28 febbraio 2009

8 donne e un mistero (F. Ozon, 2002)

8 donne e un mistero (8 femmes)
di François Ozon – Francia 2002
con Catherine Deneuve, Fanny Ardant
****

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Negli anni cinquanta, in una villa di campagna isolata dalla neve, l'unico uomo di famiglia viene trovato morto con un pugnale conficcato nella schiena. A ucciderlo potrebbe essere stata una qualsiasi delle otto donne della sua vita, tutte presenti nella casa: la moglie, le due figlie, la sorella, la cognata, la suocera, la cameriera, la cuoca. Ognuna di loro nasconde dei segreti, che verranno fuori lentamente nel corso di una giornata densa di avvenimenti. Fra accuse incrociate e colpi di scena, la vicenda si dipana come un giallo di Agatha Christie fino alla risoluzione finale. Magistrale divertissement di Ozon, che affida a otto celebri attrici francesi (di diverse generazioni) ruoli interconnessi e dinamici, realizzando un film che non cessa di sorprendere fino alla fine. L'impostazione teatrale è evidente (la sceneggiatura è tratta da una pièce di Robert Thomas), rimarcata anche dalle scenografie e dai costumi colorati che permettono di distinguere bene i diversi personaggi (con echi anche di Fassbinder, in particolare de "Le lacrime amare di Petra von Kant"), ma il regista ci aggiunge del suo: ognuna delle otto donne è protagonista di un numero musicale, con una canzone tratta dal vasto repertorio della musica popolare francese, reinterpretata, collocata "fuori contesto" e accompagnata da una coreografia studiata ad hoc. Alcune scene, come quella del bacio lesbico fra Catherine Deneuve e Fanny Ardant (cosa ne avrebbe pensato Truffaut?) hanno fatto scalpore, e come suo solito Ozon infila temi scomodi come l'omosessualità o l'incesto in un film apparentemente innocuo e di puro intrattenimento. Bravissime tutte le attrici: le mie preferenze vanno comunque alla favolosa Isabelle Huppert, una perfetta zitella acida ("Non c'è ora per i pettini!"), e alla splendida Emmanuelle Béart, impertinente e provocante nella sua divisa da french maid. La scena con il daino sotto la neve che si avvicina alla casa è una citazione da "Secondo amore" di Douglas Sirk.

Ecco il cast al completo. Diverse attrici non sapevano cantare e sono state "costrette" da Ozon a estenuanti esercizi musicali. Da notare che la Darrieux e la Deneuve avevano già recitato (e cantato) insieme in "Les demoiselles de Rochefort" di Demy: e anche lì la prima era la madre della seconda!
- Catherine Deneuve è Gaby, la moglie della "vittima" Marcel. I suoi rapporti con il marito sono ormai freddi e tutt'altro che idilliaci. La sua canzone è "Toi jamais", una bella ballata di Sylvie Vartan.
- Isabelle Huppert è Augustine, sorella nubile e ipocondriaca di Gaby, sempre pronta a lamentarsi di tutto ma con un'anima romantica e frustrata. Canta al pianoforte "Message personnel", interpretata in passato (fra gli altri) da Françoise Hardy.
- Danielle Darrieux è Mamy, la matriarca avara e alcolizzata, madre di Gaby e Augustine. La sua canzone è la bellissima "Il n'y a pas d'amour heureux", di Georges Brassens su testi di Louis Aragon.
- Virginie Ledoyen è Suzon, la figlia maggiore di Gaby e Marcel, appena tornata per le vacanze natalizie (con un segreto) dalla scuola che frequenta all'estero. Canta "Mon amour, mon ami" di Marie Laforêt.
- Ludivine Sagnier (la musa del regista) è Catherine, la figlia più piccola, intrigante, insolente e ficcanaso. Considera il padre come l'uomo ideale. Il suo brano è la canzonetta "T'es plus dans l'coup papa" di Sheila.
- Fanny Ardant è Pierrette, la misteriosa sorella di Marcel, dal passato non senza macchia. La sua canzone, una delle mie preferite, è la trascinante "À quoi sert de vivre libre" di Nicoletta.
- Emmanuelle Béart è Louise, la nuova cameriera, devota ai suoi padroni in maniera ambigua. La sua personalità focosa è ben esemplificata dalla canzone "À pile ou face" di Corynne Charby.
- Firmine Richard è Chanel, la cuoca di colore e la governante della casa. Apparentemente innocua, anche lei ha i suoi segreti. Canta "Pour ne pas vivre seuls", un bel brano di Dalida.

27 febbraio 2009

Il corvo (Henri-Georges Clouzot, 1943)

Il corvo (Le corbeau)
di Henri-Georges Clouzot – Francia 1943
con Pierre Fresnay, Ginette Leclerc
***1/2

Visto in divx.

La relativa quiete di un paesino di provincia viene scossa da una lunga serie di infamanti lettere anonime, recapitate un po' a tutti gli abitanti ma soprattutto ai notabili e ai cittadini più in vista. Oltre a svelare segreti, suscitare scandali e portare alla luce scheletri nell'armadio, le missive – misteriosamente firmate "Il corvo" – se la prendono soprattutto con il cupo e riservato dottor Germain, un medico che lavora come ginecologo nell'ospedale della cittadina e che viene accusato – fra le altre cose – di praticare aborti clandestini. I sospetti di essere l'autrice delle lettere cadono inizialmente su un'infermiera zitella, cognata dell'anziano caporeparto di psichiatria, che ha in antipatia Germain perché ritiene che abbia una relazione con la giovane sorella. Ma tutti, chi più chi meno, potrebbero essere i responsabili... Un piccolo capolavoro di mistero e di tensione, cinico, paranoico e spietato, costruito come un sofisticato giallo dove il colpevole non viene rivelato che nell'ultima scena, ma capace anche di scrutare nei recessi più ambigui e oscuri della natura umana. Dopo la Liberazione venne proibito in patria, non soltanto per i temi controversi (si parla, più o meno scopertamente, di aborto, adulterio, suicidio, pedofilia, ateismo) ma soprattutto perché – prodotto durante l'occupazione nazista – fu accusato di fornire un'immagine meschina dei francesi, mettendo sotto i riflettori maldicenze e ipocrisie e affrontando il delicato argomento delle delazioni anonime. Memorabile la scena in cui lo psichiatra, facendo dondolare una lampada, illustra la sua teoria sulla relatività del bene e del male; impressionante il tentato suicidio di una bambina; curatissima la descrizione dei personaggi minori, come la ninfomane zoppa Denise o la piccola Rolande. Ma è soprattutto il personaggio anticonformista di Germain, ateo e libero pensatore, a intrigare ancora oggi. Il soggetto è ispirato a un fatto di cronaca veramente accaduto negli anni Venti, nel paesino di Tulle. Otto Preminger, nel 1951, ne realizzò un remake, "La penna rossa", che è passato alla storia come il primo film hollywoodiano girato tutto in esterni (in Canada).

26 febbraio 2009

Sideways (Alexander Payne, 2004)

Sideways - In viaggio con Jack (Sideways)
di Alexander Payne – USA 2004
con Paul Giamatti, Thomas Haden Church
***

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Miles (un formidabile Paul Giamatti) è un insegnante di letteratura represso e fallito, appassionato degustatore di vini e aspirante scrittore (ma il suo romanzo autobiografico è destinato a non essere mai pubblicato); Jack (Church) è invece un attore televisivo, ormai ridotto a recitare solo in spot pubblicitari, che entro una settimana si sposerà e intende divertirsi negli ultimi giorni di "libertà" che gli rimangono. I due amici partono così da soli per una gita di alcuni giorni fra le aziende vinicole e i campi da golf della California, ma non tutto andrà come previsto. Un film molto bello, triste ma leggero, tutto scritto e immaginato da un punto di vista maschile (anzi, direi che si tratta dell'equivalente maschile di certi film romantici e psicologici pensati per un pubblico femminile), con personaggi vivi e caratterizzati in profondità che cercano di esorcizzare la depressione di chi, giunto quasi alla mezza età, si guarda indietro e non vede altro che fallimenti: Miles, divorziato, è pateticamente ossessionato dalla propria mediocrità, pensa solo al passato e non sembra capace di cogliere l'occasione per iniziare una nuova vita con l'affascinante Maya (Virginia Madsen); Jack, aitante e sbruffone, nasconde le proprie inquietudini per il futuro e i ripensamenti per l'imminente matrimonio (che forse è di pura convenienza) prendendosi una "sbandata" per la bella Stephanie (Sandra Oh, all'epoca moglie del regista), una degustatrice di origini asiatiche con la quale trova in pochi giorni una straordinaria affinità sessuale. La finzione però non regge e la dura realtà arriva a presentare il conto: com'è difficile vivere in armonia e seguire le proprie inclinazioni! Indimenticabile lo sfondo della pellicola, fra i vigneti e le cantine della wine country californiana: ma gli intensi e appassionati discorsi sul vino non sono che un pretesto per parlare della vita, dei sentimenti e delle relazioni fra le persone. Ah, e Giamatti, lo ripeto, è immenso.

Ocean butterfly (C. Somrit, 2006)

Ocean butterfly (Phii seua samut)
di Chanon Somrit – Thailandia 2006
con Supatchaya Reunreung, Than Thanakorn
*1/2

Visto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Ecco un altro dei film in DVD che ho comprato a scatola chiusa durante il mio recente viaggio in Thailandia.
Quando compie 25 anni, l'eccentrica Wan scopre con enorme stupore di riuscire a comprendere il linguaggio dei pesci (e in generale di tutti gli abitanti del mare) e di poter respirare sott'acqua. Una tartaruga la conduce fino all'isola Butterfly, dove la ragazza viene a conoscenza del proprio segreto: in realtà fa parte di una razza di creature dell'oceano con la pelle blu, metà fate e metà sirene, dotate di branchie per respirare sott'acqua e di ali per volare nei cieli. Mentre le sue "sorelle" si scatenano contro gli esseri umani in difesa del proprio territorio, Wan aiuta un giovane fotografo in lotta contro un avido imprenditore che vorrebbe trasformare l'isola in un'attrazione turistica. Moderatamente visionario, almeno dal punto di vista visivo, il film difetta di ritmo e di equilibrio: a una prima parte (la migliore) piuttosto comica e interessante, anche se raffazzonata, ne segue una seconda che si prende troppo sul serio e che diventa via via più prevedibile. La regia è rovinata dall'eccesso di ralenti e dal montaggio confuso. Ampio il ricorso a effetti speciali in computer graphics, mentre la tartaruga parlante è un animatrone.

24 febbraio 2009

La habitación de Fermat (Piedrahita, Sopeña, 2007)

La habitación de Fermat
di Luis Piedrahita, Rodrigo Sopeña – Spagna 2007
con Lluís Homar, Alejo Sauras
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Un curioso thriller spagnolo che si colloca a metà strada fra "Cube" e un giallo alla "Dieci piccoli indiani". Non ha grandi ambizioni (è l'opera prima di due sceneggiatori per la televisione), a parte il puro intrattenimento, ma tutto sommato riesce nel suo obiettivo. Quattro matematici (tre uomini e una donna) vengono invitati da un misterioso anfitrione in una casa disabitata e si ritrovano imprigionati in una stanza le cui pareti si restringono minacciosamente. Per non essere stritolati, dovranno risolvere in breve tempo una serie di enigmi logici e matematici, oltre naturalmente a scoprire chi li vuole morti e perché. Girato con pochi mezzi e ambientato praticamente in una sola stanza (una escape room!), il film è teso e ricco di colpi di scena che ribaltano di continuo la situazione e portano alla luce i numerosi segreti che accomunano tutti i personaggi. Assai graditi i riferimenti alla storia della matematica: colui che li ha invitati si fa chiamare "Fermat", mentre ai quattro personaggi vengono assegnati altrettanti pseudonimi. "Galois" è un giovane matematico rampante che sostiene di aver dimostrato la Congettura di Goldbach ("ogni numero pari maggiore di due è la somma di due numeri primi"); "Hilbert" è un anziano professore che medita il suicidio (splendido lo scambio di battute: "Non puoi andare avanti così, dovresti uscire di più... Te lo dico come medico, non come amico!" – "Me lo ripeti tre volte al giorno. Tre volte! Te lo dico come matematico, non come amico."); "Pascal" è un inventore estremamente pratico che non ama la matematica fine a sé stessa; "Oliva" (da Oliva Sabuco, una filosofa del sedicesimo secolo) è una giovane misteriosa che forse conosceva già qualcuno degli altri invitati. Divertenti anche le battute sulle mitiche pompe Poseidon, quelle che muovono le pareti della stanza: "Avete presente le presse che riducono le auto in cubetti? Per ridurre quelle presse in cubetti si usano le pompe Poseidon"; oppure "C'è una sola cosa in grado di fermare una pompa Poseidon: due pompe Poseidon".

Peccato solo che gli indovinelli e gli enigmi proposti nel film siano arcinoti (sono gli stessi che io propongo spesso ad amici e conoscenti!), e anche piuttosto semplici per degli esperti matematici, anche se comunque solleticheranno le menti di chi non li conosce:

A) Spiegare questa sequenza numerica: 5 - 2 - 9 - 8 - 4 - 6 - 7 - 3 - 1

B) Un pasticcere riceve tre casse: una contiene caramelle alla menta, una caramelle all'anice, e l'ultima caramelle dei due tipi mischiate. Ma le etichette sulle casse, "menta", "anice", "misto", sono state scambiate e ora sono tutte e tre sbagliate. Qual è il numero minimo di caramelle che deve estrarre dalle casse per capire come etichettarle in maniera corretta?

C) [Questo è un mio cavallo di battaglia!] Una stanza contiene una lampadina, inizialmente spenta. La porta è chiusa, e fuori ci sono tre interruttori ma uno solo è quello effettivamente funzionante. Si possono premere gli interruttori a piacere, ma poi bisogna aprire la porta, entrare nella stanza e dichiarare qual era l'interruttore giusto. Come si fa?

D) Come misurare un intervallo di 9 minuti avendo due clessidre da 4 e da 7 minuti rispettivamente?

E) Un allievo chiede al professore che età hanno le sue tre figlie. Il professore risponde: "Il prodotto delle loro età è 36, la somma invece corrisponde al numero civico di casa tua". "Mi manca un dato", ribatte l'allievo. "La maggiore suona il pianoforte", replica il professore. Quanti anni hanno le tre figlie?

F) Due porte sono sorvegliate da due guardiani. Uno dei due (ma non si sa quale) mente sempre, l'altro dice sempre la verità. Facendo soltanto una domanda a uno dei guardiani, come si può individuare la porta che conduce fuori?

G) Una madre ha 21 anni più del figlio. Fra 6 anni avrà 5 volte l'età del figlio. Cosa sta facendo il padre?

[Aggiornamento: le soluzioni sono nei commenti]

23 febbraio 2009

The chinese feast (Tsui Hark, 1995)

The chinese feast (Jin yu man tang)
di Tsui Hark – Hong Kong 1995
con Leslie Cheung, Anita Yuen
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Sun, un gangster delle triadi, ha una vera e propria passione per la cucina e pur non avendo il minimo talento ai fornelli riesce a farsi assumere come cuoco in un prestigioso ristorante cinese, dove si innamora pure dell'eccentrica figlia del proprietario. Ma quando quest'ultimo viene sfidato in una gara di cucina da un rivale che intende appropriarsi di tutti i locali di Hong Kong, Sun è costretto a cercare l'aiuto di due cuochi leggendari, uno dei quali ha abbandonato la professione in seguito a una delusione d'amore. La sfida, che si svolge in occasione di un ricchissimo "banchetto imperiale", vedrà i contendenti misurarsi nella preparazione di piatti sontuosi e sofisticatissimi che hanno come ingredienti zampe d'orso, proboscidi d'elefante e cervelli di scimmia... Una commedia gastronomica che a tratti può ricordare il capolavoro di Stephen Chow "God of cookery", anche se è decisamente meno divertente. Come spesso capita nel cinema di Hong Kong, il film alterna momenti di comicità demenziale a passaggi melodrammatici o sentimentali. Tsui Hark perde presto di vista i personaggi principali per concentrarsi soprattutto sulle scene di cucina, ma l'eccentricità dei piatti preparati (dove l'aspetto estetico conta quanto, se non più, del sapore) non riesce a solleticare l'appetito dello spettatore come invece succede in pellicole come "Mangiare bere uomo donna" o "Il pranzo di Babette". Nel cast la migliore è Anita Yuen, che dà vita a un personaggio punk e sciroccato.

21 febbraio 2009

Il filo bianco della cascata (K. Mizoguchi, 1933)

Il filo bianco della cascata (Taki no Shiraito)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1933
con Takako Irie, Tokihiko Okada
***

Rivisto in divx, con sottotitoli.

In questo vecchio film muto c'è già in embrione tutto il Mizoguchi che verrà, tanto a livello di contenuti quanto dal punto di vista formale: una vicenda tragica e melodrammatica; un personaggio femminile forte e indipendente che diviene vittima del mondo esterno e si sacrifica per amore; una grande cura nelle scenografie e nei costumi; una forte attenzione ai sentimenti, alle passioni e alle dinamiche psicologiche dei personaggi; un uso consapevole del montaggio e delle inquadrature. Si tratta del secondo di una trilogia di film tratti da opere dello scrittore Kyoka Izumi (il primo era "Nihonbashi", andato perduto; il terzo sarà "O-Sen delle cicogne di carta"). La protagonista Taki no Shiraito, interpretata dalla bellissima Takako Irie (elegantissima e seducente in kimono), è un'intrattenitrice ambulante che gira di città in città affascinando il pubblico con i suoi giochi d'acqua. Si innamora di un giovane e povero portantino, Kinya, e dopo aver trascorso con lui una notte d'amore (magnifica la scena del loro incontro su un ponte al chiaro di luna) decide di aiutarlo a esaudire il suo più grande desiderio, quello di recarsi a Tokyo per frequentare l'università. Da allora lo mantiene negli studi, inviandogli tutto il denaro che guadagna con le sue esibizioni; ma quando viene derubata da un collega, si vendica pugnalando il mandante del furto. Arrestata, verrà processata proprio da Kinya, che nel frattempo è diventato un famoso avvocato. La scena dell'aggressione è ambientata nel celebre Kenroku-en, a Kanazawa, uno splendido parco che ho avuto il piacere di visitare l'estate scorsa. La copia del film che ho trovato presentava due diverse tracce audio, una vecchio stile e una più recente, nelle quali dialoghi e didascalie erano recitati dai benshi (i narratori del cinema muto giapponese, vere e proprie star dell'epoca): ma non essendo abituato a questo tipo di commento sonoro, ho preferito escludere l'audio e godermi in film nella versione completamente muta.

20 febbraio 2009

Boudu salvato dalle acque (J. Renoir, 1932)

Boudu salvato dalle acque (Boudu sauvé des eaux)
di Jean Renoir – Francia 1932
con Michel Simon, Charles Granval
***

Visto in DVD, con Marisa.

Il libraio Edouard salva dall'annegamento il barbone Boudu, che si era gettato nella Senna, e lo ospita a casa sua dove vive con la moglie (una strepitosa Marcelle Hainia) e la giovane cameriera (Sévérine Lerczinska). L'eccentrico e imprevedibile vagabondo metterà a soqquadro la vita della famiglia, portando il caos e l'anarchia all'interno dell'ordinato mondo borghese che lo ha accolto: ma alla lunga la sua presenza catalizzerà quel cambiamento che in fondo tutti i personaggi agognavano. Come uno scatenato Dioniso che invade senza freni il mondo di Apollo (quella della mitologia greca è una metafora insistita che spunta a più riprese, a partire dalla scena iniziale in cui il libraio è visto come un satiro che insidia la domestica/ninfa), il clochard sporca la casa, infastidisce tutti, importuna la cameriera, ostacola il corteggiamento del padrone di casa a quest'ultima, risveglia le voglie sessuali della moglie, costringe ciascuno a ripensare alla propria esistenza. E proprio quando – grazie a un'improvvisa e inaspettata ricchezza – sembra che possa finalmente integrarsi nella società, sceglie di rinunciare a tutto e di riprendere la sua vita da senzatetto. Come ha commentato Jean Douchet, "Il caos deve far visita all'ordine e mettere tutto sottosopra. L'ordine viene arricchito da questa confusione temporanea, ma il caos deve poi tornare al proprio mondo". Dietro l'apparenza di una farsa comica e leggera, tutto il film è un potente elogio della libertà dalle convenzioni morali e sociali, girato con delicatezza e una grande umanità che fa il pari con lo stile moderno e all'avanguardia: Renoir sfrutta al meglio i movimenti di macchina e i campi lunghi (la passeggiata di Boudu per Parigi, ripresa con il teleobiettivo), il paesaggio naturale (magnifico il finale lungo il fiume) e le scenografie in interni. Alcuni elementi sembrano anticipare "L'atalante" di Jean Vigo: non solo per la presenza del bravissimo (e irriconoscibile) Michel Simon – e c'è anche Jean Dasté in un ruolo minore – ma anche per le immagini del fiume con le sue chiatte, per il matrimonio sull'acqua, per la colonna sonora (spesso diegetica), per la freschezza delle situazioni. Ne esiste un remake americano con Nick Nolte, "Su e giù per Beverly Hills", che non ho visto.

18 febbraio 2009

Il curioso caso di Benjamin Button (D. Fincher, 2008)

Il curioso caso di Benjamin Button (The Curious Case of Benjamin Button)
di David Fincher – USA 2008
con Brad Pitt, Cate Blanchett
**

Visto al cinema Colosseo, con Hiromi.

Benjamin nasce a New Orleans nel 1918, durante i festeggiamenti per la fine della prima guerra mondiale, con un corpo caratterizzato da tutti i malanni della vecchiaia, come se avesse ottant'anni di età. La sua "crescita" procederà a ritroso e sarà un continuo ringiovanimento: da anziano a uomo maturo, da ragazzo a bambino. Adattando un racconto di Francis Scott Fitzgerald, Fincher realizza un lunghissimo film su un'esistenza surreale e controcorrente, in gran parte imperniata sulla storia d'amore fra il protagonista e l'amata Daisy (conosciuta da bambina), che culmina nel momento in cui i due personaggi si ritrovano ad avere "la stessa età" e possono così coronare il loro sogno d'amore (come i due amanti di "Ladyhawke", in grado di incontrarsi solo in un breve momento di passaggio?). Poi, naturalmente, sono destinati ad allontanarsi: lei invecchierà (l'intera vicenda è letta in un diario dalla figlia di Daisy alla madre, in un letto di ospedale mentre l'uragano Katrina sta per abbattersi sulla città), lui diventerà un neonato. L'insolito soggetto è affascinante e a tratti il film – soprattutto nel finale – commuove, ma restano parecchi dubbi sull'effettiva profondità della pellicola: dopo tutto, a parte la bizzarra peculiarità che lo caratterizza (e che metaforicamente si rispecchia nell'orologio della stazione che procede all'indietro), Benjamin e la sua vita non sono poi così interessanti e il personaggio non è indagato più di tanto in profondità. Quello che fa, e come si relaziona con il mondo, non ha niente di speciale e non giustifica fino in fondo le premesse fantastiche della vicenda, così come alcune circostanze del racconto (l'uragano, per esempio). Coppola, nel suo "Un'altra giovinezza" (che pure, per altri versi, non era un film riuscitissimo), aveva affrontato un tema simile ammantandolo di suggestioni e riflessioni ben più originali e stimolanti. Qui la condizione di Benjamin è vissuta e accettata da tutti come se si trattasse di una "normale" malattia, e la sceneggiatura sceglie di non sviscerarla a livello medico-scientifico (come mai l'evoluzione cerebrale e mnemonica di Benjamin, per dirne una, procede invece nella maniera consueta?) né filosofico-simbolico: sarebbe stato un altro film, certo non necessariamente migliore. Buoni gli attori, ottimi trucco ed effetti speciali, curiose alcune sequenze che – pur belle – sembrano un po' fuori posto nell'economia globale dell'opera (l'immagine dei soldati che si rialzano dal campo di battaglia; la digressione sul destino in occasione dell'incidente stradale; il vecchio che racconta di essere stato colpito sette volte dai fulmini). Forse qualche taglio avrebbe giovato alla pellicola, anche se è difficile dire cosa sarebbe stato meglio tener fuori: per esempio la lunga parte ambientata in Russia, quella con Tilda Swinton, è superflua ma anche molto bella. Esagerate, comunque, le 13 nomination agli Oscar (una solo in meno del record di 14, detenuto da "Eva contro Eva" e "Titanic").

In linea con l'assassino (J. Schumacher, 2002)

In linea con l'assassino (Phone booth)
di Joel Schumacher – USA 2002
con Colin Farrell, Forest Whitaker
**

Visto in TV, con Hiromi.

Stuart, pubblicitario e press agent da quattro soldi, si ritrova imprigionato in una cabina telefonica in piena New York, ostaggio di un criminale che lo tiene sotto tiro con un fucile di precisione e che intende costringerlo a confessare i propri tradimenti coniugali, a riconoscere la propria mediocrità e a smascherare le proprie bugie. Nel frattempo, all'esterno, la polizia circonda la cabina perché è convinta che Stuart sia armato e abbia commesso un omicidio: ma il protagonista non può uscire né interrompere la conversazione con il killer, altrimenti questi sparerà su di lui e sulla folla. Schumacher accetta la sfida hitchcockiana di ambientare un intero film in uno spazio ristretto, rispettando le regole dell'unità di tempo, di spazio e d'azione, e tutto sommato vince la scommessa, seppure con risultati modesti. Nell'era dei cellulari il soggetto è forse un po' anacronistico, e infatti la sceneggiatura (di Larry Cohen) deve fare i salti mortali per giustificare l'utilizzo e l'esistenza stessa della cabina. Quasi l'intera pellicola si basa sul dialogo fra il protagonista e la voce off del serial killer (che nell'originale è di Kiefer Sutherland), mentre la regia fa abbondante uso di split screen e riesce a mantenere una discreta tensione fino alla fine. Il Mereghetti commenta giustamente: "Nei limiti di un B-movie, funziona e non dura un minuto di troppo". La breve durata (80 minuti scarsi) in questi casi è un pregio e non un difetto. Certo, si tratta di un film che visto al cinema avrebbe forse fatto rimpiangere di aver speso i soldi del biglietto.

17 febbraio 2009

Vogliamo vivere! (Ernst Lubitsch, 1942)

Vogliamo vivere! (To be or not to be)
di Ernst Lubitsch – USA 1942
con Carole Lombard, Jack Benny
***1/2

Rivisto in VHS, con Marisa, in originale con sottotitoli.

A Varsavia, nel 1939, una compagnia teatrale vorrebbe mettere in scena una commedia che si prende gioco di Hitler e dei nazisti (mitico l'incipit, con un bambino interrogato per sondare le opinioni politiche del padre). Quando però i tedeschi invadono la Polonia, la troupe è costretta a ripiegare sul più "innocuo" Amleto. Il primo attore, il vanesio Josef Tura, ignora che l'attacco del suo monologo, "Essere o non essere", funge da parola d'ordine per gli incontri amorosi di sua moglie Maria con un giovane aviatore polacco: ma lo ignorano anche i nazisti, che credono che Maria sia una spia della resistenza, e la coinvolgono così – con tutta la troupe – negli intrighi e nelle vicende della guerra. Per fortuna uno degli attori assomiglia incredibilmente a Hitler, mandando in confusione lo spietato comandante della Gestapo che governa col pugno di ferro la capitale polacca. Come già aveva fatto Chaplin ne "Il grande dittatore", Lubitsch sceglie l'ironia e la satira per affrontare argomenti allora d'attualità, facendosi beffe del nazismo e del Führer (celebre la battuta di un ufficiale tedesco: "Josef Tura? Fa a Shakespeare quello che noi facciamo alla Polonia"). Il pubblico allora non gradì, ma rivisto oggi – nonostante alcuni passaggi un po' propagandistici e la presenza, all'inizio, di un'inutile voce fuori campo – il film si conferma una farsa divertentissima, ricca di equivoci e travestimenti (in fondo i protagonisti sono attori) e con ritmo e dialoghi da antologia, che fonde temi classici per il regista (come l'infedeltà coniugale) con argomenti che in quegli anni non potevano non stargli a cuore (Lubitsch era di origine ebrea ed esule proprio dalla Germania). Mel Brooks ne ha fatto un remake ("Essere o non essere") nel 1983. La bella Carole Lombard scomparve in un incidente aereo poco prima dell'uscita del film.

16 febbraio 2009

Non vorrei essere un uomo (E. Lubitsch, 1918)

Non vorrei essere un uomo (Ich möchte kein Mann sein)
di Ernst Lubitsch – Germania 1918
con Ossi Oswalda, Kurt Götz
**1/2

Visto in divx.

Commedia degli equivoci svagata, audace e impertinente, con la quale Lubitsch – come suo solito – si fa beffe di convenzioni e morale. La scatenata Ossi Oswalda (sempre lei!) è una ragazza di buona famiglia che vorrebbe bere, fumare, giocare a poker con gli amici e uscire la sera a divertirsi, tutte cose che le vengono proibite dalla sua governante e da un severo istitutore. Decide così di travestirsi da uomo per potersi prendere quelle libertà che alle ragazze non sono concesse: si reca in un negozio di abiti e si fa confezionare giacca, pantaloni e cilindro (naturalmente i sarti fanno la fila per prenderle le misure) per poi acconciarsi i capelli come un ragazzo. Ma ben presto scoprirà che anche gli uomini non conducono affatto una vita facile. Nella sala da ballo in cui si è reca, inoltre, incontra proprio il suo istitutore, alle prese con donne, sigari e alcool! Naturalmente ne diventa "amico" e si ubriaca insieme a lui: e i due si concedono persino un bacio en travesti! Se alla fine le cose tornano nell'alveo della normalità (con Ossi che pronuncia la battuta del titolo), il rapporto fra i personaggi è comunque cambiato per sempre. Da vedere: un perfetto esempio di come Lubitsch sapesse essere dirompente sin dai suoi esordi.

Quando ero morto (E. Lubitsch, 1916)

Quando ero morto, aka Un morto ritorna
(Als ich tot war, aka Wo ist mein Schatz?)
di Ernst Lubitsch – Germania 1916
con Ernst Lubitsch, Lanchen Voss
**

Rivisto in VHS, con Marisa.

Maltrattato dalla suocera, che convince addirittura la figlia a chiedere il divorzio, un uomo è costretto ad andare via da casa. Finge allora di suicidarsi e si traveste da domestico, riuscendo a farsi assumere in casa sua per stare vicino alla moglie, scacciarne un pretendente e chiudere infine i conti con la suocera. Se non fosse per il mancato cambio di sesso, sembrerebbe quasi una versione ante litteram di "Mrs. Doubtfire". Non è però fra le cose migliori del regista (che all'epoca recitava ancora in prima persona): le gag sono stiracchiate e poco divertenti, la satira sociale è al livello di una barzelletta. Ritenuto a lungo perduto, il mediometraggio è stato ritrovato solo negli anni novanta, in una copia priva parzialmente del finale.

15 febbraio 2009

La marcia di Tokyo (K. Mizoguchi, 1929)

La marcia di Tokyo (Tokyo koshin-kyoku)
di Kenji Mizoguchi – Giappone 1929
con Shizue Natsukawa, Koji Shima
**1/2

Visto in divx.

Per far fronte ai problemi economici degli zii, la giovane orfana Michiyo è costretta a diventare una geisha, come era stata sua madre. Di lei si innamora Yoshiki, il figlio di un ricco uomo d'affari che l'aveva incontrata per la prima volta nei quartieri poveri. Ma non può sposarla: scopre infatti che la ragazza è sua sorella! Si tratta di uno dei pochissimi film muti di Mizoguchi a essere sopravvissuto (dei primi 47 titoli della sua filmografia, girati fra il 1923 e il 1932, ne rimarrebbero soltanto altri due oltre a questo). La copia esistente dura però solo 28 minuti: più che un frammento, credo che si tratti di una versione accorciata, una specie di sunto della pellicola originale, visto che la vicenda ha un inizio, uno svolgimento e una fine e non lascia l'impressione che manchi qualcosa. Come si può intuire dalla trama, il film è un melodramma dall'intreccio non troppo originale e dove lo stile del regista risulta ancora annacquato, eppure godibile nel suo ritratto della Tokyo degli anni venti, dove la rete di un campo da tennis divide simbolicamente i quartieri alti dalle zone povere della città. Lo sguardo di Mizoguchi indugia già, com'è sua caratteristica, sui personaggi femminili, con scene pregevoli come quella in cui le lacrime di Michiyo cadono sulla lettera scritta da Yoshiki. E non a caso, visto che una delle principali fonti di ispirazione del maestro giapponese è sempre stata la sorella maggiore Suzu, che come la protagonista di questa pellicola è diventata geisha per mantenere la famiglia e ha sostenuto la carriera del fratello nei suoi difficili inizi. Certo, bisognerà attendere i film degli anni trenta e le figure tragiche di Taki no Shiraito e O-Sen perché questi temi vengano affrontati con un respiro più ampio e maggior consapevolezza artistica.

Thai thief (Pisut Praesangeam, 2006)

Thai thief (Thai theep)
di Pisut Praesangeam – Thailandia 2006
con Than Thanakorn, Todsaporn Rottakij
*

Visto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Quando sono stato a Bangkok, l'anno scorso, ho approfittato del bassissimo prezzo per comprare un po' di DVD (facendo attenzione, naturalmente, che ci fossero i sottotitoli in inglese). Oltre ad alcuni titoli giapponesi e coreani che cercavo da tempo, ho anche acquistato un paio di film thailandesi, scegliendoli praticamente a caso e lasciandomi guidare dalle immagini in copertina. Il rischio di ritrovarmi con film scadenti era dunque molto alto, anche se preventivato: con questo "Thai thief", purtroppo, la cosa si è puntualmente verificata.

Durante la seconda guerra mondiale, un treno carico d'oro scortato dai militari giapponesi fa gola sia a una coppia di ladri (rivali fra di loro ma per una volta in combutta) sia ai membri della resistenza armata che combatte nel paese. Nell'intrigo restano coinvolti però anche un avido generale thailandese e due affascinanti spie femminili. Decine di personaggi, colpi di scena a ripetizione (anche durante i titoli di coda), doppi giochi e tradimenti, sporadici effetti speciali: peccato che tutto sia al servizio di una sceneggiatura confusa e incoerente e di una regia mediocre. La ricostruzione d'epoca è carente sotto ogni punto di vista, il film manca di una precisa identità – c'è persino una scena d'azione alla "Matrix" che c'entra come i cavoli a merenda – e non sa decidersi se essere una pellicola d'azione (ma recitazione e coreografie sono palesemente inadeguate), d'avventura (ma è del tutto priva di sense of wonder), di guerra (ma senza approfondimento storico o sequenze belliche d'impatto) o una commedia (ma ci fosse una battuta che faccia ridere...). E fallisce su tutti i fronti.

14 febbraio 2009

L'amore non va in vacanza (N. Meyers, 2006)

L'amore non va in vacanza (The holiday)
di Nancy Meyers – USA 2006
con Cameron Diaz, Kate Winslet
**1/2

Visto in DVD, con Hiromi.

Piantate dai rispettivi compagni, due donne che non si conoscono nemmeno decidono di scambiarsi la casa per due settimane e di trascorrere da sole, ciascuna nella dimora dell'altra, le vacanze di Natale. L'americana Amanda (Cameron Diaz), ricca montatrice di trailer a Hollywood, si trasferisce così in un piccolo cottage nel Surrey, mentre la giornalista inglese Iris (Kate Winslet) approda in una lussuosa villa a Los Angeles. Naturalmente entrambe troveranno l'amore, rispettivamente con un bel curatore editoriale (Jude Law) e con un simpatico compositore di colonne sonore (Jack Black). Quasi due trame separate che scorrono parallele e che non si incontrano mai, con un inevitabile happy end: ma se ogni sviluppo è così prevedibile, perché il film mi è piaciuto? Perché funziona a livello di personaggi (le due protagoniste sono ben caratterizzate), perché è leggero e non pretenzioso, perché richiama nello spirito e nei dialoghi le commedie sentimentali del passato (tutta la parte ambientata a Hollywood è un fiorilegio di citazioni del periodo d'oro del cinema, grazie anche al personaggio del vecchio sceneggiatore, interpretato da Eli Wallach), perché gli interpreti sono bravi e simpatici, perché in fondo ci piacerebbe essere al loro posto. E perché ogni tanto un film così tenero e garbato è anche disintossicante, purché non ci si aspetti nulla di più di quanto promettano il titolo o la locandina.

12 febbraio 2009

Revolutionary Road (Sam Mendes, 2008)

Revolutionary Road (id.)
di Sam Mendes – USA 2008
con Leonardo DiCaprio, Kate Winslet
***

Visto al cinema Colosseo, con Hiromi.

La crisi di una giovane coppia nell'America borghese degli anni cinquanta: dall'esterno la famiglia di Frank e April sembra perfetta e ideale, all'interno invece dominano l'insoddisfazione e il malessere, e le contraddizioni non tardano a venire alla luce. La presenza della coppia DiCaprio-Winslet (entrambi si confermano attori straordinari) non può, naturalmente, non far pensare a "Titanic": forse, se Jack e Rose fossero entrambi sopravvissuti al naufragio e si fossero sposati, sarebbe andata così (e ironicamente, avrebbero desiderato di far ritorno in Europa). C'è dunque un filo rosso che cinematograficamente unisce i due attori in un periodo a cavallo fra la nascita del Sogno Americano e la sua morte, o meglio la sua realizzazione: ma se quest'ultima può soddisfare chi non cerca altro nella vita che una bella casa nei sobborghi, due figli e un lavoro sicuro, non può che stare stretta a chi aspira sempre a qualcosa di meglio, a chi vuole realizzarsi in maniera ancora più libera e individualistica, perché ritiene – a torto o a ragione, per consapevolezza o per autoconvincimento – di essere "diverso", a costo di inseguire fantasie immature (una Parigi che esiste solo nell'immaginazione) pur di uscire da una realtà (il lavoro, la maternità) che non si vuole affrontare. E solo un matto è capace di vedere e di dire la verità. Il ritratto dei personaggi è impietoso: dei due, April è quella più fragile e destinata ad autodistruggersi, mentre Frank – complice una gratificazione sul lavoro – riesce a "rientrare nei ranghi" (o, se vogliamo, ad adeguarsi alla mediocrità) appena in tempo. Il parallelo soltanto simbolico con il "Titanic" è rafforzato dalla presenza di Kathy Bates (Molly l'inaffondabile) e dalla scena in cui la Winslet si apparta con un amante occasionale all'interno di un'automobile. Ma il contesto storico, psicologico, esistenziale e sociale, naturalmente, è del tutto diverso e accomuna semmai il film alle molte pellicole che tratteggiano le crisi di quegli anni (il primo titolo che mi viene in mente è "Lontano dal paradiso"). Straziante la scena in cui April confessa a Frank di non provare più niente nei suoi confronti. Il miglior film di Mendes finora, un regista che non amo particolarmente ("American Beauty" l'ho detestato, "Era mio padre" mi ha lasciato indifferente, "Jarhead" non l'ho visto).

11 febbraio 2009

Operazione Valchiria (B. Singer, 2008)

Operazione Valchiria (Valkyrie)
di Bryan Singer – USA/Germania 2008
con Tom Cruise, Kenneth Branagh
**

Visto al cinema Colosseo, con Hiromi.

Il film racconta la storia del tentativo fallito di assassinare Hitler il 20 luglio 1944, con successivo colpo di stato, da parte di un gruppo di ufficiali tedeschi fra i quali il colonnello Claus von Stauffenberg, colui che piazzò personalmente la bomba. L'evento storico è ricostruito minuziosamente, in maniera solida e senza fronzoli, ma la pellicola è forse troppo Cruise-centrica: la sceneggiatura non perde mai di vista il protagonista e invece si sofferma poco sul contesto, non spiega in modo approfondito chi fossero i congiurati o che motivazioni avessero, non parla del ruolo dell'aristocrazia nel complotto (Stauffenberg era un conte), non mostra le reazioni e i sentimenti della popolazione, e rimane chiusa in un microcosmo interno che sembra trovare la propria ragione d'essere nella volontà di dimostrare che esistevano anche tedeschi ostili al regime (e in effetti al cinema la resistenza tedesca non è quasi mai rappresentata). Ma se al posto di Hitler o dei nazisti ci fossero altre figure, persino fittizie, in fondo a livello di tensione e di spettacolo filmico non cambierebbe niente. Cruise è inespressivo come al solito, ma almeno è circondato da un pugno di buoni attori, perlopiù europei (Kenneth Branagh, Tom Wilkinson, Bill Nighy, Terence Stamp, Eddie Izzard, Thomas Kretschmann). La regia di Singer è professionale ma anonima, e in alcuni casi anche poco coraggiosa: non viene mai mostrata chiaramente la mano amputata di Stauffenberg, per esempio (persino nella scena in cui fa il saluto nazista, il moncherino è sfocato o fuori quadro!). Fra le sequenze migliori, quelle nella stanza delle comunicazioni con le dattilografe che alzano la mano quando leggono la notizia della morte di Hitler. Il fallito attentato ha ispirato in passato numerosi altri film, sia americani sia tedeschi (fra cui uno di G. W. Pabst del 1955).

10 febbraio 2009

Milk (Gus Van Sant, 2008)

Milk (id.)
di Gus Van Sant – USA 2008
con Sean Penn, Josh Brolin
***

Visto al cinema Apollo.

Biopic su Harvey Milk, attivista per i diritti civili dei gay e primo uomo politico dichiaratamente omosessuale eletto a una carica pubblica negli Stati Uniti (fu consigliere comunale a San Francisco), ucciso nel 1978 a solo undici mesi dalla sua elezione. Van Sant rinuncia al suo consueto stile personale e sperimentale in favore di un approccio più sobrio, equilibrato e quasi mai sopra le righe, utilizza molto materiale d'epoca e cura particolarmente la ricostruzione storica e ambientale degli anni '70: sembra quasi incredibile che sia passato così poco tempo da quando ai gay erano negati persino i diritti più elementari (ma d'altronde la stessa elezione di Barack Obama a presidente degli Usa, quest'anno, ha fatto riflettere su come in pochi decenni la società sia cambiata – in meglio! – al punto da far accadere quello che alla generazione precedente sarebbe sembrato impossibile, nonostante le resistenze di bigotti e dinosauri). A tratti un po' schematico e "a tema" (ma era inevitabile, a meno di stravolgere il personaggio), comunque coinvolgente come tutte le buone pellicole di questo tipo, il film merita di essere visto anche per l'eccellente cast: a fianco del sempre bravo Sean Penn spiccano James Franco (il suo giovane amante), Emile Hirsch (uno degli attivisti a favore della sua candidatura) e Josh Brolin (nei panni del "rivale" Dan White).

9 febbraio 2009

Déjà vu (Tony Scott, 2006)

Déjà vu - Corsa contro il tempo (Deja vu)
di Tony Scott – USA 2006
con Denzel Washington, Paula Patton
**1/2

Visto in TV, con Hiromi.

Un devastante attentato su una nave lungo il fiume provoca centinaia di vittime a New Orleans. Un detective indaga grazie a un innovativo strumento tecnologico che permette di proiettare su uno schermo qualsiasi cosa sia avvenuta esattamente quattro giorni e mezzo prima (non un minuto di più, non un minuto di meno). Ma quando si rende conto che mediante l'apparecchio è possibile non solo osservare ma anche interagire con il passato, decide di non limitarsi a individuare il terrorista ma di cercare di impedire l'esplosione della bomba, anche se teoricamente questa è già avvenuta. Lo spunto di partenza è inverosimile, d'accordo, ma la sospensione dell'incredulità serve proprio a questo: se si lasciano da parte i classici paradossi temporali e le limitazioni strutturali dell'apparecchio che sembrano ideate ad hoc (come l'impossibilità di "riavvolgere" la proiezione), l'elemento fantascientico della pellicola – e il suo utilizzo a scopi investigativi – affascina e sembra uscito da un vecchio racconto di Asimov ("Il cronoscopio"). Temi come la visione "totale" della realtà, la manipolabilità del destino e la compresenza di presente e passato (ovvero di futuro e presente) non sono certo banali. La pellicola offre poi tutta una serie di intriganti sviluppi (come l'inseguimento sull'autostrada "in differita"), anche se alcuni colpi di scena (vedi il messaggio sulla lavagna che il protagonista lascia a sé stesso) sono un po' telefonati. Viste le potenzialità del soggetto, che come "Minority Report" si prestava anche a riflessioni etiche o filosofiche, se il film fosse stato girato da un regista più "intellettuale" o visionario e meno propenso a farne un action movie hollywoodiano, specie nel finale, ne sarebbe forse venuto fuori un capolavoro. Anche così, comunque, resta un thriller godibile e del tutto soddisfacente. Nel cast c'è anche un ingrassato Val Kilmer.

8 febbraio 2009

Seduzione mortale (O. Preminger, 1952)

Seduzione mortale (Angel face)
di Otto Preminger – USA 1952
con Robert Mitchum, Jean Simmons
***1/2

Visto in DVD.

Frank, conducente di ambulanze ed ex pilota automobilistico, viene assunto come autista presso una ricca famiglia di Beverly Hills e diventa l'amante di Diane, la giovane figlia del padrone (uno scrittore fallito che si è risposato con una miliardaria). Ma la ragazza, che detesta la matrigna, cerca di coinvolgerlo nell'assassinio della donna. Un bel noir, pieno di fascino e di momenti memorabili, realizzato su commissione da Preminger (che era stato "prestato" dal suo solito produttore Darryl F. Zanuck alla RKO di Howard Hughes) in soli diciotto giorni, dopo aver riscritto la sceneggiatura che all'inizio aveva trovato "orrenda". Il risultato, invece, verrà definito dallo stesso regista "un incidente interessante": in realtà è uno dei suoi lavori migliori, disilluso e pessimista, ricco di personalità e di fatalismo. Con una regia elegante, sicura ed efficace, aiutata dalla grande interpretazione dei due protagonisti (per la Simmons, imposta dalla produzione, si trattava del primo film americano) e dall'ottima colonna sonora di Dimitri Tiomkin, Preminger sforna una pellicola che se da un lato sembra aderire perfettamente alle regole del genere (vedi il "perdente" interpretato da Mitchum con la sua consueta fisicità, che non riesce a evitare di farsi coinvolgere negli intrighi della femme fatale nonostante sia consapevole che "il testimone innocente è sempre quello che ci rimette"; ma anche la contrapposizione fisica e morale fra le due figure femminili che si contendono Frank, Diane e la sua fidanzata Mary, l'una bruna e tormentata e l'altra bionda e solare), dall'altro se ne discosta soprattutto per il personaggio della Simmons, dark lady atipica e ossessionata, ambigua e votata all'autodistruzione, che si pente delle sue azioni e non regge al peso della propria coscienza (splendida la scena in cui si aggira silenziosa per la casa ormai vuota). Il senso di ineluttabilità è accresciuto anche dalla consapevolezza delle imposizioni del codice Hays, che costringeva gli sceneggiatori dell'epoca a punire in qualche modo i "cattivi". Debitore forse per alcuni spunti a "Femmina folle" e a "Il postino suona sempre due volte", il film potrebbe aver ispirato a sua volta il finale di "Jules e Jim" di Truffaut (che lo conosceva e lo amava molto).

6 febbraio 2009

Il banchetto di nozze (Ang Lee, 1993)

Il banchetto di nozze (Xi yan, aka The wedding banquet)
di Ang Lee – Taiwan/USA 1993
con Winston Chao, May Chin
***

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Il taiwanese Wai-tung convive a New York con il suo amante Simon: non avendo mai rivelato ai genitori di essere gay, questi ultimi continuano a insistere affinché si sposi. Per accontentarli, e per fare un favore alla sua inquilina Wei-wei (un'immigrata clandestina che in questo modo otterrebbe il permesso di soggiorno), decide di contrarre un matrimonio di convenienza con lei. Ma l'arrivo dei genitori da Taipei lo costringerà a organizzare un lauto banchetto di nozze e a portare la finzione molto più avanti del previsto. Anni prima del suo film più famoso, "Brokeback Mountain", l'ottimo Ang Lee mette già in scena l'omosessualità in una commedia dal retrogusto amaro nella quale tutti i personaggi, pur conoscendo la verità, mentono per salvare le apparenze. Eppure non è il trionfo dell'ipocrisia, ma dei sentimenti. Nel cast brillano i due attori che interpretano gli anziani genitori del protagonista, Sihung Lung e Ah Lei Gua. L'edizione italiana sceglie di doppiare il parlato in inglese e lascia i sottotitoli su quello in cinese, che però riguarda la maggior parte dei dialoghi.

5 febbraio 2009

Baober in love (Li Shaohong, 2004)

Baober in love (Lian ai zhong de Bao Bei)
di Li Shaohong – Cina 2004
con Zhou Xun, Chen Kun
*1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Bao Bei, una ragazza misteriosa e un po' pazza, trova per caso una videocassetta nella quale un uomo confessa tutta la propria insoddisfazione per la vita che conduce. Decide così di introdursi nella sua esistenza, spingendolo ad abbandonare la moglie che non ama e a riallacciare i rapporti con i genitori, e inizia insieme a lui una storia d'amore. Ma gli eventi precipiteranno quando i disturbi psicologici della ragazza, traumatizzata perché da piccola i genitori le avevano detto per scherzo di averla trovata nella spazzatura, prenderanno il sopravvento. Un film bizzarro, confuso, caotico, visivamente stravagante ma non del tutto riuscito, che nella prima parte sembra quasi una versione cinese de "Il favoloso mondo di Amelie" (anche per la fotografia colorata e l'atmosfera onirica, con occasionali effetti speciali). Ma poi il mondo surreale e leggero delle prime sequenze cede posto agli incubi e all'oscurità, sfociando in un finale patologico e angosciante. E i personaggi restano sempre emotivamente distanti dallo spettatore. Da salvare rimangono alcune scene a forte connotazione simbolica (come quella in cui Bao Bei vede i palazzi innalzarsi attorno a lei, segno dei cambiamenti in corso nel suo paese). La regista è una donna, cosa curiosa per una pellicola cinese.

4 febbraio 2009

La signora del venerdì (H. Hawks, 1940)

La signora del venerdì (His girl friday)
di Howard Hawks – USA 1940
con Rosalind Russell, Cary Grant
***1/2

Rivisto in DVD, con Hiromi.

La giornalista d'assalto Hildy Johnson comunica al suo capo (ed ex marito) Walter Burns che intende licenziarsi per convolare a nozze con uno scialbo assicuratore (Ralph Bellamy). Ma prima di partire Burns riesce a convincerla a occuparsi di un ultimo fatto di cronaca, l'imminente esecuzione di un uomo accusato di aver ucciso un poliziotto. L'evolversi della vicenza (il condannato riesce ad evadere e si nasconde proprio nella sala stampa dove Hildy e i suoi colleghi stanno lavorando) e gli intrighi di Burns riusciranno a fare cambiare idea a Hildy e a farle capire che in fondo ama troppo il giornalismo per rinunciarvi: un mestiere che richiede molti sacrifici ma che è capace di grandi gratificazioni, come la soddisfazione di smascherare la corruzione dei potenti. Caratterizzato da dialoghi vivacissimi e da un ritmo frizzante, il film è tratto dalla commedia teatrale "The Front Page" di Ben Hecht e Charles MacArthur (all'epoca giornalisti, poi brillanti sceneggiatori), già portata sullo schermo nel 1931 da Lewis Milestone (ma la versione più celebre sarà quella di Billy Wilder del 1974, "Prima pagina", con Jack Lemmon e Walter Matthau) e ne modifica notevolmente alcuni aspetti, in particolare trasformando il protagonista da uomo a donna: in questo modo i suoi battibecchi con il direttore del quotidiano assumono i toni della classica battaglia fra sessi, e il film diventa anche una commedia romantica (oltre che lottare per farla restare al giornale, Grant vuole anche riconquistarla). La Russell è dinamica e spigliata, unica reporter donna in un mondo di uomini, mentre Grant veste il suo solito ruolo da simpatica canaglia, pronto a tutto pur di raggiungere i propri obiettivi. Da sottolineare una battuta metacinematografica: per descrivere l'aspetto del promesso sposo di Hildy, Burns dice che "assomiglia a quell'attore... a Ralph Bellamy". Il titolo italiano traduce alla lettera un'espressione gergale, derivata dal romanzo "Robinson Crusoe": girl friday significa "assistente tuttofare".

Place de la République (L. Malle, 1974)

Place de la République (id.)
di Louis Malle – Francia 1974
con attori non professionisti
**

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Per una decina di giorni, Malle e i suoi due operatori hanno ripreso e intervistato i passanti in Place de la République, nel tentativo di documentare la vita, le esperienze, le speranze e le paure dei parigini. La gente comune, che a volte non si rende nemmeno conto di essere filmata, parla a ruota libera di felicità, lavoro, vecchiaia, malattie, guerra, religione, disoccupazione e altro. Curioso, forse un po' lungo. Sarebbe interessante confrontarlo con un film identico girato oggi: il risultato sarebbe diverso?

3 febbraio 2009

Derailed (Mikael Håfström, 2005)

Derailed - Attrazione letale (Derailed)
di Mikael Håfström – USA/GB 2005
con Clive Owen, Jennifer Aniston
**

Visto in TV, con Hiromi.

Film da prima serata su Italia 1, di quelli che si comincia a vedere senza nemmeno sapere il perché. Un uomo e una donna, entrambi sposati, si conoscono per caso sul treno e intrecciano una relazione clandestina. Ma un balordo (Vincent Cassel) li sorprende in albergo, tramortisce lui e violenta lei, per poi cominciare a ricattarli con richieste di denaro sempre più esose. Il crescendo di violenza che ne segue non lesinerà sorprese. All'inizio la pellicola fatica a ingranare e ci si chiede se valga la pena di continuare a guardare quella che sembra l'ennesima variazione sul tema del borghese che si fa giustizia da sé. Ma un paio di inattesi colpi di scena e la buona prova dei protagonisti la rendono quantomeno godibile fino in fondo. Il regista, svedese, era al suo primo film a Hollywood.

2 febbraio 2009

Servizio in camera (W. Seiter, 1938)

Servizio in camera (Room Service)
di William A. Seiter – USA 1938
con Groucho, Chico e Harpo Marx
**1/2

Rivisto in DVD con Martin, in originale con sottotitoli.

È il film che tradizionalmente viene indicato come quello che segna l'inizio del declino dei fratelli Marx dopo i capolavori degli anni precedenti, ma non per questo si tratta di una pellicola disprezzabile: in fondo ha i suoi buoni momenti e i fratelli – in prestito alla RKO per un solo film – riescono abilmente ad adattare i loro consueti ruoli "anarchici" a un soggetto che non era stato ideato per loro (la pellicola è infatti tratta da una commedia di Broadway preesistente), anche se devono sacrificare la loro libertà comica in favore di un intreccio un po' ingessato. La trama vede l'impresario teatrale Groucho e i suoi assistenti barricarsi in una stanza d'albergo (fra le cui quattro mura si svolge praticamente tutta la vicenda) per non farsi cacciare dal proprietario dell'hotel, furioso perché non hanno pagato il conto, prima di essere riusciti a trovare un finanziatore per il loro spettacolo. Fra malattie e morti fasulle, cacce al tacchino, banchetti clandestini e intrighi di varia natura, i tre (in compagnia del giovane autore del dramma che deve essere rappresentato, ingenuo e manipolabile perché appena giunto dal paesello) riusciranno a tirarla in lungo fino al momento in cui si calerà il sipario. Spicca l'assenza dei consueti numeri musicali e, alla resa dei conti, di battute veramente memorabili.

Level Five (Chris Marker, 1997)

Level Five (id.)
di Chris Marker – Francia 1997
con Catherine Belkhodja, Kinjo Shigeaki
**1/2

Visto in DVD con Martin, in originale con sottotitoli.

Una donna, Laura (chiamata così per via del film "Vertigine" di Preminger), cerca di completare un videogioco di strategia realizzato dal marito scomparso e ispirato alla battaglia di Okinawa, il maggiore scontro nel Pacifico durante la seconda guerra mondiale. Ma ogni suo tentativo di cambiare l'esito storico della battaglia sembra destinato al fallimento. Fra lunghi monologhi con il marito morto e l'utilizzo di una misteriosa rete telematica parallela a internet, ricostruisce i retroscena dell'evento bellico attraverso filmati e testimonianze dei sopravvissuti. Film strano, confuso, che parla della vita e della morte, decisamente interessante quando prende il sopravvento il lato documentaristico (molto d'impatto, per esempio, le sequenze in cui si parla dei suicidi rituali che anche gli abitanti civili dell'isola si sentivano obbligati a compiere per non cadere nelle mani del nemico) e un po' più pesante quando è in scena la protagonista, che si rivolge (sempre in primo piano) alla macchina da presa. Nei giorni successivi alla visione, mi è un po' cresciuto. Marker, di cui avevo visto in precedenza solo il celebre "La jetée", frequenta spesso il Giappone ed è ossessionato – come Wenders – dalle immagini elettroniche, dalla memoria e dalla tecnologia. Nel montaggio vengono usate alcune sequenze girate a Okinawa da Nagisa Oshima (che compare anche in alcune brevi interviste).