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14 gennaio 2023

Stray Dog: Kerberos Panzer Cops (M. Oshii, 1991)

Stray Dog: Kerberos Panzer Cops (Kerberos: Jigoku no banken)
di Mamoru Oshii – Giappone 1991
con Yoshikatsu Fujiki, Shigeru Chiba
**

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Dopo aver trascorso tre anni in prigione per aver partecipato alla fallita rivolta dei Kerberos, unità speciale di un corpo di polizia paramilitare che si era ribellata al governo autoritario del Giappone, Inui (Yoshikatsu Fujiki) lascia il paese e parte alla ricerca di Koichi Todome (Shigeru Chiba), l'ex leader del suo squadrone che si era dato alla fuga. Grazie all'aiuto di una misteriosa ragazza, Tang Mie (Sue Eaching), lo rintraccerà a Taiwan. Ma scoprirà di essere stato usato dal misterioso Hayashi (Takashi Matsuyama) e da una sedicente organizzazione che fornisce "supporto" ai soldati fuggitivi e che intende eliminare il troppo scomodo Koichi... Secondo capitolo cinematografico della bizzarra "Kerberos saga" di Mamoru Oshii dopo "The red spectacles" del 1987, di cui è a tutti gli effetti un prequel. La saga proseguirà nel 1999 con un altro prequel, stavolta in animazione, "Jin-Roh - Uomini e lupi". Dei tre film, questo è quello più diseguale e che lascia più perplessi: soltanto nel finale, infatti, c'è una sequenza d'azione fantascientifica, con la resa dei conti fra Inui, in armatura da Kerberos, e i suoi nemici in un edificio abbandonato: in precedenza assistiamo a scene di ordinaria quotidianità, dapprima seguendo il viaggio quasi turistico di Inui e Tang Mie per le città e le campagne taiwanesi, e poi, una volta rintracciato Koichi, con la permanenza dei tre presso il mare, in una sorta di commedia punteggiata da siparietti comici e aspetti ludico-surreali non dissimili da certe cose di Takeshi Kitano ("L'estate di Kikujiro", "Sonatine"). Il personaggio di Koichi, in particolare, risulta particolarmente in contrasto con i temi distopico-bellici del resto della saga. I dialoghi, specialmente quelli fra Hayashi e Inui, si appoggiano sull'insistita metafora degli ex soldati come veri e propri "cani randagi", sperduti e spaventati ma comunque sempre alla ricerca del padrone che li ha abbandonati. Il budget è piuttosto basso, ma non inficia sul risultato. Fondamentale nell'economia del film la quasi onnipresente colonna sonora acustica e d'atmosfera di Kenji Kawai (per una volta senza i suoi soliti cori), che accompagna i piani sequenza di Oshii.

2 maggio 2022

Punto zero (Richard C. Sarafian, 1971)

Punto zero (Vanishing point)
di Richard C. Sarafian – USA 1971
con Barry Newman, Cleavon Little
**1/2

Visto in divx.

L'ex pilota di corse Kowalski (Barry Newman), che ora lavora per un'agenzia di trasporto auto, è incaricato di trasferire una macchina – una Dodge Challenger R/T bianca del 1970, con il motore truccato – da Denver, in Colorado, a San Francisco, in California. Scommette così con un amico che compirà l'intero percorso in soli due giorni (da venerdì a domenica), senza fermarsi nemmeno per dormire, dopo essersi imbottito di anfetamine. Durante il viaggio sarà preso di mira dalla polizia stradale, che gli darà la caccia lungo tutto il percorso, mentre le sue "imprese" sono celebrate via etere da Super Soul (Cleavon Little), DJ di una radio privata, che lo trasforma in una sorta di eroe solitario che lotta contro il sistema. Celebre pellicola di exploitation, sulle orme di "Easy Rider" e antesignana di "Convoy" nel celebrare il desiderio di fuga e di libertà individuale (erano gli anni post-Woodstock) contro un sistema percepito come oppressivo: nel corso degli anni, anche per merito del finale, è diventato un film di culto (è citato anche, fra gli altri, in "Grindhouse - A prova di morte" di Quentin Tarantino). Se la trama è esile, incentrata essenzialmente su corse e inseguimenti sulle strade polverose del sud-ovest americano, e i personaggi poco caratterizzati (ma in fondo c'è quel che basta), il film ha i suoi pregi nella compattezza interna e nella bellezza delle immagini, con un regista che dirige attori e auto in movimento come nelle coreografie di un balletto. Durante il suo viaggio, che assume caratteristiche quasi esistenziali, il protagonista (di cui non sapremo mai il nome di battesimo, solo il cognome) incrocia vari personaggi che lo aiutano (il vecchietto che cattura serpenti nel deserto; i due hippy in motocicletta) o lo ostacolano (i vari poliziotti; uno spericolato pilota che lo sfida in una gara di velocità; una coppia di gay rapinatori, nella scena più imbarazzante di tutte). A ravvivare l'insieme, piccoli tocchi di "colore" (il DJ è nero e cieco, e la sua stazione viene presa di mira da un gruppo di suprematisti bianchi; la giovane hippy inforca la sua moto tutta nuda), nonché alcuni brevi flashback che ricostruiscono in parte il passato di Kowalski: un passato ovviamente da "perdente". In una scena tagliata compariva una giovane Charlotte Rampling nel ruolo di un'autostoppista. Bella la colonna sonora, che comprende numerosi brani rock e pop. Un (brutto) remake nel 1997, "Vanishing Point", con Viggo Mortensen.

19 gennaio 2022

Chi ucciderà Charley Varrick? (Don Siegel, 1973)

Chi ucciderà Charley Varrick? (Charley Varrick)
di Don Siegel – USA 1973
con Walter Matthau, Joe Don Baker
**1/2

Visto in TV (Now Tv).

Dopo una sanguinosa rapina in una piccola banca del New Mexico, nel corso della quale perde la moglie che gli faceva da autista (Jacqueline Scott), l'ex pilota d'aereo Charley Varrick (Walter Matthau) si rende conto di aver messo le mani su un bottino molto più grande del previsto, una somma di denaro troppo alta per non appartenere alla malavita. E infatti l'organizzazione cui li ha sottratti sguinzaglia subito un sicario (Joe Don Baker) sulle tracce di Charley e del suo complice, la giovane testa calda Harman (Andrew Robinson)... Un solido film d'azione vecchio stile, con personaggi interessanti (almeno gli uomini: la caratterizzazione delle donne è un po' disinvolta) e non privo di colpi di scena. Memorabile soprattuto il protagonista, criminale dilettante ma pieno di assi da giocare, che ben si districa anche quando è in fuga o preso di mira da più parti (i gangster, i poliziotti...). John Vernon è il banchiere che traffica con la mafia, Felicia Farr la sua segretaria, Woodrow Parfrey il direttore della filiale rapinata, Sheree North la falsificatrice di documenti. Don Siegel avrebbe voluto intitolare il film "L'ultimo degli indipendenti", il motto della compagnia di disinfestazione aerea di Charley Varrick, e aveva pensato a Clint Eastwood come protagonista.

22 novembre 2021

Il buco (Jacques Becker, 1960)

Il buco (Le trou)
di Jacques Becker – Francia 1960
con Marc Michel, Jean Keraudy
***1/2

Visto su YouTube.

Nella prigione de La Santé, a Parigi, il giovane Gaspard (Marc Michel) – in attesa di processo – viene trasferito di cella, e scopre che i suoi quattro nuovi compagni stanno progettando la fuga. Si unirà a loro, scavando un "buco" sul pavimento che porta ai sotterranei del carcere, e di lì, attraverso le fognature, verso la libertà... Da un romanzo di José Giovanni (co-sceneggiatore insieme al regista), ispirato a un fatto realmente accaduto nel 1947 (di cui fu protagonista proprio uno degli attori, Jean Keraudy, che interpreta sé stesso nei panni di Roland, l'ideatore del piano di fuga: è lui a introdurre la vicenda, rivolgendosi agli spettatori e spiegando: "Buongiorno. Il mio amico Jacques Becker ha ricostruito in tutti i dettagli una storia vera, la mia"), una pellicola bella e serrata, per certi versi simile al capolavoro di Bresson "Un condannato a morte è fuggito". Anche se qui la prospettiva è più corale e meno individuale, come in quello assistiamo meticolosamente alla lavorazione e messa in atto del progetto dei protagonisti, con lunghe inquadrature dei detenuti che martellano il pavimento, segano le sbarre e picconano i muri, il tutto mentre cercano di evitare di essere notati dai secondini e dalle guardie. La partecipazione dello spettatore è notevole, tanto da identificarsi come non mai con i criminali. Con molta inventiva e tante risorse, e nonostante i pochi mezzi a disposizione (per esempio, si costruiscono una clessidra artigianale per tenere conto del passare del tempo), i cinque arriveranno a un passo dalla libertà: a tradirli sarà la componente umana, e proprio l'aspetto psicologico (con l'analisi dei rapporti di amicizia, delle tentazioni e dei tradimenti) contribuisce a elevare il film dai limiti del suo genere. Ottima l'ambientazione, la fotografia in bianco e nero (di Ghislain Cloquet) e le interpretazioni: gli altri tre compagni di cella sono Philippe Leroy (il rude Manu), Raymond Meunier (l'estroso "Monsignore") e Michel Constantin (il tormentato Geo). Leroy e Costantin, in particolare, erano all'esordio. Piccole parti anche per André Bervil (il direttore del carcere), Jean-Paul Coquelin (il brigadiere) e Catherine Spaak (Nicole, la ragazza che fa visita a Gaspard). Da notare che, a parte Gaspard, non viene svelato il motivo della prigionia degli altri detenuti. È l'ultimo lavoro di Becker: il regista morì per una malattia genetica, a soli 54 anni, prima che il film potesse essere proiettato al festival di Cannes.

27 ottobre 2021

Io ti salverò (Alfred Hitchcock, 1945)

Io ti salverò (Spellbound)
di Alfred Hitchcock – USA 1945
con Ingrid Bergman, Gregory Peck
***

Visto in TV (Prime Video).

La dottoressa Costanza Petersen (Ingrid Bergman), giovane psicoanalista che lavora in un istituto psichiatrico, si innamora a prima vista del nuovo primario, il dottor Edwardes (Gregory Peck). E quando si scoprirà che costui è un impostore amnesico, che ha preso il posto del vero Edwardes (probabilmente da lui ucciso), decide di fuggire insieme a lui, nel tentativo di "curarlo", aiutandolo a recuperare la memoria e, si spera, a scagionarlo. Sceneggiato da Ben Hecht a partire da un romanzo di Francis Beeding, un thriller romantico imperniato sul tema della psicoanalisi, di cui vengono spiegate le basi (fu coinvolto persino uno "psychiatric advisor"). La pellicola si apre infatti con una didascalia che ne illustra le fondamenta scientifiche, oltre che con una frase dal "Giulio Cesare" di Shakespeare ("La colpa non è nelle stelle, ma in noi stessi"). Certo, a ben vedere la vicenda è a tratti improbabile per la semplicità con cui mette in scena i meccanismi dell'amnesia, della rimozione e del complesso di colpa: diciamo che si tratta di un'approssimazione a fini hollywoodiani (e in futuro si vedrà ben di peggio, con la psicoanalisi spesso oggetto di ridicolo). Da segnalare la sequenza del sogno, che fu immaginata da Salvador Dalì (con evidenti influssi dei dipinti di De Chirico) e diretta da William Cameron Menzies anziché da sir Alfred, per via di contrasti con il produttore David O. Selznick che portarono, fra le altre cose, a tagliare la suddetta sequenza riducendola a soli due minuti (secondo alcune fonti, in originale erano venti: il resto pare sia andato perduto). Proprio il sogno rivelatore contribuirà a risolvere la trama gialla, rivelando l'identità del vero colpevole. Ottimi i due protagonisti, in particolar modo la splendida Bergman nei panni di una donna considerata fredda e razionale che scopre per la prima volta l'amore, cosa che la discredita agli occhi dei colleghi ("Una donna innamorata occupa l'ultimo posto nella scala dei valori intellettuali"), al che lei replica "Ma il cuore vede più lontano della mente, a volte" e, parlando del finto Edwardes, "Non potrei amarlo così tanto se fosse malvagio". L'attrice è al primo di tre film girati con Hitchcock (gli altri due saranno "Notorious" e "Il peccato di Lady Considine"). Anche Peck tornerà a lavorare con il regista inglese ne "Il caso Paradine". Curiosità: la domanda che Costanza gli rivolge, "Sei mai stato a Roma?" sembra prefigurare "Vacanze romane"!

Molti temi ed elementi sono tipicamente hitchcockiani (l'uomo in fuga, la donna salvifica, la location risolutiva – in questo caso la montagna innevata). Notevole il capovolgimento dei ruoli di forza fra i due sessi rispetto alle consuetudini (qui l'eroina è la protagonista impavida e l'uomo è l'elemento sperso, in difficoltà e da salvare). Nel cast anche Leo G. Carroll (il dottor Murchison, il vecchio primario della clinica), Rhonda Fleming (all'esordio sul grande schermo: è la ninfomane violenta) e soprattutto Michael Čechov, nipote del drammaturgo Anton Čechov, nei panni del vecchio dottor Brulov, il mentore di Costanza. Allievo di Stanislavskij e insegnante di recitazione, Čechov contava fra i suoi allievi a Hollywood proprio Peck e la Bergman. La regia di Hitchcock (che si concede il consueto cameo: è l'uomo che esce dall'ascensore dell'albergo fumando un sigaro) è elegante, con tanti zoom e primi piani e un uso espressionistico della luminosa fotografia di George Barnes. Da sottolineare la resa delle immagini del subcosciente (come il corridoio con le porte che si aprono per lasciare entrare la luce, nel momento del bacio fra i due protagonisti), l'ossessione di Peck per le righe nere su fondo bianco (che gli riportano alla mente lo shock subito), la sequenza dell'arresto e della condanna dell'uomo (attraverso una serie di primi piani della Bergman), la soggettiva da dentro il bicchiere di latte e soprattutto quella, nel finale, della pistola dell'assassino, che ruota di 180 gradi e che consentì alla produzione di superare il divieto della censura nel mostrare un suicidio sullo schermo. Dopo lo sparo, per due fotogrammi la pellicola è colorata di rosso. La bella colonna sonora di Miklós Rózsa (che vinse l'Oscar: il film ricevette anche le candidature come miglior pellicola, regista, attore non protagonista (Čechov), fotografia ed effetti visivi) fa ampio uso del theremin, all'epoca una novità: ma anch'essa fu oggetto di contrasti fra il regista e il produttore. Cosa non rara nei lungometraggi di quegli anni, il film si apre con una "overture" di quattro minuti (su immagine fissa) e si chiude con una "exit music" di oltre due (manca invece l'"intermission"). L'edizione italiana presenta come al solito nomi "italianizzati" (Costanza, Antonio, Alessio, ecc., al posto degli originali Constance, Anthony, Alex...).

9 settembre 2021

Il bandito delle 11 (Jean-Luc Godard, 1965)

Il bandito delle 11 (Pierrot le fou)
di Jean-Luc Godard – Francia 1965
con Jean-Paul Belmondo, Anna Karina
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Intellettuale e insegnante di spagnolo, sposato a Parigi con una ricca italiana, l'insoddisfatto Ferdinand (Belmondo) ritrova per caso una sua ex studentessa, Marianne (Karina), con cui aveva avuto in passato una relazione e che si ostina a chiamarlo Pierrot (per via della canzone "Au clair de la lune"), e decide di mollare tutto per scappare insieme a lei. Durante la rocambolesca fuga verso il sud della Francia, i due commetteranno furti e rapine, intrecceranno una relazione romantica che procederà fra alti e bassi, e saranno implicati in un misterioso intrigo internazionale. Già protagonista del film d'esordio di Godard (l'iconico "Fino all'ultimo respiro", di cui questo è un discendente diretto), Belmondo torna in una pellicola decostruita e che sembra improvvisata sul momento, senza una trama in mente (anche se in realtà non è così, e la pellicola porta avanti il discorso artistico del regista). E infatti ogni sequenza pare virare il film in una direzione diversa, o addirittura appartenere a un genere cinematografico differente: si passa dal descrivere l'alienazione e la noia della borghesia, al gangster movie con tradimenti e omicidi, dalla fuga romantica e liberatoria (con echi delle vicende di Bonnie e Clyde) alla ricerca di vita in mezzo alla natura, dal musical – con un paio di graziose canzoni intonate all'improvviso dalla ragazza, in particolare la bella "Ma ligne de chance" nella pineta – alla commedia sofisticata, dal thriller politico e legato all'attualità – il misterioso fratello di Marianne è in qualche modo coinvolto nei tumulti in Medio Oriente – al surrealismo con la scena conclusiva, quasi da fumetto, in cui Ferdinand si dipinge il volto di blu e si fa saltare in aria con la dinamite, in quella che qualcuno ha definito "la conclusione esplosiva del primo periodo godardiano". A legare il tutto, i pensieri e le parole dei due protagonisti che, come voci narranti (e spesso intersecanti o alternate), commentano ogni scena, le introducono come se fossero capitoli di un romanzo (ma la numerazione dei suddetti capitoli è del tutto incoerente: a volte si salta un numero, a volte lo si ripete, a volte si torna indietro), ci appiccicano citazioni letterarie, artistiche o cinematografiche, e persino slogan e spot pubblicitari. In piu, a un certo punto Ferdinand comincia a tenere un diario (che diventa filo conduttore delle vicende) e, in un'occasione, si rivolge direttamente agli spettatori (come Belmondo aveva già fatto in "À bout de souffle"). Il risultato è un film libero, disorganizzato, caleidoscopico, sperimentale: da un lato come la vita vera (che infatti è tutt'altro che "chiara, logica, organizzata", dice Marianne), dall'altro ammantato di artificialità (sottolineata dalla fotografia di Raoul Coutard, ricca di colori primari: Pierrot descrive Marianne come "una ragazza in un film di Hollywood, in technicolor", mentre altri passaggi citano i dipinti di Velázquez, Van Gogh, Renoir). Peccato solo che la storia si faccia così incoerente, caotica, disordinata e confusa che dopo un po' si rinuncia del tutto a seguirla con attenzione: chi guardasse un film solo per la trama, dunque, si astenga. Fra le scene iconiche, quella dell'auto che finisce in mare. All'inizio, alla festa, appare il regista Sam Fuller nel ruolo di sé stesso (dicendo "Un film è come una battaglia"). L'uomo al porto, nel finale, che afferma di udire la musica extradiegetica, è invece Raymond Devos. "Pierrot le fou" (Pierrot il pazzo) era il nomignolo di un vero bandito degli anni quaranta, Pierre Loutrel. Il titolo italiano è invece incomprensibile.

29 luglio 2021

Zabriskie Point (Michelangelo Antonioni, 1970)

Zabriskie Point (id.)
di Michelangelo Antonioni – Italia/USA 1970
con Mark Frechette, Daria Halprin
***

Rivisto in DVD, con Sabrina.

Accusato ingiustamente di aver sparato a un poliziotto durante una manifestazione all'università (sono gli anni delle contestazioni contro la guerra in Vietnam e delle violenze della polizia contro i neri), Mark (Frechette), studente di Los Angeles, ruba un piccolo aereo da turismo e fugge verso la Death Valley. Qui, nel deserto, incontra la giovane segretaria Daria (Halprin), che si sta recando in auto verso Phoenix. Faranno l'amore nudi sulla sabbia a Zabriskie Point, antica e particolare conformazione geologica fra colline di gesso e di borace. Dopo che il ragazzo sarà tornato in città e sarà ucciso dalla polizia, Daria porterà avanti a modo proprio la sua lotta contro il sistema e il conformismo, facendo esplodere con l'immaginazione la casa modello del suo boss, uno speculatore edilizio, situata proprio in mezzo al deserto. Il secondo film in lingua inglese di Antonioni (questa volta girato in America) è uno dei suoi lavori più iconici e al tempo stesso più controversi e meno universalmente acclamati (fu detestato, per esempio, dalla critica negli Stati Uniti, che lo trovò banale e qualunquista). Se in "Blow up" il regista ferrarese (anche sceneggiatore, insieme a Tonino Guerra, Sam Shepard, Clare Peploe e Fred Gardner) aveva sfruttato il contesto della Swinging London e del mondo della fotografia e della moda per riflettere sui concetti di realtà e della relatività delle esperienze sensoriali, qui fa qualcosa di simile, partendo dalle pulsioni anarchiche e dalle contestazioni giovanili per parlare più in generale di ribellione, fuga, libertà e autodeterminazione. E quale luogo migliore di un deserto (come vedremo anche in "Fandango"), della Valle della Morte, per allontanarsi da una società in cui si sta stretti o non ci si riconosce più, e cercare sé stessi? Da notare che Mark si trova a poco agio persino fra i suoi compagni rivoluzionari: nella sua anarchia è individualista, oltre ogni regola o vincolo. Come sempre, poi, in Antonioni il discorso si allarga a livelli universali che vanno oltre la situazione concreta, e non casualmente le due scene più celebri del film (l'amore nel deserto, la casa che esplode) si venano entrambe di sfumature surreali e visionarie. Nel primo caso, i due giovani amanti sono man mano attorniati da innumerevoli altre coppie che si abbracciano appassionatamente: "residui" di altre persone che sono state lì ad amarsi in passato, oppure – più probabile – un segno che i due protagonisti rappresentano un po' tutti i ragazzi che in quel momento si battono contro un sistema oppressivo e valori in cui non si riconoscono? Nel secondo caso, l'esplosione è tutta nella mente della protagonista, e viene mostrata più volte (da angolazioni diverse) e poi al rallentatore, mentre stanze, oggetti ed elettrodomestici deflagrano (la piscina, il guardaroba, la televisione, il frigorifero, la libreria) e i loro frammenti colorati volteggiano nell'aria, accompagnati dalla musica dei Pink Floyd (il tutto è un'evidente critica alla società dei consumi). La bella colonna sonora comprende anche brani dei Grateful Dead, dei Kaleidoscope e di Jerry Garcia. La fotografia, che sfrutta nel migliore dei modi i paesaggi vasti e spettrali della Death Valley, è di Alfio Contini. I due attori protagonisti erano esordienti e non professionisti (e i personaggi hanno i loro stessi nomi).

12 luglio 2020

Solo sotto le stelle (David Miller, 1962)

Solo sotto le stelle (Lonely are the brave)
di David Miller – USA 1962
con Kirk Douglas, Gena Rowlands
**1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Il mandriano Jack W. Burns (Kirk Douglas) è un uomo fuori dal suo tempo: ama le praterie, i grandi spazi e la libertà, non ha domicilio, si sposta a cavallo come i cowboy di una volta e senza documenti, e ovviamente mal sopporta il mondo moderno con le sue regole e limitazioni. Quando viene a sapere che il suo più caro amico Paul (Michael Kane), colui che ha sposato la donna che anche lui amava (Gena Rowlands), è stato chiuso in prigione per aver sfamato e protetto degli immigrati clandestini, si fa arrestare apposta per poterlo incontrare in carcere. Da lì, naturalmente, non perde tempo a evadere (“Non ci resto in questo posto: impazzirei, ucciderei qualcuno!”) per fuggire verso il Messico, in sella alla sua cavalla Whisky. Ma sulle sue tracce si lancia la polizia, guidata dallo sceriffo locale, Morey Johnson (Walter Matthau), che con tanto di elicotteri e camionette lo bracca sul fianco della montagna che si frappone fra lui e la libertà... Sceneggiato da Dalton Trumbo (con cui Douglas aveva già lavorato due anni prima in "Spartacus") da un romanzo di Edward Abbey, un western di ambientazione contemporanea che lo stesso attore considerava il suo preferito fra tutti i film che aveva interpretato. Avventuroso e intenso, sembra quasi l'anello di congiunzione fra "Una pallottola per Roy" e il primo "Rambo" – con la caccia all'uomo sulle montagne o in mezzo alla natura da parte di forze dell'ordine che non possono condonare il suo innato desiderio di libertà – naturalmente passando per film (come "L'ultimo buscadero" di Sam Peckinpah) che hanno raccontato il tramonto di un cowboy ormai trapiantato nel mondo moderno. Ottimo Douglas, alle prese come suo solito con un messaggio progressista e ancora d'attualità (da sottolineare l'amico intellettuale che si batte per i diritti degli immigrati). George Kennedy è il secondino “carogna”. Interessante vedere Matthau in un ruolo non comico, il simpatetico e comprensivo sceriffo cui fa da spalla William Schallert nella parte dell'assistente-telefonista.

25 giugno 2020

Senza lasciare traccia (Debra Granik, 2018)

Senza lasciare traccia (Leave no trace)
di Debra Granik – USA 2018
con Ben Foster, Thomasin McKenzie
***

Visto in TV, con Sabrina.

Reduce di guerra con disturbi da stress post-traumatico, Will (Ben Foster) sceglie di isolarsi dalla società e di andare a vivere nei boschi insieme alla figlia adolescente Tom (Thomasin McKenzie). I due si insediano così in un parco naturale nei pressi di Portland, in Oregon, da dove vengono però cacciati dalle guardie forestali e affidati ai servizi sociali. Trasferiti dapprima in una fattoria e poi di nuovo in fuga verso nord, fino allo stato di Washington, riprenderanno per breve tempo ad accamparsi nei boschi, prima di entrare in contatto con una comunità di abitanti del luogo. E mentre la ragazza sentirà lo stimolo di integrarsi con gli altri e di avere una vita sociale, per il padre questo rimarrà impossibile. Da un romanzo di Peter Rock, sceneggiato dalla regista e dalla sua consueta collaboratrice Anne Rosellini, un bel film che nei temi trattati può ricordare "Captain Fantastic" e "Into the wild". Con una differenza enorme, però: ciò che in quelle pellicole era un atto di ribellione o di anticonformismo, se non addirittura un semplice capriccio, qui è una vera e propria necessità, un bisogno di cui Will non può fare a meno e che viene messo ancora più in risalto dalla differenza fra lui e la figlia, che pur amandolo e seguendolo in ogni passo è invece ancora disposta ad "avere fiducia" negli altri e a non provare paura (la metafora delle api e degli apicoltori, che non temono di esserne punti, è eloquente). La ricerca di autonomia, il desiderio di "pensare con la nostra testa" e di non dare importanza ai giudizi degli altri, nascondono dunque il semplice fatto di non essere in grado di vivere in modo diverso, se non a costo di rinunciare a una parte di sé: l'alternativa sarebbe suicidarsi, come fanno infatti molti altri reduci di guerra. Nel raccontare la storia, la pellicola sceglie un approccio low key, molto naturale e quasi minimalista, che non esaspera i toni né sensazionalizza i personaggi o l'argomento. Se la cosa all'inizio può lasciare un po' freddi, alla lunga paga: e un film che nelle prime battute sembrava non avere una direzione precisa, alla fine la trova, colpisce nel profondo e rischia di rimanere nell'anima.

16 giugno 2020

Mustang (Deniz Gamze Ergüven, 2015)

Mustang (id.)
di Deniz Gamze Ergüven – Francia/Germania/Turchia 2015
con Güneş Şensoy, İlayda Akdoğan
**

Visto in TV, con Sabrina.

Cinque giovani sorelle turche (siamo nei dintorni di Trabzon, sulle coste del Mar Nero), orfane di entrambi i genitori, vengono recluse in casa dallo zio per via del loro temperamento ribelle e del comportamento troppo libero. Dopo che le prime due sono state costrette a sposarsi, e la terza si è suicidata per gli abusi subiti, le due più giovani riusciranno a fuggire di casa. Opera prima di una regista trasferitasi in Francia in tenera età (e dunque di fatto francese, anche se di origine turca), la pellicola ha le tipiche stimmate del "film da festival" che pretende di lanciare uno sguardo sulle società del vicino o medio oriente da una prospettiva occidentale: ogni sequenza e ogni svolta narrativa appare infatti costruita a tavolino e trasuda di retorica. A salvarla almeno in parte è la bellezza e la spontaneità delle giovani attrici (fra le fonti di ispirazione, almeno a livello estetico, c'è "Il giardino delle vergini suicide" di Sofia Coppola), nonché alcuni episodi che a loro modo aiutano ad aprire gli occhi sulla condizione femminile nelle zone più arretrate di certi paesi: la passione della più piccola delle sorelle, Lale (di fatto la protagonista), per il calcio; la scelta della primogenita di sposare il ragazzo che ama e non quello scelto per lei dallo zio e dalla nonna; la sequenza della "prova del lenzuolo" per dimostrare che la giovane sposa era vergine; i rapporti di complicità e di amicizia fra le ragazze, da sole contro una società patriarcale, conservativa e opprimente. Ma tutto è troppo perfettino e patinato, e molto meno convincente e sincero di altri film sugli stessi temi visti in precedenza (e che provenivano davvero dall'interno di queste società, e non dall'esterno, magari da una posizione privilegiata): un esempio su tutti, l'iraniano "Il cerchio" di Jafar Panahi. Il titolo "Mustang", una razza di cavalli selvaggi, mai spiegato nel film, fa riferimento alla natura libera e indomita delle cinque ragazze. Buon successo di critica in Francia e negli USA, con tanto di nomination agli Oscar per il miglior film straniero (ma per la Francia, non per la Turchia, nonostante la pellicola sia interamente parlata in turco). Il doppiaggio italiano è a livelli televisivi.

15 giugno 2020

Gli amanti crocifissi (K. Mizoguchi, 1954)

Gli amanti crocifissi (Chikamatsu monogatari)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1954
con Kazuo Hasegawa, Kyoko Kagawa
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Mohei (Kazuo Hasegawa), umile pittore di pergamene, lavora per il ricco ma avaro stampatore Ishun (Eitaro Shindo), fornitore della corte imperiale a Kyoto. Quando la giovane moglie del suo padrone, O-San (Kyoko Kagawa), chiede il suo aiuto per convincere il marito a prestare del denaro al fratello indebitato, per un equivoco i due vengono sospettati di essere amanti e sono costretti alla fuga. Siamo infatti in un mondo crudele, dove gli adulteri sono crocifissi in pubblico, portando vergogna e disonore sulle rispettive famiglie. Per questo motivo lo stesso Ishun non desidera che il fatto venga reso noto, e ordina ai propri uomini di rintracciare segretamente i fuggitivi e di riportare a casa almeno la donna. Ma durante il viaggio verso Osaka, fra mille difficoltà, Mohei e O-San scoprono di essere veramente innamorati l'uno dell'altra... Da un dramma di Chikamatsu Monzaemon (da cui il titolo originale, "Una storia di Chikamatsu") ambientato nel Giappone feudale, una storia d'amore che sfida le ipocrisie e le convenzioni sociali dell'epoca, dove il potere e soprattutto il denaro governano ogni cosa, e dove le donne in particolare non hanno voce in capitolo né la possibilità di esprimere i propri sentimenti: questo vale non soltanto per O-San, che per salvare la propria famiglia dalla miseria è stata costretta a sposare un uomo più vecchio di lei, ma anche per la servetta O-Tama (Yoko Minamida), innamorata di Mohei e che si sacrifica per lui. Il conflitto, come in molti altri film di Mizoguchi, è quello fra il giri (il dovere, nei confronti della società o della famiglia) e il ninjo (i sentimenti umani, la ricerca della propria felicità): non a caso la chiave di svolta della vicenda è la scena sul lago Biwa, dove i due protagonisti meditano di suicidarsi insieme, prima di scoprire di amarsi e scegliere dunque di vivere, rinunciando cioè al giri per abbracciare il ninjo. Grande enfasi, nella prima parte, è posta inoltre sul fatto che agli uomini, soprattutto se ricchi e potenti, è permesso di tradire la moglie, di frequentare le geishe e di sperperare il proprio denaro, mentre alle consorti non è perdonato nulla: l'inizio della storia in effetti può ricordare addirittura "Le nozze di Figaro" (con O-Tama nei panni di Susanna, O-San in quelli della Contessa e Ishun in quelli del Conte: c'è persino una scena in cui O-San e O-Tama si scambiano le stanze per sorprendere il fedifrago Ishun). La fuga degli amanti verso Osaka, che si conclude alle pendici del Monte Atago, occupa invece la parte più importante della pellicola, che Mizoguchi gira con la consueta eleganza. Da notare come, a differenza della maggior parte dei suoi film, stavolta il personaggio maschile è rappresentato in maniera positiva. E il finale è solo all'apparenza tragico, perché in realtà segna la vittoria dell'amore di fronte alle avversità, mentre chi ha fondato la propria esistenza sul potere e il denaro viene privato di entrambe le cose. Interessante la colonna sonora, che integra i suoni degli strumenti tradizionali della musica giapponese (come fiati e percussioni) con i rumori ambientali e li fonde con le immagini.

13 giugno 2020

Un condannato a morte è fuggito (R. Bresson, 1956)

Un condannato a morte è fuggito (Un condamné à mort s'est échappé)
di Robert Bresson – Francia 1956
con François Leterrier, Charles Le Clainche
****

Rivisto in DVD.

Nel 1943, nella Francia occupata dai tedeschi, il membro della resistenza Fontaine (Leterrier) viene rinchiuso nella prigione di Fort Montluc a Lione, in attesa di un processo dall'esito scontato. Nei tre mesi in cui attende la sua condanna a morte, però, progetta e mette in atto una meticolosa fuga: dapprima scavando con un cucchiaio di metallo fra le assi di legno massiccio della porta della sua piccola cella; e poi calandosi di notte lungo le mura e sopra il fossato del carcere, con l'aiuto di un compagno (Le Clainche) e grazie alle funi che ha realizzato con i propri abiti, le coperte e il filo della rete del letto. Dalle memorie autobiografiche del partigiano André Devigny, il capolavoro di Bresson e del cinema essenziale e minimalista. La didascalia introduttiva, firmata dal regista, afferma: "Questa è una storia vera, la propongo così com'è, senza ornamenti". E infatti il film – che reca il sottotitolo "Il vento soffia dove vuole", da un passo dal vangelo secondo Giovanni – riesce a costruire una tensione elevata e costante senza bisogno di ricorrere a fronzoli, sovrastrutture, elementi spuri o inutili: la quintessenza del cinema che piace a me. Accompagnato soltanto dalla voce fuori campo del narratore e dalla musica sacra di Mozart (la Grande Messa in do minore K. 427), il lungometraggio mostra ogni gesto e ogni fase dell'ideazione della fuga, che il protagonista mette in atto con enorme pazienza e certosino lavoro, senza mai rassegnarsi di fronte alle difficoltà o agli imprevisti, e cogliendo l'occasione quando questa si presenta al momento giusto. La sua storia è quasi una celebrazione dello spirito umano che non si lascia piegare nemmeno nelle situazioni peggiori e lotta sempre e comunque per sopravvivere. Attorno a Fontaine i carcerieri sembrano figure fugaci ed evanescenti, mentre la macchina da presa è sempre fissa sul suo volto e talvolta su quello dei compagni di prigionia, fra i quali cerca complici per l'evasione, scontrandosi con la paura e la rassegnazione e trovandone infine uno in un giovane soldato collaborazionista accusato di diserzione, del quale inizialmente non sa nemmeno se può fidarsi. La regia mirabile e asciutta di Bresson si prende i tempi necessari, focalizza l'attenzione sui gesti (ognuno dei quali assume un proprio valore e significato: non in sé stesso o in chiave simbolica, ma perché indispensabile e irrinunciabile anello di una catena che porta alla libertà) e rende coinvolgente quasi ogni sequenza: memorabile quella in cui, durante la fuga, Fontaine è costretto a uccidere una sentinella, azione che avviene fuori inquadratura e che ci viene comunicata solo attraverso il sonoro. Lo stesso Bresson fu rinchiuso per un anno in un campo di prigionia tedesco durante la seconda guerra mondiale. La pellicola vinse il premio per la miglior regia al festival di Cannes.

20 maggio 2020

Cuore selvaggio (David Lynch, 1990)

Cuore selvaggio (Wild at heart)
di David Lynch – USA 1990
con Nicolas Cage, Laura Dern
**1/2

Rivisto in DVD, con Sabrina.

Sailor Ripley (Nicolas Cage), delinquente di piccolo calibro appena uscito di prigione, e la sua fiamma Lula Fortune (Laura Dern) sono in fuga dal North Carolina verso la California per sfuggire alla madre di lei, la gelosissima Marietta (Diane Ladd). Questa però sguinzaglia sulle loro tracce sia un detective privato, Johnnie Farragut (Harry Dean Stanton), che il gangster di cui è l'amante, Marcelles Santos (J.E. Freeman), il quale a sua volta assolda alcuni killer per eliminare Sailor e il rivale Johnnie: si tratta del subdolo Bobby Peru (Willem Dafoe) e delle sorelle Perdita e Juana Durango (Isabella Rossellini e Grace Zabriskie). Il quinto lungometraggio di David Lynch è un'originale e romantica fiaba on the road, violenta e barocca, talmente ricca di elementi bizzarri e di personaggi grotteschi e sopra le righe da risultare quasi random (molti di essi avrebbero meritato un maggiore approfondimento, anziché darsi il cambio solo per far numero). Nonostante ciò, la trama è più lineare di quanto possa sembrare e affonda le sue radici nell'immaginario pop e retrò, e a volte kitsch, degli Stati Uniti del sud: vedi le numerosissime citazioni da "Il mago di Oz", Nicolas Cage con la giacca di serpente che canta le canzoni di Elvis Presley, il viaggio attraverso luoghi caratteristici come New Orleans e il Texas. Lynch, come fa spesso, narra la vicenda come se si trattasse di un ininterrotto flusso di coscienza e riesce a rendere vivi e plausibili personaggi in realtà assurdi e surreali. Alcune situazioni sembrano addirittura anticipare certe cose di Tarantino, anche se la visionarietà lynchiana rende il tutto più una fiaba moderna che una pellicola "pulp". Quello in cui i due amanti si barcamenano, cercando di ribellarsi alle difficoltà mantenendo il proprio amore come unico punto di riferimento, è – per dirla con le parole di Lula – "un mondo cattivo, senza pietà, che racchiude dentro di sé un cuore selvaggio". Un mondo in cui sesso, violenza e rock'n'roll giocano un ruolo importante, e dove la morte è sempre in agguato (si pensi ai tanti incidenti stradali che i due protagonisti incrociano sulla loro strada). Da sottolineare, come detto, la ricca colonna sonora, usata spesso in maniera diegetica, e i continui riferimenti a "Il mago di Oz": dalle scarpette rosse di Lula (e quelle nere e attorcigliate, da strega appunto, della madre) ai colori stessi della fotografia che ricordano il technicolor del film del 1939, fino all'apparizione salvifica della "strega buona" (interpretata da Sheryl Lee) nel finale. Ispirato a un romanzo di Barry Gifford (di cui Lynch cambiò la conclusione), il film vinse la Palma d'Oro al Festival di Cannes e confermò una volta di più il talento visionario del regista, che ormai cominciava a debordare senza freni dalle sue opere. Curiosità: Laura Dern (già presente, come la Rossellini, nel precedente lavoro di Lynch, "Velluto blu") è figlia di Dane Ladd anche nella vita reale. Nel cast anche W. Morgan Sheppard (il signor Reindeer), Sherilyn Fenn, Crispin Glover e Pruitt Taylor Vince.

2 febbraio 2020

Survivor (James McTeigue, 2015)

Survivor (id.)
di James McTeigue – USA/GB 2015
con Milla Jovovich, Pierce Brosnan
*1/2

Visto in TV.

Kate Abbott (Milla), agente di sicurezza presso l'ambasciata americana a Londra, scopre un complotto per far entrare un gruppo di terroristi negli Stati Uniti. Ma a causa delle macchinazioni dello spietato killer detto "L'orologiaio" (Brosnan), e dopo che una bomba ha ucciso tutta la sua squadra, sarà proprio lei a essere accusata di tradimento e a dover fuggire per provare la propria innocenza, fino a sventare personalmente l'attentato che i terroristi stanno organizzando. Ambientato negli anni immediatamente successivi all'11 settembre, un mediocre thriller d'azione dai temi vagamente hitchcockiani (la caccia all'uomo – in questo caso una donna – innocente, con resa dei conti finale in un celebre luogo pubblico, una Times Square affollata di newyorkesi per festeggiare il capodanno), ma purtroppo assai noioso e con molti problemi di scrittura. La trama è infatti piena di forzature e di buchi logici, con tutti i personaggi (tranne la protagonista, ovviamente) che si comportano in modo stupido. Carenti le caratterizzazioni e sprecato il cast (che oltre a Milla e Brosnan comprende Dylan McDermott, il diretto superiore di Kate, James D'Arcy, l'ispettore inglese che le dà la caccia, e Angela Bassett, l'ambasciatrice americana). Decente almeno la confezione, con una regia competente pur senza guizzi.

21 ottobre 2019

Sabotatori (Alfred Hitchcock, 1942)

Sabotatori (Saboteur)
di Alfred Hitchcock – USA 1942
con Robert Cummings, Priscilla Lane
**1/2

Visto in divx.

Accusato ingiustamente di essere il responsabile di un'esplosione nella fabbrica di aerei dove lavora, l'operaio Barry Kane (Robert Cummings) fugge alla ricerca del vero colpevole, Frank Fry (Norman Lloyd). E scopre che questi fa parte di un gruppo di sabotatori che intendono minare alla base lo sforzo bellico degli Stati Uniti. Il tema per eccellenza del cinema di Hitchcock (l'innocente in fuga, un uomo comune che è costretto dalle circostanze a diventare un eroe), già sviluppato in precedenza – fra gli altri – ne "Il club dei 39" e in "Giovane e innocente", è al centro di una pellicola di spionaggio il cui pretesto (il sabotaggio, appunto) è ancorato all'attualità e alle tensioni del "fronte interno" (siamo infatti nel 1942, in piena seconda guerra mondiale): i "cattivi", che si nascondono spesso in piena vista fra la crema dell'alta società, vogliono distruggere anche una centrale elettrica e impedire il varo di una nave ammiraglia. Proprio il contrasto fra le apparenze "rispettabili" del gruppo di ricchi e potenti che complottano contro il proprio paese (non si tratta di spie straniere, ma di americani scontenti dell'attuale governo) e quelle, invece, umili e dimesse di chi si fida di Barry e lo aiuta a sfuggire ai persecutori (il pianista cieco, la compagine di freaks del circo) è sottolineato a più riprese dalla sceneggiatura. Hitchcock, che sembra fare le prove generali per quello che diventerà uno dei suoi film più celebri, nonché il culmine di questo filone ("Intrigo internazionale": c'è già persino lo scontro finale su un celebre monumento, in questo caso la statua della libertà), ebbe qualche perplessità sugli attori che gli furono imposti dalla produzione: il protagonista Cummings era più adatto alle commedie che non a un thriller, e sia la co-protagonista Priscilla Lane (Patricia, la ragazza che inizialmente lo vuole denunciare e poi lo aiuta) che il villain Otto Kruger (Tobin, il capo dei sabotatori) non lo convinsero del tutto. In ogni caso la pellicola (la prima girata da sir Alfred per la Universal) ebbe un buon successo al botteghino.

25 giugno 2019

Il lago delle oche selvatiche (Diao Yinan, 2019)

The wild goose lake (Nan fang che zhan de ju hui)
di Diao Yinan – Cina 2019
con Hu Ge, Gwei Lun Mei
**

Visto al cinema Arcobaleno, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

In fuga dopo aver ucciso un poliziotto durante uno scontro con una banda rivale, il gangster Zhou Zenong (Hu Ge) attende alla stazione della città la propria moglie Yang Shujun (Wan Qian), che non vede da cinque anni. La sua intenzione è quella di chiedere alla donna di denunciarlo, in modo che possa riscuotere la ricompensa per la sua cattura. Ma al suo posto si presenta una ragazza sconosciuta, la prostituta Liu Aiai (Gwei Lun-mei)... Basato su una struttura contorta (si parte con due lunghi flashback che svelano il motivo per cui i due personaggi si trovano all'appuntamento della stazione) che non lesina colpi di scena, un neo-noir dalle atmosfere sospese, caotico e (ahimè) compiaciuto, ma soprattutto con il grave difetto di perdere ogni presa sullo spettatore a metà strada, fra false direzioni e personaggi dalla caratterizzazione impalpabile. A salvarlo, almeno in parte, è lo stile: la buona regia è coadiuvata da una fotografia notturna vibrante e ricca di sfumature, e non mancano momenti interessanti o scene occasionali che rimangono impresse nella memoria (la polizia che cerca un malvivente nello zoo di notte, sotto gli sguardi curiosi degli animali), anche piuttosto splatter (il motociclista decapitato, il gangster rivale ucciso con l'ombrello). Ma l'atmosfera e la grande cura nel setting (si pensi ai tanti ristorantini e ai locali di quart'ordine nei quali si rifugia Zhou, o alle riunioni dei criminali negli scantinati degli alberghi per spartirsi le zone della città, con evidente parallelo con quelle dei poliziotti che si dividono i quartieri da setacciare), dove il realismo va a braccetto con una forma stilizzata, non bastano per compensare una sceneggiatura carente nella costruzione della storia e dei personaggi. Liao Fan è il capitano della polizia. Il titolo originale significa "Appuntamento a una stazione ferroviaria nel sud", quello internazionale fa riferimento al lago sulle cui rive si svolge parte della vicenda e dove Liu Aiai lavora come "bagnante".

21 giugno 2019

La donna del bandito (Nicholas Ray, 1948)

La donna del bandito (They live by night)
di Nicholas Ray – USA 1948
con Farley Granger, Cathy O'Donnell
***

Rivisto in TV.

Evaso di prigione insieme a due complici, il giovane Arthur Bowers (Farley Granger) si innamora di Katherine (Cathy O'Donnell), nipote di uno dei suoi compagni di fuga. E pur braccato dalla polizia per una serie di rapine, decide di sposarla e di fuggire con lei... Un classico del cinema noir ambientato nel Sud degli Stati Uniti durante la Grande Depressione, il film d'esordio di Nicholas Ray è tratto dal romanzo "Thieves Like Us" di Edward Anderson ed è ispirato alla vicenda reale di Bonnie e Clyde (ad essa alludono le scritte in sovrimpressione sullo schermo prima dei titoli di testa: "Di questo ragazzo... di questa ragazza... nessuno ci ha mai raccontato la vera storia"). Assai curata la caratterizzazione dei due giovani protagonisti, in particolare il ragazzo che all'inizio aspira soltanto a dimostrare la propria innocenza, ma che poi – a causa delle circostanze che congiurano contro di lui, dei complici che non permettono che si rifaccia una vita normale, e dei giornali che lo accusano di essere il capo della banda di rapinatori, trasformandolo in un efferato "pericolo pubblico numero uno" – è quasi costretto a diventare un gangster. Essendo stato realizzato in un'epoca in cui imperava il codice Hays (una delle cui regole richiedeva che lo stile di vita criminale venisse scoraggiato il più possibile), il film sottolinea in continuazione come la fuga di "Bowie" e "Keechie" sia senza speranza: ma questo, anziché essere un limite, rende la pellicola ancor più fatalista, nonché quasi struggente in scene come quella del matrimonio (celebrato rapidamente presso una squallida area di sosta). Ray, alla prima regia (spalleggiato dal produttore John Houseman), mostra già tutto il suo talento con alcune soluzioni innovative (fu il primo, per esempio, a utilizzare riprese aeree – per la precisione in elicottero – per girare scene d'azione come quella dei tre evasi in fuga che apre il film). Bella la fotografia notturna di George E. Diskant, e ottimi i comprimari: da segnalare Jay C. Flippen (T-Dub), Howard Da Silva (Chickamaw), Helen Craig (Mattie, la donna che li tradisce) e Will Wright (il padre di Keechie). Pur completato nel 1947 e presentato l'anno dopo a Londra, il film uscirà nelle sale americane soltanto alla fine del 1949. Robert Altman ne girerà un remake nel 1974, "Gang", con Keith Carradine e Shelley Duvall.

29 marzo 2019

Flatland (Jenna Bass, 2019)

Flatland
di Jenna Cato Bass – Sudafrica/Ger/Lux 2019
con Nicole Fortuin, Faith Baloyi
*

Visto allo Spazio Oberdan, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

In fuga da una traumatica prima notte di nozze, Natalie (Nicole Fortuin) uccide il prete che l'aveva sposata e scappa insieme all'amica e "sorella di latte" Poppie (Izel Bezuidenhout), una sciroccata che si è fatta mettere incinta da un camionista. Insieme, le due partono come Thelma & Louise, ma sulle loro tracce c'è Beauty Cuba (Faith Baloyi), solitaria poliziotta appassionata di telenovelas, che intende scagionare l'ex fidanzato Billy, auto-accusatosi dell'omicidio (e "incastrato" da Bakkies, il marito di Natalie, figlio del capo della polizia). Un film sconclusionato, rocambolesco, con una sceneggiatura convoluta ed sovrabbondante, personaggi idioti (è praticamente impossibile empatizzare con chiunque di loro, compresa Natalie, che parla al proprio cavallo come se fosse sua madre) e alcuni fra gli attori più inespressivi che abbia mai visto. La regista vorrebbe giocare con i generi (dal western al thriller d'azione, dal melodramma alla denuncia sociale), ma fa un pasticcio senza alcun senso della misura, privo di grazia e di equilibrio, che procede per accumulo in maniera goffa e insensata, forse nel tentativo di fare il verso ad alcune (brutte) pellicole post-moderne americane. Il titolo (l'unico motivo per cui avevo scelto di vederlo) non ha purtroppo nulla a che fare con il romanzo satirico di Edwin Abbott, ma si riferisce alla piattezza del territorio dove si svolge la storia, la semi-desertica regione del Karoo.

25 marzo 2019

Fiore gemello (Laura Luchetti, 2018)

Fiore gemello
di Laura Luchetti – Italia 2018
con Anastasya Bogach, Kallil Khone
*1/2

Visto all'Auditorium San Fedele (FESCAAAL). Era presente la regista.

Anna, sedicenne in fuga (scopriremo poi da che cosa, attraverso una lunga serie di flashback), incontra Basim, giovane immigrato clandestino della Costa d'Avorio, da poco sbarcato in Italia. Insieme trovano conforto l'uno nell'altra, in mezzo al disinteresse e all'ostilità circostante. Girato in Sardegna (di cui si intravedono scorci aspri e desolati), un film assai banale che racconta una storia banale come i suoi protagonisti (dei quali l'unico aspetto interessante è quello legato alla comunicazione: Anna non parla per nulla, Basim invece alterna due lingue, l'italiano e il francese). Anzi, si può persino dire che Basim cessa presto di essere un personaggio, e l'unica storia che il film racconta diventa quella di Anna, e non è che sia così interessante (o sconvolgente) soprattutto nelle sue svolte drammatiche e nel meccanismo farraginoso. Luoghi comuni, carenze logiche e narrative (vedi le figure di contorno, a partire dal "cattivo" interpretato da Aniello Arena, per non parlare dell'anziano floricoltore gentile (Giorgio Colangeli) o del "prostituto" travestito), prevedibilità e noia, anche nella regia e nell'utilizzo del paesaggio. E un affidamento al realismo filmico che mette a dura prova la pazienza dello spettatore (il cinema dovrebbe trasfigurare la realtà, non limitarsi a riprodurla). In più, la metafora insistita e retorica del fiore e della fragilità. I due attori sono esordienti: Khone, in particolare, era giunto in Italia soltanto sei mesi prima.

28 febbraio 2019

Thelma & Louise (Ridley Scott, 1991)

Thelma & Louise (id.)
di Ridley Scott – USA 1991
con Susan Sarandon, Geena Davis
***1/2

Rivisto in DVD.

Le amiche Louise Sawyer (Susan Sarandon), cameriera in un diner, e Thelma Dickinson (Geena Davis), casalinga e moglie trascurata, partono da sole in auto per un weekend di vacanza. Ma quella che doveva essere una semplice pausa dalle frustrazioni e dalla routine quotidiana si trasforma in un incubo quando la prima, per difendere la seconda da un tentativo di violenza, spara e uccide un uomo a sangue freddo. In fuga dalla polizia e dirette verso il Messico, in un crescendo inarrestabile, quello delle due amiche diventa un viaggio senza ritorno ("Non ce la farei più a tornare a vivere come prima") all'insegna della libertà e dell'emancipazione dai lacci e dalle costrizioni della società, ma soprattutto dalle prepotenze di uomini approfittatori. Iconico buddy movie "femminista" on the road, un inno all'amicizia e alla solidarietà, che può contare non soltanto su una storia potente e su personaggi ottimamente caratterizzati (e che evolvono nel corso della vicenda: in particolare Thelma, che da ingenua e repressa arriva a scoprire il lato più libero e selvaggio di sé: mitica la scena della rapina, con l'impagabile reazione del marito quando gli viene mostrato il filmato delle camere di sorveglianza), ma anche sui magnifici scenari del southwest americano (le due protagoniste attraversano Arkansas, Oklahoma, Nuovo Messico e Arizona, fino alla Monument Valley e a quel Grand Canyon che ha fatto da sfondo a tante celebri pellicole western), ritratti con grande mestiere dalla regia di Scott e dalla fotografia di Adrian Biddle, completamente a loro agio con le lunghe strade e i deserti polverosi e assolati. Molte le scene da ricordare (cito, per esempio, quella dell'esplosione dell'autocisterna nel deserto). Ma in particolare è rimasto celebre, anche per l'intensità emotiva (che lo rende uno dei più memorabili di sempre), il finale con il fermo immagine e la dissolvenza. La sceneggiatura di Callie Khouri vinse l'Oscar (la pellicola ebbe in tutto sei nomination). Notevole e suggestiva anche la colonna sonora acustica di Hans Zimmer. Buono pure il cast di contorno: Harvey Keitel è il detective comprensivo e simpatetico, Michael Madsen è Jimmy, l'amico di Louise, mentre un giovane Brad Pitt è l'autostoppista ladruncolo. Forse l'unico personaggio sopra le righe è il marito sessista di Thelma, interpretato da Christopher McDonald. Per i ruoli delle protagoniste erano state prese in considerazione prima Meryl Streep e Goldie Hawn, e poi Michelle Pfeiffer e Jodie Foster.