29 maggio 2011

Il duello silenzioso (A. Kurosawa, 1949)

Il duello silenzioso (Shizukanaru ketto)
di Akira Kurosawa – Giappone 1949
con Toshiro Mifune, Miki Sanjo
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Mentre sta conducendo una difficile operazione su un soldato ammalato di sifilide, in un ospedale di campo durante la guerra, il giovane medico Kyoji si ferisce accidentalmente un dito con il bisturi e viene contagiato. Tornato in patria al termine del conflitto, non rivelerà il suo dramma a nessuno ma romperà il fidanzamento con l'amata Misao (che dopo averlo atteso a lungo, senza comprendere la ragione del suo cambiamento, si sposerà con un altro uomo) e si batterà affinché l'irresponsabile Nakata, colui che lo aveva infettato e che a differenza di lui si è fatto una famiglia, si sottoponga alle cure. "Il duello silenzioso" è uno dei film meno noti di Kurosawa; e a ragione, verrebbe da dire, perché si tratta di un melodramma non proprio riuscito. Come ne "L'angelo ubriaco", realizzato l'anno precedente (e prima del "Barbarossa" che uscirà nel 1965), il protagonista è un medico umanitario e disinteressato (il film venne realizzato anche per permettere a Toshiro Mifune di cimentarsi con ruoli diversi da quelli che aveva interpretato fino ad allora): ma più che la cura verso gli indigenti e i disperati, al centro della vicenda c'è soprattutto la personale (e appunto "silenziosa") battaglia del protagonista contro una malattia infamante che gli impedisce di vivere appieno una vita normale, costringendolo a reprimere i desideri più intimi, e quasi obbligandolo di fatto a dedicarsi eroicamente ai proprio pazienti ("Se fosse stato felice, sarebbe diventato insensibile. Così invece sta cercando di restituire la speranza a chi è più infelice di lui", commenta la giovane infermiera Rui). Questa, insieme al contrasto fra corpi "impuri" e caratteri "puri" (e viceversa), è forse la miglior intuizione di una pellicola che per il resto soffre per il soggetto debole, schematico e un po' datato (oggi la sifilide è curabile molto più facilmente, e non porta certo alla pazzia come avviene a Nakata), appena ravvivato da personaggi tipicamente kurosawiani come Rui (Noriko Sengoku), l'ex ballerina innamorata del medico che la accoglie con sé dopo che ha tentato il suicidio. Takashi Shimura interpreta il padre di Kyoji, Kenjiro Uemura è Nakata.

28 maggio 2011

40 anni vergine (Judd Apatow, 2005)

40 anni vergine (The 40 Year Old Virgin)
di Judd Apatow – USA 2005
con Steve Carell, Catherine Keener
*1/2

Visto in TV, con Hiromi.

Andy, magazziniere in un supermercato di elettronica e collezionista di action figures, è ancora vergine nonostante abbia già compiuto quarant'anni. Quando lo vengono a sapere, i suoi colleghi dapprima lo prendono in giro ma poi si danno da fare in ogni modo affinché l'amico possa vivere la sua prima esperienza. E l'incontro con la coetanea Trish (che a differenza di lui, ha già tre figlie!) gli farà scoprire l'amore. Camuffato da film comico e politicamente scorretto sul sesso, non è altro che il solito elogio dei valori della famiglia e della virtù. Meno volgare del previsto, a tratti divertente, ma anche ricco di stereotipi e luoghi comuni, che per fortuna non sconfinano troppo nel trash o nelle cadute di stile. Nel finale, tutti i personaggi cantano e ballano sulle note della canzone "Aquarius" dal film "Hair". Per alcuni, Apatow (prolifico produttore e sceneggiatore, già collaboratore di Ben Stiller, Adam Sandler e Jim Carrey, qui al suo esordio come regista) è uno dei nomi più importanti nel campo della commedia americana degli ultimi anni: ma visto lo stato in cui versa il genere (come sono lontani i tempi di Lubitsch, Cukor e Wilder!) non ci vuole poi molto.

26 maggio 2011

The tree of life (Terrence Malick, 2011)

The tree of life (id.)
di Terrence Malick – USA 2011
con Brad Pitt, Jessica Chastain
**

Visto al cinema Colosseo, con Hiromi.

Una religiosissima famiglia del midwest texano è scossa dalla perdita di uno dei figli. Ai giorni nostri, il primogenito Jack riuscirà a ritrovare la pace interiore e a recuperare il rapporto con la bellezza (interiore ed esteriore) e con i genitori. La sensazione di trovarsi di fronte a pura fuffa new age sorge dopo pochi minuti di pellicola, e per tutte le quasi due ore e mezza di visione sarà difficile liberarsene, nonostante il tentativo di scoprirci dentro chissà quali significati oltre a quelli suggeriti dalla citazione iniziale del Libro di Giobbe. Il documentario in stile Discovery Channel sui dinosauri, che irrompe inatteso dopo qualche scena, e la surreale (e banalissima) sequenza finale con Sean Penn nei panni di un Jack adulto che ritrova i genitori e gli altri personaggi della sua infanzia sulle rive di un immenso mare/limbo (che pare uscito da un pilot de "Il fiume della vita" di Philip J. Farmer) non aiutano di certo. Per fortuna la parte centrale della pellicola, quella che racconta più concretamente l'infanzia del protagonista negli anni '50, offre qualche appiglio al povero spettatore che da un film chiede qualcosa di più che un videoclip di belle immagini e un concentrato teosofico-spirituale di aria fritta. Il difficile rapporto di Jack con un padre severo e dittatore, i suoi tentativi di ribellione, la scoperta della bellezza e delle brutture del mondo, e i giochi con i fratelli e gli altri bambini del vicinato riescono parzialmente a tenere desta l'attenzione, grazie anche al piccolo interprete (Hunter McCracken) e pur con qualche lungaggine di troppo, ma senza dire nulla di veramente originale o sconvolgente. Malick, che per gran parte del film gira fastidiosamente con la camera a mano e in movimento, gioca a fare il Tarkovskij (l'acqua, la memoria) e il Kubrick (negli effetti speciali è coinvolto pure il Douglas Trumbull di "2001"), ma non ha né la profondità psicologica del primo, né il rigore formale del secondo.

24 maggio 2011

I cento passi (M. T. Giordana, 2000)

I cento passi
di Marco Tullio Giordana – Italia 2000
con Luigi Lo Cascio, Luigi Maria Burruano
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele, Paola, Ilaria e Ginevra.

Cento passi dividono la casa di Peppino Impastato da quella di Tano Badalamenti, boss della mafia che domina a Cinisi, cittadina in provincia di Palermo. Anche se il suo stesso padre Luigi è affiliato alla cupola, il giovane Peppino si oppone a uno stato di cose che sembra immutabile, e fonda un'emittente radiofonica, Radio Out, attraverso la quale grida la sua rabbia e il suo disgusto verso la corruzione e l'omertà. Pagherà il suo impegno civile e politico con la vita: verrà ucciso il 9 maggio del 1978, lo stesso giorno in cui viene ritrovato a Roma il cadavere di Aldo Moro; e anche per questo motivo, oltre che per la volontà delle forze dell'ordine di chiudere fin troppo rapidamente le indagini, la sua vicenda rischiava di cadere nell'oblio. Così però non è stato, grazie a coloro che lo hanno conosciuto ma anche agli artisti che ne hanno parlato (oltre a questo lungometraggio, va ricordata una canzone dei Modena City Ramblers, anch'essa intitolata "I cento passi"). Insieme al successivo "La meglio gioventù", il film è indubbiamente il capolavoro di Giordana (autore anche della sceneggiatura con Claudio Fava e Monica Zappelli), abilissimo a ricostruire il clima e l'atmosfera di quegli anni, il senso di impotenza e di accerchiamento di fronte alla "piovra" mafiosa, la sete di ribellione di Peppino e dei suoi amici, la militanza comunista, le contraddizioni familiari, il desiderio di libertà e di giustizia in un piccolissimo paese siciliano che probabilmente, se non fosse stato per questa vicenda, il resto del mondo non avrebbe mai sentito nominare. Davvero ottimo Luigi Lo Cascio, al suo esordio sul grande schermo, che sfoggia anche una certa somiglianza con il vero Giuseppe Impastato. Attorno a lui, comunque, brillano tutti gli interpreti: in particolare vanno ricordati Tony Sperandeo nei panni di Tano Badalamenti e Claudio Gioè in quelli dell'amico Salvo, ma anche e soprattutto Luigi Maria Burruano e Lucia Sardo nei ruoli dei genitori di Peppino, personaggi complessi e sfaccettati. Salutato alla sua uscita come una boccata d'aria fresca per il cinema italiano, il film riporta con efficacia l'impegno civile in sala (non a caso viene esplicitamente citato "Le mani sulla città" di Francesco Rosi, che Peppino e i suoi amici guardano nel loro cineforum). Efficace, anche se un po' ruffiana, la colonna sonora, che comprende fra gli altri Janis Joplin, Leonard Cohen e Procol Harum. "Volare" di Domenico Modugno viene invece identificata come "l'inno nazionale di Mafiopoli", il che ha provocato reazioni risentite da parte degli eredi del cantante. In ogni caso, nel finale, sulle immagini del corteo funebre di Peppino, è difficile trattenere le lacrime e l'indignazione (anche perché, nonostante le bandiere rosse e i pugni alzati, come già detto è una pellicola di impegno civile e non di propaganda): e dunque il film centra perfettamente il suo bersaglio.

23 maggio 2011

Belladonna (Eiichi Yamamoto, 1973)

Belladonna (Kanashimi no Belladonna)
di Eiichi Yamamoto – Giappone 1973
animazione tradizionale
*1/2

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Nella Francia medievale, una ragazza viene posseduta da un demone (dalla forma "fallica") e diventa una strega: finirà sul rogo. Pellicola sperimentale realizzata dalla Mushi Production di Osamu Tezuka (ma il maestro non è coinvolto nel progetto), dall'animazione minimalista e spesso assente (sono frequenti i disegni fissi, ai quali si sovrappongono voci, musica ed effetti sonori), un character design che guarda al fumetto francese degli anni '60 e '70 (la protagonista ha le fattezze di Brigitte Bardot, ma ricorda anche le varie "Barbarelle") e alla cultura pop degli stessi anni (alcune sequenze particolarmente psichedeliche, come quella dell'accoppiamento con il demone o quella della peste bubbonica, sembrano uscire da "Yellow Submarine" o dai cartoon di Bozzetto). In più c'è una fortissima dose di erotismo, con molte scene di sesso e di violenza, visto che il film faceva parte della serie "Animerama", pellicole rivolte a un pubblico adulto, l'equivalente animato dei contemporanei pink film. Artisticamente ambizioso, anche se in fondo non poi così originale e innovativo, il lungometraggio non centra però il bersaglio e si rivela noioso, pretenzioso e indisponente: fu un clamoroso insuccesso di pubblico e di critica, che forse contribuì al fallimento della casa di produzione. Più che un film, sembra un art book, peraltro senza nemmeno troppa coerenza di stile (ci sono personaggi realistici e altri caricaturali, delicate immagini ad acquarello e altre semplicistiche e schematiche). Una delle ispirazioni dichiarate è il libro illustrato "La Sorcière" (1862) di Jules Michelet.

21 maggio 2011

Scream 4 (Wes Craven, 2011)

Scream 4 (id.)
di Wes Craven – USA 2011
con Neve Campbell, Emma Roberts
**1/2

Visto in divx.

Nell'anniversario dei delitti di Woodsboro, Sidney Prescott fa ritorno nella sua città natale per promuovere il libro che ha scritto, "Fuori dall'oscurità", che testimonia come ha saputo superare i traumi degli eventi che l'hanno coinvolta in passato. Ma anche Ghostface torna inaspettatamente a colpire, replicando la strage precedente: questa volta fra i suoi obiettivi ci sono Jill, cugina adolescente di Sidney, e i suoi amici, personaggi quasi equivalenti a quelli del primo "Scream" (Jill è la nuova Sidney, Trevor il nuovo Billy, Charlie il nuovo Randy, ecc.) ma allo stesso tempo rappresentanti di una generazione internettara (i maniaci agiscono su Facebook, i video vengono caricati su YouTube) con gusti e valori diversi dalla precedente, naturalmente con nuovi miti e nuovi horror preferiti, per i quali tutto è un gioco e Ghostface è addirittura un idolo ("La tragedia di una generazione è lo scherzo di quella successiva"). Realizzato a oltre dieci anni di distanza dal capitolo precedente, il quarto "Scream" (che vede il ritorno di Kevin Williamson alla sceneggiatura) si occupa per l'appunto di remake, ovvero di riletture – non sempre fedeli – dell'originale. Anche i film slasher si devono adeguare alle mutate esigenze: "ci sono ancora delle regole, ma l'inaspettato è il nuovo cliché", bisogna "avere una sequenza iniziale che spacca, usare una regia da video musicale e gli omicidi devono essere ancora più estremi". I moventi del killer, non a caso, sono la fama e la visibilità, concetti più al passo con tempi in cui la differenza fra i cattivi e le vittime non sono più così nette. E poco importa se si trasgredisce la regola principale di un buon remake: "non cambiare l'originale". Da notare che anche le tecnologie sono evolute: ora ci sono applicazioni per smartphone che consentono di imitare la voce di Ghostface (a proposito, questo è il primo film in cui viene usato questo nome anche nella versione italiana) e webcam che consentono di trasmettere online e in diretta tutto quello che si vede ("Se vuole essere innovativo, il killer deve riprendere i suoi omicidi: è una sorta di evoluzione naturale degli psico-horror").

Il tentativo di rinnovare la saga (che molti ormai ritenevano conclusa con il terzo capitolo) riesce forse solo in parte, e il senso di deja vu (peraltro voluto) è forte, ma tutto sommato la pellicola è sufficientemente godibile e divertente. Come sempre si sguazza nei riferimenti metacinematografici, e la sceneggiatura fa riferimento alle nuove tendenze dell'horror (di "Saw" si dice che "fa schifo, non fa paura. È solo sadico, a metà fra splatter e porno. Non interessa a nessuno chi muore, non c'è sviluppo dei personaggi, solo squartamenti e fiumi di sangue"; ma ce n'è anche per lo stesso "Scream": "Un mucchietto di ragazzini logorroici che si mettono a decostruire i film horror... Visto fino alla nausea: le solite metacazzate postmoderne. Andava bene nel 1996". In compenso, "L'alba dei morti dementi" viene apprezzato). Se "Scream" è arrivato al quarto capitolo, "Stab" ("Squartati", la serie di film nei film che a esso si ispira) ha fatto persino di meglio: è già al numero 7 – un (auto)ironico riferimento alla facilità con cui gli horror sfornano seguiti – e il suo livello è evidentemente precipitato sempre più in basso ("Non riesco a crederci, fanno un sequel dopo l'altro e riciclano in continuazione le stesse cazzate..."). Memorabile la tripla sequenza introduttiva, particolarmente elaborata, che trasporta lo spettatore attraverso gli incipit (contenuti l'uno nell'altro!) di "Stab 6", "Stab 7" e finalmente di "Scream 4", senza fargli capire di primo acchito se sta guardando in effetti il film "reale" o le sue meta-derivazioni. Le protagoniste delle tre scene sono rispettivamente Shenae Grimes e Lucy Hale, Anna Paquin e Kristen Bell, e Aimee Teegarden e Brittany Robertson. Sempre restando alla serie di "Stab", si rivela che il primo film era stato diretto da Robert Rodriguez (e se qualcuno lo ritiene improbabile, si ricordi che proprio Rodriguez aveva realizzato "The faculty", per molti versi il film gemello di "Scream", sempre su sceneggiatura di Kevin Williamson) e si rivedono alcune delle scene con Heather Graham. Quanto al resto del cast, tornano naturalmente David Arquette e Courteney Cox nei ruoli di Linus e Gale (il cui matrimonio, dopo dieci anni, è un po' in crisi: come nella realtà!), mentre ci sono numerose new entry: in particolare Emma Roberts (la nipote di Julia), Hayden Panettiere, Rory Culkin, Nico Tortorella. Alison Brie è l'opportunista agente letteraria di Sidney, Marley Shelton la giovane vicesceriffo che scatena la gelosia di Gale, Anthony Anderson e Adam Brody i poliziotti (il primo si chiama Anthony Perkins!) che commentano "i poliziotti di scorta fanno sempre una brutta fine" (regola naturalmente confermata). Manca invece il detective Kincaid: Patrick Dempsey era impegnato in altri progetti e non ha potuto partecipare al nuovo film.

20 maggio 2011

Scream 3 (Wes Craven, 2000)

Scream 3 (id.)
di Wes Craven – USA 2000
con Neve Campbell, Courteney Cox, David Arquette
**1/2

Rivisto in divx.

Il terzo capitolo della saga horror più autoconsapevole e metacinematografica per eccellenza non poteva che svolgersi direttamente a Hollywood, nella mecca del cinema: negli studi della Sunrise è infatti in produzione "Stab 3" ("Squartati 3", in italiano), film conclusivo della trilogia ispirata ai fatti di Woodsboro (inutile dire che "Stab" e "Stab 2", nella finzione della serie, sono l'esatto equivalente di "Scream" e "Scream 2"). Ma stavolta "finzione" e "realtà" procedono di pari passo, visto che il terzo "Stab" non si basa su fatti già accaduti ma finisce col confondersi con gli eventi che riguardano i suoi stessi interpreti: il redivivo Ghostface, infatti, comincia a trucidare gli attori della pellicola nello stesso ordine in cui è prevista la loro morte nella sceneggiatura (il primo a essere eliminato è Cotton Weary; la seconda è un'attricetta interpretata da Jenny McCarthy, guest star d'occasione come Drew Barrymore e Sarah Michelle Gellar nei due film precedenti). Il killer, che lascia sui luoghi del delitto alcune fotografie di Maureen Prescott (la madre di Sidney) da giovane, sta cercando di rintracciare la stessa Sidney, che nel frattempo si è isolata dal mondo e vive sotto falso nome in un ranch sulle colline californiane, lavorando per un call center contro la violenza sulle donne. Richiamata dai delitti, e tormentata dal fantasma della madre, la ragazza si unirà agli amici Gale e Linus (oltre che al giovane detective Kincaid) per svelare i misteri del passato di Maureen e per tentare di scoprire l'identità del misterioso assassino: la sanguinosa resa dei conti avverrà nella villa del produttore John Milton (Lance Henriksen), per il quale Maureen aveva lavorato come attrice di film horror (te pareva!) negli anni settanta.

Anche se oggi è uscito un quarto episodio, all'epoca tutto – compreso il finale per una volta pacificante e rilassato – lasciava intendere che "Scream 3" fosse il capitolo conclusivo della saga di Craven e Williamson (quest'ultimo, impegnato in altri progetti, è accreditato solo come produttore e creatore dei personaggi: la sceneggiatura – più sbilanciata sul versante della satira e della commedia che su quello della violenza – è invece di Ehren Kruger, un cognome che peraltro evoca proprio incubi craveniani), e dunque i personaggi discettano a proposito dei "terzi capitoli di una trilogia". Il cinefilo Randy, ucciso nel film precedente, si ripresenta attraverso un filmato-testamento, registrato su videocassetta, per spiegare agli amici anche questa volta quali sono le regole da rispettare: negli episodi conclusivi delle trilogie, infatti, "si torna all'inizio della storia e si scopre che cose credute vere non lo erano affatto"; inoltre il killer si rivelerà quasi sovrumano, e per eliminarlo non basterà più sparargli o pugnalarlo; infine, chiunque potrà morire: anche il protagonista principale o i comprimari ai quali il pubblico si è più affezionato. Tutto è complicato dal fatto che esistono tre versioni diverse del copione di "Stab 3", dato che i produttori non volevano che il finale finisse su internet. "Tre versioni, tre personaggi diversi che devono morire... Chissà che versione ha letto il killer?".

Eppure, rispetto ai capitoli precedenti, c'è minor tensione: la colpa è forse da attribuire alla crociata contro i film violenti che all'epoca furoreggiava negli Stati Uniti, subito dopo la strage della Columbine High School. Ma i filmmaker si difendono, ripetendo (come in "Scream 2") che accusare la vita di imitare i film non ha senso (semmai è vero il contrario). Ghostface, come previsto da Randy, è più evanescente che mai, un vero e proprio fantasma, dotato fra l'altro dell'incredibile capacità di imitare le voci altrui (attraverso l'apparecchio che in precedenza gli consentiva solo di camuffare la propria voce al telefono). A questo proposito, telefoni e cellulari hanno un ruolo ingigantito, e vengono utilizzati in continuazione. Per gran parte della pellicola Sidney si mantiene defilata e i protagonisti sono Linus e Gale con i loro battibecchi amorosi: sullo schermo formano una coppia proprio come David Arquette e Courteney Cox facevano ormai nella vita: si erano sposati infatti nel 1999, e l'attrice è dunque accreditata come Courteney Cox Arquette. Mentre Liev Schreiber e Jamie Kennedy riprendono brevemente (per l'ultima volta?) i propri ruoli, le new entry del cast comprendono Patrick Dempsey (Kincaid), Parker Posey (Jennifer, che interpreta Gale Weathers in "Stab 3" ed è protagonista di divertenti duetti con la "vera" Gale), Emily Mortimer (Angelina, Sidney in "Stab 3", che sostituisce Tori Spelling) e Scott Foley (Roman, il regista di "Stab 3"). Esilaranti i cameo: su tutti quelli di Jay e Silent Bob (alias Jason Mewes e Kevin Smith), in visita agli studios, e di Carrie Fisher nei panni di Bianca Burnette, un'ex attrice che accusa la stessa Fisher di aver dormito con George Lucas per ottenere la parte della principessa Leia in "Guerre stellari".

19 maggio 2011

Scream 2 (Wes Craven, 1997)

Scream 2 (id.)
di Wes Craven – USA 1997
con Neve Campbell, Courteney Cox, David Arquette
***

Rivisto in divx.

Sono passati un paio d'anni dai delitti di Woodsboro: Sidney frequenta ora l'università (il Windsor College) e contemporaneamente aspira a diventare attrice teatrale. Ma nelle sale cinematografiche esce un film ("Stab", in italiano "Squartati") tratto dai fatti del primo "Scream", per la precisione dal libro che Gale Weathers ha scritto sulla vicenda ("Non è soltanto un film, è una storia vera", commentano alcuni spettatori): il suo lancio, oltre a far riaccendere i riflettori dei media sulla ragazza (che ne farebbe volentieri a meno), spinge un misterioso emulo di Ghostface a rinverdirne le gesta. Le prime morti avvengono proprio in un cinema dove si proietta la pellicola (i protagonisti della sequenza introduttiva sono Omar Epps e Jada Pinkett), mentre sullo schermo scorrono le immagini del primo omicidio della storia precedente e gran parte degli spettatori in sala indossa maschere identiche a quella del killer, rendendo così difficile identificarlo. Quando altri delitti si verificano nel campus dove vive Sidney, la polizia e gli amici più vicini alla ragazza (compresi "Linus" Riley e Gale Weathers) si rendono conto che l'assassino sta replicando le azioni del primo killer e realizzando una sorta di personale sequel. E ancora una volta tutti sono sospettati, compresi i superstiti del film precedente: anzi, probabilmente l'assassino è proprio qualcuno legato ai sanguinosi delitti di allora.

Come la loro creatura, anche Wes Craven e lo sceneggiatore Kevin Williamson tornano sul luogo del delitto, realizzando un sequel che parla, naturalmente, di sequel cinematografici e dunque di sé stesso (peccato però che la versione italiana confonda pedestramente il termine sequel con serial, usando il secondo per tradurre il primo: eppure non sono la stessa cosa!). E così i personaggi si lamentano della cattiva qualità dei seguiti ("Il genere horror è stato solo danneggiato dai sequel!"), disquisiscono sui rari casi in cui un secondo capitolo si è dimostrato all'altezza o anche migliore dell'originale (fra i titoli suggeriti figurano "Aliens", "Terminator", "Il padrino", "La casa"...), il movie geek Randy – che ora studia teoria cinematografica – spiega le regole da rispettare nella realizzazione di un sequel horror (più sangue, più morti, scene più elaborate...), e diversi elementi e spunti del primo "Scream" si ripresentano quasi identici (ma con alcune sottili differenze). C'è anche spazio per riflessioni sul possibile influsso negativo dei film violenti sulla società ("I film sono responsabili delle nostre azioni?": scopriremo in effetti che l'assassino intende difendersi in tribunale dando la colpa del suo comportamento proprio a "Stab") e sull'origine della violenza giovanile (è colpa del cinema, della famiglia o della società?). "È il classico caso di vita che imita l'arte che imita la vita".

Naturalmente anche il gioco metacinematografico si fa più sofisticato, grazie alle scene di "Stab" che ripropongono fedelemente sequenze del primo "Scream" (gli attori, ovviamente, sono diversi: Sidney sullo schermo è interpretata ironicamente da Tori Spelling, dopo che Neve Campbell nel film precedente, all'amica che le chiedeva "Se facessero un film su di te, chi farebbe la tua parte?", aveva risposto "Io dico Meg Ryan da giovane. Ma con la fortuna che ho, la farebbero fare a Tori Spelling"; Billy è Owen Wilson, mentre Casey – la prima vittima, Drew Barrymore in originale – è Heather Graham). Alcune delle scene più coinvolgenti, compreso l'intero scontro finale (con la rivelazione dell'identità del killer), si svolgono sul palco di un teatro: è ironico che un film che parli tanto di cinema ambienti le sue scene clou su un set teatrale (dove è di scena una tragedia greca, perfettamente in linea con i temi della vendetta e della morte: e le maschere del coro, impersonificazione dell'arte drammatica classica, ricordano nelle fattezze quella di Ghostface). Ma anche questi sono esempi dell'autoironia di Craven e Williamson (come quando Randy, parlando del film "Stab", lo liquida con un "Me lo vedrò in cassetta"). Fra i tanti tocchi ironici, la preoccupazione del nuovo cameraman di Gale quando scopre che l'operatore nel film precedente era stato sgozzato. Nel cast, che vede il ritorno dei principali attori sopravvissuti nel primo capitolo, ci sono alcune new entry (Sarah Michelle Gellar nel ruolo di Cici, in una scena che rispecchia quella con Drew Barrymore nel film precedente; e ancora Laurie Metcalf, Elise Neal, Jerry O'Connell, Timothy Olyphant, più Lewis Arquette – padre di David – nei panni dello sceriffo) e un maggior spazio per Liev Schreiber nel ruolo di Cotton Weary (che Sidney aveva accusato ingiustamente della morte di sua madre, anni prima, e che nel primo "Scream" era apparso solo di sfuggita).

17 maggio 2011

Scream (Wes Craven, 1996)

Scream - Chi urla muore (Scream)
di Wes Craven – USA 1996
con Neve Campbell, Courteney Cox, David Arquette
***1/2

Rivisto in divx.

Nella tranquilla cittadina di Woodsboro, un serial killer mascherato semina il panico fra gli studenti del liceo locale. A essere presa di mira, in particolare, è la giovane Sidney Prescott, la cui madre Maureen era già stata uccisa un anno prima. Già creatore di una delle più fortunate saghe horror di tutti i tempi ("Nightmare"), Wes Craven si conferma un maestro del genere sfornando un intelligente esempio di metacinema che darà vita a sua volta a una nuova e popolare serie (è da poco uscito nelle sale il quarto capitolo) in grado di combinare elementi dello slasher, del giallo e della commedia. Autoreferenziale e autoironico ("Comincia a sembrare un film di Wes Carpenter", dice a un certo punto un personaggio, creando una buffa commistione fra i nomi dei registi di "Scream" e di "Halloween"), non si tratta di una semplice parodia (non cita scene di altre pellicole per prendersene gioco, come invece faranno per esempio i vari "Scary Movie", che proprio di "Scream" sono una degenerazione: e dire che "Scary Movie" era appunto il titolo di lavorazione del film di Craven) ma di un appassionato omaggio allo stesso genere cui appartiene, ovvero il filone dell'horror/slasher anni ottanta e novanta. Ne rilegge gli stilemi e gioca con i suoi cliché (la cittadina di campagna, l'ambientazione scolastica o giovanile, il killer in maschera), ma allo stesso tempo offre suspense, paura e divertimento fino all'ultima scena e riesce a creare situazioni e personaggi terrorizzanti che non sfigurerebbero nella galleria dei più significativi del genere: su tutti spicca naturalmente Ghostface, il killer con cappa nera, coltellaccio e maschera che ricorda l'Urlo di Munch (da cui il titolo del film, che fa riferimento anche alle cosiddette Scream queen, le reginette dei film dell'orrore), la cui vera identità rimane in dubbio fino alla fine, lasciando allo spettatore la possibilità di sospettare di ognuno (d'altronde, come viene spiegato, "c'è una formula standard, una formula semplicissima: sono tutti sospettati!"). La grande novità della pellicola, comunque, è quella di essere ambientata in un "mondo reale", dove i personaggi vedono i film horror e ne conoscono tutti i segreti, i luoghi comuni e gli stereotipi, sapendo dunque come ci si deve comportare in situazioni del genere. Memorabile, per esempio, il momento in cui uno dei personaggi (Randy, commesso in una videoteca ed esperto cinefilo con una passione particolare – inutile dirlo – per le pellicole dell'orrore) enuncia quali sono le "regole per sopravvivere in un film horror": non fare sesso (solo i vergini sopravvivono!), non ubriacarsi o drogarsi, e mai dire "Torno subito".

Craven si era già ampiamente tuffato nel metacinema con "Nightmare: Nuovo Incubo", il settimo film della saga di Freddy Krueger, dove si autocitava e ironizzava su sé stesso e sulla sua creatura: l'intera saga di "Scream" può essere considerata un ampliamento delle idee alla base di quella pellicola. Innumerevoli sono dunque le strizzatine d'occhio cinefile: i personaggi citano film come "Halloween", "Venerdì 13", "Carrie", "La casa", lo stesso "Nightmare" ("Ma solo il primo dava i brividi, i successivi non valevano niente!") e attori (disquisisendo su icone del genere come Jamie Lee Curtis, la scream queen per eccellenza), esprimono concetti metacinematografici ("Tutta la vita è un film, solo che non puoi scegliere il genere"; "Se questo fosse un film horror, sarei il primo sospettato") e derivano per l'appunto le proprie regole di comportamento dagli stessi film di cui sono appassionati, come se la storia che stanno vivendo fosse una sceneggiatura cinematografica ("Non devi mai chiedere 'Chi è?', non li vedi i film dell'orrore? Tanto vale chiedere di morire"). Ma c'è anche spazio per una difesa dell'horror da chi lo accusa di traviare i giovani: "Non dare la colpa al cinema. I film non fanno nascere nuovi pazzi, li fanno solo diventare più creativi!". L'intuizione di questo particolare approccio, così come gran parte del merito del risultato finale, è dello sceneggiatore Kevin Williamson, che in seguito ripeterà l'operazione con "The Faculty" di Robert Rodriguez, dove sostituirà al cinema dell'orrore quello della fantascienza degli anni cinquanta. Da notare che il successo di "Scream" contribuirà a ridare vigore e popolarità proprio allo slasher adolescenziale, genere che all'epoca molti davano ormai per finito e che negli anni immediatamente successivi ha ripreso quota con titoli come "So cosa hai fatto" o "Final destination".

Da cult l'incipit con Drew Barrymore nei panni della prima vittima del killer, che le telefona per mettere alla prova la sua conoscenza riguardo agli horror classici ("Come si chiamava l'assassino di Venerdì 13?"), una scena ansiogena e magistrale che sarà a sua volta citata e parodizzata più volte in altre pellicole (compreso gli "Scream" successivi!). Il tema del killer che telefona alle sue vittime prima di ucciderle, fra l'altro, rimarrà uno dei tratti più caratteristici di tutta la serie ("Qual è il tuo horror preferito?", è la sua domanda tipica). Ma tutto il roster dei personaggi di questo primo capitolo è ricchissimo: molti fanno naturalmente una brutta fine, mentre altri riusciranno a sopravvivere e saranno pronti a tornare nei sequel ("Dobbiamo sopravvivere per fare il seguito!", dicono alcuni esplicitamente): a fianco alla protagonista Sidney (Neve Campbell, nel ruolo più celebre della sua carriera) spiccano l'ambiziosa reporter d'assalto Gale Weathers (Courteney Cox) e il vicesceriffo bamboccione Dwight "Linus" Riley (David Arquette), il cui soprannome nella versione originale è "Dewey". Da notare che la Cox e Arquette, conosciutisi proprio sul set di "Scream", si sposeranno nel 1999, esattamente come saranno destinati a fare i loro personaggi: un altro esempio di vita reale che imita la finzione cinematografica. Completano il cast Skeet Ulrich (Billy, il tenebroso boyfriend di Sidney), Rose McGowan (l'amica Tatum), Matthew Lillard (lo sciroccato Stuart), Jamie Kennedy (il nerd Randy) e – in un gustoso cameo non accreditato – Henri Winkler nei panni del preside del liceo di Woodsboro, per ironia della sorte (stiamo pur sempre parlando di Fonzie!) insofferente alle intemperanze dei giovani e protagonista di un'imperdibile gag con il bidello Freddie Krueger. Geniale, nella sua assurdità, la trovata della videocamera che riprende la festa e invia le immagini con un ritardo di 30 secondi, impedendo a chi le guarda di scoprire cosa accade in tempo reale, così come sono al contempo terrorizzanti e comiche le colluttazioni dell'impacciato assassino con le sue vittime, durante le quali si sprecano botte e capitomboli. La colonna sonora di Marco Beltrami è impreziosita da un brano di Nick Cave ("Red right hand") che a sua volta diventerà una costante dell'intera serie.

16 maggio 2011

Source code (Duncan Jones, 2011)

Source code (id.)
di Duncan Jones – USA 2011
con Jake Gyllenhaal, Michelle Monaghan
**1/2

Visto al cinema Uci Assago, con Hiromi.

Collegato a una straordinaria e avveniristica apparecchiatura, il pilota di elicotteri militari Colter Stevens ha la possibilità di trasferire la propria coscienza indietro nel tempo e nel corpo di Sean, una delle vittime di un catastrofico attentato terroristico, rivivendo così in continuazione i suoi ultimi otto minuti di vita a bordo di un treno per Chicago. Dovrà cercare di individuare la bomba e l'attentatore: a ogni fallimento, viene rimandato indietro per effetturare un nuovo tentativo. Dopo il suo brillante debutto con "Moon", Duncan Jones (alias Zowie Bowie) continua a frequentare la fantascienza "a sfondo umano" e sforna un altro film interessante, ricco di colpi di scena e di stimolanti suggestioni sull'identità e il destino, che unisce il tema della ripetizione temporale di "Ricomincio da capo" a quello dell'indagine poliziesca nello spazio-tempo di "Deja vu" (ma lo spunto del protagonista che si ritrova in un corpo altrui ricorda parecchio anche la serie televisiva "In viaggio nel tempo", alias "Quantum leap"). Il principio scientifico su cui si basa la vicenda è ovviamente del tutto implausibile, ma se si cominciano a mettere in questione le premesse del film non si va da nessuna parte. Nel finale, però, la pellicola cala di ritmo e perde qualche colpo: alla lunga il meccanismo si fa ripetitivo e il controfinale lieto è forse superfluo (perché la pellicola non è stata fatta terminare al momento del "fermo immagine"? Sarebbe stata una conclusione perfetta). Nel cast, più che Gyllenhaal o la Monaghan, brilla Vera Farmiga nei panni del tenente Goodwin, ufficiale di collegamento fra il protagonista e la sua missione.

14 maggio 2011

The beach (Danny Boyle, 2000)

The beach (id.)
di Danny Boyle – GB 2000
con Leonardo DiCaprio, Virginie Ledoyen
*1/2

Rivisto in TV, con Hiromi.

Un giovane americano (DiCaprio) in fuga dalla vita quotidiana e familiare, e una coppia di fidanzati francesi (Guillaume Canet e Virginie Ledoyen) che il primo ha conosciuto a Bangkok, scoprono l'esistenza di una spiaggia magnifica e incontaminata su un'isola al largo delle coste delle Thailandia, sulla quale si sprecano leggende e dicerie, e decidono di raggiungerla a nuoto. Peccato che metà dell'isola sia riservata alle coltivazioni di marijuana dei narcotrafficanti del "triangolo d'oro", mentre l'altra metà (quella con la spiaggia) sia già occupata da una comunità di ragazzi che come loro rifuggono dalle ipocrisie della civiltà, della tecnologia e del consumismo. I tre amici si uniscono comunque al gruppo, convinti di aver trovato il paradiso in terra: ma incomprensioni, risentimenti, invidie, passioni e litigi, per non parlare degli attacchi degli squali e delle minacce dei contadini, romperanno l'idillio e porteranno la "comune" alla rovina. Paesaggi da cartolina, suggestioni hippy fuori tempo massimo, atmosfere poco convincenti e sviluppi telefonati: forse il peggior film di Boyle (che era sbarcato a Hollywood sulla scia degli interessanti "Piccoli omicidi fra amici" e "Trainspotting", e che in futuro avrà comunque modo di riscattarsi e persino di vincere un Oscar!), un misto fra "Il signore delle mosche", "Apocalypse now" e la pubblicità di un villaggio vacanze. DiCaprio (in sostituzione di Ewan McGregor, che aveva litigato con il regista), ancora un po' acerbo ma reduce dal grande successo di "Titanic", è fra le cose migliori di una pellicola debole e puerile, che vanta anche interpreti di valore come Tilda Swinton (Sal, la leader della comunità) e Robert Carlyle (Duffy, lo sciroccato che dona a DiCaprio la mappa per raggiungere l'isola), purtroppo al servizio di personaggi piatti e stereotipati (su tutti, i due francesi).

11 maggio 2011

Picnic ad Hanging Rock (P. Weir, 1975)

Picnic ad Hanging Rock (Picnic at Hanging Rock)
di Peter Weir – Australia 1975
con Rachel Roberts, Dominic Guard
****

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele, Paola, Ilaria e Stefano.

Nel giorno di San Valentino del 1900, un gruppo di studentesse di un college privato dell'entroterra australiano si reca a fare un picnic ai piedi di Hanging Rock, antichissima formazione geologica e vulcanica nello stato di Victoria. In un'atmosfera di impalpabile sospensione (il tempo sembra fermarsi, passato e presente si compenetrano, la natura e gli animali rimangono in osservazione), accade qualcosa di inesplicabile: tre ragazze (la bellissima Miranda e le compagne Irma e Marion) e un'insegnante (l'anziana Miss Craw), attratte da una forza misteriosa, si arrampicano sulla roccia e scompaiono nel nulla. Le ricerche e le indagini della polizia non portano ad alcun risultato: ma una settimana più tardi, il giovane inglese Michael riuscirà in qualche modo a "riportare indietro" una delle ragazze, Irma. L'affascinante film di Weir, uno dei capolavori del suo periodo australiano, pone molte domande allo spettatore senza apparentemente fornire le risposte: il trascendente, l'ignoto e il mistero (perché sia Irma che Michael hanno le medesime ferite sulla fronte e sulle mani?) rimangono impenetrabili a chi non desidera o non è in grado di avvicinarvisi (come, nel film, fa la quarta studentessa, Edith, che sceglie di non attraversare la soglia). Ma una chiave di lettura è fornita dalla bellissima colonna sonora, che oltre alle sonorità inquietanti di Bruce Smeaton (più Bach, Mozart, Tchaikovsky e Beethoven, con l'adagio del concerto per pianoforte n. 5 che Weir riutilizzerà anche in un altro film ambientato in un college, "L'attimo fuggente") contiene temi eseguiti da Gheorghe Zamfir con il flauto di Pan: strumento non certo scelto a caso, visto che Pan era il dio della natura selvaggia, colui che rapiva le ninfe (e al quale erano consacrate le cime dei monti!). Le sue fattezze (corna e zampe di caprone) hanno ispirato nella nostra cultura quelle del diavolo, e difatti Hanging Rock può essere assimilata a una di quelle località, sparse un po' in tutto il globo, che tradizionalmente sono indicate come via d'accesso agli inferi: una voragine che inghiotte le persone (soprattutto le fanciulle: vedi Persefone!) e dove è possibile entrare in contatto – spirituale o fisico – con "l'altro mondo", oppure con la parte di questo mondo che normalmente non è visibile a tutti.

Che stiamo parlando di un "passaggio" lo dimostra anche la collocazione geografica (l'Australia era davvero "un altro mondo" per gli europei, segnatamente per gli inglesi come i protagonisti di questo film; anche se nella pellicola non sono presenti aborigeni – a differenza di un altro film di Weir di questo periodo, "L'ultima onda" – con l'eccezione di qualcuno che si intravede fra coloro che cercano le ragazze, è chiaro il collegamento con le "vie dei canti" e i sogni: lo suggeriscono, per esempio, la visione notturna di Michael che si trova dinnanzi Miranda trasformata in cigno, o il sogno dell'amico Albert in cui la sorella Sara giunge a salutarlo per l'ultima volta) e soprattutto quella temporale (siamo esattamente nel 1900, ovvero nel passaggio da un secolo a un altro). Pan è anche un dio fortemente legato alla sessualità: e dunque quella di queste ragazze, dall'aspetto verginale, vestite di bianco, è una vera e propria iniziazione, un rito di passaggio verso la maturità e l'età adulta. Miranda e le sue amiche vengono "chiamate" dalla natura (e nella natura ci si addentra a piedi nudi, senza il corsetto o vestiti ingombranti), guarda caso a mezzogiorno preciso ("l'ora di Pan"): "C'è un tempo e un luogo giusto perché ogni cosa abbia principio, e fine...". Eppure la ricchezza (anche visiva, oltre che di contenuti) del film sembra suggerire molti altri paralleli: notevole quello, avanzato da Giuliano nel suo blog, con "Alice nel paese delle meraviglie" di Lewis Carroll: la ragazza che sparisce in un buco, l'ambientazione vittoriana, gli orologi, la matematica, gli animali, i personaggi e i loro abiti (la direttrice della scuola ricorda davvero, anche nell'aspetto, la Regina di Cuori)... Ma l'intera vicenda può anche essere letta più semplicemente come una metafora del tema della scomparsa: che sia per eventi naturali o violenti, tutti prima o poi sono destinati ad andarsene, e quelli che rimangono devono fare i conti con la loro assenza (Weir ha dichiarato di essere stato molto colpito dalle testimonianze di coloro che avevano perduto i propri cari durante la prima guerra mondiale: e di molti, dispersi in battaglia e la cui sorte è rimasta sconosciuta, hanno inutilmente atteso il ritorno per anni e anni).

L'atmosfera onirica e soprannaturale si tinge dunque di concretezza (il sangue delle ferite, la presenza fisica delle rocce – che sembrano volti umani – e degli alberi, gli sguardi degli animali), la dolcezza e l'eterea figura delle ragazze contrastano con le rigide norme di comportamento dell'epoca vittoriana (della dura disciplina e dell'oppressione fra le quattro mure del college fa le spese soprattutto la fragile e sensibile Sara, orfana e indifesa, che vive in adorazione della compagna Miranda). Anche per questo, nonostante il tripudio di pizzi, abiti bianchi, fiori e poesie, il film non risulta assolutamente melenso, e al posto del sentimentalismo troviamo la suspense e – come abbiamo visto – una continua tensione sessuale (che si tratti di iniziazione o di repressione). A renderlo indimenticabile, oltre alla colonna sonora, ci sono l'eccellente regia, la splendida fotografia (molte sequenze sono incredibilmente pittoriche), i vertiginosi scenari e le intense interpretazioni (magnifica la galleria di volti delle protagoniste: "Miranda è un dipinto del Botticelli", dice l'istitutrice francese). Ai numerosissimi personaggi, anche quelli minori, rendono giustizia molti bravi attori: spiccano, fra i tanti, Rachel Roberts nei panni dell'autoritaria Miss Appleyard, la direttrice del collegio, e Anne Louise Lambert in quelli della bellissima Miranda (nome shakesperiano...), personaggio centrale nonostante compaia solo nella prima mezz'ora di film. Il romanzo originale di Joan Lindsay (e in parte anche il lungometraggio) lasciava intendere che la vicenda narrata fosse tratta da una storia vera, di cui però non vi è menzione nella stampa dell'epoca. Il successo del film (una delle prime pellicole australiane a raggiungere una certa notorietà internazionale) ha dato un forte impulso alla carriera del bravissimo regista. Nel 2018 dal romanzo di Lindsay è stata tratta anche una miniserie televisiva in sei episodi.

9 maggio 2011

Terminator Salvation (McG, 2009)

Terminator Salvation (id.)
di McG – USA 2009
con Christian Bale, Sam Worthington
**

Visto in DVD, con Martin.

Siamo nel 2018: la guerra fra uomini e macchine è ormai in corso da quasi quindici anni (ovvero dalla conclusione di "Terminator 3") e John Connor (Bale), riconosciuto da tutti come uno dei leader – anche se non l'unico – della resistenza, cerca di rintracciare e di proteggere Kyle Reese (Anton Yelchin), il ragazzo che è destinato a diventare suo padre (come John sa grazie alle registrazioni lasciategli dalla madre). Troverà un alleato in Marcus Wright (Worthington), condannato a morte per omicidio nel 2003 e risvegliatosi inconsapevolmente come cyborg, che lo aiuterà a penetrare nel quartier generale di Skynet e persino ad affrontare il primo Terminator T-800 (le cui sembianze, quelle di uno Schwarzenegger giovane e ipermuscoloso, sono state ovviamente ricostruite al computer). Il quarto episodio della franchise – il primo senza Schwarzy – segna un notevole stacco rispetto ai tre precedenti: per la prima volta la vicenda non è ambientata nel presente ma nel futuro (di cui si erano intravisti finora soltanto brevi flash), non mette un Terminator al centro della storia e non fa uso del meccanismo del viaggio temporale. Oltre che un sequel, tecnicamente è anche un prequel, visto che si svolge prima degli eventi che hanno messo in moto il primo film (ovvero il viaggio di Kyle indietro nel tempo). Worthington ruba spesso la scena a Bale: nei progetti iniziali, il cyborg avrebbe dovuto essere il protagonista assoluto della pellicola ed essere interpretato proprio da Bale; ma quando questi ha manifestato il desiderio di vestire invece i panni di John Connor, lo script è stato modificato per ampliarne il ruolo. Piccole parti per Helena Bonham Carter (la scienziata che trasforma Marcus in cyborg), Bryce Dallas Howard (Kate, la moglie di John, che nel terzo film era interpretata da Claire Danes) e Michael Ironside (il generale a capo dei ribelli). Il regista (l'ex discografico Joseph McGinty, che si firma con uno pseudonimo e che finora era noto al cinema solo per i due brutti film sulle Charlie's Angels) dirige senza infamia e senza lode, concedendosi anche qualche spettacolare piano sequenza, come nella scena iniziale in cui John Connor tenta di fuggire in elicottero ma viene abbattuto. Le aspettative erano basse, e il risultato non fa che confermarle, ma nel complesso bisogna dar atto al film – che pure non brilla per originalità e ripropone situazioni già viste in molte pellicole SF/horror d'azione e post-apocalittiche – di essere riuscito in qualche modo a sterzare la saga in nuove direzioni. Certo, del cupissimo futuro che Cameron ci aveva lasciato intravedere, quello con pile di teschi umani schiacciati dai cingoli dei carri robotici, non c'è traccia: sembra di trovarsi in uno dei seguiti di "Resident Evil", e il fascino è decisamente minore.

8 maggio 2011

Terminator 3: Le macchine ribelli (J. Mostow, 2003)

Terminator 3: Le macchine ribelli (Terminator 3: Rise of the Machines)
di Jonathan Mostow – USA 2003
con Arnold Schwarzenegger, Nick Stahl
**1/2

Rivisto in DVD.

John Connor credeva di essere riuscito a scongiurare l'avvento del "giorno del giudizio" (ovvero il momento in cui la rete informatica Skynet avrebbe sviluppato l'autocoscienza e lanciato un attacco nucleare contro l'umanità, dando inizio alla rivolta delle macchine), ma in realtà lo aveva solo rinviato. Dieci anni dopo gli eventi di "Terminator 2", un nuovo cyborg proveniente dal futuro (questa volta di aspetto femminile: la terminatrix T-X) giunge per dare la caccia a lui e a coloro che diventeranno i suoi luogotenenti, compresa la veterinaria Kate Brewster, sua futura moglie e braccio destro. Proprio Kate ha inviato a sua volta indietro nel tempo un altro Terminator, riprogrammato per proteggere John e sé stessa e assicurarsi che sopravvivano al disastro nucleare. Forse non c'era bisogno di nuovi capitoli della saga (come dimostra il mancato coinvolgimento di Cameron), ma almeno il semisconosciuto Mostow non stravolge lo spirito dell'originale e riesce addirittura a rimediare ai "danni" del secondo capitolo, rimettendo la storia su binari più stabili e correggendo alcuni paradossi temporali (creandone però di altri: come fa il cyborg "buono" a essere già dotato di senso dell'umorismo e addestrato a non fare vittime umane?). Anche se è ambientato tutto in un solo giorno, la struttura del film ricalca da vicino quella dei due lungometraggi precedenti, e in particolare quella di "Terminator 2", con tanto di caccia all'uomo e lotta fra due androidi (con quello cattivo più avanzato e dotato di capacità mimetiche). Certo, il film non ha lo stesso impatto degli primi due episodi, e da un punto di vista tecnico e artistico il confronto con le pellicole di Cameron risulta tutto a suo svantaggio: è più semplice e lineare, meno ambizioso e sofisticato, e punta solo a intrattenere il pubblico (riuscendoci peraltro abbastanza bene) senza innovare od offrire particolari suggestioni (bello comunque il finale apocalittico). Eppure è salvato da una buona dose di ironia (l'arrivo di Schwarzenegger parodizza quelli dei primi due film: esilarante la scena in cui inforca i frivoli occhiali dello stripper di un locale per sole donne) e da alcune adrenaliche sequenze d'azione (su tutte l'inseguimento con l'autogru che devasta l'intera strada). L'unico attore a tornare dagli episodi precedenti, oltre a Schwarzy, è Earl Boen, lo psicologo della polizia che fa una breve comparsata. Linda Hamilton è invece assente: apprendiamo infatti che Sarah Connor è morta, e che da allora John si è dato alla fuga da sé stesso e dalle sue responsabilità. Deludente, tutto sommato, Kristanna Loken nei panni della Terminatrix: peccato, perché l'idea di un'antagonista femminile era buona (divertente l'espressione orgasmica che assume quando si rende conto che il suo bersaglio primario, ossia John Connor, è nelle vicinanze), mentre Nick Stahl e la simpatica Claire Danes in quelli di John e Kate non lasciano particolare impressione (tanto che nel quarto film verranno entrambi sostituiti da altri attori). Per Schwarzy, che ormai inizia a mostrare i suoi anni (i muscoli sono frutto della computer grafica!), è stato l'ultimo ruolo da protagonista prima di dedicarsi alla politica e diventare governatore della California. Curiosa una citazione da "Commando" ("Hai detto che mi lasciavi andare!" – "Ho mentito"). La scena in cui Schwarzy porta sulla spalla la bara di Sarah Connors, piena di armi, potrebbe invece essere un omaggio a "Django". Nella base militare dove viene risvegliata Skynet si possono ammirare i prototipi dei velivoli robotici che le macchine useranno nel futuro e persino degli stessi Terminator (naturalmente il modello è T-1!): e in una scena tagliata, Schwarzy interpreta un sergente dell'esercito le cui fattezze verranno prese a modello per la costruzione dei futuri robot.

6 maggio 2011

Terminator 2: Il giorno del giudizio (J. Cameron, 1991)

Terminator 2: Il giorno del giudizio (Terminator 2: Judgment Day)
di James Cameron – USA 1991
con Arnold Schwarzenegger, Linda Hamilton
**1/2

Rivisto in DVD.

Dopo il fallimento della missione del primo Terminator – che dal 2029 era stato spedito indietro nel tempo per eliminare Sarah Connor, la madre del capo dei ribelli, prima che questi nascesse – il computer Skynet ha inviato una nuova macchina da guerra per uccidere John Connor quando è ancora un ragazzino. Ma stavolta a difendere lui e la madre sarà un altro androide, un Terminator riprogrammato nel futuro dallo stesso John con l'incarico di proteggere sé stesso. Il che consente a Schwarzenegger, ormai consolidatosi come divo del cinema d'azione (nel 1984, invece, era ancora all'inizio della sua carriera cinematografica), di interpretare il ruolo dell'eroe, lasciando quello dell'antagonista a Robert Patrick nei panni del temibile T-1000, robot composto di metallo liquido e in grado di alterare le proprie fattezze (assumendo l'aspetto di chiunque o modellando parti del proprio corpo in lame affilate). Oltre a sopravvivere alla caccia che dà loro il terribile nemico, Sarah (una Linda Hamilton muscolosissima, trasformatasi in una vera e propria guerrigliera) e John (il tredicenne Edward Furlong, al suo esordio sullo schermo) cercheranno di impedire la nascita di Skynet distruggendo il laboratorio dove gli scienziati stanno mettendo a punto il nuovo network informatico (ispirandosi al chip ritrovato sette anni prima fra i rottami del primo Terminator). E alla fine, sembra in effetti che il successo arrida: "Il futuro, di nuovo ignoto, scorre verso di noi".

Pur riconoscendo alla pellicola il forte impatto spettacolare (e l'enorme influenza che ha avuto sull'industria del cinema d'azione e d'intrattenimento), confesso di non essere mai riuscito ad amare più di tanto questo film. Già il semplice fatto che sia un sequel del primo "Terminator", che era narrativamente esauriente e completo nella sua circolarità, mi fa storcere il naso: e questo senza considerare il cambio di caratterizzazione dei personaggi principali (Sarah e Schwarzy) e le numerose contraddizioni (nel primo film si affermava che la macchina del tempo era stata distrutta dopo la partenza di Reese e del primo Terminator; che in assenza di tessuti viventi – come nel caso del T-1000 – non si poteva viaggiare nel tempo; e soprattutto, si lasciava intendere che il futuro non poteva essere cambiato, anzi era stato il viaggio stesso di Reese a causare la nascita di John Connor, mentre stavolta le azioni dei personaggi alterano eccome lo svolgersi degli eventi: non un dettaglio di poco conto ma una "rivoluzione" che in un film di SF basato sui paradossi temporali ne stravolge l'intera filosofia). In più, storia e dialoghi soffrono per un pizzico di retorica e di buonismo (il robot che impara il significato delle lacrime, il bambino – insopportabile, come quasi tutti i bambini nei film di questo tipo – che lo comanda a bacchetta come un giocattolo e gli chiede di non uccidere nessuno) e il racconto procede in maniera più farraginosa ed elaborata rispetto alla relativa semplicità del prototipo. Innegabile, comunque, la maestria di Cameron nelle scene d'azione, che hanno fatto scuola nel genere dell'action ad alto budget (il film è costato oltre 100 milioni di dollari, contro i 6,5 milioni del prototipo, e all'epoca si trattava del lungometraggio più costoso mai realizzato: in seguito, tuttavia, il regista canadese saprà anche superarsi).

Oltre agli spettacolari inseguimenti (che coinvolgono auto, moto, camion, elicotteri), alle sparatorie e alle esplosioni di ogni tipo, alla sua uscita la pellicola affascinò gli spettatori per gli innovativi effetti speciali digitali: le trasformazioni del T-1000, in particolare, rappresentarono uno dei primi casi di utilizzo della computer grafica per dare vita a un personaggio realistico che si muove in ambienti in live action (una tecnica che lo stesso Cameron aveva già sperimentato nel suo precedente "Abyss"). Molte scene e situazioni ne richiamano di analoghe del primo film: dall'incipit (i due viaggiatori del tempo che appaiono nudi in una bolla di energia e che devono procurarsi gli abiti) allo scontro finale in una fabbrica. Ma se nei primi minuti lo spettatore è portato a credere che Schwarzy sia ancora il cattivo e che Robert Patrick faccia le veci del salvatore di Sarah, come nel film del 1994 era stato Michael Biehn, ben presto si scopre che questa volta le cose non stanno così. Indicativo come le iniziali del futuro "messia" John Connor, destinato a salvare l'umanità, siano le stesse (in inglese) di... Gesù Cristo! Ma in fondo sono anche le stesse del regista, James Cameron. Da notare che nell'edizione italiana, quando Scharzy dice "Hasta la vista, baby" prima di sparare al T-1000, non è doppiato: si tratta della sua vera voce. Oltre ad Arnold e alla Hamilton, dal primo film ritorna anche il personaggio interpretato da Earl Boen, lo psichiatra della polizia. Una curiosità: al suo quinto lungometraggio, Cameron poteva già contare nella sua filmografia ben tre sequel: "Piraña paura", "Aliens scontro finale" e questo (l'unico di cui aveva girato anche il prototipo).

5 maggio 2011

L'ultimo dominatore dell'aria (M. N. Shyamalan, 2010)

L'ultimo dominatore dell'aria (The Last Airbender)
di M. Night Shyamalan – USA 2010
con Noah Ringer, Dev Patel
*1/2

Visto in divx, con Hiromi.

In un mondo fantastico, diviso in quattro regni legati agli elementi naturali (acqua, aria, terra e fuoco), la belligerante nazione del fuoco progetta di conquistare l'intero pianeta e dà la caccia ad Aang, ragazzino in grado di dominare tutti gli elementi e di comunicare con gli spiriti, destinato a riportare la pace e l'equilibrio fra le genti. Da un cartone animato (americano, anche se chiaramente ispirato ai manga giapponesi) che in originale si intitolava "Avatar" – ma far uscire un lungometraggio con quel titolo nello stesso anno del kolossal di James Cameron era impensabile – e con un soggetto che non brilla per originalità, Shyamalan trae un film dal plot schematico e dai personaggi caratterizzati ingenuamente: le critiche non sono mancate, anche se bisognerebbe considerare che si tratta di una pellicola indirizzata a un pubblico infantile, il cui vero limite è quello di non presentare particolari motivi di interesse per uno spettatore adulto. La figura dell'Avatar, che si reincarna di generazione in generazione nel rappresentante di un diverso regno (nell'attuale "ciclo", come suggerisce il titolo, Aang fa parte dei nomadi dell'aria), è chiaramente ispirata al Dalai Lama; ma un po' tutto il mood della pellicola è asianeggiante: il popolo del fuoco, per esempio, è di etnia indiana, proprio come il regista stesso. Il livello degli attori, quasi tutti giovanissimi, è abbastanza mediocre (fra i meno peggio c'è Dev Patel, già protagonista di "Slumdog Millionaire", nei panni del cattivo – ma non troppo – principe Zuko), e le scene d'azione e di battaglia trasmettono ben poca emozione o adrenalina. Il finale aperto lascia intendere che è previsto un seguito per completare la storia, ma visto il basso gradimento di critica e pubblico non è affatto detto che verrà realizzato. Ah, ovviamente del 3D se ne può fare allegramente a meno.

3 maggio 2011

Il pranzo di Babette (G. Axel, 1987)

Il pranzo di Babette (Babettes gæstebud)
di Gabriel Axel – Danimarca 1987
con Stéphane Audran, Birgitte Federspiel, Bodil Kjer
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele, Ilaria e Paola.

L'ex cuoca di un ristorante francese, fuggita da Parigi in seguito ai disordini della Rivoluzione, si rifugia come domestica nella casa di due anziane sorelle in uno sperduto villaggio di pescatori sulla costa della Danimarca, e riporta pace e felicità nella locale comunità di religiosi luterani preparando un raffinatissimo pranzo che li aiuterà a vincere rimpianti e risentimenti e a conquistare una nuova armonia. La soddisfazione (gastronomica) del corpo come via per soddisfare l'anima, il cibo come catalizzatore della spiritualità, il "vizio" (al quale i puritani accomunano ogni piacere terreno, comprese dunque le pietanze di Babette) come strada per la virtù ("Misericordia e verità si sono incontrate, rettitudine e felicità si sono baciate", recita il decano della comunità): gli spunti alla base del film (tratto da un racconto di Karen Blixen, e "caso" cinematografico del 1987, con tanto di premio Oscar per il miglior film straniero) sono semplici ma densi di significati. Ai religiosi che vivono in preghiera e in arida austerità, avendo dimenticato come amare il mondo che li circonda, Babette con il suo pranzo insegna ad apprezzare veramente i doni di Dio, e che si può elevare lo spirito anche attraverso una celebrazione mondana. Allo stesso modo aiuta l'anziano generale Löwenhielm (Jarl Kulle), che in gioventù aveva amato una delle due sorelle ma aveva poi preferito dedicare la propria vita alla carriera militare, a superare i rimpianti e a raggiungere un nuovo equilibrio. Alcuni degli attori che interpretano gli abitanti del villaggio avevano recitato nei film di Carl Theodor Dreyer: Lisbeth Movin e Preben Lerdorff Rye (la vedova e il capitano), per esempio, erano i protagonisti di "Dies irae". Cameo di Bibi Andersson (la dama di corte che sposa il generale). Impossibile non farsi venire l'acquolina in bocca nel veder passare sullo schermo le varie portate (brodo di tartaruga, Blinis Dermidoff al caviale, cailles in sarcofage – quaglie ripiene in crosta di pasta sfoglia – con salsa Périgourdine, insalata, formaggi, savarin al rhum, frutta mista, caffè con tartufi, friandises) e i vini (Amontillado bianco ambra, champagne Vouve Cliquot) del ricercatissimo menù.

1 maggio 2011

Thor (Kenneth Branagh, 2011)

Thor (id.)
di Kenneth Branagh – USA 2011
con Chris Hemsworth, Natalie Portman
**1/2

Visto al cinema Uci Assago (in 3D), con Hiromi.

Esiliato dal padre Odino sulla Terra per punirlo della sua arroganza e della sua sete di guerra (ma anche per colpa degli intrighi del perfido fratellastro Loki), il dio del tuono di Asgard si innamora di una mortale (l'astrofisica Jane Foster), apprende il significato dell'umiltà e affronta, armato del magico martello Mjollnir, la furia del terribile Distruttore. Il più improbabile, magniloquente e altisonante degli eroi Marvel esordisce sul grande schermo (preannunciato da una breve scena apparsa al termine di "Iron Man 2") in una pellicola epica e disimpegnata, che non tradisce lo spirito del fumetto originale: le molte libertà nei confronti delle saghe e delle leggende nordiche provengono da lì, e dunque non sarebbe giusto darne le colpe agli sceneggiatori o al regista di questo film; regista che dal suo canto sembra trovarsi a proprio agio nelle vaste aule del regno degli dèi, fra intrighi di corte e personaggi di chiara derivazione shakesperiana. E il suo divertimento riesce a contagiare anche il pubblico, a patto di non fermarsi a prendere troppo sul serio quello che si sta guardando: in fondo è quello che ci si aspetta quando si va a guardare un film di supereroi. Le spettacolari scenografie di Asgard, con la loro commistione di fantasy e fantascienza, rendono giustizia all'imponenza dei disegni di Jack Kirby, mentre il cast (che comprende Anthony Hopkins nel ruolo di Odino e Tom Hiddleston in quello di Loki) non delude, anche se trovarsi di fronte ad asgardiani asiatici (Tadanobu Asano nei panni di Hogun) o di colore (Idris Elba in quelli di Heimdall, il guardiano del Ponte dell'Arcobaleno) desta francamente qualche perplessità. L'australiano Hemsworth è simpatico e ha i muscoli e il fisico giusto per Thor, mentre la Portman – che ha accettato il ruolo solo per poter lavorare con Branagh – recita con la solita grazia e ironia in un ruolo un po' sacrificato (da notare che nel fumetto Jane era un'infermiera, non una scienziata: ma nel cambio ci si guadagna). Gli altri asgardiani sono Josh Dallas (Fandral), Ray Stevenson (Volstagg), Jaimie Alexander (Sif) e Rene Russo (Frigga, la moglie di Odino), mentre il cast dei terrestri è completato da Stellan Skarsgård (il fisico Erik Selvig: scritturato per avere almeno un attore scandinavo?), Kat Dennings (la spalla comica Darcy) e Clark Gregg (Coulson, agente dello S.H.I.E.L.D. che ritorna da "Iron Man" per fungere da trait d'union in previsione dell'imminente "Avengers"). Molte le "chicche" marvelliane: dai fugaci accenni a Tony Stark e Bruce Banner al consueto cameo di Stan Lee (è l'uomo che guida il pick-up per tentare di estrarre il martello dalla roccia), fino all'apparizione di Clint Barton, il soldato armato di arco, che altri non è se non il supereroe Hawkeye, alias Occhio di Falco. Un manifesto pubblicitario visibile nelle strade della cittadina del New Mexico dove si svolge parte della vicenda, infine, riporta il titolo del comic book che originariamente ospitava le avventure di Thor: "Journey into Mistery".