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29 marzo 2024

Dune: Parte due (Denis Villeneuve, 2024)

Dune: Parte due (Dune: Part Two)
di Denis Villeneuve – USA 2024
con Timothée Chalamet, Zendaya
**1/2

Visto al cinema Colosseo.

Sopravvissuti al massacro della Casa Atreides da parte dei rivali Harkonnen, il giovane Paul (Timothée Chalamet) e sua madre Jessica (Rebecca Ferguson) vengono accolti da una tribù di Fremen, il popolo nomade che vive fra le sabbie inospitali del pianeta desertico Arrakis. L'uno – che assume il nuovo nome di "Muad'dib" Usul – ritenuto suo malgrado una figura messianica, e tormentato da tragiche visioni del futuro, l'altra scelta come sacerdotessa, e abile nel fomentare le pulsioni religiose del popolo, li guideranno alla rivolta contro gli Harkonnen e l'Imperatore, che sfruttano il pianeta (e ne schiavizzano gli abitanti) per raccogliere la preziosa spezia. Realizzato solo dopo che il successo della prima parte (uscita tre anni prima) ha convinto i produttori a procedere con il progetto (le due pellicole non sono state girate back-to-back, come è invece consuetudine recente di Hollywood per le serie di questo tipo), il secondo film della saga fantascientifica di "Dune" porta a conclusione l'adattamento del primo romanzo di Frank Herbert, anche se il finale viene parzialmente modificato in modo da concludere con un relativo cliffhanger e agganciarsi meglio al secondo romanzo, "Messia di Dune", che dovrebbe fornire il materiale per l'eventuale terzo film. Pur non lesinando epicità, scenari grandiosi, temi politici (intrighi incrociati, la critica all'imperialismo), filosofici (il destino, l'autodeterminazione) e prettamente fantascientifici (anche se elementi come i Mentat o la gilda dei navigatori, per dirne un paio, continuano a essere praticamente assenti), quasi tutto il focus è riservato alla "guerra santa" (la jihad) e ai sottotesti religiosi, rendendo ancora più espliciti i riferimenti al mondo arabo e al Medio Oriente. Spettacolare visivamente, in particolare per le sequenze di combattimento e quelle che mostrano sullo schermo i giganteschi vermi della sabbia (che i Fremen hanno imparato a cavalcare!), il film soffre di un certo gigantismo che lo rende a tratti pesante, non solo per la mancanza di sottigliezza nell'affrontare le questioni religiose, ma soprattutto per via di qualche carenza a livello di pacing: alcune parti si trascinano troppo a lungo, altre sono glissate via rapidamente, e diversi personaggi vengono (re)introdotti di punto in bianco in maniera non sempre efficace (es.: Gurney Halleck). Anche sul piano della visionarietà (si pensi al tema delle profezie, o al ruolo della sorella – non ancora nata – di Paul) si finisce quasi per rimpiangere l'imperfetta e più "folle" versione di Lynch del 1984. Rispetto al primo film, hanno un ruolo più prominente Zendaya (Chani) e Javier Bardem (Stilgar), nonché Austin Butler (Feyd-Rautha). Tornano inoltre Josh Brolin (un redivivo Gurney Halleck), Stellan Skarsgård (il barone Harkonnen) e Dave Bautista (Rabban). Christopher Walken è l'Imperatore, Florence Pugh la principessa Irulan, Léa Seydoux la giovane Bene Gesserit Margot.

29 maggio 2023

Monster Hunter (Paul W. S. Anderson, 2020)

Monster Hunter (id.)
di Paul W. S. Anderson – USA/Giappone/Cina/Germania 2020
con Milla Jovovich, Tony Jaa
**

Visto in TV (Netflix).

Una misteriosa tempesta di sabbia trasporta una soldatessa americana (Milla Jovovich) in un'altra dimensione, un mondo desertico popolato da mostri giganteschi e letali. Qui imparerà a combatterli, dapprima per sopravvivere e poi per impedire che arrivino sulla Terra, in compagnia di un misterioso cacciatore (Tony Jaa) e dei suoi compagni. Dopo "Resident Evil", l'accoppiata Anderson/Jovovich si rituffa nell'adattamento di una serie di videogiochi, un'altra popolare franchise della Capcom, prendendosi parecchie libertà. Il film (che nelle intenzioni dovrebbe essere a sua volta il primo di una serie, ma l'accoglienza della critica e del pubblico non è stata delle migliori, anche per via della pandemia di Covid nel periodo in cui è uscito) è essenzialmente una pellicola d'azione fracassona con venature fantastiche e horror, che nel raccontare i combattimenti dei nostri eroi per la sopravvivenza si rifà a un immaginario condiviso: molti sono infatti gli echi di precedenti film e opere di fantasy e fantascienza, da "Alien" a "Dune", da "Il Signore degli Anelli" (i ragni che ricordano Shelob) a "Il mondo perduto" di Conan Doyle (molti mostri sono di fatto derivati dai dinosauri, per non parlare del drago sputafuoco nel finale). E sarebbe inutile cercare caratterizzazioni originali o approfondimenti psicologici dei personaggi. Detto questo, visivamente ha il suo fascino, Milla si impegna, e le scene di combattimento (contro i mostri, ma anche fra umani) si prolungano senza annoiare più di tanto. E il world building, appena accennato, lascia immaginare sviluppi interessanti (dai velieri ottocenteschi che solcano i deserti, agli animali antropomorfi come il felino-cuoco nella ciurma dell'ammiraglio interpretato da Ron Perlman). Finale, ovviamente, aperto per il sequel, nello stesso modo in cui lo era quello di "Mortal Kombat", una delle prime incursioni di Paul W.S. Anderson nel mondo degli adattamenti da videogiochi.

13 ottobre 2021

Dune (Denis Villeneuve, 2021)

Dune (id.)
di Denis Villeneuve – USA 2021
con Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson
***

Visto al cinema Colosseo.

Nell'anno 10191, l'imperatore della galassia affida alla Casa Atreides la gestione del pianeta Arrakis, un mondo tutto ricoperto dal deserto, preziosissimo perché vi si estrae la "spezia", la sostanza che rende possibile i viaggi spaziali. Gli Atreides subentrano agli Harkonnen, ma ignorano di essere vittima di un tranello: l'imperatore infatti intende eliminarli, aiutando i loro rivali a sconfiggerli con un attacco a sorpresa. Alla morte del padre, il duca Leto, soltanto suo figlio Paul Atreides (Timothée Chalamet), insieme alla madre Jessica (Rebecca Ferguson), riesce a sopravvivere, inoltrandosi nel deserto e unendosi a una tribù di Fremen, i misteriosi abitanti del pianeta, che adorano i giganteschi vermi che si nascondono sotto la sabbia e che da secoli attendono l'arrivo di un messia... Nuovo e ambizioso adattamento del libro di Frank Herbert, uno dei più grandi romanzi di fantascienza (se non il più grande) di tutti i tempi, dopo i tentativi falliti di Alejandro Jodorowsky e Ridley Scott (tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta), quello riuscito – ma controverso – di David Lynch (1984) e la serie televisiva di John Harrison (2000): Villeneuve, al terzo film di fantascienza consecutivo (dopo "Arrival" e "Blade Runner 2049") e al primo dopo dieci anni in cui ha collaborato anche alla sceneggiatura (l'ultimo era stato "La donna che canta", guarda caso un'altra ambientazione legata al Medio Oriente), ha scelto di dividere il romanzo in due parti, di cui questa pellicola (l'inizio di una franchise?) adatta soltanto la prima. Il sequel è ancora da realizzare (i due film non sono stati girati back-to-back, come da recenti consuetudini hollywoodiane) ma dovrebbe sperabilmente uscire entro un paio di anni, con un possibile terzo titolo che dovrebbe poi portare sullo schermo "Il messia di Dune", il secondo romanzo della serie.

Sono tornato al cinema dopo un anno e nove mesi (per la precisione, a 627 giorni dall'ultima volta!) perché questo era un film da vedere sul grande schermo. Epico, colossale e spettacolare, capace di dar vita a un'intera galassia che ribolle di intrighi, complotti e dinamiche fra le numerose forze in gioco (e in retrospettiva sono evidenti, per esempio, le influenze che il romanzo di Herbert ha avuto su "Guerre stellari" e su tutto il mondo ideato da George Lucas, di cui è quasi una versione adulta), ma anche lontano dalle baracconate fracassone di molti film d'azione americani. L'aura solenne e austera che si respira, semmai, fa pensare a pellicole di altri tempi, come i grandi classici "Kagemusha" e "Ran" di Akira Kurosawa, con i loro tempi lenti e i personaggi tragici e shakespeariani. E poi c'è l'ambientazione, il pianeta deserto di Arrakis, con i suoi scoperti rimandi al Medio Oriente o alle culture arabe e magrebine (oggi forse ancora più che negli anni Sessanta!), al popolo sfruttato per gli interessi commerciali di entità esterne che vogliono spremere le risorse naturali fino all'ultima goccia (qui la spezia, nel mondo reale il petrolio). In "Dune" non ci sono solo battaglie e astronavi, infatti, ma politica, economia, religione, anzi proprio questi sono i temi prevalenti. Alcuni aspetti, rispetto al romanzo (e anche al film di Lynch), sono a dire il vero semplificati, ma era inevitabile: Villeneuve preferisce fare meno cose, ma farle meglio, e in quel che ci offre riesce a restituire tutta l'epicità, la grandiosità e il mistero che permeava le pagine scritte (anche se taglia o elimina molti pensieri dei vari personaggi). Un esempio sono i Fremen, un altro i vermi giganti, ai quali rende decisamente giustizia. Forse l'ultima parte della pellicola si dilunga un po' troppo, perdendo il ritmo che era stato costruito fino ad allora, e sarebbe stato meglio concludere questa prima pellicola subito dopo la morte del duca Leto, ma è un difetto veniale.

Nei panni del protagonista, Chalamet appare decisamente più in parte di quanto non fosse stato Kyle MacLachlan nel film di Lynch. In generale il casting mi è parso eccellente, con interpreti in grado di infondere dignità e carisma ai rispettivi ruoli, come nel caso del guerriero Duncan Idaho (Jason Momoa), personaggio che avrà un'inaspettata ma notevole importanza nel resto della saga; del militare Gurney Halleck (Josh Brolin), mentore di Paul; o dell'enigmatico capo tribù Stilgar (Javier Bardem). Fra i migliori c'è anche Stellan Skarsgård nel ruolo del barone Harkonnen, spaventoso e intimidente, e non più una macchietta com'era nel film del 1984. Oscar Isaac è il duca Leto, padre di Paul; Dave Bautista è Rabban, il nipote del barone; Zendaya è Chani, la giovane Fremen che appare nei sogni precognitivi di Paul; Charlotte Rampling è la veridica dell'imperatore, una delle Bene Gesserit, la potente e misteriosa setta femminile che da millenni manipola le linee genetiche per arrivare a produrre il "Kwisatz Haderach", l'essere supremo. L'unico gender swapping di rilievo (tutto sommato accettabile) è quello relativo al dottor Kynes, trasformato in donna (Sharon Duncan-Brewster). Solo in alcuni casi (Stephen McKinley Henderson come Thufir Hawat, Chang Chen come dottor Yueh, David Dastmalchian come Piter De Vries) devo ammettere di aver rimpianto i volti scelti da Lynch. Ottimi e realistici gli effetti speciali (i vermi, come già detto, sono impressionanti e restituiscono quel senso di divinità e di forza misteriosa della natura che è loro connaturato; ma notevoli anche i costumi e il design di armi e astronavi, a partire dai veicoli "a libellula") ma anche tutto il comparto sonoro, con la musica di Hans Zimmer e soprattutto un mix audio estremamente curato che in certi momenti domina e trascina con sé i sensi dello spettatore (si pensi, per esempio, alla "Voce", il modo in cui le Bene Gesserit influenzano la volontà altrui).

20 agosto 2021

Viaggio a Kandahar (Mohsen Makhmalbaf, 2001)

Viaggio a Kandahar (Safar-e Qandahār)
di Mohsen Makhmalbaf – Iran/Francia 2001
con Nelofer Pazira, Hassan Tantaï
***

Rivisto in TV (La7), con Sabrina.

Nafas (Nelofer Pazira), una giornalista afgana rifugiatasi in Canada, intende reintrodursi clandestinamente nel proprio paese di origine per raggiungere la città di Kandahar, dove si trova ancora sua sorella, che le ha comunicato l'intenzione di uccidersi nel giorno dell'ultima eclisse di sole del millennio. Ma per attraversare il territorio controllato dai talebani (gli "studenti coranici" che impongono severe leggi che limitano la libertà degli abitanti, e in particolare delle donne) deve nascondersi sotto un burqa e dipendere dall'aiuto di occasionali sconosciuti incontrati lungo il cammino (una famiglia di profughi di cui si finge una delle mogli, un bambino appena espulso da una scuola coranica, un medico di origine americana, un uomo con il braccio amputato). Di impianto semi-documentaristico (la storia della protagonista è in parte vera, e molti degli attori interpretano sé stessi), è il film più noto in occidente del regista iraniano Mohsen Makhmalbaf, che lo ha girato negli anni del primo regime talebano in Afghanistan: prima, cioè, che gli attentati dell'11 settembre 2001 spingessero gli americani e i paesi occidentali a rovesciare tale regime: oggi, proprio nei giorni in cui i talebani hanno riacquistato il controllo del paese, la pellicola è tornata tristemente e prepotentemente di attualità dopo aver passato qualche tempo (dopo l'iniziale successo) nel dimenticatoio. Potente e impressionante nel suo mettere in scena le condizioni di un popolo soggiogato da un sistema fanatico ed estremista (vedi per esempio la scena della scuola coranica, che mostra l'indottrinamento dei bambini), oltre che della situazione di profughi e rifugiati (molti dei quali con arti amputati a causa delle numerose mine, residui della lunga guerra fra i sovietici e i mujaheddin: indimenticabili le scene in cui gli elicotteri della Croce Rossa "paracadutano" nel deserto protesi e gambe finte), il film parla soprattutto delle dure condizioni delle donne sotto il dominio talebano, chiamate cumulativamente "teste nere", private di ogni diritto (dall'educazione al lavoro indipendente), persino della parola (un uomo o un bambino devono fare da "interprete" fra loro e gli estranei durante qualsiasi conversazione) e naturalmente costrette a nascondersi interamente dietro il velo (sotto il quale, però, alcune di loro non rinunciano a mettersi lo smalto o il rossetto). Alcune sequenze appaiono involontariamente comiche, come quella in cui non solo Nafas ma anche la sua guida e numerosi altri uomini si celano sotto il burqa per unirsi a un corteo nuziale e oltrepassare così un posto di blocco (una sequenza che ricorda quella del film dei Monty Python "Brian di Nazareth" con le barbe finte). La maggior parte del film è stata girata in Iran (per esempio presso il campo rifugiati di Niatak), ma alcune scene anche (segretamente) in Afghanistan. Il medico che aiuta Nafas è interpretato da Hassan Tantaï (alias Dawud Salahuddin), un vero ex combattente americano che si è convertito all'Islam, si è rifugiato in Iran e ha ucciso un oppositore di Khomeini (ed è tuttora ricercato come fuggitivo). Finale aperto, con l'ultima scena che era stata proposta anche all'inizio e che torna come in un circolo (richiamato dall'immagine dell'eclisse, intravista da Nafas attraverso le maglie strette del burqa e ovvia metafora di un'oscurità che irrompe sul destino degli abitanti del paese). Ma la bellezza del film sta anche nella sua apertura verso la speranza, a tratti evocata dalle frasi, dai canti e dalle emozioni che Nafas cattura a mo' di reportage, durante tutto il viaggio, sul suo registratore portatile, nell'intento di portare conforto alla sorella e, per estensione, a tutto il popolo afgano.

29 luglio 2021

Zabriskie Point (Michelangelo Antonioni, 1970)

Zabriskie Point (id.)
di Michelangelo Antonioni – Italia/USA 1970
con Mark Frechette, Daria Halprin
***

Rivisto in DVD, con Sabrina.

Accusato ingiustamente di aver sparato a un poliziotto durante una manifestazione all'università (sono gli anni delle contestazioni contro la guerra in Vietnam e delle violenze della polizia contro i neri), Mark (Frechette), studente di Los Angeles, ruba un piccolo aereo da turismo e fugge verso la Death Valley. Qui, nel deserto, incontra la giovane segretaria Daria (Halprin), che si sta recando in auto verso Phoenix. Faranno l'amore nudi sulla sabbia a Zabriskie Point, antica e particolare conformazione geologica fra colline di gesso e di borace. Dopo che il ragazzo sarà tornato in città e sarà ucciso dalla polizia, Daria porterà avanti a modo proprio la sua lotta contro il sistema e il conformismo, facendo esplodere con l'immaginazione la casa modello del suo boss, uno speculatore edilizio, situata proprio in mezzo al deserto. Il secondo film in lingua inglese di Antonioni (questa volta girato in America) è uno dei suoi lavori più iconici e al tempo stesso più controversi e meno universalmente acclamati (fu detestato, per esempio, dalla critica negli Stati Uniti, che lo trovò banale e qualunquista). Se in "Blow up" il regista ferrarese (anche sceneggiatore, insieme a Tonino Guerra, Sam Shepard, Clare Peploe e Fred Gardner) aveva sfruttato il contesto della Swinging London e del mondo della fotografia e della moda per riflettere sui concetti di realtà e della relatività delle esperienze sensoriali, qui fa qualcosa di simile, partendo dalle pulsioni anarchiche e dalle contestazioni giovanili per parlare più in generale di ribellione, fuga, libertà e autodeterminazione. E quale luogo migliore di un deserto (come vedremo anche in "Fandango"), della Valle della Morte, per allontanarsi da una società in cui si sta stretti o non ci si riconosce più, e cercare sé stessi? Da notare che Mark si trova a poco agio persino fra i suoi compagni rivoluzionari: nella sua anarchia è individualista, oltre ogni regola o vincolo. Come sempre, poi, in Antonioni il discorso si allarga a livelli universali che vanno oltre la situazione concreta, e non casualmente le due scene più celebri del film (l'amore nel deserto, la casa che esplode) si venano entrambe di sfumature surreali e visionarie. Nel primo caso, i due giovani amanti sono man mano attorniati da innumerevoli altre coppie che si abbracciano appassionatamente: "residui" di altre persone che sono state lì ad amarsi in passato, oppure – più probabile – un segno che i due protagonisti rappresentano un po' tutti i ragazzi che in quel momento si battono contro un sistema oppressivo e valori in cui non si riconoscono? Nel secondo caso, l'esplosione è tutta nella mente della protagonista, e viene mostrata più volte (da angolazioni diverse) e poi al rallentatore, mentre stanze, oggetti ed elettrodomestici deflagrano (la piscina, il guardaroba, la televisione, il frigorifero, la libreria) e i loro frammenti colorati volteggiano nell'aria, accompagnati dalla musica dei Pink Floyd (il tutto è un'evidente critica alla società dei consumi). La bella colonna sonora comprende anche brani dei Grateful Dead, dei Kaleidoscope e di Jerry Garcia. La fotografia, che sfrutta nel migliore dei modi i paesaggi vasti e spettrali della Death Valley, è di Alfio Contini. I due attori protagonisti erano esordienti e non professionisti (e i personaggi hanno i loro stessi nomi).

19 maggio 2021

Acqua, vento, sabbia (Amir Naderi, 1989)

Acqua, vento, sabbia (Aab, baad, khaak)
di Amir Naderi – Iran 1989
con Majid Nirumand
***

Rivisto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Un ragazzino vaga nel deserto alla ricerca della propria famiglia, che ha abbandonato il villaggio natale dopo che il lago si è prosciugato. L'ultimo film girato da Amir Naderi in patria prima di abbandonare per sempre il paese e trasferirsi negli Stati Uniti, e forse il suo lavoro iraniano più celebre in occidente insieme al precedente "Il corridore" (con lo stesso attore, che lì era un bambino e qui è giusto un po' più cresciuto), è una pellicola quasi muta, antinarrativa e documentaristica. Il rumore incessante che vento che soffia (il sonoro, come capita spesso nel cinema iraniano, è un elemento fondamentale), la sabbia che permea l'aria, la terra spaccata e le dune del deserto mettono l'ambiente al centro della storia, rendendolo di fatto protagonista al pari del ragazzo, che si muove in uno scenario desolato, dove piccoli momenti di solidarietà si alternano ad altri in cui l'isolamento e l'istinto di sopravvivenza hanno la prevalenza su tutto. A differenza di gran parte delle persone che incontra, in più occasioni il ragazzo dimostra di avere un cuore: quando soccorre un bambino perso (o abbandonato?) nel deserto, facendo di tutto affinché sia accolto da una carovana di passaggio, o quando, nel finale, scava a mani nude un pozzo nella sabbia per trovare l'acqua necessaria a salvare una vita. E mentre il viaggio e la ricerca del protagonista assumono quasi toni archetipici, i luoghi inospitali, le carcasse di animali morti (attorno ai quali si aggirano cani randagi), i canti delle popolazioni nomadi concorrono a impreziosire un film lento e ostico ma anche immersivo, unico nel suo genere e capace di illustrare con forza il rapporto fra l'uomo e la natura. Nel finale, quando l'acqua sgorga copiosamente dal pozzo (è quasi un'inondazione, come se ci trovassimo in mezzo al mare), si odono le note della quinta sinfonia di Beethoven.

20 aprile 2021

Spirits of the air, gremlins of the clouds (A. Proyas, 1989)

Spirits of the air, gremlins of the clouds
di Alex Proyas – Australia 1989
con Michael Lake, Rhys Davis, Norman Boyd
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Il misterioso Smith (Norman Boyd), in fuga da qualcuno, attraversa il deserto fino a giungere alla fattoria sperduta dove vivono i fratelli Felix (Michael Lake) e Betty (Rhys Davis). Mentre la donna teme l'arrivo dello straniero che ritiene essere un demone e progetta di mandarlo via, l'uomo, inventore paralitico e ossessionato dal volo, chiede l'aiuto di Smith per costruire una "macchina volante", necessaria per superare l'alta muraglia di montagne invalicabili che circondano il deserto verso nord. L'opera prima (dopo alcuni cortometraggi) di Alex Proyas, per lungo tempo quasi irreperibile (ma è stata restaurata e riproposta in home video nel 2018), è una bizzarra pellicola con soli tre personaggi, visionaria e ricca di suggestioni, a partire dalla fotografia colorata e ipersatura di David Knaus che sembra anticipare certi lavori di Darius Khondji (come i primi film di Jeunet). Lo scenario è quasi un incrocio fra il mondo post-apocalittico di "Mad Max" (sempre di deserto australiano si tratta, in fondo), un western e un manga (vedi anche il trucco e gli abiti eccentrici ma di stampo "nipponico" della sciroccata Betty), con notevoli sottotesti onirici e religiosi (la fattoria dei due fratelli è letteralmente tappezzata di croci), dominato dal tema del volo. Interessante anche la colonna sonora di Peter Miller. Nel complesso è un film originale e fumettoso, interessante anche se dall'andamento lento e statico, che Proyas ha scritto, diretto e prodotto con un budget limitato prima di fare il gran salto a Hollywood dove realizzerà "Il corvo" e "Dark city".

19 ottobre 2020

The bad batch (Ana Lily Amirpour, 2016)

The bad batch (id.)
di Ana Lily Amirpour – USA 2016
con Suki Waterhouse, Jason Momoa
**

Visto in TV (Netflix).

In un mondo (futuro?) dove i criminali, i reietti e i "membri non funzionanti della società" (rinominati "the bad batch", che potremmo tradurre come "il lotto difettato") vengono isolati e spediti a vivere nel deserto del Texas, la stessa sorte capita alla giovane Arlen (Suki Waterhouse). Ribelle e introversa, la ragazza non si troverà a suo agio né fra i culturisti selvaggi, tatuati e cannibali (!) che abitano nelle lande desolate (e che le mangiano un braccio e una gamba!) né con gli appena più civilizzati abitanti di Comfort, cittadina fortificata e dominata dal carismatico DJ – con tanto di harem – che si fa chiamare "il Sogno" (Keanu Reeves) e che conserva il proprio potere dispensando musica e droghe. Ma sceglierà di seguire uno dei primi, Miami Man (Jason Momoa), per aiutarlo a ritrovare la figlioletta (Jayda Fink) che proprio lei gli aveva sottratto... Il secondo lungometraggio della Amirpour è, come il precedente "A girl walks home alone at night", un pastiche bizzarro e originale, per quanto non del tutto riuscito. Le suggestioni (fra "Mad Max" e "1997: Fuga da New York", per non parlare di scenari che sembrano usciti da un film di Robert Rodriguez, Tarantino o Jodorowsky) legate al mondo selvaggio e distopico in cui un'umanità di reietti e di freak vive allo sbando, nonché alcuni interessanti personaggi o situazioni quasi da cinema sperimentale o underground (a partire dalla protagonista amputata), non riescono a compensare il soggetto esile, la mancanza di ritmo e l'inconcludenza narrativa (non sappiamo quasi nulla del passato dei personaggi e in molti casi essi vengono abbandonati senza una risoluzione), senza contare che è difficile trovare qualcuno a cui aggrapparsi o con cui empatizzare (la stessa Arlen rimane muta per gran parte della pellicola e si comporta poi in maniera irrazionale, prima di manifestare una sorta di ricerca di riscatto o redenzione, il desiderio di "essere la soluzione per qualcosa"). Apprezzabile, comunque, il cinismo e la mancanza di buoni sentimenti: Arlen non si lascia tentare da impulsi materni nei confronti della bambina, e il tenero coniglietto finisce arrostito. Nel cast anche un irriconoscibile Jim Carrey (il vecchio eremita), nonché Giovanni Ribisi, Diego Luna e Yolonda Ross. Premio speciale della giuria alla mostra del cinema di Venezia.

28 settembre 2020

Destinazione... Terra! (Jack Arnold, 1953)

Destinazione... Terra! (It came from outer space)
di Jack Arnold – USA 1953
con Richard Carlson, Barbara Rush
**1/2

Visto in divx.

"Then at a deadly pace
it came from outer space,
and this is how the message ran..."

I cieli notturni sul deserto dell'Arizona sono solcati da quella che sembra una meteora in fiamme, che si schianta presso una miniera. Il giovane astronomo dilettante John Putman (Richard Carlson), primo ad accorrere sul luogo insieme alla fidanzata Ellen (Barbara Rush), vede chiaramente che nell'enorme cratere è precipitata un'astronave, prima che questa venga nascosta da una frana. Ma nessuno gli crede. E una creatura extraterrestre, uscita dalla navicella, si aggira per il deserto, assumendo l'aspetto degli esseri umani che incontra. Da un soggetto originale di Ray Bradbury, un B-movie di fantascienza assai semplice e ingenuo ma a suo modo pionieristico e influente, che si distingue da altre pellicole coeve simili per il ribaltamento dei ruoli: gli alieni, si scoprirà, non hanno affatto cattive intenzioni, sono capitati sulla Terra per caso e sono pacifici, anche se più avanzati tecnologicamente. I "cattivi" sono invece i terrestri, che – a parte John – ricorrono subito alla violenza e non sono disposti a dare fiducia a ciò che è diverso ("questa gente è contro chiunque la spaventi in un modo o nell'altro") o a superare le apparenze (gli alieni, nelle loro reali fattezze, sono mostri orribili, creature lovecraftiane con un solo occhio). Evidente il messaggio che incita a vincere le diffidenze dovute alla diversità e alla paura, in contrasto con i timori sulla Guerra Fredda e le metafore anti-comuniste che permeavano gran parte dei film di questo genere negli anni cinquanta (con poche ma notevoli eccezioni, come "Ultimatum alla Terra"). Si narra che Bradbury propose due soggetti, uno con gli alieni cattivi e l'altro con gli alieni buoni, e accettò di collaborare al film solo quando lo studio scelse il secondo. Memorabili le soggettive del mostro (che osserva il mondo da un occhio gelatinoso). Nel cast anche Charles Drake (lo sceriffo) e Joseph Sawyer (Frank, il capo degli operai rapiti). La pellicola fu girata e proiettata in 3D. Negli anni seguenti il regista Jack Arnold si specializzerà in film di fantascienza e horror, firmando numerosi altri classici come "Il mostro della laguna nera" e "Radiazioni BX: distruzione uomo".

28 maggio 2020

Marrakech Express (G. Salvatores, 1989)

Marrakech Express
di Gabriele Salvatores – Italia 1989
con Fabrizio Bentivoglio, Diego Abatantuono
***

Rivisto in DVD.

Quando ricevono dal Marocco un'inattesa richiesta d'aiuto da parte di Rudy, l'amico di cui non avevano più notizie da dieci anni, quattro trentenni un tempo inseparabili ma che si sono ormai persi di vista – l'ingegnere Marco (Fabrizio Bentivoglio), il venditore d'auto usate Maurizio detto "Ponchia" (Diego Abatantuono), l'insegnante Paolino (Giuseppe Cederna) e il solitario Cedro (Gigio Alberti) – decidono di partire insieme in auto per Marrakech per portargli il denaro che ha richiesto. Il lungo viaggio farà tornare alla luce i rapporti, i rancori e le incomprensioni, ma anche le complicità, i giochi e soprattutto la nostalgia per un'epoca ormai finita ("Siamo una tribù in via di estinzione, gli ultimi che avranno i ricordi in bianco e nero"). Vero e proprio cult movie generazionale, forse debitore in parte a "Il grande freddo" e a "Fandango", il terzo film di Gabriele Salvatores è il primo della cosiddetta "trilogia della fuga" (seguiranno "Turné" e "Mediterraneo"), nella quale il regista esplicita la sua miglior vena comico-indulgente e, insieme con i suoi sceneggiatori (qui Umberto Contarello, Carlo Mazzacurati ed Enzo Monteleone), guarda al passato e ai ricordi di quando, con gli amici, si facevano spensierati viaggi in giro per l'Europa e per il mondo, all'insegna della gioventù e dell'incoscienza (farsi le canne sul traghetto, rubare cibo al supermercato, dormire sotto le stelle...) prima che gli impegni e i doveri della vita adulta ci cambiassero profondamente e soffocassero la voglia di libertà. Leggero e ingenuo, riesce a risultare comunque risonante e gradevole, grazie al fascino apportato dai temi del viaggio (che, come sempre, è anche e soprattutto alla (ri)scoperta di sé) e dell'amicizia, ma pure a una colonna sonora che comprende brani vintage ("L'anno che verrà" di Lucio Dalla, "La leva calcistica del '68" di Francesco De Gregori, quest'ultima usata nella scena più celebre della pellicola, quella della partita nel deserto contro i marocchini che sarà poi citata da Aldo, Giovanni e Giacomo in "Tre uomini e una gamba"). Fra i tanti momenti memorabili, la sosta presso il villaggio western in Spagna, la visita dal dentista tedesco a Marrakech, il tatuaggio al bagno turco, l'attraversamento del deserto in bicicletta, prima che la pellicola si perda un po' nel finale: come in molti viaggi, quando si arriva alla meta tutto sembra di colpo meno interessante. Ottimi gli attori, che torneranno quasi tutti nei film seguenti del regista: a spiccare sono in particolare Cederna (nei panni del timido Paolino) e Abatantuono (Ponchia), che dopo "Regalo di Natale" prosegue a staccarsi dalla figura del "terrunciello" che lo aveva reso celebre, dimostrandosi interprete a tutto tondo. Ugo Conti è l'omosessuale Salvatore, che aiuta i nostri amici in Marocco. Massimo Venturiello è Rudy, mentre Cristina Marsillach è Teresa, la ragazza spagnola che questi manda dagli amici. Insieme ai lavori successivi avrebbe potuto forse rinnovare la stagione della commedia all'italiana: ma il filone inevitabilmente si estinguerà da solo in poco tempo, e lo stesso Salvatores cercherà altre strade.

12 gennaio 2020

Dune (David Lynch, 1984)

Dune (id.)
di David Lynch – USA 1984
con Kyle MacLachlan, Francesca Annis
**1/2

Rivisto in divx (versione estesa).

Il terzo film di David Lynch è un ambizioso adattamento di uno dei più importanti romanzi di fantascienza di tutti i tempi, "Dune" di Frank Herbert, affresco epico e caledoiscopico che mescola temi ad ampio raggio come la religione, la politica, la guerra e l'ecologia. E non pochi sono gli elementi che, dietro l'apperente setting fantascientifico, rimandano o addirittura anticipano delicate questioni e problemi del mondo contemporaneo. L'obiettivo dei produttori era quello di realizzare una sorta di "Guerre Stellari" per spettatori adulti: fu invece uno sfortunato e spettacolare flop sia di pubblico che di critica, considerato forse il meno "lynchiano" fra tutti i lavori del regista (nonostante non manchino elementi di interesse). In un lontano futuro – siamo nell'anno 10191 – l'universo è governato da un sistema di tipo feudale che vede al suo vertice l'imperatore Shaddam IV, mentre i singoli pianeti sono sotto il dominio di grandi famiglie aristocratiche. Due di queste, la casa degli Atreides e quella degli Harkonnen, sono in conflitto fra loro da tempi immemori: per eliminare i primi, che stanno mettendo a punto una nuova arma, l'imperatore stringe una segreta alleanza con i secondi. Agli Atreides, per attirarli in trappola, viene affidato l'ambito controllo del pianeta Arrakis, detto anche Dune, un mondo desertico eppure prezioso perché soltanto lì viene estratta la "spezia", misteriosa sostanza dai molti poteri, in grado di allungare la vita, accelerare l'evoluzione e ampliare la percezione (come una sorta di droga psichedelica), consentendo ai membri della Gilda dei Navigatori di “annullare lo spazio” e permettere dunque i viaggi interstellari. Grazie a un traditore, gli Harkonnen – spalleggiati dall'imperatore – attaccano gli Atreides e ne uccidono il capo famiglia, il duca Leto. Ma suo figlio Paul, scampato al massacro, si unirà ai Fremen, la popolazione indigena di Arrakis, e con il nome di Muad'Dib li guiderà in una "guerra santa" (Jihad) alla riconquista del pianeta. Vera e propria figura messianica (la sua venuta era predetta da una profezia), Paul è infatti lo "Kwisatz Haderach", l'essere supremo, risultato di un progetto di selezione genetica portato avanti per quaranta generazioni dalla sorellanza delle Bene Gesserit (la setta cui appartiene sua madre Jessica).

Pubblicato nel 1965 (ma apparso prima sotto forma di serial su rivista già dal dicembre 1963), il romanzo di Herbert era stato subito acclamato per la ricchezza e la profondità dei temi, il fascino dell'ambientazione e la complessità delle dinamiche. Giochi di potere, paranoia, sospetti e intrighi fra multiple fazioni in lotta tra loro si mescolano a riferimenti religiosi (evidenti i rimandi al Vecchio e al Nuovo Testamento, a partire dai molti nomi di ispirazione araba e semitica), filosofici e politici (la battaglia per il controllo di Arrakis, e dunque della spezia, riecheggia – oggi ancora di più! – le guerre per il petrolio che insanguinano il Medio Oriente nel nostro mondo). I tentativi di realizzarne una versione cinematografica erano partiti sin dai primi anni settanta, quando i diritti furono acquistati da Arthur P. Jacobs (il produttore de “Il pianeta delle scimmie”) con l'intenzione di far dirigere la pellicola a David Lean (che con “Lawrence d'Arabia” aveva già dimostrato di sapersela cavare con storie epiche ambientate in un deserto). Ma non se ne fece nulla, e alla morte di Jacobs i diritti passarono a un consorzio francese che mise in piedi un progetto di proporzioni mastodontiche: la regia sarebbe dovuta essere del visionario Alejandro Jodorowsky, con la collaborazione di Jean Giraud (alias Moebius), Dan O'Bannon, H. R. Giger e un cast comprendente, fra gli altri, Salvador Dalì, Orson Welles e Mick Jagger. I costi elevati e l'eccessiva durata prevista del film portarono alla chiusura del progetto, e nel 1976 i diritti vennero acquisiti da Dino De Laurentiis, che mise in cantiere una versione che avrebbe dovuto essere diretta da un giovane Ridley Scott. Dopo la rinuncia di quest'ultimo, spaventato dai continui ritardi, Raffaella De Laurentiis (figlia di Dino) scelse di rimpiazzarlo con un altro giovane e promettente regista, quel David Lynch reduce dal successo di "The elephant man" (da cui proviene anche il direttore della fotografia Freddie Francis), che per dirigere "Dune" rinunciò a un'altra proposta, nientemeno che la regia de "Il ritorno dello Jedi". Nelle intenzioni, "Dune" e i suoi eventuali seguiti avrebbero dovuto inserirsi proprio nel filone della SF avventurosa (e proficua commercialmente) aperto da "Star Wars". Ma le cose non andarono come previsto.

La lavorazione fu lunga e faticosa. Girato in Messico (i panorami desertici sono quelli dei Médanos de Samalayuca, mentre a Città del Messico furono costruiti oltre 80 set), il film – sceneggiato dallo stesso Lynch – sarebbe dovuto durare tre ore, ma uscì in sala in una versione accorciata a poco più di due ore, cosa di cui il regista si lamentò, anche perché le pressioni dei produttori limitarono il suo controllo creativo e gli negarono il final cut. Molti elementi della trama furono eliminati, semplificati o condensati, soprattutto nella parte finale, che scorre troppo rapidamente (di fatto, i primi due terzi della pellicola corrispondono al primo terzo del romanzo), rendendo il risultato poco omogeneo e a tratti confuso, e venne aggiunta una nuova introduzione narrata dalla principessa Irulan (Virginia Madsen), personaggio praticamente assente nel resto del film (fa giusto una comparsata nel finale). Costato più di 40 milioni di dollari, un'enormità per l'epoca, il film ne incassò soltanto 30 e venne stroncato dalla critica. In effetti, imbrigliato com'è dalla trama, dai personaggi e dalle esigenze di spettacolarizzazione imposte dalla produzione, fatica a respirare e non riesce ad accattivarsi l'attenzione dello spettatore. È inoltre poco "lynchiano", dicevamo, anche se non mancano sequenze più visionarie (come quelle dei sogni o delle premonizioni di Paul) e momenti di body horror (dall'aspetto deforme dei piloti della Gilda alle disgustose pratiche degli Harkonnen). Eppure a tratti ha un suo fascino innegabile, con personaggi originali e protagonisti di dinamiche di notevole crudeltà, che pianificano progetti segreti, comunicano telepaticamente o tramite il condizionamento mentale, esplorano mondi o si battono sul campo di battaglia, lasciando intravedere non pochi aspetti che avrebbero certo meritato maggior approfondimento. Negli anni seguenti usciranno (ufficialmente o meno) più versioni "estese" con le scene tagliate che tentano di ripristinare la visione originale di Lynch, risultando se non altro decisamente più coerenti, complete e godibili. Nessuna di queste, però, è stata curata direttamente dal regista, che ha preferito non aver più a che fare con questa pellicola, di fatto rinnegandola.

Il rimpianto nasce dalle enormi potenzialità del progetto, a partire dal suo affascinante scenario. Grande cura è stata posta negli effetti visivi, nelle scenografie e nei costumi. Pur ambientato in un lontano futuro, il mondo del film è tutt'altro che asettico: le scenografie sono sporche e realistiche, e testimoniano di un mondo "vissuto" e con un passato. I pianeti sono militarizzati, i personaggi sono bizzarri, eccentrici, talvolta anche sgradevoli fisicamente (soprattutto gli Harkonnen). Dune è un pianeta interamente desertico e ostile, spazzato da violente tempeste di sabbia e di elettricità statica nonché abitato dai “vermi”, mostruose creature (realizzate da Carlo Rambaldi) che nascondono un misterioso legame con la spezia e che sono venerate come divinità dai Fremen, la popolazione indigena del pianeta. Questi, nomadi del deserto dai caratteristici occhi azzurri come il mare, sono capaci di sopravvivere in un ambiente inospitale di cui conoscono ogni segreto, anche grazie a innovazioni tecnologiche come le tute distillanti che riciclano il sudore e i fluidi corporei. Nel vasto cast, volti conosciuti – Sting (Feyd-Rautha), Patrick Stewart (Gurney Halleck), Dean Stockwell (il dottor Yueh), Brad Dourif (Piter De Vries), José Ferrer (l'imperatore), Max von Sydow (il dottor Kynes), Freddie Jones (Thufir Hawat), Silvana Mangano (la reverenda madre), Linda Hunt (la Shadout Mapes) – si affiancano a interpreti alle prime armi. Il protagonista Kyle MacLachlan (Paul Atreides), al debutto sul grande schermo, legherà la propria carriera a doppio filo con quella di Lynch, recitando per lui in “Velluto blu” e soprattutto nel serial televisivo “I segreti di Twin Peaks”, nonché nel suo prequel "Fuoco cammina con me". Jürgen Prochnow è il Duca Leto Atreides, Kenneth McMillan è il Barone Vladimir Harkonnen, Francesca Annis è Lady Jessica, Sean Young è Chani, Everett McGill è Stilgar, Richard Jordan è l'amico Duncan Idaho (personaggio che qui appare in poche scene, ma che diventerà una figura chiave nei numerosi seguiti del romanzo), Paul Smith (il "finto" Bud Spencer!) è Rabban, e infine Alicia Witt, all'epoca di soli 8 anni, è Alia, la sorella di Paul. La colonna sonora è opera del gruppo rock Toto, con la collaborazione di Brian Eno per il "tema della profezia". Nel 2000, dal romanzo di Herbert è stata tratta una serie tv in tre episodi. E a fine 2021 dovrebbe arrivare nelle sale una nuova versione cinematografica, divisa in due parti, firmata da Denis Villeneuve.

20 maggio 2019

Il vento e il leone (John Milius, 1975)

Il vento e il leone (The Wind and the Lion)
di John Milius – USA 1975
con Sean Connery, Candice Bergen
*1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Nel 1904, in un Marocco in cui l'autorità del sultano è destabilizzata dalle potenze coloniali straniere, il predone berbero el-Raisuli (Sean Connery) rapisce una donna americana, Eden Pedecaris (Candice Bergen), e i suoi due figli, portandoli con sé nel deserto e scatenando l'ira del presidente Theodore Roosevelt (Brian Keith), che si prende a cuore la faccenda. Mentre l'iniziale ostilità dei rapiti verso el-Raisuli si tramuta man mano in fascinazione e affetto, le truppe americane giungono in Marocco, trovandosi ingabbiate in una ragnatela di intrighi diplomatici e politici, e la tensione cresce fino all'orlo di una guerra. Tratto in parte da una storia vera (che riguardava però un uomo di origine greca, Ion Perdicaris, e non una donna), un fumettone d'avventura ingenuo ed epico ma anche assai noioso, almeno quando sono in scena il protagonista e la donna rapita, anche per via di un mood non ben definito (non si capisce mai se il tutto sia da prendere sul serio o meno) e di tante scene implausibili. Oltre alla prestanza e al carisma di Connery, a spingere Eden e i due figli a simpatizzare progressivamente per il loro rapitore è una sorta di sindrome di Stoccolma, visto che l'analisi delle sue motivazioni politiche (la lotta contro i colonialisti stranieri) è del tutto superficiale. Più interessante la dinamica del confronto a distanza fra Roosevelt e el-Raisuli (sono loro due il “vento” e il “leone” del titolo), che – pur non incontrandosi mai di persona (il presidente non lascia gli Stati Uniti, impegnato com'è nella campagna per la rielezione, nelle trattative per la costruzione del canale di Panama, e nelle sue attività venatorie) – condividono un reciproco rispetto, nonché l'amore per le armi e gli animali selvatici (come l'orso grizzly che il presidente fa impagliare e collocare allo Smithsonian). Naturalmente gli americani (anche se guerrafondai) sono buoni e i tedeschi sono cattivi. Nonostante le premesse, la violenza è sempre tenuta da Milius rigorosamente fuori inquadratura. John Huston è il segretario di stato John Hay, Steve Kanaly il capitano Jerome.

30 marzo 2019

Divine wind (Merzak Allouache, 2018)

Divine wind (Rih rabani)
di Merzak Allouache – Algeria/Francia 2018
con Sarah Layssac, Mohamed Oughlis
*1/2

Visto all'Auditorium San Fedele, con Marisa, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

In una capanna nel deserto algerino, ospiti di un'anziana contadina, una giovane reclutatrice dell'ISIS e un ragazzo che ha scelto di andare a combattere con i terroristi islamici attendono di ricevere gli ordini per compiere la propria missione: un attentato suicida presso un vicino impianto petrolifero. Girato in bianco e nero e caratterizzato da estrema lentezza, un film assai dilatato che lascia appena intuire il passato e i trascorsi dei suoi personaggi (nelle scarne telefonate che il ragazzo fa al padre, cercando di convincerlo di trovarsi a Barcellona, e negli sguardi che la ragazza rivolge alla foto della sorella defunta). Lui è fragile, insicuro, incerto, mentre lei è all'apparenza assai dura e decisa, salvo lasciarsi andare a profonde reazioni emotive quando non pensa di essere vista: e naturalmente fra i due scatta qualcosa, anche se una relazione affettiva non può aver veramente modo di svilupparsi. Ma nonostante la bella fotografia (quasi da cinema muto o da Nouvelle Vague) che rende al meglio gli affascinanti spazi del deserto, la pellicola risulta davvero troppo esile, anche perché la lunga fase di attesa e sospensione (gli eventi accadono soltanto nel finale) non è accompagnata da alcun approfondimento o riflessione particolare sui suoi personaggi e sul tema stesso del terrorismo (il titolo, "Vento divino", traduce il termine kamikaze) o del fanatismo religioso (perché i due protagonisti sono diventati così?).

28 febbraio 2019

Thelma & Louise (Ridley Scott, 1991)

Thelma & Louise (id.)
di Ridley Scott – USA 1991
con Susan Sarandon, Geena Davis
***1/2

Rivisto in DVD.

Le amiche Louise Sawyer (Susan Sarandon), cameriera in un diner, e Thelma Dickinson (Geena Davis), casalinga e moglie trascurata, partono da sole in auto per un weekend di vacanza. Ma quella che doveva essere una semplice pausa dalle frustrazioni e dalla routine quotidiana si trasforma in un incubo quando la prima, per difendere la seconda da un tentativo di violenza, spara e uccide un uomo a sangue freddo. In fuga dalla polizia e dirette verso il Messico, in un crescendo inarrestabile, quello delle due amiche diventa un viaggio senza ritorno ("Non ce la farei più a tornare a vivere come prima") all'insegna della libertà e dell'emancipazione dai lacci e dalle costrizioni della società, ma soprattutto dalle prepotenze di uomini approfittatori. Iconico buddy movie "femminista" on the road, un inno all'amicizia e alla solidarietà, che può contare non soltanto su una storia potente e su personaggi ottimamente caratterizzati (e che evolvono nel corso della vicenda: in particolare Thelma, che da ingenua e repressa arriva a scoprire il lato più libero e selvaggio di sé: mitica la scena della rapina, con l'impagabile reazione del marito quando gli viene mostrato il filmato delle camere di sorveglianza), ma anche sui magnifici scenari del southwest americano (le due protagoniste attraversano Arkansas, Oklahoma, Nuovo Messico e Arizona, fino alla Monument Valley e a quel Grand Canyon che ha fatto da sfondo a tante celebri pellicole western), ritratti con grande mestiere dalla regia di Scott e dalla fotografia di Adrian Biddle, completamente a loro agio con le lunghe strade e i deserti polverosi e assolati. Molte le scene da ricordare (cito, per esempio, quella dell'esplosione dell'autocisterna nel deserto). Ma in particolare è rimasto celebre, anche per l'intensità emotiva (che lo rende uno dei più memorabili di sempre), il finale con il fermo immagine e la dissolvenza. La sceneggiatura di Callie Khouri vinse l'Oscar (la pellicola ebbe in tutto sei nomination). Notevole e suggestiva anche la colonna sonora acustica di Hans Zimmer. Buono pure il cast di contorno: Harvey Keitel è il detective comprensivo e simpatetico, Michael Madsen è Jimmy, l'amico di Louise, mentre un giovane Brad Pitt è l'autostoppista ladruncolo. Forse l'unico personaggio sopra le righe è il marito sessista di Thelma, interpretato da Christopher McDonald. Per i ruoli delle protagoniste erano state prese in considerazione prima Meryl Streep e Goldie Hawn, e poi Michelle Pfeiffer e Jodie Foster.

17 febbraio 2019

La pattuglia sperduta (John Ford, 1934)

La pattuglia sperduta (The Lost Patrol)
di John Ford – USA 1934
con Victor McLaglen, Boris Karloff
**1/2

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Durante la prima guerra mondiale, una pattuglia di soldati inglesi a cavallo, smarriti nel deserto della Mesopotamia, si rifugia presso un'oasi. Qui vengono presi di mira da cecchini arabi che li uccidono uno a uno. Da un romanzo di Philip MacDonald (già adattato in un film muto britannico del 1929: questo è tecnicamente un remake), una pellicola bellica del tutto particolare, visto che – tranne per una breve scena nel finale – i nemici non appaiono praticamente mai: sono delle presenze minacciose ma invisibili, incombenti forze del destino o della natura come gli indiani di "Ombre rosse": ogni tanto uno dei loro colpi di fucile abbatte uno dei soldati della pattuglia, nel frattempo resi progressivamente più ansiosi (se non addirittura pazzi) dall'assedio, dall'attesa, dal caldo e dai propri fantasmi. Nei tempi morti, il cameratismo, le chiacchiere, il confronto fra le diverse filosofie di vita ci aiutano a conoscere meglio i vari componenti del gruppo, fra cui (oltre al sergente interpretato da Victor McLaglen) spicca Sanders (Boris Karloff), ossessionato dalla religione. Fra gli altri interpreti ci sono Wallace Ford, Reginald Denny, J.M. Kerrigan, Billy Bevan e Alan Hale. Curiosità: il protagonista del film del 1929 era Cyril McLaglen, fratello di Victor. La stessa storia ispirerà il film sovietico "Sangue sulla sabbia", il bellico "Sahara" e il western "Nuvola nera". La colonna sonora di Max Steiner fu candidata all'Oscar.

29 novembre 2018

Il tè nel deserto (B. Bertolucci, 1990)

Il tè nel deserto (The sheltering sky)
di Bernardo Bertolucci – Italia/GB 1990
con Debra Winger, John Malkovich
**1/2

Rivisto in divx.

Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, tre viaggiatori americani giungono sulle coste del Nordafrica: si tratta dei coniugi Port e Kit Moresby (Malkovich e Winger), artisti annoiati e in cerca di nuovi stimoli (anche per rinsaldare il proprio rapporto coniugale), e del loro giovane amico George Tunner (Campbell Scott). L'avventura, però, si rivela meno piacevole del previsto, fra compagni di viaggio sgradevoli, come il grassoccio Eric Lyle (Timonthy Spall) e sua madre (Jill Bennett), difficoltà logistiche con mezzi di trasporto improvvisati, imprevisti e malattie (Port si ammala di tifo). E i personaggi si smarriscono e si addentrano sempre più nel Sahara e nei suoi misteri. Tratto dal romanzo di Paul Bowles (che compare nel film nei panni del vecchio gentiluomo nel bar, testimone e narratore dell'intera vicenda), sceneggiato da Bertolucci insieme al cognato Mark Peploe e prodotto da Jeremy Thomas (come il precedente "L'ultimo imperatore"), un film difficile da gustare appieno se non ci si adagia nel suo ritmo e non si partecipa, insieme ai protagonisti, al viaggio con i tempi giusti. Caratterizzato, prima ancora che dalla regia di Bertolucci (e da un estetismo e una sensualità un po' melensi e noiosi), dalla fotografia dorata e crepuscolare di Vittorio Storaro, che rende reali e suggestivi gli scenari del deserto (compresa la sabbia e le mosche), sembra procedere a lungo senza una vera trama: in realtà la trama è sotto la superficie, e viene pienamente alla luce soltanto nell'ultima mezz'ora, la parte più bella e suggestiva della pellicola, quando Kit – rimasta sola – si unisce a una carovana di tuareg ed entra per un breve periodo a far parte della loro vita, diventando anche l'amante del berbero Belqassim. Allora dal film spariscono i dialoghi (visto che la donna non parla la lingua dei nomadi), sostituiti da canti e da silenzi, e anche la fotografia muta i propri toni, facendosi lunare (il sole è associato a Port, la luna a Kit). Celebre il tema musicale di Ryuichi Sakamoto.

16 novembre 2018

Aspettando il re (Tom Tykwer, 2016)

Aspettando il re (A Hologram for the King)
di Tom Tykwer – USA/Fra/Ger 2016
con Tom Hanks, Alexander Black
**

Visto in TV.

Alan Clay (Hanks), venditore in crisi familiare, professionale e di salute, viene inviato dalla sua azienda in Arabia Saudita per cercare di vendere al re di quel paese – che sta costruendo una gigantesca città nel deserto – un avveniristico sistema di teleconferenze olografico. Ma il sovrano non si fa vivo, e l'incontro con lui viene rimandato di giorno in giorno senza che a Clay (in un crescente stato di frustrazione e alienazione) vengano fornite spiegazioni... Da un romanzo di Dave Eggers, una pellicola che mostra un personaggio catapultato dall'altra parte del mondo, in un paese a lui totalmente estraneo e incomprensibile (potrebbe essere su Marte, per quanto lo riguarda), dove però finirà per trovare un punto di contatto. Gli echi kafkiani ("Il castello", "Davanti alla legge") e beckettiani ("Aspettando Godot", evocato dal titolo italiano), gli accenni ai pericoli dell'economia globale (l'outsourcing), la crisi personale ed esistenziale, si intrecciano in un film che parte bene ma che da metà in poi comincia a perdere per strada il proprio focus, trascinandosi verso un improbabile lieto fine hollywoodiano (la love story con la dottoressa). Surreali e suggestive le scene della città in costruzione nel deserto, ma per il resto l'ambientazione araba appare stereotipata (un po' come lo era quella giapponese in "Lost in translation", film con cui ha qualche similarità). La regia di Tykwer è comunque spigliata. Flop al botteghino, nonostante un buon Hanks. Alexander Black è l'autista, Sarita Choudhury la dottoressa, Sidse Babett Knudsen la collega danese. Nel cast anche Ben Whishaw e Tom Skerritt.

16 dicembre 2017

Non toccate il passato (Louis Morneau, 1997)

Non toccate il passato (Retroactive)
di Louis Morneau – USA 1997
con Kylie Travis, James Belushi
*1/2

Visto in divx.

In un laboratorio di fisica situato nel bel mezzo del deserto texano, il giovane ricercatore Brian (Frank Whaley) ha inventato un metodo per spedire le persone indietro nel tempo, anche se soltanto di una ventina di minuti. La psicologa della polizia Karen (Kylie Travis), che era rimasta in panne con la sua auto e si era fatta dare un passaggio dallo squilibrato Frank (James Belushi), cerca rifugio nell'edificio per sfuggire alla sua furia omicida e sfrutta l'occasione per tornare ripetutamente nel passato e provare a cambiare le cose: ma ogni suo tentativo sembra peggiorare la situazione, aumentando il numero dei morti e delle persone coinvolte... Girato (al risparmio) tutto nelle polverose strade del deserto, un action movie che sfrutta un classico spunto fantascientifico per imbastire un thriller on the road a base di sparatorie e inseguimenti. A tratti sembra quasi una versione post-tarantiniana di "Ricomincio da capo". Anche se la tensione non manca, regia e recitazione sono da tv movie (con Belushi, nel ruolo del cattivo, come unico punto di forza), non c'è alcuna riflessione sui paradossi temporali o sulle relazioni di causa ed effetto, e il fatto che la protagonista sia una psicologa non ha la minima influenza sulla trama. Solo per appassionati del genere (al quale comunque aggiunge ben poco).

17 settembre 2017

Paris, Texas (Wim Wenders, 1984)

Paris, Texas (id.)
di Wim Wenders – Germania/Francia/GB 1984
con Harry Dean Stanton, Nastassja Kinski
***1/2

Rivisto in DVD, con Sabrina, per ricordare Harry Dean Stanton.

Un uomo esce camminando dal deserto, al confine fra Messico e Stati Uniti. Si tratta di Travis (Harry Dean Stanton), muto e forse smemorato, che da quattro anni era sparito misteriosamente. A recuperarlo, per ricondurlo alla civiltà, si fionda suo fratello Walt (Dean Stockwell), pubblicitario di Los Angeles che nel frattempo, insieme alla moglie Anne (Aurore Clément), ne ha allevato il figlio Alex (Hunter Carson) come se fosse il suo. Anche la moglie di Travis, Jane, non dà infatti più notizie di sé. Una volta rimessolo in sesto, Walt porta il fratello a casa con sé per fargli incontrare suo figlio, che ormai ha quasi otto anni: e nonostante le fatiche iniziali, lentamente l'uomo riesce a recuperare il rapporto con lui. Al punto che quando Travis decide di partire nuovamente, stavolta per rintracciare la moglie, il bambino sceglierà di accompagnarlo. Travis troverà Jane (Nastassja Kinski) a fare la spogliarellista in un peep show di Houston, e i due avranno una lunga conversazione chiarificatrice mentre stanno dai lati opposti di una parete a finto specchio... Da un soggetto di Sam Shepard, con una sceneggiatura improvvisata durante le riprese cui hanno collaborato lo stesso Wenders e L.M. Kit Carson, il padre dell'attore che interpreta il bambino (al momento di iniziare a girare, infatti, lo script era solo a metà), uno dei film più fortunati e popolari del regista tedesco, che gli valse la Palma d'Oro al Festival di Cannes. In esso prosegue e giunge a compimento il suo viaggio alla scoperta degli Stati Uniti, delle sue atmosfere e dei suoi luoghi (anche cinematografici: si pensi a John Ford). Proprio gli ampi spazi dell'America, dai deserti della Momument Valley alle strade sconfinate, dai panorami urbani delle colline di Los Angeles fino ai grattacieli di Houston, sono esaltati dalla fotografia iperrealista e colorata di Robby Müller, ma soprattutto sono abitati da personaggi con una grande umanità e con una storia da raccontare.

I temi del viaggio e del movimento, della ricerca di sé e del rapporto con il proprio passato, tipicamente wendersiani, sono attuati attraverso le relazioni familiari (quelli fra fratelli di Walt e Travis, quelli fra padre e figlio di Travis e Alex – che nella versione originale si chiamava Hunter, come il piccolo attore che lo interpreta – e infine quelli di coppia fra Travis e Jane) e mai soffocati da una bellezza formale (la regia, le inquadrature, i movimenti di macchina, la suddetta fotografia) che semmai incornicia lo struggente racconto. Questo passa dall'avventura on the road al dramma esistenziale, sfuggendo le trappole della retorica e del manierismo anche quando affronta argomenti "rischiosi" come il desiderio di ritrovare un'unità familiare andata perduta: e la caratterizzazione dei vari personaggi, con le loro insicurezze, li rende quando mai vivi e memorabili. La pellicola è facilmente divisibile in tre sezioni, come se si trattasse di tre film diversi, ciascuna con le sue regole e il suo ritmo: quella dell'incontro e del viaggio di Travis con il fratello Walt, quella a Los Angeles del recupero del rapporto con il figlio, e infine quella a Houston della ricerca e del confronto con Jane: la scena clou è naturalmente l'ultima, il lungo colloquio attraverso l'interfono nel peep show, che dura oltre venti minuti e in cui finalmente anche Nastassja Kinski (in precedenza vista solo in foto e nelle brevi scene di un filmino Super8 proiettato a casa di Walt) ha la sua occasione di brillare. È in questa scena, fra l'altro, che veniamo finalmente a conoscenza degli antefatti della vicenda: non attraverso un flashback mostrato sullo schermo, ma solo dai lunghi e intensi monologhi dei due personaggi. Il titolo della pellicola proviene da una località nel Texas in cui i genitori di Travis e Walt si sono conosciuti e in cui Travis ha acquistato un lotto di terreno: a dire il vero è un po' pretestuoso, visto che i personaggi non vi si recano mai e se ne vede uno squallido scorcio solo in fotografia (il che fece infuriare gli abitanti di quella cittadina). Cameo di John Lurie nei panni del gestore del peep show. Molto bella la colonna sonora acustica (con la steel guitar) di Ry Cooder.

6 novembre 2016

Un 32 août sur terre (D. Villeneuve, 1998)

Un 32 août sur terre
di Denis Villeneuve – Canada 1998
con Pascale Bussières, Alexis Martin
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Dopo essere sopravvissuta per miracolo a uno spaventoso incidente d'auto, la giovane Simone capisce che è giunto il momento di ripensare la propria vita: si dimette dal lavoro e chiede al suo miglior amico Philippe di aiutarla a fare un figlio, con la promessa che andrà poi a vivere lontano insieme al bambino e non ci saranno conseguenze per lui. Philippe è recalcitrante (anche perché, pur non avendoglielo mai confessato, è follemente innamorato dell'amica), ma alla fine accetta, ponendo una bizzarra condizione: dovranno fare l'amore nel deserto. Da Montrèal i due si recano così a Salt Lake City, dove si inoltrano nel deserto del lago salato. Qui, fra una disavventura e l'altra, non combineranno nulla. E tornati in patria, Philippe confesserà il suo amore a Simone, che scoprirà di ricambiarlo: ma forse è troppo tardi... Il lungometraggio d'esordio di Denis Villeneuve è una strana commedia romantica on the road, spigliata e simpatica, a tratti surreale (memorabili i paesaggi bianchi e desolati del deserto, che richiamano un altro pianeta: e le suggestioni "extraterrestri" sono in effetti numerose) ma con un finale deludente e poco originale. L'aspetto di Simone, mascolino e con i capelli corti, ricorda quello di Jean Seberg, della quale Philippe ha un poster in camera (il che lascia intendere sin dall'inizio come sia innamorato di lei). Lo strano titolo è metaforico, almeno fino a un certo punto: l'incidente in auto di Simone avviene infatti la notte del 31 agosto, e le vicende successive si svolgono dal 32 agosto in poi (33, 34, 35, 36 agosto...), come se la protagonista fosse entrata in un limbo fuori dal tempo, da cui uscirà (arriva finalmente settembre!) solo quando farà chiarezza nei propri sentimenti.