30 giugno 2013

Point break (Kathryn Bigelow, 1991)

Point Break - Punto di rottura (Point Break)
di Kathryn Bigelow – USA 1991
con Keanu Reeves, Patrick Swayze
***

Rivisto in TV, con Sabrina.

Johnny Utah (Keanu Reeves), giovane agente dell'FBI appena trasferito in California, deve indagare su una banda di rapinatori di banche che compiono i loro colpi mascherati da ex presidenti degli Stati Uniti (Reagan, Nixon, Carter e Johnson). Insieme al collega Angelo Pappas (Gary Busey), sospetta che dietro ai furti ci possa essere un gruppo di surfisti, che con i proventi delle rapine si finanziano le trasferte invernali nell'emisfero australe. Sotto copertura, si introduce così nelle "tribù" dei praticanti di questo sport, conquistando prima l'amore della bella Tyler (Lory Petty) e poi l'amicizia di Bodhi (Patrick Swayze), carismatico "guru" di un gruppo di amanti degli sport estremi. Naturalmente proprio quest'ultimo si rivelerà essere il capo della banda. Il miglior film della Bigelow (checché ne dicano i giurati del premio Oscar) è una pellicola fra le più iconiche dei primi anni novanta, forse il terzo miglior surf movie della storia (dopo "Un mercoledì da leoni" e "Il silenzio sul mare", ovviamente), che sul classico tema dell'indagine poliziesca (e del buddy movie) innesta riflessioni "filosofiche" sull'amicizia, la libertà, il "sapore" di una vita vissuta pericolosamente. È un film carico di testosterone (il che è ironico, se si pensa che alla regia c'è una donna), a tratti quasi viscerale: un critico, ai tempi, scrisse che "Point Break fa sentire quelli come noi, che non trascorrono la vita in cerca di un'emozione fisica estrema, come cittadini di seconda classe. Il film trasforma lo spericolato valore atletico in una nuova forma di aristocrazia". È inoltre, probabilmente, la pellicola che ha fatto da modello al primo "Fast and Furious", quasi un remake che ne sposta il focus dal surf alle corse automobilistiche illegali. Anche se Reeves sforna una delle sue migliori interpretazioni, a rubare la scena è il personaggio di Swayze, appassionato di filosofia orientale (il nome Bodhi è un diminuitivo di "bodhisattva") e dedito, oltre che al surf (dove è perennemente alla ricerca dell'"onda giusta"), anche al paracadutismo; del suo carisma persino il protagonista fatica a non sentire il fascino. Memorabile la trovata di mascherare i rapinatori come presidenti; fuori posto, invece, il finale in cui Reeves getta via il distintivo come faceva Gary Cooper in "Mezzogiorno di fuoco". In gran parte delle sequenze tra le onde, gli attori non fanno uso di controfigure: Swayze, in particolare, recitò di persona anche nelle scene in cui si getta nel vuoto con il paracadute. Il titolo è un termine del gergo surfistico che si riferisce alla rottura di un'onda quando impatta con una scogliera che emerge dalle acque. James Cameron (ai tempi marito della Bigelow) figura come produttore esecutivo. Nel 2015 è uscito un remake.

29 giugno 2013

Air doll (Hirokazu Koreeda, 2009)

Air doll (Kuki ningyo)
di Hirokazu Koreeda – Giappone 2009
con Bae Du-na, Arata
**

Visto in divx, con Sabrina, in originale con sottotitoli.

Nozomi, una bambola gonfiabile, prende vita all’improvviso quando “scopre di avere un cuore”. Durante il giorno, mentre il suo inconsapevole proprietario è al lavoro, comincia a uscire per le strade, a esplorare la città (sempre nel suo costume da french maid), a entrare in contatto con altre persone, a indagare il mondo e la vita. Troverà anche lavoro come commessa in un negozio di videonoleggio, dove si innamorerà di un giovane collega, mentre il continuo confronto con altri abitanti del quartiere – che si sentono tutti, più o meno, “vuoti” come lei – la porterà a sviluppare emozioni ed empatie sempre più intense. Nonostante il curioso soggetto (che, a parte la natura da oggetto sessuale della protagonista, ha precedenti illustri, sia fiabesco-letterari – da “Pinocchio” a “La sirenetta”, di cui peraltro si cita esplicitamente il cartoon Disney – che cinematografici – da “La bambola di carne” di Lubitsch ad “A.I.” di Spielberg), tratto da un manga, e la presenza sempre graditissima dell'attrice coreana Bae Du-na (al suo secondo film giapponese dopo “Linda Linda Linda”), mi è parso il lavoro finora meno riuscito di Koreeda, quello dove il suo delicato minimalismo si fa più noioso e dove l’esistenzialismo tocca vette di tale tragica e banale assurdità da lasciare più perplessi che incantati. Si salva in parte, comunque, per via della malinconia di fondo (il regista ha dichiarato che il film parla della solitudine della vita urbana e della questione su cosa significhi essere umani) e della mancanza di lieto fine. Fra le scene più belle, quella in cui Nozomi incontra il suo “creatore”, che non si mostra così sconvolto dal fatto che la bambola abbia preso vita. Filo conduttore che ricorre in continuazione è il tema del “soffio”: dal respiro vitale che anima la protagonista al vento che muove le girandole e fa volare i soffioni, fino alle pratiche amorose che vedono Nozomi sgonfiata e rigonfiata in continuazione dal suo spasimante.

27 giugno 2013

Quando meno te lo aspetti (A. Jaoui, 2013)

Quando meno te lo aspetti (Au bout du conte)
di Agnès Jaoui – Francia 2013
con Arthur Dupont, Agathe Bonitzer
**1/2

Visto al cinema Apollo.

Il quarto lungometraggio della Jaoui, scritto come i precedenti insieme al marito Jean-Pierre Bacri, è nuovamente un film corale in forma di commedia, dove le storie di numerosi personaggi (forse fin troppi) si intersecano fra loro, tra sogni premonitori e profezie di morte, echi di celebri favole che si rispecchiano nella realtà e problemi quotidiani di lavoro, amore e amicizia. Questa volta, come accennato sin dai titoli di testa, il filo conduttore sono le fiabe. Laura (Bonitzer), figlia di un ricco industriale, sogna (letteralmente) l'arrivo di un principe azzurro: lo incontrerà a una festa, nei panni di Sandro (Dupont), giovane compositore di musica contemporanea, insicuro e balbuziente. Il loro idillio verrà però messo a dura prova quando lei comincerà a sentire il fascino tenebroso di Maxime Wolf (Benjamin Biolay), critico e produttore musicale. Nel frattempo Pierre (Bacri), scontroso padre di Sandro che dirige una scuola guida, pur essendo un uomo razionale si scopre turbato dall'avvicinarsi della data – il 14 marzo – che quarant'anni prima una "veggente" gli aveva predetto come giorno della sua morte. Marianne (Jaoui), attrice fallita e ora animatrice in una scuola elementare (dove sta allestendo una recita, naturalmente di argomento fiabesco), è invece alle prese con l'improvvisa vocazione religiosa della figlia piccola, Nina. Attorno a loro si muovono amici (Clémence, violoncellista innamorata di Sandro; Julien, violinista che Sandro dovrebbe sostituire su consiglio di Wolf), genitori (Guillaume, il padre di Laura, imprenditore accusato dalla stampa di inquinare l'ambiente; Fanfan, la madre di Laura, dall'aspetto "magicamente" ancora giovane), vecchi coniugi (Éric, ex marito di Marianne, che non approva l'ossessione religiosa di Nina; Jacqueline, ex moglie di Pierre e madre di Sandro) e nuovi compagni (Éléonore, che si trasferisce con le sue due bambine a casa di Pierre)... Più dispersivo de "Il gusto degli altri", il film si lascia comunque apprezzare per le ottime interpretazioni (su tutti Bacri), per gli intriganti rimandi al mondo delle fiabe (Laura che come Cappuccetto Rosso si perde nel bosco e viene diretta dal "Lupo" – ossia Wolf – per la strada più lunga, salvo poi ritrovarlo a casa della zia; sua madre che rimira la propria giovinezza allo specchio, come la matrigna di Biancaneve, e si vede poi invecchiata improvvisamente all'annuncio del fidanzamento della figlia; Sandro che deve fuggire dalla festa a mezzanotte e perde una scarpa sulla scalinata, come Cenerentola) e soprattutto per la sceneggiatura, ficcante nei dialoghi e attenta alle caratterizzazioni dei personaggi, che riesce bene a districarsi fra le numerose vicende: a quella principale di Laura (che, da fanciulla ingenua e disincantata, sarà portata da Wolf a perdersi nei meandri della "vita reale") e di Sandro (combattuto fra la carriera, gli amori, le amicizie e il rapporto con il padre), fanno da buon accompagnamento quelle di Marianne (che deve superare la paura di guidare) e di Pierre (che deve addirittura vincere la paura di vivere); vicende che si risolveranno tutte nella medesima notte, quella "fatidica" del 14 marzo.

26 giugno 2013

The bodyguard (P. Wongkamlao, 2004)

The bodyguard - La mia super guardia del corpo (The bodyguard)
di Petchtai Wongkamlao – Thailandia 2004
con Petchtai Wongkamlao, Piphat Apiraktanakorn
*

Visto in TV, con Sabrina.

Dopo che il magnate Chat Petchpantakarn è stato ucciso in un agguato senza che la sua guardia del corpo Wong Kam abbia saputo difenderlo, il suo erede Chaichol decide di fare a meno dei servigi di Wong. Mal gliene incoglie, perché a sua volta sfugge per un pelo ad un attentato ed è costretto a rifugiarsi (senza rivelare la propria identità) presso una povera famiglia dei bassifondi, dove finisce con l'innamorarsi della giovane Mae Jam. Nel frattempo, Wong Kam indaga sui mandanti degli attentati, che mirano a impossessarsi del patrimonio dei Petchpantakarn. Scalcinata action comedy scritta, diretta e interpretata da un popolare comico thailandese, che nelle scene d'azione guarda a John Woo e al cinema hongkonghese (ma lo sberleffo è sempre in agguato), che per lunghi tratti diluisce la vicenda principale in sottotrame e gag di un'ingenuità imbarazzante, che cambia registro in continuazione (si passa dalla commedia demenziale – come nelle scene in cui Wong Kom corre nudo per le strade o in cui uno degli sgherri del cattivo viene rimproverato per i suoi surreali gusti nel vestire – al thriller, dal romantico all'action movie) e che ospita camei e comparsate (alcune persino dichiarate e metacinematografiche) di decine di celebrità thailandesi, fra attori, comici televisivi, sportivi e musicisti, praticamente tutti sconosciuti da noi a parte forse Tony Jaa, il protagonista di "Ong Bak", che dà sfoggio delle sue abilità di arti marziali nella breve scena del combattimento al supermercato, al termine della quale Wong Kom gli grida "Hai sbagliato film!". Da ricordare anche il "balletto" con cui Wong affronta il kung fu dell'avversario cinese (con tanto di tema musicale di Wong Fei-hung in sottofondo). L'accumulo di scene bizzarre e di situazioni senza costrutto può forse far passare in secondo piano l'assoluta mancanza di caratterizzazione dei personaggi (compreso quello principale, che sparisce a lungo dalla scena per dar spazio alle vicende del giovane Chaichol nella baraccopoli), la banalità del soggetto e la scontatezza generale della trama. Come spesso accade, il cinema thailandese dà l'impressione di essere a un livello quasi amatoriale, molto inferiore – per tecnica, ambizioni e realizzazione – a quello di altri paesi asiatici come Hong Kong, Corea, Cina e Giappone. Nel 2007 è uscito un sequel, "The bodyguard 2".

24 giugno 2013

L'uomo d'acciaio (Zack Snyder, 2013)

L'uomo d'acciaio (Man of steel)
di Zack Snyder – USA 2013
con Henry Cavill, Amy Adams
**

Visto al cinema Colosseo.

È il film con cui la DC Comics ha dato il via ufficiale al proprio "Extended Universe", nel tentativo di imitare la concorrente Marvel e di riscuotere un analogo successo con una serie di pellicole intrecciate fra di loro. E naturalmente non si poteva iniziare che con il supereroe DC per eccellenza, vale a dire Superman. Prodotto da Christopher Nolan, e dunque idealmente imparentato – sin dalla scelta di non mettere il nome dell'eroe nel titolo – con la trilogia de "Il cavaliere oscuro", questo reboot ci ricorda perché l'uomo d'acciaio sia – oltre che il primo e più famoso supereroe del comicdom americano – anche uno dei personaggi su cui è più difficile scrivere una buona storia. Il regista Zack Snyder e lo sceneggiatore David S. Goyer se la cavano limitando al minimo gli elementi iconici della saga (niente Lex Luthor, niente kryptonite, persino niente Clark Kent: solo nell'ultimissima scena – quasi un contentino – il nostro eroe inforca gli occhiali e si presenta al Daily Planet per farsi assumere come giornalista) e ponendo il personaggio di fronte ad avversari del tutto pari a lui per forza e poteri, ovvero ad altri kryptoniani (cosa che già accadeva, comunque, nel "Superman II" del 1980, di cui questo è quasi un remake). Il cattivo, il generale Zod (responsabile anche della morte del padre di Kal-El), è infatti scampato a sua volta, con un pugno di sottoposti, alla distruzione del suo pianeta d'origine: e vorrebbe "trasformare" la Terra in un nuovo Krypton, alterandone massa e atmosfera ed eliminandone tutti gli abitanti. Ma Superman, ormai terrestre d'adozione, saprà fermarlo. Se a livello di script si è lavorato per sottrazione, e tutto sommato direi che la scelta è stata giusta (ma non mancano i soliti e triti riferimenti cristologici, visto che il buon Kal-El, inviato dal padre a "salvare" il mondo, ha 33 anni), come spesso capita nei lavori di Snyder la cosa migliore di un film prevedibilmente fracassone è l'aspetto visivo: la regia irrequieta e la fotografia plumbea (di Amir Mokri) giocano a "simulare" il cinema d'autore o il documentario, attraverso immagini spesso sfocate o sovraesposte e inquadrature imperfette o traballanti, il tutto per dare maggior "realismo" alla pellicola: e devo ammettere che, dopo un primo impatto negativo, il risultato non è poi male e aiuta a rendere digeribili anche l'orgia di effetti visivi e le lunghe e noiose scene d'azione (che si riducono essenzialmente a prolungate scazzottate fra kryptoniani). Come nella trilogia nolaniana su Batman, il costume dell'eroe e in generale tutta l'estetica del film è più dark e meno fumettosa rispetto al passato. E sempre come nei film di Nolan, si fa ampio ricorso ad attori famosi nei ruoli dei comprimari: spiccano su tutti Russell Crowe e Kevin Costner nei panni dei due "padri" di Superman, rispettivamente Jor-El (in versione "ologramma" nelle scene successive alla distruzione di Krypton) e Pa' Kent (in numerosi flashback della vita di Clark da bambino e da ragazzo); Diane Lane è Ma' Kent; Laurence Fishburne è Perry, il direttore del Daily Planet. Se Amy Adams è una Lois Lane un po' sciacquetta, convincono Michael Shannon negli ingrati panni del cattivo Zod e anche il belloccio e muscoloso Henry Cavill in quelli di un Superman almeno un po' più espressivo dell'ultima volta (dimentichiamoci in fretta di Brandon Routh, per favore!).

22 giugno 2013

Cannes e dintorni 2013 - conclusioni

Anche se il numero di film presentato nella rassegna era assai ridotto rispetto agli anni passati, il loro valore medio si è rivelato molto elevato. Il che conferma come questa edizione del Festival di Cannes sia stata una delle migliori da molto tempo a questa parte. Lo dimostra anche il fatto che in concorso c'erano almeno tre o quattro titoli di valore pari (se non superiore) a quello – pur bello – che ha vinto la Palma d'Oro: mi riferisco alle pellicole di Sorrentino ("La grande bellezza"), Jia Zhangke ("A touch of sin"), Koreeda ("Father and son") e Farhadi ("Il passato"). Personalmente li ho preferiti a "La vie d'Adèle" semplicemente perché si tratta di film che, una volta terminati, lasciano qualcosa da pensare allo spettatore, mentre quello di Kechiche spiattella tutto e subito. Interessanti anche alcune pellicole delle sezioni collaterali, come il surreale "The congress" di Folman e la commedia "Les garçons et Guillaume, à table!" di Gallienne. Nessuna vera delusione, tranne forse per "The immigrant" di Gray (un regista, peraltro, che a parte "Two lovers" non mi ha mai davvero entusiasmato). Temi conduttori di quasi tutti i film visti: la famiglia e i bambini.

21 giugno 2013

Giovane e bella (François Ozon, 2013)

Giovane e bella (Jeune et jolie)
di François Ozon – Francia 2013
con Marine Vacth, Johan Leysen
**1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

La diciassettenne Isabelle, all'insaputa della propria famiglia e senza alcuna ragione apparente (non ha problemi economici, va bene a scuola, è bella e benvoluta da tutti), conduce una doppia vita come prostituta di alto bordo. La verità verrà a galla quando un anziano cliente, Georges, morirà d'infarto proprio mentre fa l'amore con lei. Dramma psicologico ambiguo e trattenuto, che indaga su un'adolescente introversa e malinconica, taciturna e quasi anestetizzata nei sentimenti. Il film è diviso in quattro "stagioni", ciascuna accompagnata da una canzone di Françoise Hardy: durante l'estate, Isabelle – in vacanza al mare con la famiglia – perde la verginità sulla spiaggia con un ragazzo tedesco, Felix, che poi sceglie di non rivedere più; in autunno la ritroviamo nei panni di "Lea" (il suo pseudonimo da escort), ma la sua esperienza come "bella di giorno" terminerà dopo la morte di Georges; in inverno, dopo che la polizia ha rivelato tutto alla famiglia, la ragazza comincia a frequentare uno psicanalista e cerca di andare incontro ai desideri di "normalità" della madre, accettando anche la corte di un compagno di classe, Alex; in primavera, dopo aver lasciato il ragazzo (che peraltro non ha mai veramente amato), riattiva il cellulare di "Lea" e riceve una chiamata da Alice (Charlotte Rampling), la vedova di Georges, che le chiede se può incontrarla... Trattenuto ed elusivo come la sua protagonista, il film ci lascia osservare Isabelle a lungo e da vicino (non mancano scene di nudo e inquadrature ai limiti del morboso), eppure la ragazza ci rimane estranea, lontana e impenetrabile (perché si prostituisce? per noia, per curiosità, per malessere?), non più "vera" della sua identità fittizia, proprio come resta estranea alla madre e alle persone che le stanno attorno.

20 giugno 2013

C'era una volta a New York (James Gray, 2013)

C'era una volta a New York (The immigrant)
di James Gray – USA 2013
con Marion Cotillard, Joaquin Phoenix
**

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

All'inizio degli anni venti, la giovane polacca Ewa (Cotillard) sbarca in America insieme alla sorella Magda. Ma quest'ultima, malata di tubercolosi, viene trattenuta a Ellis Island e messa in quarantena in attesa di essere rispedita in Europa. Sola e senza una casa, Ewa si ritrova obbligata a racimolare il denaro necessario a corrompere gli ufficiali dell'immigrazione affinché non espellino la sorella. Accetta così l'ospitalità e il lavoro offertagli da Bruno Weiss (Phoenix, al suo quarto film consecutivo con Gray), faccendiere-impresario che si guadagna da vivere nei locali di Manhattan facendo prostituire le proprie "ballerine" (tutte scelte fra le giovani immigrate che arrivano a New York inseguendo il "sogno americano"). Pur sfruttandola, l'uomo si innamora di Ewa: ma questa preferirà l'affetto di Emil (Jeremy Renner), cugino di Bruno che si esibisce sui palcoscenici nei panni del "mago Orlando", e l'accesa rivalità fra i due farà precipitare drammaticamente gli eventi. Il precedente film di Gray ("Two lovers"), pur piccolo e minimalista, era quasi un capolavoro; questo invece, sicuramente il più ambizioso della sua filmografia (e incentrato su un tema che sicuramente gli sta a cuore, visto che lui stesso – così come i personaggi di quasi tutti i suoi lavori – è di origine est-europea), soffre di parecchi difetti, in primo luogo di un eccesso di melodrammaticità che, nel tentativo non sempre riuscito di stringere un legame emotivo con lo spettatore, ne appesantisce ogni passaggio. Lo sfondo storico e sociale (le tribolate condizioni di coloro che fuggivano dall'Europa insanguinata dalla guerra per cercare fortuna negli Stati Uniti, le difficoltà di lavoro e di salute negli anni venti, il mondo dello spettacolo e dei locali di quart'ordine) è ben descritto, ma si pone al servizio di una sceneggiatura che arranca in più punti e di personaggi non troppo convincenti e poco accattivanti.

19 giugno 2013

The congress (Ari Folman, 2013)

The congress (id.)
di Ari Folman – Israele/Fra/Ger/Pol 2013
con Robin Wright, Harvey Keitel
**1/2

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Robin Wright, attrice in declino, viene convinta dall'agente Al (Keitel) a lasciare che gli studi Miramount digitalizzino la sua immagine per creare una "interprete virtuale" da usare a proprio piacimento nei futuri film: in cambio di una grossa somma di denaro (che le servirà per tentare di curare la grave malattia degenerativa che ha colpito suo figlio Aaron), dovrà anche promettere di non recitare mai più dal vivo. Vent'anni dopo, la donna – in quanto simbolo degli studios – è invitata a partecipare a un "congresso futurista" nel corso del quale viene a sapere che la Miramount è pronta ad andare persino oltre il cinema: ha infatti sviluppato una sostanza chimica e allucinogena che permette a chi la inala di sperimentare direttamente le illusioni generate dalla propria mente. Quando l'albergo dove si svolge il congresso viene preso d'assalto durante una rivolta, la sostanza viene liberata nell'aria e dà vita a un mondo completamente dominato dalle allucinazioni. Ispirandosi liberamente al romanzo "Il congresso di futurologia" di Stanislaw Lem, Folman (già regista di "Valzer con Bashir") realizza un film surreale, stratificato e ambizioso, che mescola più piani di verità. Metacinematografico, lisergico, fantascientifico, esistenzialista, colmo di riferimenti cross-culturali che fondono la realtà con la fiction (la Wright recita di fatto nel ruolo di una versione fittizia di sé stessa, di cui comunque condivide la carriera, la famiglia – anche nella realtà è divorziata con due figli – e parecchi tratti caratteriali: curiosamente all'inizio afferma di non amare la fantascienza, e poi si ritrova protagonista proprio di un film di questo genere), può lasciare disorientati ma anche affascinare per la sua ricchezza tematica e (soprattutto) visiva. Se la prima parte della pellicola è recitata dal vivo, infatti, la seconda (quella che deriva direttamente dal romanzo di Lem) è tutta in animazione, con disegni retrò e underground e una straordinaria inventiva grafica, dalla fantasia sfrenata e colma di rimandi pop (da notare che, trattandosi di allucinazioni generate dalla mente, è naturale che quelle di Robin siano in linea con l'immaginario di un'attrice nata e cresciuta negli anni settanta: icone hollywoodiane, simboli della controcultura "seventies" e un pizzico di religione; nel finale, invece, quando la donna si focalizzerà sull'obiettivo di ritrovare il figlio, ne "rivivrà" la vita fino a ricongiungersi con lui). Nel cast anche Danny Huston, il produttore della Miramount, e Paul Giamatti, il medico che visita Aaron. Quest'ultimo è appassionato di volo e di aviazione: e il suo aquilone rosso è come un filo (di Arianna) che guida Robin nella sua odissea e la aiuta a trovare la strada. Bella la colonna sonora di Max Richter. Il nome degli studi Miramount fa riferimento, ovviamente, alla Paramount, mentre nella figura del "guru" Reeve Bobs si riconosce Steve Jobs.

Il tocco del peccato (Jia Zhangke, 2013)

Il tocco del peccato (Tian zhu ding)
di Jia Zhangke – Cina 2013
con Jiang Wu, Zhao Tao, Wang Baoqiang
***

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Quattro storie di violenza che si intersecano sul vasto sfondo della Cina di oggi, sospesa fra tradizione e rinnovamento, fra cultura e decadenza, fra amore e follia. L'inquieto Zhou San (Wang), giovane marito e padre, vaga per il paese compiendo rapine e omicidi perché a casa "si annoia": lungo il suo cammino sembra innescare altri delitti e altre tragedie, visto che i protagonisti delle altre tre storie sono tutte persone che vengono "sfiorate" dal suo passaggio. Il complessato Dahai (Jiang) vive in una piccola cittadina, dove un suo ex compagno di scuola si è arricchito a dismisura grazie ai proventi della miniera locale, un tempo di proprietà della collettività. Convinto che se ne sia impadronito illegalmente e in combutta con il capo del villaggio, Dahai lancia accuse che non vengono prese in considerazione, minaccia denunce che non giungono mai a buon fine, ed infine "sbrocca" facendo una strage con il fucile. Xiao Yu (Zhao) lavora come receptionist in un centro massaggi e sogna di avere un figlio dal suo amante, un uomo che non avrà mai il coraggio di lasciare la propria moglie. Aggredita da quest'ultima, umiliata sul lavoro, cederà a un impulso irrefrenabile e accoltellerà un cliente che esigeva da lei un "massaggio speciale". Xiao Hui (Luo Lanshan) è un giovane operaio che si trasferisce a Canton in cerca di un impiego migliore. Lavorando come cameriere in un nightclub, si innamorerà di una delle ragazze che "intrattengono" i facoltosi ospiti, ma il rapporto non è destinato a durare. Senza lavoro, amici e prospettive, sceglierà il suicidio. Co-prodotto dall'Office Kitano (e la cosa si ripercuote sullo stile, visti gli improvvisi scoppi di violenza che eruttano e si concludono in pochi secondi, come nei film del regista giapponese), questo affascinante film-mosaico vale nel suo insieme come (e forse più) la somma delle sue tessere, quattro tasselli che mettono a paragone la follia umana – che nasca dalla colpa, dall'umiliazione o dal desiderio di vendetta – con il mondo animale. I riferimenti a quest'ultimo, infatti, sono continui: ciascuno dei personaggi principali può essere associato direttamente a un animale (la tigre per Dahai, il serpente per Xiao Yu, un uccello per Xiao Hui – che infatti si suicida lanciandosi in volo da un palazzo), mentre per tutto il corso della pellicola incontriamo altri animali vessati, sfruttati, uccisi dall'uomo, o semplici spettatori delle sue azioni (il cavallo frustato, i pesci liberati in acqua, il tacchino sgozzato, le oche, la scimmia, le mucche, ecc.). Lo sfondo, come detto, è la Cina moderna, con le sue contraddizioni: grandi lavori in corso (ponti incompiuti, ferrovie e aeroporti in costruzione che richiamano centinaia di operai da una provincia all'altra), religioni locali e straniere che coesistono (si vedono templi buddisti e chiese cattoliche, suore e musulmani per la strada), dove i ragazzi affermano che "non vale più la pena di espatriare perché gli altri paesi sono tutti in bancarotta", dove il sogno è quello di arricchirsi (più o meno illegalmente) e dove la criminalità è alle stelle (alcuni ragazzi rapinano i passanti sulle strade, Zhou San compie un duplice omicidio solo per sottrarre la borsa a una signora, persino gli operai sono presi di mira dal racket), le risse scoppiano per un nonnulla, gelosie e vendette – o semplicemente il desiderio di riscatto – possono innescare eventi che sfuggono al controllo delle azioni (tranne nel caso di Zhou San, l'unico che invece le proprie azioni le controlla in maniera quasi maniacale). Il finale, almeno, offre qualche speranza a uno dei personaggi (Xiao Yu). Ottimi interpreti, scenografia e regia, che ingloba nella complessa sceneggiatura (premiata a Cannes) anche diversi recenti fatti reali di cronaca. E, come in "Still life", non mancano riferimenti al cinema popolare hongkonghese (si vedono spezzoni di "Exiled" di Johnnie To e di "Green Snake" di Tsui Hark). Il titolo stesso della pellicola ("A touch of sin" nella versione internazionale) potrebbe essere un riferimento ironico al classico "A touch of zen" di King Hu.

18 giugno 2013

Nebraska (Alexander Payne, 2013)

Nebraska (id.)
di Alexander Payne – USA 2013
con Bruce Dern, Will Forte
**1/2

Visto al cinema Orfeo, con Eleonora, Marco, Anna e Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Il vecchio Woody Grant (Bruce Dern, premiato a Cannes come miglior attore), che vive con la famiglia nel Montana, dopo aver ricevuto per posta un volantino promozionale si convince di aver vinto un milione di dollari alla lotteria e vorrebbe recarsi fino a Lincoln, in Nebraska, per reclamare il suo "premio". La moglie Kate (una straordinaria e cinica June Squibb) e i figli David e Ross (Will Forte e Bob Odenkirk) cercano di dissuaderlo in ogni modo, ma alla fine David accetta di accompagnarlo in auto, anche per trascorrere qualche giorno in sua compagnia e riallacciare così un rapporto logorato da tempo. Nel corso del viaggio si fermeranno ad Hawthorne, la cittadina dove Woody è nato e cresciuto, e dove abitano ancora i suoi parenti e i pochi amici ancora in vita. Ma la rimpatriata non sarà felice, visto che tutti – credendolo ricco – vorranno approfittare di lui e della sua "fortuna". Girato in un lucido bianco e nero che dona alla pellicola una patina d'altri tempi (nonostante sia ambientata ai giorni nostri), come a sottolineare la vetusta età del protagonista e l'arretratezza della provincia americana in cui si muovono i personaggi, il film che segna il ritorno di Payne al cinema indipendente è un road movie familiare e intimista che, se da un lato non brilla certo per originalità (sono parecchi i titoli "on the road" che vengono alla mente: il vecchio protagonista con la sua ostinazione ricorda quello di "Una storia vera" di Lynch, mentre il viaggio come mezzo per recuperare il rapporto con il padre fa pensare, fra gli altri, a "This must be the place" di Sorrentino), dall'altro è efficace nel raccontare personaggi e ambientazioni fondendo satira e partecipazione emotiva. Non tutto è da salvare, qualche scena forse è di troppo (il pugno di David al "cattivo" Ed Pegram), ma il tono nostalgico di fondo, l'arguta caratterizzazione dei personaggi, la laconicità dei dialoghi e l'attenzione paesaggistica all'ambiente (valorizzato, vale la pena di ripeterlo, dalla fotografia in b/n) riscattano ampiamente i punti deboli. Scena cult: il furto del compressore dalla casa sbagliata.

Il passato (Asghar Farhadi, 2013)

Il passato (Le passé)
di Asghar Farhadi – Francia 2013
con Ali Mossafa, Bérénice Bejo, Tahar Rahim
**1/2

Visto al cinema Anteo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

L'iraniano Ahmad (Ali Mossafa) torna a Parigi dopo quattro anni per firmare i documenti del divorzio con Marie (Bérénice Bejo), la donna con cui aveva vissuto in precedenza e che ora intende risposarsi con un nuovo compagno, Samir (Tahar Rahim). Ma scopre che non tutto è così semplice, visto che Samir ha già un figlio, Fouad, e una moglie caduta in coma dopo un tentativo di suicidio che Lucie – la prima figlia di Marie, per questo ostile al nuovo matrimonio – sospetta sia stato provocato non dalla depressione ma dalla scoperta, da parte della donna, della relazione fra Samir e sua madre. Dopo l'eccellente "Una separazione", Farhadi realizza il suo primo film all'estero affrontando in fondo lo stesso tema della pellicola precedente. Stavolta però la "separazione" in questione non è un punto d'arrivo ma di partenza, che fornisce l'innesco per descrivere gli intricati rapporti familiari di un gruppo di personaggi caratterizzati mirabilmente e tormentati dalle ombre di un passato che non si può dimenticare e che influenza ancora pesantemente il presente e i loro sentimenti. L'abile sceneggiatura (dello stesso Farhadi) ne svela i retroscena e i segreti allo spettatore (e ad Ahmad, di cui condividiamo per gran parte del film il punto di vista) centellinandoli poco a poco: e per questo perde forse un po' di equilibrio nel finale, quando Ahmad si defila lasciando maggior spazio a Samir e al suo rapporto con la moglie in coma. Bellissimo, in ogni caso, il piano sequenza nell'ospedale che conclude la pellicola. Da sottolineare l'intensità della recitazione di tutti gli interpreti (Mosaffa è anche un regista indipendente, la Bejo e Rahim sono reduci dai successi rispettivamente di "The Artist" e "Il profeta"), ma soprattutto di quelli più giovani (Lucie, interpretata da Pauline Burlet, e il piccolo Fouad, Elyes Aguis, protagonista di una scena toccante in cui discute di eutanasia con il padre). Come in "Una separazione", le decisioni degli adulti influenzano pesantemente (e ne sono influenzate a loro volta) quelle dei figli, non semplici spettatori passivi ma fondamentali tasselli di un "risiko familiare" che non sembra portare a soluzioni semplici. E se alla fine rimane qualche punto in sospeso (la moglie di Samir aveva letto le e-mail che Lucie le aveva inoltrato? Si risveglierà dal coma? Samir si sposerà con Marie?), fa parte del fascino di una pellicola che sin dal principio non dice tutto allo spettatore ma lo guida lentamente (e anche tenendolo un po' a distanza) all'interno di una vorticosa ragnatela di eventi, sentimenti e segreti. Pur ambientato in Francia, il film tratta di temi universali e la storia potrebbe in effetti svolgersi a Teheran o in qualunque altra parte del mondo. Sono tipiche comunque del cinema iraniano, anche se rilette con lo stile lucido e moderno di Farhadi, le lunghe scene di conversazione in automobile.

17 giugno 2013

Tutto sua madre (G. Gallienne, 2013)

Tutto sua madre (Les garçons et Guillaume, à table!)
di Guillaume Gallienne – Francia/Belgio 2013
con Guillaume Gallienne, Françoise Fabian
**1/2

Visto al cinema Apollo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Il giovane Guillaume ama a tal punto la madre da desiderare di essere come lei, imitandone persino la voce e i movimenti. Ma i suoi atteggiamenti effemminati portano tutti coloro che lo circondano – parenti e amici – a credere che sia gay. Dopo una serie di tragicomiche vicende, di esperienze e di esperimenti di ogni tipo, Guillaume riuscirà finalmente a "diventare un uomo" (affrancandosi dall'ingombrante figura materna) soltanto quando si innamorerà di una ragazza. Scritto, diretto e interpretato (nei due ruoli principali: quello del protagonista e quello di sua madre, tanto per sottolineare ulteriormente il desiderio di immedesimazione e il complesso di Edipo) da un membro della Comédie-Française che ha adattato un proprio testo realizzato appunto per il teatro (ma per fortuna il film prende le distanze dall'impostazione teatrale grande a un impianto prettamente cinematografico che gioca sui flashback, sul montaggio e sulla voce off), è una pellicola divertente e grottesca su una sorta di "coming out etero". Le vicissitudini del protagonista sono narrate da lui stesso in prima persona, di fronte a una platea, attraverso sequenze sopra le righe (come quelle del college maschile, della visita militare o della spa bavarese) ricche di gag e di momenti surreali (l'improvvisa comparsa della mamma nelle occasioni più disparate, l'immaginazione di Guillaume che si vede nei panni della principessa Sissi). Ma nonostante i toni spesso ridicoli e la presenza di personaggi improbabili o macchiettistici, il film non banalizza l'argomento e non scivola mai nella pura farsa: mantiene anzi un sottofondo drammaticamente intimista, mentre seguiamo Guillaume nel suo continuo tentativo di affermare la propria identità di genere, di indagare il proprio orientamento sessuale o semplicemente di vivere la propria vita. E il finale (con l'apparizione del "vero" volto della madre, quando il complesso di Edipo si risolve) è addirittura catartico. Molto bella la scena in cui Guillaume prova a cavalcare a occhi chiusi, affidandosi completamente all'animale (sulle note del "Tannhäuser" di Wagner). Anche se siamo quasi di fronte a un "one-man show", nel cast sono da sottolineare la presenza di François Fabian (la vedova di Jacques Becker, che qui fa la nonna) e il cameo di Diane Kruger (nei panni di Ingeborg).

16 giugno 2013

Father and son (H. Koreeda, 2013)

Father and son (Soshite chichi ni naru)
di Hirokazu Koreeda – Giappone 2013
con Masaharu Fukuyama, Yoko Maki
***

Visto al cinema Apollo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Ryota Nonomiya, architetto benestante, scopre che Keita, il bambino che ha allevato per sei anni, non è in realtà il suo figlio biologico, con cui è stato scambiato alla nascita in ospedale. Le due famiglie si incontrano per decidere che cosa fare: scambiarsi nuovamente i bambini o lasciare le cose come stanno? Una pellicola delicata e complessa che affronta i temi della paternità e dell'eterno dilemma fra eredità genetica ed educazione sociale (anche se naturalmente siamo lontani dai toni comici di "Una poltrona per due"). Ryota ha investito parecchio sull'educazione del figlio, lo ha fatto iscrivere alla scuola elementare più prestigiosa (con tanto di test d'ingresso, a sei anni!), lo ha spinto a svolgere attività che lui stesso non aveva saputo portare a termine (come lo studio del pianoforte) ed è deluso nel non notare nel bambino i suoi stessi tratti caratteriali (come la competitività, la decisione e la voglia di vincere); d'altro canto, è sempre talmente impegnato nel lavoro da avere veramente poco tempo da dedicargli. In contrasto, la famiglia dove è cresciuto Ryusei (il suo "vero" figlio) è più povera e disorganizzata – gestisce un negozio di quartiere – ma apparentemente più felice: Ryusei ha due fratelli minori, con i quali va molto d'accordo, e un "padre" sempre pronto a giocare con lui, a portarlo in campeggio, a pescare o a far volare gli aquiloni... Pur presentando i punti di vista di tutti i personaggi della storia (i bambini stessi, le madri, i nonni...), il film rimane focalizzato su quello di Ryota, che attraverso il grave dilemma morale (il rapporto evidentemente conflittuale e irrisolto con il suo stesso padre lo ha portato a esasperare al massimo il "legame di sangue" che vorrebbe instaurare con il figlio) imparerà a comprendere la vera natura di una sana paternità. Come già fatto in passato (penso a "Still walking"), Koreeda sforna una pellicola che affronta in maniera insolita e misurata i temi della famiglia e che descrive con grande cura le psicologie dei personaggi e i dettagli di un mondo dove la normalità crolla all'improvviso. Colonna sonora minimalista a base di pianoforte (Bach e altro). Ottimi gli attori bambini (che il regista aveva già dimostrato di saper dirigere splendidamente in film come "Nobody knows" e "I wish").

14 giugno 2013

La vita di Adèle (Abdellatif Kechiche, 2013)

La vita di Adèle (La vie d'Adèle)
di Abdellatif Kechiche – Francia 2013
con Adèle Exarchopoulos, Léa Seydoux
***

Visto al cinema Anteo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

La liceale Adèle, pur corteggiata da un compagno di scuola, scopre di essere attratta da una misteriosa ragazza dai capelli blu, più grande di lei, che ha incrociato di sfuggita per la strada. Si tratta di Emma, studentessa di belle arti e lesbica dichiarata: quando si rincontrano, fra le due nasce l'amore; e qualche anno dopo le ritroviamo a vivere insieme. Emma è diventata un'artista e gallerista, mentre Adéle insegna in una scuola per l'infanzia. Ma non tutto sarà rose e fiori... La pellicola che ha vinto la Palma d'Oro di questa edizione del Festival di Cannes è un delicato racconto di "coming of age" al femminile, una storia di educazione sentimentale e di risveglio sessuale tratta da un fumetto ("Le bleu est une couleur chaude" di Julie Maroh), il cui titolo originale è anche quello usato per la distribuzione del film sui mercati esteri, e dal quale si discosta nell'impianto (il romanzo grafico era tutto narrato in flashback, man mano che Emma leggeva il diario dell'amica) e soprattutto nel finale. Il sottotitolo ("La vie d'Adèle - Chapitre 1 e 2") indica la divisione della pellicola in due parti, ambientate a qualche anno di distanza l'una dall'altra (la prima in cui Adèle è ancora al liceo, e la seconda in cui dopo essersi diplomata comincia a lavorare come educatrice), e – come lasciato intendere dallo stesso Kechiche – suggerisce un possibile seguito con i capitoli 3 e 4 che ci mostreranno le successive evoluzioni della protagonista. I sentimenti, le emozioni, la passione, l'amore, il sesso, l'amicizia, le aspirazioni sgorgano in maniera naturale da un flusso ininterrotto di narrazione, dove anche il tema della sessualità (e dell'omosessualità) è letto puramente in chiave intima ed esistenzialista, non militante o provocatoria. Come consuetudine per Kechiche, i tempi sono lunghi e le scene dilatate (il film dura tre ore), ma stavolta non lo si percepisce come un difetto (come invece avveniva in "Cous cous"). Sarà per l'impostazione naturalistica della pellicola, per l'intensità della recitazione delle protagoniste, per l'atmosfera in cui il regista riesce a immergere lo spettatore sin dalla prima inquadratura, sta di fatto che il ritmo coinvolge e i tempi narrativi risultano perfettamente dosati; anzi, quando la pellicola termina ci si ritrova quasi smarriti nel dover abbandonare Adèle al suo destino: si vorrebbe continuare a seguirne le vicende ancora a lungo. Non danno quindi fastidio sequenze prolungate di gente che mangia, che parla o che piange (quei primi piani di Adèle in lacrime mi hanno ricordato il sublime finale di "Vive l'amour" di Tsai Ming-liang), perché si ha l'impressione di assistere a frammenti di "vita vera". Certo, proprio in questa sua naturalezza e nel suo realismo sta forse anche il limite del film: tutto ciò che ha da offrire viene mostrato direttamente sullo schermo, senza dare spazio a simboli o visionarietà, e senza lasciare nulla di "non detto" allo spettatore. E infatti ogni cosa viene esplicitata, a partire dalle lunghe scene di sesso (che potrebbero essere sforbiciate quando la pellicola verrà distribuita in sala: quella della rassegna era infatti una "copia di lavorazione", ancora priva di titoli di testa e di coda). Come ne "La schivata" (il film di Kechiche che finora mi era piaciuto di più, e anche quello con cui questo ha più cose in comune, soprattutto nella prima parte), tutto ha origine da Marivaux, segnatamente da "La vita di Marianne", testo che Adèle legge in classe e che ama particolarmente: in un certo senso il racconto della sua vita rispecchia quella del personaggio del drammaturgo francese. Ma non mancano altri spunti e riferimenti culturali, da Louise Brooks a Egon Schiele. Eccezionali le due attrici: se Léa Seydoux – qui in versione mascolina – era già stata apprezzata in precedenza ("Lourdes", "Sister", e persino alcuni film hollywoodiani), Adèle Exarchopoulos è invece al suo primo film importante (con il personaggio principale, che nel fumetto si chiamava Clementine, ribattezzato in suo onore).

12 giugno 2013

Cannes e dintorni 2013

Sbarca a Milano una selezione di titoli provenienti dall'ultimo Festival di Cannes, un'edizione che da più parti è stata descritta come una delle migliori degli ultimi anni, con tante pellicole degne di nota. Avendo già visto nei giorni scorsi i bei film di Paolo Sorrentino e di Nicolas Winding Refn, che pure non figurano fra i premiati, non posso che confermare questa sensazione. Da oggi mi vedrò, fra gli altri, i lavori di Abdellatif Kechiche ("La vie d'Adèle", vincitore della Palma d'Oro), Hirokazu Koreeda, Jia Zhangke, Alexander Payne, Asghar Farhadi, François Ozon, James Gray e Ari Folman.

11 giugno 2013

Strade di fuoco (Walter Hill, 1984)

Strade di fuoco (Streets of fire)
di Walter Hill – USA 1984
con Michael Parè, Diane Lane
**

Rivisto in TV.

Tom Cody (Michael Paré), ex soldato di ventura e delinquente, fa ritorno nella città dove è nato e che aveva abbandonato anni prima, richiamato dalla sorella Reva (Deborah Van Valkenburgh): dovrà salvare la sua ragazza di un tempo, la cantante rock Ellen (Diane Lane), che è stata rapita da una banda di motociclisti, i Bombers, guidati dal malvagio Raven (Willem Dafoe). Lo aiuteranno, fra gli altri, la soldatessa McCoy (Amy Madigan) e l'impresario Billy Fish (Rick Moranis). Terminata l'impresa, Cody se ne andrà via un'altra volta. Girato da Hill subito dopo "I guerrieri della notte", ne ricalca parecchi elementi (l'ambientazione urbana e notturna, le bande, l'esistenza ribelle e anarchica dei protagonisti) ma tralascia ancor di più la verosimiglianza per ammantare il tutto di un'irreale patina "fiabesca" (non a caso il sottotitolo della pellicola è "Una favola rock"). La città immaginaria dove si svolge l'azione è un misto di New York, Chicago e Los Angeles, e i personaggi sono quasi archetipi: l'eroe ribelle, la ragazza in pericolo, il cattivo, cui si aggiungono figure come il manager chiacchierone, la groupie e la donna soldato: tutte personaggi che non hanno altra caratterizzazione se non quella strettamente utile ai fini della trama, e che non ci immaginiamo possano vivere al di fuori della pellicola stessa. Hill dichiarò di aver voluto realizzare quello che da teenager avrebbe definito "il film perfetto", mettendoci dentro cose come "auto truccate, baci sotto la pioggia, neon, treni nella notte, inseguimenti ad alta velocità, risse, rock star, motociclette, battute dette in situazioni difficili, giubbotti di pelle e questioni di onore". Pur permeato da un'atmosfera anni '80 (in gran parte dovuta alla colonna sonora di Ry Cooder e Jim Steinman, mentre le canzoni di Ellen – in stile Bonnie Tyler – sono in realtà una combinazione fra le voci di Laurie Sargent e Holly Sherwood), la vera anima del film è anni '50, come risulta evidente da automobili, locali, abbigliamenti e capigliature retrò. I produttori Lawrence Gordon e Joel Silver e il co-sceneggiatore Larry Gross avevano lavorato con il regista già in "48 ore". Gli interpreti non sempre in parte (meglio il giovane Dafoe e Moranis che gli spaesati Parè, Lane e Madigan) e una sceneggiatura che fatica a ingranare (almeno fino al bel combattimento finale) "zavorrano" una pellicola che, pur godibile, lascia l'impressione di un'occasione sprecata. Fascinosa la fotografia notturna e colorata di Andrew Laszlo. Il titolo proviene da una canzone di Bruce Springsteen che avrebbe dovuto essere usata in apertura e in chiusura di film, ma venne poi rimpiazzata da "Tonight is What it Means to be Young". Nelle intenzioni di Hill, la pellicola avrebbe dovuto essere la prima di una trilogia: ma l'insuccesso al box office gli impedì di realizzare i sequel (anche se nel 2008 ne è uscito uno apocrifo, "Road to Hell").

9 giugno 2013

La cosa (John Carpenter, 1982)

La cosa (The Thing)
di John Carpenter – USA 1982
con Kurt Russell, Wilford Brimley
***

Rivisto in TV.

In una stazione di ricerca fra i ghiacci dell'Antartide, alcuni scienziati americani si ritrovano ad affrontare un mostro extraterrestre, precipitato con la sua astronave sulla Terra centomila anni prima e rimasto fino a ora congelato. Le cellule dell'alieno hanno la capacità di assimilare e imitare quelle di altri organismi viventi, e così il mostro può trasformarsi perfettamente, fino nei minimi dettagli, in cani o addirittura esseri umani, prendendone il posto. In un clima di tensione e di paranoia (chiunque di loro potrebbe essere "la cosa", e dunque non ci si può più fidare di nessuno), gli scienziati cercheranno di impedire al parassita – che può essere distrutto solo con il fuoco – di abbandonare la base e di raggiungere un centro abitato, da dove potrebbe "contagiare" il resto del mondo. John Carpenter (al primo film girato per una major, la Universal) e lo sceneggiatore Bill Lancaster (figlio di Burt) rifanno il classico di Howard Hawks del 1951 "La cosa da un altro mondo" (tratto dal racconto "Who goes there?" di John W. Campbell Jr.: alla resa dei conti si tratta di un adattamento assai più fedele del prototipo) dopo aver assimilato la lezione degli Zombi di Romero (non sempre i buoni possono sopravvivere) e dell'Alien di Ridley Scott (di cui di fatto è quasi una copia, con la base nell'Antartide al posto dell'astronave nello spazio), e realizzano un caposaldo del cinema di fantascienza/horror dei primi anni ottanta, anche se permane tutta l'inquietudine tipica dei b-movie di SF degli anni cinquanta (spesso metafora della Guerra Fredda: i vari "baccelloni" omologatori, così come l'alieno imitatore di questo film, non rappresentavano altro che il pericolo comunista!). Per una volta privo della consueta ironia e degli sberleffi tipici di altri lavori del regista, è un film solido, rigoroso e coerente con la propria ambientazione, senza personaggi fuori dalle righe (come avrebbero potuto essere ragazzini o donne: l'unica presenza femminile è la voce del computer che batte Kurt a scacchi, in originale la voce di Adrienne Barbeau, allora moglie del regista) o inutilmente caratterizzati per svettare sugli altri: tanto che l'unico che resta impresso è quello interpretato da Kurt Russell, indiscusso protagonista: gli altri attori potrebbero anche non essere nemmeno citati, sono solo carne da macello buona per il "totomorti". Curiosamente, il film di Hawks (e Nyby) si svolgeva nell'Artico, mentre questo (come il racconto di Campbell) è ambientato agli antipodi. Ottimi, per l'epoca, gli effetti speciali e le sequenze che mostrano la creatura aliena durante le sue trasformazioni (opera degli esperti Rob Bottin e Stan Winston), un ammasso di carne fusa e mutante. Colonna sonora, anch'essa fredda e inquietante, di Ennio Morricone: è uno dei rari casi in cui Carpenter non ha scritto la musica di un suo film. Nel 2011 è uscito un prequel, sempre intitolato "La cosa" (di Matthijs van Heijningen Jr.), che racconta gli eventi accaduti alla base dei norvegesi che per primi avevano scoperto e "scongelato" il mostro.

7 giugno 2013

Solo Dio perdona (N. Winding Refn, 2013)

Solo Dio perdona (Only God Forgives)
di Nicolas Winding Refn – Danimarca/Thailandia 2013
con Ryan Gosling, Vithaya Pansringarm
***

Visto al cinema Apollo.

L'americano Julian vive nel sottobosco criminale di Bangkok, dove gestisce una palestra di boxe thailandese che serve a lui e a suo fratello Bobby come copertura per lo spaccio di droga. Quando Bobby viene ucciso dopo aver violentato una giovane prostituta, la madre (una straordinaria Kristin Scott Thomas) impone a Julian di vendicarlo, innescando così una violenta catena di eventi. Refn rilegge i temi tipici del cinema orientale (la vendetta e la giustizia) con stile folgorante e lynchiano, aggiungendovi in più (da buon europeo) una robusta dose di Shakespeare e un pizzico di tragedia greca. Sanguinoso e cruento, ma dall'incedere ieratico e solenne, è un film dai ritmi dilatati, dalle atmosfere allucinate e inquietanti: un film che dietro le sparse e improvvise scene di violenza (usata in funzione drammatica, e mai per autocompiacimento tarantiniano) nasconde un'anima intimista e fatta di silenzi, che scava nei personaggi per parlare di rimorso e pentimento. Il laconico protagonista, perennemente inerme e in balia delle situazioni, si ritrova stretto in una morsa fra la sete di vendetta della madre (nei cui confronti soffre di un evidente complesso di Edipo) e il riconoscimento della forza morale del misterioso poliziotto Chang (Pansringarm), un'incarnazione quasi metafisica della giustizia, che somministra le sue punizioni con una spada tradizionale dalla lama ricurva e sembra concedersi come unica passione quella del karaoke. Da sottolineare tutto il comparto tecnico: la regia controllata e coerente di Refn, la geometrica composizione delle inquadrature, la surreale fotografia di Larry Smith (che gioca molto sui toni di rosso, come in un precedente film del regista danese, "Fear X"), la musica spettrale di Cliff Martinez. Il film è dedicato ad Alejandro Jodorowski, di cui Refn ha sempre ammesso l'influenza e al cui "Santa Sangre" è in parte debitore.

6 giugno 2013

Nói Albínói (Dagur Kàri, 2003)

Nói Albínói (id.)
di Dagur Kàri – Islanda 2003
con Tómas Lemarquis, Thröstur Leo Gunnarsson
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

In una desolata cittadina islandese, sommersa dalla neve e dal ghiaccio, il giovane Nói conduce un'esistenza vacua e inquieta: vive con la nonna, frequenta saltuariamente il padre (un tassista alcolizzato), corteggia una ragazza da poco arrivata dalla capitale (figlia del locale libraio), marina la scuola, lavora al cimitero, e sogna ad occhi aperti di trasferirsi altrove, magari alle Hawaii. Uno dei pochi film islandesi ad aver conquistato una certa notorietà fuori dalla propria patria (e ad aver vinto diversi premi nei festival internazionali), è un insolito ritratto di un teenager outsider e isolato, che trascorre le sue giornate senza fare nulla, allergico allo studio e al lavoro (nonostante a tratti dimostri un'intelligenza e un intuito fuori dal comune), fuori posto in una società che al tempo stesso gli sta stretta (nel paesino remoto in cui vive, e in cui tutti si conoscono, non accade mai nulla) e larga (non ama la compagnia e si rifugia spesso nel suo nascondiglio segreto, una cantina sotto casa da cui accede attraverso una botola): insomma, quasi un alieno (vista anche la calvizie e la mancanza di sopracciglia: il titolo suggerisce che si tratti di un albino). La fotografia che estromette tutti i colori caldi e lascia soltanto quelli freddi (blu e verde) accentua ancora di più la gelida atmosfera della pellicola, che nonostante alcuni momenti ironici (il tentativo di rapina in banca) non raggiunge i picchi di stralunata surrealità dei film finlandesi, per esempio quelli di Aki Kaurismäki, ma è comunque efficace nel mettere in scena il microcosmo in cui sui muove il protagonista. Il finale (con l'immagine del visore stereoscopico che prende vita) sembra lasciar intendere che, dopo la tragedia che colpisce lui e il suo villaggio, Nói potrebbe finalmente cambiar vita e trasformare in realtà quelli che erano semplici sogni o potenzialità. Ma naturalmente non ci è dato sapere cosa gli accadrà.

5 giugno 2013

Hollywood brucia (Alan Smithee, 1997)

Hollywood brucia (An Alan Smithee Film: Burn Hollywood Burn)
di Alan Smithee [Arthur Hiller] – USA 1997
con Eric Idle, Ryan O'Neal
*

Rivisto in TV.

Nell'industria hollywoodiana, è consuetudine che un regista scontento di come il suo film sia stato manipolato in fase di post-produzione (per esempio se l'intervento dei produttori durante il montaggio ne altera irrimediabilmente la visione artistica) ritiri il proprio nome e lo firmi con lo pseudonimo di "Alan Smithee". Ma quando il malcapitato regista si chiama davvero così, cosa può fare? È quello che accade al protagonista di questo film (interpretato da Eric Idle, ex Monty Python), che dopo aver diretto "Trio", un blockbuster d'azione con Sylvester Stallone, Whoopi Goldberg e Jackie Chan, se lo vede modificare drasticamente in peggio dai suoi produttori (Ryan O'Neal e Richard Jeni). Decide allora di rubare la pellicola e di darsi alla macchia, minacciando di bruciarla in sprezzo a Hollywood. La cosa assurda (la realtà supera la fantasia!) è che il film, già metacinematografico di suo, diventa addirittura meta-metacinematografico – e quindi autoreferenziale – quando scopriamo che il regista Arthur Hiller, scontento del risultato, ha realmente disconosciuto il proprio lavoro, e dunque la pellicola è davvero uscita a firma Alan Smithee: di fatto parla di sé stessa. Commedia satirica sull'industria di Hollywood costruita come un mockumentary, con i personaggi che narrano le vicende alla macchina da presa e si rivolgono direttamente agli spettatori (in un continuo montaggio di "finte interviste"), è però un film confuso e pasticciato, a tratti imbarazzante per la pochezza dei dialoghi e delle situazioni (non a caso figura in molte liste dei "peggiori film della storia"). Colpa essenzialmente della sceneggiatura di Joe Eszterhas (anche produttore e di fatto il vero "autore" del film), che vorrebbe essere autoironica (non si contano le battute o le frecciatine ai suoi stessi lavori: a un certo punto, per descrivere quanto sia brutto "Trio", si dice "È peggio di Showgirls!") ma si rivela incapace di far ridere (e non parliamo di far riflettere), anche quando è costretta a "scomodare" mostri sacri come Stallone, Jackie e la Goldberg nei panni di sé stessi (il loro ruolo è comunque minimo: probabilmente avranno girato la parte in un solo giorno). Nel cast, anche i rapper Coolio e Chuck D (che interpretano i registi Brothers), Harvey Weinstein (sì, il produttore, qui nei panni del detective Sam Rizzo) e numerose star, registi o producer che interpretano sé stessi (Billy Bob Thornton, Shane Black, Robert Evans, Robert Shapiro, Larry King, lo stesso Joe Eszterhas).

3 giugno 2013

Gocce d'acqua su pietre roventi (F. Ozon, 2000)

Gocce d'acqua su pietre roventi (Gouttes d'eau sur pierres brûlantes)
di François Ozon – Francia 2000
con Bernard Giraudeau, Malik Zidi
***

Rivisto in DVD con Eleonora, Marco e Sabrina.

In Germania, negli anni settanta (il film è tratto da un testo teatrale giovanile di Rainer Werner Fassbinder, "Tropfen auf heisse Steine", mai andato in scena), il fascinoso cinquantenne Leopold (Bernard Giraudeau) seduce il ventenne Franz (Malik Zidi), che si innamora di lui e si stabilisce nel suo appartamento. Mesi dopo, quando la passione fra i due amanti si sta raffreddando, nell'appartamento giungono anche Anna (Ludivine Sagnier), ex fidanzata di Franz decisa a riprenderselo, e la transessuale Vera (Anna Thomson), vecchia amante e convivente di Leopold. Alla fine, a fare tragicamente le spese delle manipolazioni di Leopold, sarà il più fragile Franz. Al suo terzo film (realizzato nel 1999, ma uscito nelle sale l'anno seguente), Ozon anticipa in parte l'impostazione teatrale e le citazioni musicali che esploderanno poi in "Otto donne e un mistero": c'è persino un mini-balletto (sulle note di "Tanze Samba mit Mir", la versione tedesca di "A far l'amore comincia tu" di Raffaella Carrà, di recente usata anche da Sorrentino ne "La grande bellezza"). L'atmosfera fonde il rigore e la drammaticità tedesca con tocchi di leggerezza e di surrealismo francese, ma a prevalere su tutto (nonostante la regia sia dinamica e assai cinematografica, molto curata nelle inquadrature, nella direzione degli attori e nelle scenografie) è l'origine teatrale, che dà vita a un "cinema da camera" quasi polanskiano. Girata tutta fra le quattro mura dell'appartamento di Leopold, la pellicola è divisa in quattro atti: nei primi due, sullo schermo compaiono solo Franz e Leopold; nel terzo arriva Anna (una Sagnier a seno nudo per la maggior parte del tempo) e nel quarto si aggiunge anche Vera. Se dei quattro personaggi quello con cui lo spettatore può maggiormente empatizzare è il giovane Franz (che non a caso ha la stessa età di Fassbinder quando scrisse la pièce), il centro motore della narrazione rimane Leopold: è di lui che tutti si invaghiscono, subendone il fascino nonostante il suo atteggiamento scostante ed egocentrico, e scoprendo di essere incapaci di stargli lontano o di abbandonarlo. La colonna sonora comprende canzoni d'epoca ("Träume", interpretata da Françoise Hardy) e musica classica (Mahler, Händel, più il "Dies Irae" di Verdi). Il tutto comunque è molto fassbinderiano. Zidi recita in tedesco alcune strofe del poema "Lorelei" di Heinrich Heine.