Kyoko Fukada (ormai un mito, dopo "Dolls" e "Kamikaze girls") nei panni della seducente Miss Dronio, e Katsuhisa Namase in quelli di Boyakki, il suo buffo spasimante. Nella scena del ristorante c'è un cameo per i tre doppiatori del Trio Drombo della serie originale.

10 dicembre 2013

Indovina chi sposa mia figlia! (N. Vollmar, 2009)

Indovina chi sposa mia figlia! (Maria, ihm schmeckt’s nicht!)
di Neele Leana Vollmar – Germania/Italia 2009
con Christian Ulmen, Lino Banfi
*

Visto in TV.

Il tedesco Jan (Christian Ulmen) sta per sposare Sara (Mina Tander), figlia di un immigrato pugliese in Germania (Lino Banfi). Questi insiste affinché il matrimonio si celebri in Puglia, nella cittadina natale della famiglia, Campobello. Ma per Jan il soggiorno laggiù sarà un inferno, fra parenti invadenti, burocrazia assurda, faide di paese, incomprensioni di ogni tipo... Grande successo di pubblico in Germania, questo incrocio fra "Benvenuti al sud" e "Il mio grosso grasso matrimonio greco" è un film senza alcuna originalità, che sfrutta tutti i cliché e gli stereotipi culturali su tedeschi e italiani, senza nemmeno poter contare su una comicità disarmante (è pur sempre un film tedesco: avete mai visto un film tedesco divertente?). Unico punto di forza – e mi costa fatica dirlo – è Lino Banfi (che nella versione originale, non conoscendo il tedesco, recitava leggendo "cartelli" posizionati davanti a lui) e il suo personaggio, che dalla macchietta iniziale acquisisce via via spessore grazie ai flashback che mostrano il suo passato da immigrato in Germania come gastarbeiter ("lavoratore ospite"). Per il resto, tutto da dimenticare. Imbarazzante, in particolare, il protagonista. Colonna sonora a base di canzoni italiane pescate qui e lì a caso (ce ne fosse una pugliese!) e di musica che sembrerebbe più adatta a un film di Kusturica. Il titolo originale significa "Maria, non gli piace!" e fa riferimento alle scene a tavola in cui la nonna (e in generale tutti i presenti) si domandano se il tedesco non gradisce la loro cucina.

8 dicembre 2013

L'odio (Mathieu Kassovitz, 1995)

L'odio (La haine)
di Mathieu Kassovitz – Francia 1995
con Vincent Cassel, Saïd Taghmaoui, Hubert Koundé
***1/2

Rivisto in TV.

"Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all'altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: «Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene». Il problema non è la caduta, ma l'atterraggio". Potente ed espressivo, girato in tempi record a ridosso delle sommosse del 1995 nelle banlieue parigine (le immagini che si vedono sui titoli di testa sono reali riprese d'archivio), il film usa il meccanismo della metafora per mettere in guardia dal vortice di odio e violenza nel quale il disagio sociale stava facendo precipitare la Francia multirazziale (non mancano, fra l'altro, riferimenti polemici al modo in cui la destra di Le Pen "cavalcava" la situazione): il contrasto non è solo quello fra teppisti o emarginati (spesso immigrati di seconda generazione) e le forze dell'ordine, ma anche fra gli abitanti delle periferie e quelli del centro (esemplificativa la scena in cui i protagonisti provano ad "attaccar bottone", senza successo, con due ragazze parigine: fra mondi diversi pare esserci una totale incomunicabilità). Protagonisti della pellicola, che si svolge nell'arco di 24 ore, sono tre ragazzi (l'ebreo Vinz, l'arabo Saïd e il nero Hubert: i nomi sono gli stessi dei giovani attori) che, dopo una nottata di scontri con la polizia in seguito al pestaggio di un giovane immigrato da parte di un agente, sono entrati in possesso della pistola di un poliziotto. Vinz intende usarla "per pareggiare i conti" nel caso che l'amico picchiato, finito in coma, non dovesse sopravvivere. I tre trascorrono l'intera giornata vagabondando per il quartiere, per poi trasferirsi a Parigi e infine fare ritorno in periferia. Nel loro viaggio allucinato, senza prospettive e senza speranze, ci saranno avventure di vario tipo, momenti di tensione e altri persino umoristici, nonché incomprensioni e chiarimenti che sembrano portare uno spiraglio di luce nelle loro esistenze: ma il duro finale dimostra come è difficile uscire dalla spirale dell'odio. Capo d'opera di Kassovitz (che recita nella parte del naziskin "catturato" dai tre protagonisti), girato interamente in bianco e nero e vincitore del premio per la miglior regia al Festival di Cannes, il film ha lanciato l'attore Vincent Cassel (già apparso in precedenza nella pellicola d'esordio di Kassovitz, "Métisse") ed è da apprezzare per il modo assai naturale con cui mette in scena il disagio giovanile e la rabbia sempre pronta ad esplodere in violenza (almeno per quanto riguarda Vinz, mentre Hubert è più calmo e lucidamente fatalista, e Saïd sembra più deciso a "tirare a campare": i tre personaggi non sono uguali fra loro). L'uso del bianco e nero accentua la natura quasi documentaristica, soprattutto nella descrizione delle architetture urbane, dello sguardo di un regista che comunque non ha paura di prendere posizione. Peccato che nel prosieguo della sua carriera non sia più riuscito a sfornare film di pari livello. A livello di singole scene, da notare alcune piccole citazioni "cinefile", più o meno dichiarate ("Taxi Driver", "Il cacciatore", "Scarface").

7 dicembre 2013

Crank: High voltage (Neveldine, Taylor, 2009)

Crank: High Voltage (id.)
di Mark Neveldine, Brian Taylor – USA 2009
con Jason Statham, Amy Smart
**

Visto in TV.

Sopravvissuto per miracolo alla fine del film precedente (il "Crank" del 2006), l'indistruttibile killer Chev Chelios scopre che gli è stato espiantato il cuore, sostituito con un organo artificiale che deve essere mantenuto in funzione tramite l'elettricità. Per restare in vita e scoprire dove è finito il suo cuore originale (e contemporaneamente evitare la vendetta di un misterioso rivale che gli dà la caccia), deve dunque "ricaricare" a intervalli frequenti il proprio corpo con robuste dosi di energia elettrica. Tutto va bene: batterie d'automobile, taser della polizia, tralicci dell'alta tensione, persino lo "sfregamento" della pelle (il che condurrà a un'altra, esilarante, scena di sesso in pubblico con la sua fidanzata Eve, stavolta sulla pista dell'ippodromo). Frenetico e adrenalinico come il prototipo, questo sequel è – se possibile – ancora più assurdo ed esagerato, con un protagonista che più che un eroe d'azione diventa un incrocio fra un videogioco e un personaggio dei cartoni animati (c'è persino una sequenza, quella ambientata alla centrale elettrica, che lo paragona ai "mostri di gomma" tipo Godzilla). Colmo di sberleffi e di scene di cattivo gusto, alla resa dei conti è un (riuscito) divertissement tanto per chi lo ha realizzato (registi e attori) quanto per gli spettatori. Oltre a riportare in scena quasi tutti i personaggi del primo film (anche un paio che erano deceduti!), ne presenta anche di nuovi: Bai Ling è la cinesina Ria, David Carradine è l'anziano boss della Triade, Geri Halliwell è la madre di Chev, mentre nella sequenza della protesta in strada compaiono diversi celebri attori porno (da Ron Jeremy a Jenna Haze).

6 dicembre 2013

Fase 4: distruzione Terra (Saul Bass, 1974)

Fase 4: distruzione Terra (Phase IV)
di Saul Bass – USA/GB 1974
con Michael Murphy, Nigel Davenport
**1/2

Visto in divx.

Incuriosito dall'anomalo comportamento delle formiche in una regione desertica dell'Arizona (dove specie diverse di insetti, di solito antagoniste fra loro, si alleano e combattono insieme i loro naturali predatori, oltre ad erigere misteriose "torri" di sabbia), un ambizioso biologo (Davenport) si stabilisce sul posto per studiare il fenomeno, coadiuvato da un tecnico (Murphy) specializzato nel decifrare il linguaggio animale. Insieme assistono all'escalation di quella che è una vera e propria "guerra" delle formiche contro gli esseri umani, divisa in "fasi" (la pellicola mostra le prime tre fasi: il titolo lascia intendere che la fase successiva comporterà la conquista o addirittura la distruzione dell'intero pianeta). Tratto da una sceneggiatura originale di Mayo Simon (poi trasposta in un romanzo da Barry Malzberg), l'unico lungometraggio mai diretto da Saul Bass (più celebre come title designer che come regista, avendo curato le sequenze iniziali di tanti celebri film, in particolare per Otto Preminger e Alfred Hitchcock) è un thriller di fantascienza davvero insolito, con pochissimi personaggi (essenzialmente tre: oltre ai due scienziati c'è la ragazza interpretata da Lynne Frederick), dai toni inquietanti e catastrofici, sul tema della natura che si ribella all'uomo. Numerose le sequenze che vedono gli insetti come protagonisti (il film si apre con sette-otto minuti in cui si vedono solo formiche!), grazie a riprese ravvicinate e girate con maestria dall'entomologo Ken Middleham. L'atmosfera claustrofobica e paranoica è rinforzata dal ritmo lento con cui evolve la vicenda (e con cui monta la tensione), nonché dalle musiche spettrali ed elettroniche di Brian Gascoigne, David Vorhaus e Desmond Briscoe. Degna di nota la scena in cui i due protagonisti scoprono un "cerchio nel grano" realizzato dalle formiche super-intelligenti (in seguito proveranno a comunicare con loro utilizzando appunto forme geometriche): secondo alcuni esperti, proprio quella scena (che precede di due anni i primi avvistamenti di fenomeni simili) sarebbe stata la fonte di ispirazione per i burloni che disegnano strane forme nei campi. L'origine della mutazione delle formiche non è spiegata, ma si suggerisce che sia dovuta a qualche evento di natura "cosmica". Gran parte del film si svolge nel laboratorio isolato e computerizzato in cui i due scienziati si sono rinchiusi, assediati dalle colonie di insetti che li tengono sotto scacco dall'esterno. La conclusione giunge un po' improvvisa: i produttori avrebbero tagliato il finale "spettacolare e surreale", lungo quattro minuti, in cui Bass mostrava come sarebbe cambiata la vita sulla Terra una volta che le formiche avessero preso il sopravvento.

5 dicembre 2013

Quaranta pistole (Samuel Fuller, 1957)

Quaranta pistole (Forty guns)
di Samuel Fuller – USA 1957
con Barbara Stanwyck, Barry Sullivan
***

Rivisto in DVD.

Tre agenti governativi, i fratelli Bonell (Griff, Wes e Chico), giungono in una cittadina dell'Arizona con il compito di arrestare un rapinatore. Ma quest'ultimo è uno dei quaranta pistoleri (veri e propri "quaranta ladroni") al soldo di una potente proprietaria terriera, Jessica Drummond, che spadroneggia nella regione con metodi non sempre legali. L'escalation del conflitto fra la donna e i rangers causerà spargimenti di sangue, ma anche un'inattesa redenzione. Scritto, diretto e prodotto da Fuller, è un western atipico, energico e crepuscolare (si parla espressamente di un'epoca che sta finendo), che forma con "Rancho Notorious" (1952) di Fritz Lang e "Johnny Guitar" (1954) di Nicholas Ray un'ideale trilogia di pellicole con protagoniste donne forti, carismatiche e dominatrici, insolite per un genere dalla pesante caratterizzazione maschile: quasi delle dark lady, e infatti siamo più dalle parti del noir che dal western. Se all'inizio il plot sembra simile a quello di tanti altri film di frontiera (pare di essere in un fumetto di Tex, con il protagonista Griff nei panni del personaggio "duro" e invincibile, preceduto dalla sua fama: il paragone, fra l'altro, è curiosamente rinforzato dal cognome Bonell, quasi identico a quello del creatore del celebre fumetto), lo sviluppo della vicenda riserva parecchie sorprese e colpi di scena, fra momenti drammatici (il suicidio per amore dello sceriffo corrotto, l'uccisione improvvisa di Wes nel giorno delle sue nozze) e conflitti fra sentimenti e dovere (fra Griff e Jessica nasce un'intensa love story, ma dovranno perdonarsi reciprocamente la morte di un fratello), comprimari interessanti (i già citati fratelli di Griff e lo sceriffo, ma anche la giovane armaiola bionda e Morris, lo scapestrato fratello minore di Jessica), per non parlare della regia nervosa ed inventiva, che ricorre talvolta a soluzioni filmiche non convenzionali per l'epoca (tanto che la pellicola era amatissima da Godard e dai suoi sodali della nouvelle vague francese), come il montaggio rapido, i primi piani ravvicinati (il volto imperturbabile di Barry Sullivan mentre cammina verso il luogo del duello con Morris ricorda in modo impressionante il Charles Bronson del leoniano "C'era una volta il west"), lunghi carrelli e piani sequenza (che beneficiano del widescreen: si pensi alla sequenza del funerale di Wes). Nella scena del tornado, la Stanwyck girò personalmente (senza controfigure) la scena in cui le rimane il piede infilato nella staffa e viene trascinata dal cavallo. Il personaggio di Jessica è al centro di un aneddoto che sembra anticipare i "Chuck Norris facts": "Da bambina fui morsa da un serpente...", racconta infatti. E Griff conclude: "...che morì avvelenato".

2 dicembre 2013

Don Jon (J. Gordon-Levitt, 2013)

Don Jon (id.)
di Joseph Gordon-Levitt – USA 2013
con Joseph Gordon-Levitt, Scarlett Johansson
**1/2

Visto al cinema Apollo, con Sabrina.

L'italo-americano Jon Martello (Joseph Gordon-Levitt), soprannominato "Don" dagli amici perché – come un novello Don Giovanni – è in grado di conquistare una ragazza ogni notte, preferisce in realtà la pornografia su internet al sesso reale. Quando incontra la bellissima Barbara Sugarman (Scarlett Johansson), sembrerebbe mettere la testa a posto. Ma non durerà, visto che la ragazza tenterà di plasmarlo secondo la propria volontà. A fargli conoscere l'importanza di una relazione davvero basata sulla coppia, e non "a senso unico", sarà invece la più matura Esther (Julianne Moore), una vedova da lui conosciuta a una scuola serale. Scritto e diretto dallo stesso Gordon-Levitt (al debutto come regista), una vivace commedia con indubbie qualità e qualche difetto, soprattutto per come scivola verso un finale dalla morale scontata (se c'è l'amore, il sesso è migliore). Per il tema della pornodipendenza, peraltro affrontato con ironia e intelligenza, può sembrare una versione light di "Shame", mentre tutta la sezione dedicata al rapporto con Barbara (peccato non sia stata sviluppata maggiormente) lo rende una commedia romantica decisamente non tradizionale. Non convince del tutto invece il personaggio interpretato dalla Moore, così come si rimane con la sensazione che ci sia troppa carne al fuoco e che sarebbe stato meglio concentrarsi maggiormente su alcuni elementi che invece, alla resa dei conti, risultano solo propedeutici alla svolta finale. Impagabile comunque la scena in cui Jon, alla ragazza che lo attacca perché vede i porno, le rinfaccia gli sdolcinati film romantici (i cosiddetti "chick flick") per cui lei va matta, sottolineando non senza ragione come si tratti di prodotti analoghi, seppur diretti a pubblici diversi. Bello anche l'utilizzo che Gordon-Levitt fa, a livello registico e narrativo, del meccanismo della ripetitività: vediamo spesso il protagonista all'interno di sequenze sempre uguali (la confessione in chiesa, la palestra, il pranzo dai genitori, ecc.), e solo a un certo punto, quando acquisisce consapevolezza, riesce a "rompere" la routine (porge a sua volta domande al confessore, sceglie di giocare a basket con gli amici). In ogni caso, un promettente debutto dietro la macchina da presa.

30 novembre 2013

Verso il sole (M. Cimino, 1996)

Verso il sole (The sunchaser)
di Michael Cimino – USA 1996
con Woody Harrelson, Jon Seda
**1/2

Visto in divx.

Un delinquente sedicenne, Brandon "Blue" Monroe (Seda), malato terminale (gli resta poco più di un mese di vita per un tumore addominale), sequestra l'oncologo che lo ha in cura, l'ambizioso chirurgo Michael Reynolds (Harrelson), per farsi condurre in auto fino in Arizona, nella riserva navajo (il ragazzo è mezzosangue indiano) dove, secondo le leggende di una tribù chiamata "i cacciatori del sole", in cima a una montagna sacra si troverebbe un lago dalle acque miracolose. Il settimo e ultimo film di Cimino, uscito a sei anni dal precedente, è un road movie costruito sul classico tema del cambiamento e della scoperta di sé stessi attraverso il viaggio. Il medico, inizialmente interessato soltanto alla carriera e con fede solo nella scienza (qui contrapposta alla credenze spirituali), nel corso del tragitto muta il proprio punto di vista e le proprie prospettive (anche perché il rapporto con il giovane "Blue" gli riporta alla memoria la traumatica esperienza vissuta con il fratello maggiore, malato anch'esso di cancro e al quale lui stesso staccò – su sua richiesta – il respiratore), tanto da aiutarlo ad evitare la polizia che dà loro la caccia e a fare di tutto per condurlo fino a destinazione. Che poi il lago sacro esista davvero o sia soltanto un punto d'arrivo metaforico e – appunto – spirituale, poco importa. Non poche le similitudini con il primo film di Cimino, "Una calibro 20 per lo specialista", anch'esso incentrato sulla fuga di una coppia di uomini, di cui uno giovane e più anziano, che proprio durante il percorso cementano un'amicizia inizialmente improbabile. Più prevedibile del dovuto, soprattutto nella caratterizzazione stereotipata dei personaggi, a tratti manierista nella regia e nella fotografia, alterna momenti riusciti e commoventi con altri che sembrano tirati via: ma non mancano alcune sequenze splendide, come la corsa della Cadillac insieme ai cavalli nella riserva indiana, per mimetizzarsi con la polvere, quasi un rimando a Ulisse che si confonde con le pecore per fuggire dai ciclopi ne "L'Odissea". Eccellente, comunque, l'uso scenografico che Cimino fa di paesaggi come la Monument Valley, che rendono la seconda parte della pellicola quasi un western moderno. Alcune situazioni evocano o anticipano "Thelma & Louise", "Un mondo perfetto" e – perché no? – "Into the wild". Anne Bancroft è la hippie sciroccata che dà un passaggio ai due fuggitivi. Non sempre azzeccata la colonna sonora.

28 novembre 2013

La ragazza sul ponte (P. Leconte, 1999)

La ragazza sul ponte (La fille sur le pont)
di Patrice Leconte – Francia 1999
con Daniel Auteuil, Vanessa Paradis
***

Rivisto in divx, con Paola, Marta, Beatrice, Esther, Costanza, Florian e Sabine.

La giovane Adèle sta per suicidarsi gettandosi in acqua da un ponte di Parigi, stufa di un'esistenza fatta di rapporti sentimentali tanto frequenti quando sfortunati. A salvarla è Gabor, lanciatore di coltelli che "recluta" le proprie partner fra coloro che non sembrano aver più nulla da chiedere alla vita. Nel corso del loro tour per l'Europa, fra circhi ambulanti e spettacoli sulle navi da crociera, scopriranno di portarsi reciprocamente fortuna: insieme si completano, come una banconota strappata che torna ad avere valore solo unendo le due metà. E proprio il tema della fortuna, del rischio e del gioco d'azzardo (e cosa c'è di più "azzardato" del lancio di coltelli?) fa da sfondo a una storia d'amore quasi metafisica che Leconte gira con estro e sensibilità, aiutato da un'espressiva fotografia in bianco/nero che riveste tutto di un'aura romantica e fuori dal tempo. La magia unisce i due protagonisti anche nel finale, quando si separano momentanemante ma continuano a "comunicare" fra di loro anche a distanza di chilometri l'uno dall'altra: una sorta di entanglement quantistico? Per tutta la pellicola sembra quasi di assistere a un incrocio fra il "realismo poetico" del cinema francese d'anteguerra (che in fondo si tratti di una fiaba è suggerito da diversi elementi: a un certo punto Gabor si autodefinisce "una fata") e la surrealità di certi lavori di Fellini (impressione rinforzata dall'ambiente circense e dal mood delle scene girate in Italia), anche se non manca – soprattutto nella parte iniziale – una certa dose di sarcasmo quasi da black comedy. La raggiante Paradis brilla di luce propria, ma anche il bravo Auteuil non è mai stato così bello e fascinoso. Ottima la colonna sonora, dove spiccano le canzoni "Who will take my dreams away" di Marianne Faithfull (usata durante il lancio dei coltelli), "I'm Sorry" di Brenda Lee e il classico "Sing, Sing, Sing" di Benny Goodman. Da segnalare in particolare due scene dove la musica aggiunge qualcosa di più a sequenze già magnificamente girate, recitate e montate: quella dello shopping a Montecarlo (dove Vanessa Paradis sfoggia per la prima volta il taglio corto di capelli) e quella del lancio dei coltelli "in privato", in un capannone dietro la stazione, quasi il surrogato di un atto sessuale. Ovviamente, il ponte stesso è una metafora dell'amore (qualcosa che unisce due elementi altrimenti separati). Il finale, ambientato su un altro ponte (stavolta a Istanbul), chiude il cerchio in maniera forse prevedibile, ma non era possibile terminare altrimenti.

26 novembre 2013

Thor: The dark world (Alan Taylor, 2013)

Thor: The Dark World (id.)
di Alan Taylor – USA 2013
con Chris Hemsworth, Natalie Portman
**

Visto al cinema Orfeo.

L'infido Loki è stato imprigionato, i Nove Regni sono in pace e Odino regna da Asgard con saggezza e serenità. Tutto bene? No, perché sta per verificarsi un raro "allineamento" dei mondi, e il malvagio elfo scuro Malekith vuole approfittarne per avvolgere l'universo in un'eterna oscurità. Quando l'astrofisica terrestre Jane Foster, ancora innamorata di Thor, viene contaminata dal malefico Aether, la sostanza necessaria al nemico per portare a termine i suoi loschi piani, il dio del tuono non può far altro che condurla su Asgard in cerca di una cura. Il regno degli dèi è però attaccato da Malekith con la sua astronave: e nel corso dell'assalto, fra i caduti, c'è anche Frigga, madre di Thor nonché moglie di Odino. Per vendicarla, il nostro eroe stringerà un'alleanza addirittura con il fratellastro Loki... Il secondo episodio cinematografico dedicato al personaggio creato da Jack Kirby e Stan Lee (che fa il suo consueto cameo: è uno dei vecchietti dell'ospedale psichiatrico) – il terzo se contiamo anche "The Avengers", al quale non mancano un paio di riferimenti (a un certo punto Loki assume per scherzo persino le sembianze di Capitan America) – è una pellicola ancor più fracassona e tonitruante della precedente, e di cui è più facile apprezzare l'aspetto visivo, i costumi e le fantasiose scenografie (gran parte della storia si svolge su Asgard o su altri mondi) che non lo svolgersi della vicenda, infantile e sempliciotta. Alla regia Kenneth Branagh è sostituto da Alan Taylor, l'autore de "I vestiti nuovi dell'imperatore" con Ian Holm (nonché di alcuni episodi del telefilm fantasy "Il trono di spade"): non fa un brutto lavoro, intendiamoci, ma la sua è la tipica regia anonima di molti "giocattoloni" hollywoodiani d'azione o supereroistici. Chris Hemsworth, Tom Hiddleston e Natalie Portman riprendono i ruoli, rispettivamente, di Thor, Loki e Jane, mentre Christopher Eccleston (il nono Doctor Who) è Malekith il maledetto, personaggio che nei fumetti era stato creato da Walt Simonson. Immutato anche il cast di contorno, tanto sul versante "asgardiano" (da Anthony Hopkins e Rene Russo nei panni di Odino e Frigga, a Idris Elba in quelli di Heimdall; l'unica novità è Fandral, ora interpretato da Zachary Levi) quanto su quello "terrestre" (tornano i comprimari Stellan Skarsgård e Kat Dennings, in ruoli sempre più comici): tutti personaggi (per non parlare dei vari Volstagg, Sif, ecc.) dalla caratterizzazione piuttosto spicciola, con l'eccezione forse di Loki, che anche questa volta si rivela la figura più complessa e interessante del lotto. Divertente comunque la battaglia finale a Greenwich, ravvivata da continui passaggi fra le varie dimensioni. Proprio la robusta dose di ironia, che si fonde spesso e volentieri con l'azione, rende piacevole la visione e fa sì che il film si mantenga in linea con le aspettative e con i presupposti del fumetto originale. Nel post-finale, Benicio Del Toro nei panni del Collezionista rivela che il Tesseratte (visto in "The Avengers") e l'Aether sono due delle sei gemme dell'infinito: immagino che lo spunto sarà sviluppato nell'imminente film Marvel dedicato ai Guardiani della Galassia.

25 novembre 2013

Il carretto fantasma (Victor Sjöström, 1921)

Il carretto fantasma (Körkarlen)
di Victor Sjöström – Svezia 1921
con Victor Sjöström, Astrid Holm
***1/2

Visto in divx.

Secondo un'antica leggenda scandinava, l'uomo che muore per ultimo nella notte del 31 dicembre è costretto a condurre per un anno intero il carretto della Morte che va in giro a raccogliere le anime dei defunti destinati all'inferno. È quello che capita allo scapestrato David Holm, ucciso proprio sul rintocco di mezzanotte in una rissa con due compagni di bevute in un cimitero: attraverso una serie di flashback assistiamo alla storia del suo degrado, a come sia stato trascinato verso l'alcolismo dalle cattive amicizie e a come abbia abbandonato la moglie e i figli per dedicarsi ai bagordi e al vagabondaggio, rifiutando persino i nobili tentativi di Edith, una suora laica innamorata di lui, di redimerlo. Ma quando il precedente carrettiere, Georges, gli mostra la morte di Edith (malata di tisi proprio a causa sua) e il tentativo di suicidio della moglie (che intende avvelenare anche i due bambini), David comprende finalmente i propri errori, viene perdonato e riportato in vita. Tratto dall'omonimo romanzo (1912) di Selma Lagerlöf, un memorabile film muto diretto e interpretato da quel Victor Sjöström che nel 1957 sarà il protagonista de "Il posto delle fragole" di Ingmar Bergman. I toni lugubri e spettrali sono abilmente resi con sovraimpressioni (tramite doppia esposizione direttamente in camera), giochi di luce o di ombra e angolazioni ardite, mentre l'insegnamento morale con la redenzione possibile anche all'ultimo istante e attraverso l'intervento soprannaturale ricorda il Dickens de "Il canto di Natale" e prefigura a sua volta il film di Frank Capra "La vita è meravigliosa". La scena in cui David abbatte a colpi di ascia la porta che lo separa dalla stanza in cui la moglie e i figli si sono rifugiati presenta notevoli similitudini con quella analoga in "Shining" di Stanley Kubrick (a onor del vero, una scena simile appare anche in "Giglio infranto" di D.W. Griffith, del 1919). Hilda Borgström è la moglie di David, Tore Svennberg è Georges il carrettiere. In precedenza Sjöström aveva già adattato per lo schermo altri lavori della Lagerlöf, ma fu questo film – distribuito nelle sale proprio il giorno di capodanno del 1921 – a renderlo celebre anche fuori dai suoi confini e a rivelarsi pivotale per il cinema svedese. Fra le altre cose, la pellicola ha avuto una forte influenza su Ingmar Bergman, che ha affermato di averla vista e rivista più volte e le ha dedicato un film per la tv, "The image makers", oltre a prenderne spunti per "Il settimo sigillo" e "Il posto delle fragole".

24 novembre 2013

Eva (Kike Maíllo, 2011)

Eva (id.)
di Kike Maíllo – Spagna 2011
con Daniel Brühl, Claudia Vega
**

Visto in divx, con Sabrina.

In un vicino futuro, la robotica è progredita a tal punto che gli uomini convivono ormai con robot di ogni forma e funzione. Ci sono persino automi antropomorfi, anche se la realizzazione di un'intelligenza artificiale del tutto simile a quella degli esseri umani è ancora di là da venire. Álex Garel, genio della cibernetica, fa ritorno dopo una decina d'anni al paese di montagna dove è cresciuto, dove vive tuttora suo fratello David, e dove ha studiato nell'università locale, che lo ha richiamato per portare a termine un delicato progetto: costruire un robot dotato della complessità emotiva di un vero bambino di dieci anni. Álex sceglie di prendere come modello Eva, figlia di David e di Lana, la donna con cui aveva avuto una relazione prima di fuggire dal paese. La ragazzina è vivace, carismatica e piena di sorprese, e Álex – che scopre di avere una notevole affinità con lei – comincia a sospettare che possa addirittura essere sua figlia: in un certo senso ha ragione, ma non come crede lui... Insolita pellicola di fantascienza "minimalista", dall'ambientazione quasi contemporanea e incentrata sui rapporti emotivi e umani prima che sugli effetti speciali. Se il tema della convivenza fra umani e robot e quello della consapevolezza della propria natura artificiale possono renderlo paragonabile per certi versi ad "A.I." e a "Blade runner", del tutto originale è l'ambientazione innevata e ai limiti del fiabesco (Eva che va in giro con la sua mantellina sembra quasi Cappuccetto Rosso). Peccato soltanto che la tensione non superi mai il livello di guardia e che la sceneggiatura non offra particolari guizzi. Maíllo è all'esordio come regista, mentre il veterano Lluís Homar è Max, il maggiordomo robotico. Da ricordare la frase con cui è possibile "resettare" qualsiasi robot: "Cosa vedi quando chiudi gli occhi?".

23 novembre 2013

Basic instinct (Paul Verhoeven, 1992)

Basic instinct (id.)
di Paul Verhoeven – USA 1992
con Michael Douglas, Sharon Stone
**1/2

Visto in TV.

Il detective Nick Curran (Douglas) della polizia di San Francisco indaga sull'omicidio di una ricca rock star in pensione, uccisa con un rompighiaccio durante un rapporto sessuale. La principale indiziata è Catherine Tramell (Stone), scrittrice bella, ricca, viziosa e bisessuale, che fa ben poco per allontanare da sé i sospetti, attirando invece volontariamente le attenzioni di Nick e scegliendolo addirittura come modello per il protagonista del suo prossimo romanzo. E proprio da un libro scritto da Catherine in passato, che descrive il delitto fin nei più piccoli particolari, potrebbe aver preso spunto l'assassino: sempre che non si tratti proprio della donna, manipolatrice diabolica e misteriosa quanto basta. Entrato nella memoria collettiva per la scena dell'interrogatorio della Stone alla centrale di polizia, quando accavalla le gambe mostrando di essere senza mutandine, più che un thriller erotico è un ingarbugliato noir che punta tutto sul fascino da femme fatale della protagonista e su un plot quasi chandleriano (e non hitchcockiano, come invece hanno scritto molti critici). Certo, alla fine non tutto torna, molte scene di sesso sono gratuite, le caratterizzazioni dei personaggi lasciano a desiderare e la sceneggiatura di Joe Eszterhas (vero "autore" della pellicola, prima ancora di Verhoeven) non è proprio il massimo della "trasparenza"... ma l'insieme, tutto sommato, funziona nel costruire una relazione torbida e speculare fra i due personaggi (lo stesso Nick è stato sospettato di omicidio, in passato, e i dialoghi lasciano intendere che se la sia cavata in maniera non dissimile da Catherine, ingannando la macchina della verità), più simili di quanto si pensasse, e dunque fatti l'uno per l'altra. Il classico film che per qualche indecifrabile motivo risulta migliore della somma delle parti, tanto che i tentativi di farne un sequel (l'orrido "Basic instinct 2") o di ripeterne il successo a base di sesso e di inganni da parte degli stessi autori ("Showgirls", che tre anni dopo avrebbe riunito la coppia Eszterhas-Verhoeven con i produttori Mario Kassar e Alan Marshall) sono disastrosamente naufragati. La Stone, fino ad allora pressoché sconosciuta (nonostante una parte in "Atto di forza" dello stesso Verhoeven), divenne una star. Velo pietoso sul resto del cast, a partire da Jeanne Tripplehorn nei panni della psicologa della polizia.

20 novembre 2013

Venere in pelliccia (R. Polanski, 2013)

Venere in pelliccia (La Vénus à la fourrure)
di Roman Polanski – Francia 2013
con Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric
***1/2

Visto al cinema Eliseo.

Thomas, scrittore e regista teatrale, intende mettere in scena una commedia tratta dal romanzo "Venere in pelliccia" di Leopold von Sacher-Masoch (da cui deriva il termine masochismo). Alle audizioni si presenta (in ritardo, quando ormai tutti sono andati via e nel teatro è rimasto lui solo) un'attrice che aspira alla parte femminile e che si chiama Wanda, proprio come il personaggio che dovrebbe interpretare. Inizialmente titubante a farle un provino (la donna, anche se piena di energia, sembra sboccata e ignorante), Thomas si deve ricredere quando scopre, già dalle prime battute, che conosce la parte a menadito, fin nelle più sottili sfumature, e che sarebbe dunque perfetta per il ruolo. Ma nel prosieguo della serata, mentre si lascia trascinare sempre più dalla recitazione identificandosi a fondo con il suo protagonista, scoprirà che forse Wanda è qualcosa di più di una semplice attrice: un'incarnazione della stessa dea Venere, giunta lì per vendicarsi di lui. Tratto a sua volta da una pièce teatrale (di David Ives, che ha collaborato alla sceneggiatura), il nuovo film di Polanski è – come il precedente "Carnage" – un altro perfetto esempio di "cinema da camera". Stavolta gli attori in scena sono solo due, gli ottimi Amalric e Seigner (moglie dello stesso Polanski, qui davvero strepitosa), e forse rispetto alla pellicola precedente il ritmo è meno incalzante, ma l'autoironia e la "crudeltà" nel mettere in scena una sorta di guerra dei sessi (del tutto sui generis, visto che in fondo asseconda il desiderio di degradazione del personaggio maschile) sono allo stesso livello, il crescendo degli eventi è ben dosato e il gioco del "teatro nel teatro" (qui, in realtà, si tratta di "teatro nel cinema") è sfruttato fino alle estreme conseguenze, a cominciare dalla straniante scenografia (i resti di uno spettacolo western precedente, che fa sì che si debba recitare fra cactus finti e fornelli da campo). Sul palco i due interpreti entrano ed escono in continuazione dai rispettivi personaggi (con il comico contraltare fra la svagata semplicità e la volgarità dell'attrice rispetto all'eleganza e la raffinatezza della Contessa che interpreta) e si scambiano più volte i ruoli, non solo quelli dei personaggi ma anche la posizione dominante e quella di sottomissione (nella "realtà", almeno all'inizio, è il regista a dirigere l'attrice e dunque a dare ordini; nella "finzione", invece, è la donna a comandare), tanto che, pian piano, anche sul palco avviene lo stesso ribaltamento di potere descritto nel romanzo e nella commedia. Allo stesso tempo omaggio a Sacher-Masoch, rilettura delle sue ossessioni in chiave psicanalitica e moderna, e attacco alla sua misoginia di fondo (che non poteva non scatenare l'ira "divina" di Afrodite), la vicenda assume così i contorni di un gioco intellettuale che richiama appunto i miti greci e che sfocia – in un crescendo irresistibile – in uno sberleffo finale contro la megalomania dell'artista, che viene "demolito" sia come uomo che come scrittore-demiurgo, in balia di forze più grandi di lui (e che stesse per scatenarsi un intervento soprannaturale lo suggerivano già le inquadrature iniziali, quelle di una Parigi vuota e sferzata dalla pioggia).

19 novembre 2013

Skyfall (Sam Mendes, 2012)

Skyfall (id.)
di Sam Mendes – GB/USA 2012
con Daniel Craig, Judi Dench, Javier Bardem
**

Visto in divx.

Il terzo film di 007 con Daniel Craig nel ruolo di James Bond non prosegue la vicenda del precedente "Quantum of Solace", come era lecito aspettarsi, ma è un episodio stand-alone, peraltro punto di svolta della saga. "Svolta" si fa per dire, perché non fa altro che ristabilire lo status quo e ricollegarsi idealmente agli inizi delle vicende bondiane, un po' come faceva "Star Wars episodio 3" nei confronti della trilogia classica. Dominato dai temi della vecchiaia (all'agente 007 – che fallisce pure i test fisici per tornare operativo! – viene prospettato il pre-pensionamento; di più, è tutto l'apparato del controspionaggio inglese – il celebre MI6 – a essere messo in discussione dai politici e dai burocrati che lo ritengono ormai antiquato o incapace di affrontare le sfide di "un mondo che è cambiato") e del rinnovamento (che passa però attraverso il recupero del vecchio: Bond rispolvera persino la classica Aston Martin), il film è il canto del cigno di Judi Dench nei panni di "M", ruolo che ha ricoperto nelle ultime sette pellicole, destinata a essere sostituita da Ralph Fiennes. Viene introdotta anche la (nuova) Miss Moneypenny, una Naomie Harris che condivide con Bérénice Marlohe il podio delle bond girl più dimenticabili di sempre. Anche perché, a ben vedere, l'autentica bond girl di questo episodio è proprio lei, Judi Dench, attorno al cui personaggio ruota l'intera vicenda. È per vendicarsi di "M", infatti, che il cattivo del film – l'ex agente Raoul Silva (interpretato da un Javier Bardem dai capelli biondi e dall'atteggiamento effemminato) – organizza un piano tanto complicato quanto, tutto sommato, idiota: perché farsi catturare da Bond per poi intraprendere una spettacolare evasione allo scopo di uccidere "M" quando sarebbe bastato volare direttamente a Londra e raggiungere il suo obiettivo? Non è l'unico punto debole del soggetto, visto che anche le contromosse di Bond e di "M" appaiono altrettanto stupide (perché farsi seguire volontariamente dai cattivi fino a un luogo – scelto da loro stessi, si badi bene! – dove non hanno a disposizione né alleati né armi?). Tale luogo, per inciso, è Skyfall, la villa nella brughiera scozzese dove James Bond è nato e cresciuto, un modo come un altro per mostrare il background dell'agente segreto più famoso del mondo (si citano anche i suoi genitori, con tanto di lapide con i nomi incisi sopra). Mah... Nonostante la regia professionale di Mendes, la raffinata fotografia (i cui toni cambiano però completamente da scena a scena: ogni setting – Turchia, Shanghai, Macao, Londra – sembra affidato a un operatore differente) e l'ottima – come al solito – introduzione pop-musicale (la title song è di Adele), questo nuovo corso bondiano continua a lasciarmi piuttosto perplesso. Nulla da dire sulle qualità attoriali di Craig, beninteso: ma oltre a non sembrarmi l'interprete giusto per il ruolo, è tutto quello che ruota attorno a lui ad apparire banalissimo (vogliamo parlare del nuovo "Q", il solito ragazzino/mago dei computer già visto in millemila pellicole?), schematico o artificioso, come se gli sceneggiatori volessero disperatamente "giustificare" gli elementi classici della saga aggiornandoli ai tempi che corrono, quando non ce ne sarebbe affatto bisogno. E non si rendono nemmeno conto di non essere poi così originali: l'idea di usare proprio un ex-agente MI6 come avversario, per esempio, era già stata sfruttata in passato e con risultati migliori ("Goldeneye", everyone?).

17 novembre 2013

Arcipelago in fiamme (H. Hawks, 1943)

Arcipelago in fiamme (Air force)
di Howard Hawks – USA 1943
con John Garfield, John Ridgely, Harry Carey
**1/2

Visto in divx.

Girata nei concitati mesi del 1942 (l'obiettivo era quello di uscire nelle sale il 7 dicembre, primo anniversario dell'attacco di Pearl Harbor, ma i ritardi nella lavorazione ne posticiparono la "prima" di due mesi), la pellicola racconta i primi giorni dell'ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, superando i limiti del film di propaganda grazie alla maestria registica di Hawks e a una sceneggiatura che si concentra più sulla descrizione dei personaggi e dei loro drammi personali che non sugli eventi storici, visti sempre attraverso la prospettiva umana. Testimoni e protagonisti dei fatti sono un gruppo di militari dell'aviazione americana, membri dell'equipaggio di un bombardiere B-17, che assistono impotenti all'attacco giapponese a Pearl Harbor (erano decollati da poco da San Francisco per raggiungere proprio le Hawaii) e da lì si gettano a capofitto in battaglia, dirigendosi verso le Filippine e partecipando ai primi scontri nel Pacifico. L'impostazione è corale (il cast è privo di vere stelle, ma assai bilanciato), con personaggi che coprono tutto lo spettro del genere bellico, dal veterano fatalista alla recluta inesperta ma piena di entusiasmo; e non manca nemmeno la "mascotte", un cagnolino che abbaia quando sente un nome giapponese! Nonostante qualche iniziale incomprensione e battibecco, il gruppo si rivela compatto e ognuno fa la propria parte: si teme per le sorti di madri, mogli e sorelle rimaste a terra, si soffrono gravi perdite, si combatte tutti uniti e coraggiosamente, e anche l'unico (John Garfield) che all'inizio si mostra cinico e disilluso, persino intenzionato a congedarsi al più presto, cambia rapidamente opinione e si rivela capace di atti eroici. Proprio l'eroismo e il coraggio degli avieri americani (che contrasta con la codardia e il "tradimento" dei nemici) emergono in ogni momento di un film che aveva, fra i suoi scopi, quello di coinvolgere ed esaltare il pubblico e di fargli pregustare immediatamente una rivincita sull'attacco subito dai giapponesi. Ma Hawks, come detto, è bravo a non eccedere in retorica o in glorificazione, a mantenere sempre il focus sui personaggi, a curare la verosimiglianza storica e il realismo: spettacolari, in particolare, le scene di combattimento aereo e il bombardamento finale sulla flotta giapponese che tentava di raggiungere l'Australia (un evento ispirato alla Battaglia del Mar dei Coralli). Gran parte della pellicola si svolge comunque all'interno del B-17, esso stesso un vero e proprio personaggio del film, tanto che l'equipaggio lo chiama confidenzialmente "Mary-Ann" ("Marianna" nel doppiaggio italiano). Quanto alle scene di volo, solo in parte vennero usati modellini: molte sequenze furono girate in basi americane con la collaborazione delle forze aeree, per lo più in Florida, con il coordinamento tecnico del pilota Paul Mantz. La sceneggiatura di Dudley Nichols, ancora incompleta al momento di cominciare le riprese, dedicava ampio spazio all'introduzione e alla caratterizzazione dei vari personaggi, ma fu sfrondata per esigenze di tempo e modificata sul set da Hawks stesso e nientemeno che da William Faulkner, ingaggiato per riscrivere due scene (fra cui quella della morte di John Ridgely). Grazie a tutto ciò, oggi la pellicola può essere goduta anche come "semplice" film di guerra, dal ritmo serrato e coinvolgente, e non solo come documento storico, al di là degli intenti patriottici e propagandistici. Nota a margine: curiosa (e profetica) la scena in cui il pilota di caccia interpretato da James Brown immagina un futuro in cui i velivoli saranno del tutto automatizzati e la guerra si combatterà senza uomini, solo schiacciando un bottone.

16 novembre 2013

Arturo (Jason Winer, 2011)

Arturo (Arthur)
di Jason Winer – USA 2011
con Russell Brand, Helen Mirren
*1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Arturo Bach (Russell Brand), giovane e immaturo erede di una ricchissima famiglia dell'aristocrazia newyorkese, conduce una vita sregolata e capricciosa a base di feste, alcol, donne, lusso e carnevalate (va in giro vestito da Batman, con tanto di batmobile), anche perché la sua personalità infantile è a malapena tenuta a bada dalla sua tata Hobson (Helen Mirren). Per porre un freno ai suoi eccessi, che potrebbero danneggiare la compagnia di famiglia, la madre lo costringe – minacciando di tagliargli le spese – a fidanzarsi con la pragmatica imprenditrice Susan (Jennifer Garner), figlia di un ricco costruttore edile che si è fatto da sé (Nick Nolte). Ma lui scoprirà invece di amare la più semplice Naomi (Greta Gerwig), aspirante scrittrice e guida turistica abusiva alla stazione centrale di New York. Mediocre remake dell'omonimo film del 1981 con Dudley Moore e Liza Minnelli, inferiore sotto ogni aspetto al prototipo: nonostante una vena umoristico-demenziale non del tutto disprezzabile (più per merito della sceneggiatura che degli interpreti: da salvare solo la Mirren e Nolte, mentre Brand si rivela incapace di accattivarsi la simpatia degli spettatori), finisce col naufragare ben presto, trasformandosi nell'ennesima variante – ma senza coraggio e senza idee – della pellicola romantica basata sulla differenza di classe e sul contrasto fra amore e ricchezza. Cameo per il pugile Evander Holyfield (che la Mirren minaccia: "Ti stacco l'altro orecchio!"). Primo (e finora unico) film diretto dal regista televisivo Jason Winer.

14 novembre 2013

Prima del tramonto (R. Linklater, 2004)

Before Sunset - Prima del tramonto (Before Sunset)
di Richard Linklater – USA 2004
con Ethan Hawke, Julie Delpy
***

Visto in divx, con Sabrina.

Nove anni dopo il loro primo e unico incontro, l'americano Jesse – divenuto ora uno scrittore di successo, grazie a un romanzo ispirato proprio agli eventi di quella notte – ritrova la francese Céline in una libreria di Parigi, ultima tappa del suo tour promozionale in Europa. I due hanno soltanto un'ora a disposizione prima che il ragazzo debba prendere un aereo per tornare a New York, e ne approfittano per camminare per le strade della città raccontandosi la propria vita, confrontandosi sui più disparati argomenti, dando sfogo ai rimpianti e ai ricordi, e scoprendo di essere ancora innamorati l'uno dell'altra. A nove anni di distanza (gli stessi che sono trascorsi nella realtà, tanto per gli attori quanto per gli spettatori), Linklater torna "sul luogo del delitto" con un intelligente sequel del suo film più rappresentativo, "Prima dell'alba", rivelando che i due protagonisti non avevano dato seguito al proposito di rivedersi, sei mesi dopo quella notte, alla stazione di Vienna. Girato praticamente in tempo reale, il film mostra essenzialmente soltanto due personaggi che parlano fra loro: ma la grande naturalezza dei dialoghi (stavolta Hawke e la Delpy figurano ufficialmente come co-sceneggiatori al fianco del regista, suggerendo come gli attori abbiano contribuito a "dare vita" al rispettivo personaggio) e la spontaneità con cui si affrontano i vari temi, senza forzature, scongiura il rischio di verbosità intellettualistica o fine a sé stessa (il film è stato paragonato da alcuni critici al cinema di Éric Rohmer). La personalità e il carattere di Jesse e di Céline fluiscono in maniera naturale dalle loro parole – con cui si raccontano o rievocano le esperiente passate – o dai loro sguardi, mentre il regista illustra la loro passeggiata per Parigi attraverso una lunga serie di piani sequenza: una caratterizzazione che è alla base della buona riuscita del film. Anche stavolta il finale non rivela come proseguirà la storia e se il rapporto fra i due è destinato a durare o meno: in ogni caso, attualmente nelle sale cinematografiche è in programmazione il terzo capitolo della storia, "Before Midnight", ambientato nuovamente a nove anni di distanza (stavolta in Grecia), alla luce del quale è necessario (ri)valutare questo come il tassello centrale di una "trilogia" sulla nascita e l'evoluzione di una relazione. Una finezza: i titoli di testa mostrano le strade e i luoghi di Parigi che i due protagonisti visiteranno successivamente, invertendo l'ordine rispetto alla prima pellicola, dove i vari luoghi di Vienna venivano invece mostrati – senza i personaggi – appena prima dei titoli di coda.

13 novembre 2013

Lake Placid (Steve Miner, 1999)

Lake Placid - Il terrore corre sul lago (Lake Placid)
di Steve Miner – USA/Canada 1999
con Bridget Fonda, Bill Pullman
**1/2

Visto in divx.

Una misteriosa creatura che vive nelle acque tranquille e immobili di un lago sperduto fra le foreste nel Maine semina morte fra i (rari) visitatori. Sulle sue tracce si mette un'improbabile squadra formata da Kelly (Bridget Fonda), paleontologa piena di fobie e in fuga da New York dopo una delusione d'amore; Jack (Bill Pullman), agente della polizia ambientale non del tutto a suo agio nel ruolo di leader; Hank (Brandon Gleeson), il burbero sceriffo locale, insofferente alla presenza degli estranei; e Hector (Oliver Platt), eccentrico milionario appassionato di mitologia e convinto che il mostro sia un coccodrillo gigante, animale che lui idolatra come una divinità. Si scoprirà che quest'ultimo ha ragione: il coccodrillo, migrato nel New England dall'Asia (!), è cresciuto grazie alle amorevoli cure di una vecchietta svampita che vive in una fattoria in riva al lago e che da anni gli dà regolarmente da mangiare le proprie mucche (!!). E i nostri eroi saranno combattuti sul da farsi: dargli la caccia, ucciderlo o catturarlo vivo? Una forte dose di ironia stempera un film horror che strizza l'occhio ai B-movie del passato, che non si prende mai sul serio (a partire dalla caratterizzazione dei personaggi, che passano il tempo a bisticciare fra loro e si rivelano l'uno più imbranato dell'altro) e che può contare su effetti speciali "artigianali" come ai vecchi tempi (il coccodrillo gigante è un animatrone realizzato dal veterano Stan Winston, e non una creatura digitale). Il tono ironico, in ogni caso, non va mai sopra le righe al punto di sfociare nel grottesco o nella parodia esplicita, e questo è sicuramente un pregio di cui va reso atto al regista Steve Miner e allo sceneggiatore (anche produttore) David E. Kelley, che prendono sì spunti da "Lo squalo" e dalla leggenda del mostro di Loch Ness ma effettuano un "downgrade" che rende il risultato finale ben più apprezzabile del previsto. In certi momenti, soprattutto nelle interazioni fra i personaggi, siamo più dalle parti della commedia screwball che dell'horror. Con tre seguiti, tutti per la tv.

12 novembre 2013

Shaolin basket (Chu Yen-ping, 2008)

Shaolin basket (Gongfu Guanlan, aka Kung fu dunk)
di Chu Yen-ping – Taiwan/Cina 2008
con Jay Chou, Eric Tsang
*1/2

Visto in divx.

L'orfano Fang Shi-jie (Jay Chou), cresciuto in una scuola di arti marziali, viene convinto dal manager fallito Zhan Wang-li (Eric Tsang) – che ha scoperto la sua incredibile abilità al tiro: non sbaglia mai un canestro – a giocare a basket nel team della First University. Con i suoi compagni di squadra vincerà il campionato studentesco, battendo in finale gli scorretti rivali della Fireball University, e riuscirà anche a ritrovare i genitori che lo avevano abbandonato da piccolo. Con un occhio a "Shaolin soccer" (il film di Stephen Chow) e un altro al popolare manga "Slam Dunk" (di Takehiko Inoue), una pellicola che naufraga in un mare di luoghi comuni (tratti da fumetti, film e telefilm di carattere sportivo), fra umorismo grossolano, sceneggiatura "scollegata" e personaggi bidimensionali. Assai meno divertente del capolavoro di Stephen Chow, si rivela superficiale anche come spettacolo di intrattenimento tout court. Nel cast (dove si salva solo il veterano Eric Tsang), molte star del cinema e/o della musica taiwanesi o di Hong Kong, come Charlene Choi (la ragazza), Will Liu (il cattivo), Ng Man-tat, Bryan Leung, Eddy Ko e Kenneth Tsang (i maestri di kung fu). Bella, comunque, la canzone "Hero Chou", cantata dallo stesso protagonista.

11 novembre 2013

Blind beast (Yasuzo Masumura, 1969)

Blind beast (Mōjuu)
di Yasuzo Masumura – Giappone 1969
con Eiji Funakoshi, Mako Midori
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Una giovane modella viene rapita da uno scultore cieco, ossessionato dai corpi femminili, che la segrega nel suo magazzino-laboratorio dove intende perfezionare con il suo aiuto una nuova forma di scultura, "l'arte del tatto". Inizialmente la ragazza cerca in ogni modo di fuggire, e a questo scopo semina zizzania fra il carceriere e sua madre, l'unica donna che gli è mai stata vicina e che lo ha aiutato nel rapimento. Ma alla lunga, fra i due si svilupperà un morboso rapporto che crescerà fino alle estreme conseguenze, in un vortice discendente di follia e passione. Ispirato a un racconto di Edogawa Ranpo, un film insolito ed inquietante, caratterizzato in principio da atmosfere da thriller erotico che via via assumono connotazioni sempre più disturbanti e malate, con venature sadomasochistiche (l'esplorazione dei corpi porta rapidamente alla sperimentazione del dolore, direttamente collegata con l'estasi sessuale), tra dipendenza e sindrome di Stoccolma. Paragonato da alcuni a "La donna di sabbia", rispetto al film di Hiroshi Teshigahara è forse meno incisivo nella descrizione psicologica dei personaggi e nella concatenazione delle varie situazioni, ma colpisce per la messa in scena surreale (memorabile la scenografia dello studio dello scultore, in cui si svolge quasi tutta la pellicola, con frammenti di corpi femminili – talvolta giganteschi – che escono dalle pareti e due enormi statue nude sulle quali si muovono i protagonisti, immersi in una perenne penombra) e per lo stile minimalista e tutto sommato raffinato nel portare sullo schermo – senza mai varcare la soglia dell'eccesso grafico gratuito o fine a sé stesso – ossessioni e perversioni di due personaggi tragici e senza via d'uscita.

10 novembre 2013

Ashik Kerib (Sergej Paradžanov, 1988)

Ashik Kerib - Storia di un ashug innamorato (Ashik Kerib)
di Sergej Paradžanov, Dodo Abashidze – URSS 1988
con Yuri Mgoyan, Sofiko Chiaureli
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

L'ultimo film di Paradžanov (che morirà due anni più tardi) è dedicato alla memoria di Andrej Tarkovskij, a sua volta da poco scomparso. Dopo aver portato sullo schermo, nei tre lavori precedenti, immagini, musiche ed elementi del folklore della cultura ucraina ("Le ombre degli avi dimenticati"), armena ("Il colore del melograno") e giorgiana ("La leggenda della fortezza di Suram"), con questo adattamento di un racconto di Mikhail Lermontov è la volta dell'Azerbaijan. Kerib, il protagonista della "favola", è un ashik (o ashug, cioè un menestrello o cantastorie itinerante) innamorato della bella Magul. Poiché è povero, però, il padre di lei rifiuta il proprio consenso, e Kerib è costretto a partire per terre lontane in cerca di fortuna. Dopo numerose avventure (suonerà il suo liuto ai matrimoni di ciechi e sordomuti, sarà ospite di un ricco pascià e costretto ad arruolarsi da un sultano guerrafondaio), verrà riportato magicamente al proprio paese da un santo in groppa a un cavallo bianco, giusto in tempo per impedire le nozze dell'amata con un rivale e per restituire la vista alla madre cieca. La storia, ancor più che in altre occasioni, è solo un pretesto per mettere in mostra costumi e rituali, balli e pantomine, fra stoffe colorate e animali selvatici, sullo sfondo di scenari naturali o archeologici. Rispetto ai film precedenti sembra esserci maggior ingenuità e maggior contaminazione: alcune figure (come il pascià) sono decisamente grottesche, la teatralità impera (i personaggi parlano senza muovere la bocca, o muovendola fuori sincrono; indossano barbe finte; e persino alcuni animali – come la tigre – non sono altro che pupazzi o attori in costume) e non mancano gli anacronismi (fucili moderni, una macchina da presa su cui si posa una colomba nell'inquadratura finale)... Persino la musica che dovrebbe essere diegetica (ossia il suono del liuto e il canto di Kerib) è chiaramente sovrimpressa. Decisamente più naïf e meno riuscito dei film precedenti, reca però con sé il consueto fascino per l'immagine e la cultura del Caucaso di Paradžanov, pur trattandosi di un tipo di cinema che era già del tutto fuori tempo alla fine degli anni ottanta. Il georgiano Dodo Abashidze è accreditato come co-regista.

8 novembre 2013

Sogni proibiti (Norman Z. McLeod, 1947)

Sogni proibiti (The Secret Life of Walter Mitty)
di Norman Z. McLeod – USA 1947
con Danny Kaye, Virginia Mayo
**

Visto in divx.

Per evadere dalla grigia realtà che lo circonda (è dominato da una madre invadente, fidanzato con una ragazza insensibile, sfruttato da un capo che non riconosce il suo valore), il candido Walter Mitty si rifugia in frequenti sogni ad occhi aperti in cui, di volta in volta, si immagina come un coraggioso capitano di vascello, un esperto chirurgo, un impavido pilota d'aviazione, uno spregiudicato giocatore d'azzardo, un raffinato stilista, un abile cowboy, e conquista regolarmente con le sue prodezze la bella di turno. Questa ricca fantasia è forse stimolata dal suo lavoro: corregge infatti le bozze di riviste pulp che ospitano racconti d'avventura, d'orrore, sentimentali o polizieschi. Quando un giorno incontra per caso la bella Rossana (Rosalind nella versione originale), che lo coinvolge in una misteriosa avventura a base di spionaggio, omicidi e traffico internazionale d'opere d'arte, tutti i suoi conoscenti penseranno che si tratti solamente di un altro frutto della sua immaginazione... Tratto da un racconto di James Thurber, girato in un vivido technicolor e dominato dalla verve di Kaye (ma alcuni numeri comico-musicali risultano francamente datati per il gusto odierno), è un elogio dell'escapismo che, nonostante la sua ingenuità, è diventato un cult movie per una certa parte del pubblico americano, tanto che sta per uscirne un remake girato e interpretato da Ben Stiller. Chissà che non ne venga fuori qualcosa di buono, visto che il soggetto resta indubbiamente valido (per di più, spogliato dagli elementi comici e fantastici, è quasi "hitchockiano" nel suo coinvolgere una persona qualunque in una vicenda criminale e di spionaggio). Certo avrebbe meritato un regista più coraggioso o visionario al posto del mestierante McLeod (noto per lo più per aver diretto un paio di pellicole dei fratelli Marx nei primi anni trenta). Nel cast, che comprende anche Ann Rutherford, Fay Bainter e Thurston Hall, si riconosce Boris Karloff nel ruolo del killer-psicanalista.

6 novembre 2013

Tesis (Alejandro Amenábar, 1996)

Tesis (id.)
di Alejandro Amenábar – Spagna 1996
con Ana Torrent, Fele Martínez, Eduardo Noriega
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Rivisto in DVD.

Angela sta per laurearsi in cinema all'Università di Madrid con una tesi sulla violenza negli audiovisivi. Per procurarsi materiale "estremo" si fa aiutare da Chema, bizzarro studente con la passione per il cinema più trash, horror e pornografico. Quando i due entrano in possesso per caso di una videocassetta, custodita in una sezione segreta degli archivi dell'ateneo, che mostra una ragazza torturata a morte (un cosiddetto "snuff movie"), decidono di indagare e scoprono che si trattava di una studentessa di quella stessa facoltà. Di più: si rendono conto che negli anni precedenti numerose ragazze sono scomparse per diventare protagoniste, loro malgrado, di pellicole del genere. Che il responsabile sia qualcuno che frequenta l'università, uno studente o magari un professore? Il primo lungometraggio di Alejandro Amenábar, girato dopo tre corti, è un thriller debitore alle atmosfere del miglior giallo all'italiana e dello slasher alla Wes Craven, anche se gli eccessi sono decisamente meno grafici e più impliciti. L'atmosfera di tensione e di paranoia (chiunque può essere l'assassino) si sposa con riflessioni sull'assuefazione dello spettatore alla violenza e sul fascino morboso che certi spettacoli hanno anche per gli individui più innocenti (il film si apre con la stessa Angela che prova la tentazione di sbirciare sul luogo di un cruento incidente, e termina con un finale memorabile in cui uno di questi snuff movie viene trasmesso in televisione – e atteso con curiosità e trepidazione dal pubblico – perché "documenta la realtà"), ma anche sulla natura del cinema stesso in quanto mezzo di intrattenimento ("Bisogna dare agli spettatori quello che vogliono", è la ricetta suggerita a un certo punto da un personaggio per risollevare l'industria cinematografica spagnola). La regia dinamica e la sceneggiatura solida, che obbedisce a tutte le regole del genere senza scadere nei cliché fini a sé stessi e lasciando sempre una porta aperta per lo spettatore più smaliziato, dimostrano il talento di un cineasta che con i lavori successivi ("Apri gli occhi", "Mare dentro", "The Others", "Agora") non farà altro che confermarsi. La protagonista Ana Torrent è nota per aver interpretato da bambina, quando aveva sei anni, il capolavoro di Victor Erice "Lo spirito dell'alveare".

30 ottobre 2013

Kagemusha (Akira Kurosawa, 1980)

Kagemusha - L'ombra del guerriero (Kagemusha)
di Akira Kurosawa – Giappone 1980
con Tatsuya Nakadai, Tsutomu Yamazaki
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Rivisto in DVD.

Nel Giappone feudale del sedicesimo secolo, il potente clan Takeda è in lotta con i rivali Oda e Tokugawa per il dominio su tutto il paese. Ma proprio quando la conquista della capitale Kyoto sembra ad un passo, Shingen, il signore del clan, viene gravemente ferito da un archibugio nemico. Morente, ordina ai suoi più fedeli generali di mantenere segreta la sua dipartita per tre anni, in modo da proteggere il feudo dagli attacchi dei signori della guerra avversari. Viene così sostituito da un sosia, un umile ladruncolo condannato a morte che vanta con lui un'incredibile somiglianza, al punto da riuscire ad ingannare non solo i nemici ma i suoi stessi uomini e persino i parenti più stretti. Diventare "l'ombra" di qualcun altro, però (il titolo del film significa letteralmente "Il guerriero ombra"), comporta la rinuncia a sé stessi: e quando il sosia verrà smascherato e costretto ad abbandonare il palazzo, si scoprirà talmente incapace di separare il proprio destino da quello del clan Takeda da non poter far altro che seguirne di nascosto l'esercito, inviato allo sbaraglio dal figlio di Shingen, fino alla distruzione completa sul campo di battaglia. Dopo "l'esilio russo" che aveva fruttato "Dersu Uzala", Kurosawa torna a lavorare in patria, stavolta con il sostegno economico degli americani (il film è parzialmente finanziato dalla 20th Century Fox, intervenuta quando la Toho aveva esaurito il budget e minacciava di non portare a termine la pellicola, e fra i produttori esecutivi figurano Francis Ford Coppola e George Lucas, da sempre estimatori del regista nipponico), e sforna un capolavoro drammatico ispirato a eventi reali dell'epoca Sengoku (la battaglia finale è quella di Nagashino, nella pianura di Shitaragahara) ma interessato più ad affrontare dilemmi psicologici sull'identità e l'annullamento di sé ("L'ombra di un uomo non lo lascia mai, non può camminare da sola"; "ma quando l'uomo scompare, la sua ombra dova va a finire?") che non a riproporre una pedante ricostruzione storica (tanto Takeda Shingen quanto i suoi rivali Oda Nobunaga e Tokugawa Ieyasu sono personaggi realmente esistiti e di notevole importanza nella storia giapponese; da rimarcare le sequenze in cui Nobunaga si fa benedire dai monaci cristiani e beve il vino rosso degli "stranieri"), nonostante le sontuose scene di battaglia e la cura nel proporre costumi, armature e ambientazioni (molte scene sono state girate al castello di Himeji, presso Kobe).

Impressionante visivamente (l'uso del colore "espressionistico" – com'era già stato per "Dodes'ka-den" e come sarà per tutte le pellicole successive, "Ran" e "Sogni" in primis – spicca nel rosso acceso del cielo contro cui si stagliano le silhouette degli uomini; nelle tinte degli stendardi dell'esercito di Shingen, le cui divisioni richiamano le forze della natura come il vento, il fuoco o la foresta, mentre il daimyo rappresenta la montagna "incrollabile"; nel colore del sangue, quasi fasullo nella sua teatralità; nella sequenza del sogno in cui il sosia vede il cadavere di Shingen – con tanto di armatura – fuoriuscire dal vaso in cui era stato nascosto per marciare contro di lui; e in generale in tutte quelle sequenze audacemente visionarie – cito anche l'apparizione dell'arcobaleno al fianco delle armate Takeda in marcia – dove le pennellate di colore sembrano fuoriuscire dalla tavolozza di un artista), il film presenta una ricca collezione di personaggi, fra figure elevate e shakespeariane (Shingen stesso, i dignitari, il figlio Katsuyori che si fa accecare dall'ambizione) e altre più umilmente "kurosawiane" (meno presenti, a dire il vero, che negli altri film: ma ricordiamo almeno le tre spie inviate dai rivali ad accertarsi che Shingen sia davvero morto; e naturalmente il sosia, uomo senza nome e senza identità che si affeziona sinceramente al nipotino di Shingen e finisce col farsi scoprire non dagli uomini ma da un cavallo). Il ritmo della pellicola è lento, quasi austero (la prima sequenza, per esempio, consiste interamente in una camera fissa su tre uomini seduti – e quasi indistinguibili l'uno dall'altro! – che parlano fra loro: è anche l'unica sequenza in cui Tatsuya Nakadai compare in entrambi i ruoli, quello del daimyo e quello della sua "ombra"). A proposito di Nakadai: la sua recitazione non fa rimpiangere il miglior Toshiro Mifune, alternando momenti di grande dignità a improvvisi scatti da fool, ma è da segnalare che la prima scelta di Kurosawa per il ruolo del protagonista era stato il comico Shintaro Katsu, meglio noto per aver interpretato la saga cinematografica di Zatoichi negli anni sessanta. Ma Katsu abbandonò il set già nel primo giorno di riprese, costringendo l'Imperatore a ricorrere a Nakadai, che aveva già lavorato con lui in tre film ("Yojimbo", "Sanjuro" e "Anatomia di un rapimento") e tornerà in "Ran". Fra le sequenze che più rimangono impresse, oltre a quella già citata del vaso, vorrei ricordare la battaglia notturna cui il sosia assiste dalla collina (si fa per dire, visto che dall'oscurità giungono soltanto grida ed echi di morte), e naturalmente il finale, apocalittico e nichilista, accompagnato dal tema solenne della colonna sonora composta da Shinichiro Ikebe. La pellicola, alla quale ha collaborato anche Ishiro "Godzilla" Honda (che dal 1980 ha partecipato come aiuto regista a tutti gli ultimi film di Kurosawa), vinse la Palma d'Oro al Festival di Cannes.

28 ottobre 2013

Rossini! Rossini! (Mario Monicelli, 1991)

Rossini! Rossini!
di Mario Monicelli – Italia 1991
con Philippe Noiret, Sergio Castellitto
*1/2

Visto in divx.

Il settantenne Gioacchino Rossini (Noiret da anziano, Castellitto da giovane), stabilitosi a Parigi e attorniato da parenti, amici e ammiratori, rievoca le vicende della sua lunga vita, dall'infanzia trascorsa a Pesaro fino al precoce "pensionamento" volontario (smise di comporre a 39 anni, ma visse fino a 76), fra eventi storici (le tante guerre che hanno scosso l'Italia nella prima metà dell'ottocento), carriera musicale (assistiamo alle prime rappresentazioni e ai trionfi o agli insuccessi, fra le altre, de "La pietra del paragone", "Tancredi", "L'italiana in Algeri", "Elisabetta", "Il barbiere di Siviglia", "Mosé in Egitto", "Guglielmo Tell"), rapporti con le donne (tre su tutte: il contralto Maria Marcolini, la soprano Isabella Colbran e la modella Olimpia Pélissier; le ultime due diventarono sue mogli), amore per i soldi, il cibo e la vita... Sceneggiato dal regista insieme a Suso Cecchi D'Amico, Nicola Badalucco e Bruno Cagli, un biopic su quello che, ai suoi tempi, fu il compositore più popolare al mondo: il film ha avuto una lunga gestazione (a un certo punto si era parlato persino di Robert Altman alla regia), ma poi – nonostante le risorse e le ambizioni – è sfociato in una pellicola di stampo televisivo, quasi una proto-fiction Rai (che lo ha prodotto, con l'Istituto Luce). In mancanza di un'idea centrale o di un filo conduttore (come poteva essere la rivalità di Mozart con Salieri in "Amadeus"), il lungometraggio si limita ad accatastare gli eventi della vita di Rossini senza mai comunicare davvero, se non a parole, la novità storico-sociale e la grandezza immortale della sua musica e del "bel canto", non aiutato in questo da una regia anonima e che non rende certo giustizia al nome dell'autore de "La grande guerra". Il risultato è un film "corretto, decoroso, di televisiva uniformità, un film senz'anima che non ha lasciato tracce" (Morandini). Peccato, perché in questo modo si è sprecato sia il soggetto (la vita di Rossini è stata parecchio interessante, basterebbe chiedere a Stendhal per una conferma) sia il ricco cast, che comprende anche Giorgio Gaber (il migliore di tutti, nel ruolo dell'abile ed eccentrico impresario Domenico Barbaja, colui che assoldò Rossini facendolo venire a Napoli per comporre il "Barbiere"), Sabine Azema (la musa di Resnais, qui nel ruolo di Olimpia Pélissier), Jacqueline Bisset (Isabella Colbran), Assumpta Serna (Maria Marcolini). Accreditato anche Vittorio Gassman come Ludwig Van Beethoven, ma la scena del celebre incontro fra i due compositori è stata tagliata in fase di montaggio. La sequenza migliore, in ogni caso, è quella del fiasco (abilmente "orchestrato") della prima del "Barbiere". Curiosità: fra i molti brani che si ascoltano nella pellicola mancano i due pezzi forse più noti fra tutti quelli composti dal musicista pesarese, ovvero la cavatina di Figaro dal "Barbiere" e l'ouverture del "Guglielmo Tell".