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29 marzo 2023

Mouchette (Robert Bresson, 1967)

Mouchette - Tutta la vita in una notte (Mouchette)
di Robert Bresson – Francia 1967
con Nadine Nortier, Jean-Claude Guilbert
***

Rivisto in divx.

La quattordicenne Mouchette (Nadine Nortier) vive con la madre malata e il padre ubriacone e violento in un villaggio nella campagna francese. Qui è ostracizzata dalle compagne, sfruttata dalla famiglia, incompresa da tutti. Dopo la morte della madre, e dopo essere stata violentata da un cacciatore in una notte di tempesta, prenderà la decisione più drastica. Tratto dal romanzo "Nouvelle histoire de Mouchette" (1937) di Georges Bernanos, un altro ottimo esempio del cinema esistenzialista e minimalista di Bresson: nonostante la sua breve durata, è estremamente intenso dal punto di vista emotivo e, soprattutto, non sfiora mai la retorica o il patetismo. Anzi, Mouchette, pur umiliata e maltrattata (tanto dagli uomini quanto dal destino), mostra sempre uno sguardo orgoglioso e non nasconde la propria rabbia, il proprio odio e disprezzo verso il mondo e le persone che la circondano. Lo si nota da mille piccoli gesti, evidenti (il lancio di fango verso le compagne di scuola) o meno (la "stonatura" dell'ultima nota durante il coro in classe: più tardi, quando canterà la stessa canzone per Arsène, sarà perfettamente intonata), spesso anche in risposta a gesti apparentemente gentili ma ipocritamente convenzionali (la rottura della tazza della negoziante, lo sporcare il tappeto dell'anziana che le regala il lenzuolo funebre per la madre). E per essere un personaggio che parla pochissimo, quando lo fa non esita a lasciarsi andare a invettive anch'esse esplicite (come quel "Merda" di ribellione verso il padre, o il "Mi fate solo schifo!", nel finale, rivolto idealmente all'intero villaggio). Curiosamente, l'unica persona verso la quale mostra una certa tenerezza ed empatia (a parte il giovane che le sorride durante il breve momento di svago al luna park, quando grazie alla gentilezza di una sconosciuta può permettersi uno giro sugli autoscontri) è proprio Arsène, l'uomo che si approfitta di lei. E la sua ribellione non può sfociare in una vera fuga se non sotto forma del suicidio che Bresson rappresenta sullo schermo in maniera originale ed esemplare, in una scena finale memorabile, quella in cui la ragazzina, avvolta nel lenzuolo, si lascia rotolare lungo la collina più volte, fino a finire dentro lo stagno. Personaggio indimenticabile, Mouchette attraversa tutta la pellicola con forza e intensità, mentre l'ambiente crudele in cui vive è descritto tramite tanti piccoli dettagli (si pensi alla "faida" fra il cacciatore di frodo Arsène e il guardiacaccia Mathieu: e i vari animaletti catturati o uccisi, uccellini e leprotti, simboleggiano l'innocenza e la gioventù). Sui titoli di testa e di coda si ode il "Magnificat" di Claudio Monteverdi. Jean-Claude Guilbert, che interpreta Arsène, aveva già recitato per Bresson nel precedente "Au hasard Balthazar": cosa rara per il regista, che quasi mai lavorava più volte con gli stessi attori.

27 marzo 2023

Au hasard Balthazar (R. Bresson, 1966)

Au hasard Balthazar (id.)
di Robert Bresson – Francia/Svezia 1966
con Anne Wiazemsky, François Lafarge
***1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

L'asinello Balthazar, nel corso della sua vita (il film lo segue dalla nascita alla morte) passa di mano in mano, da un padrone all'altro, da chi lo accudisce con cura a chi lo maltratta o lo sfrutta per duri lavori; e nel frattempo è testimone silenzioso e osservatore delle vicende umane, delle peripezie e delle crudeltà che si dipanano intorno a lui. Ispirato (pare) da un passaggio ne "L'idiota" di Dostoevskij, e ambientato nella campagna sui Pirenei francesi, uno dei capolavori di Bresson, sicuramente uno degli esempi migliori del suo cinema puro, minimalista, trasparente ed essenziale, anche se la forma corale e circolare (spesso Balthazar torna a incrociare gli stessi personaggi) può ricordare certe cose di Max Ophüls ("La ronde", "I gioielli di Madame de..."). I protagonisti dei film del regista francese sono spesso silenziosi (si pensi a Mouchette o al Fontaine de "Un condannato a morte è fuggito"), ma mai come in questo caso il mutismo si applica così alla lettera, visto che l'asino, a parte qualche raglio occasionale, si limita a osservare con i suoi occhi profondi le tragedie che si dipanano attorno a lui, quasi cercando di indagare la natura umana, e passando dai giochi con i piccoli Marie e Jacques (lei figlia del fattore che ha in gestione le terre del padre di lui), al duro lavoro nei campi, al servizio come cavalcatura per turisti sulle montagne, alle esibizioni in un circo, al girare la ruota di un mulino, al trasporto di merce di contrabbando. Un'intera vita, quella dell'animale, che ne racchiude mille: quella di Marie (Anne Wiazemsky) che, cresciuta, rifiuta la proposta di matrimonio di Jacques (Walter Green) per mettersi invece con Gérard (François Lafarge), giovane delinquente locale; quella di Arnold (Jean-Claude Guilbert), l'ubriacone del villaggio, che passa da momenti di grande fortuna a inaspettate tragedie; quella del vecchio mugnaio (Pierre Klossowski), cinico e avaro; o del padre di Marie (Philippe Asselin), orgoglioso e ostinato. Il tutto sullo sfondo di una campagna e di una provincia arcaica e arretrata, dove i pochi aspetti di modernità sono collegati alla ribellione adolescenziale dei giovani delinquenti (Gérard e i suoi amici, che indossano giubbotti di pelle e vanno in giro in moto), mentre proprio l'asino è percepito come qualcosa di antiquato e socialmente dequalificante. Ognuno degli episodi in cui si può dividere la storia è associato a uno dei sette peccati capitali (orgoglio, avidità, ira, invidia, lussuria, gola e accidia): Bresson dichiarerà in seguito che Balthazar simboleggia la fede cristiana (in una delle scene iniziali, viene "battezzato" dai due bambini; e più avanti la madre di Marie lo definisce "un santo"), che accetta con passività ogni maltrattamento e martirio, e nel finale muore da solo ma finalmente libero, su una montagna, circondato da un gregge di pecore. Come colonna sonora, per l'intera vicenda, c'è la sonata n. 20 per pianoforte di Schubert.

28 novembre 2020

Processo a Giovanna d'Arco (R. Bresson, 1962)

Processo a Giovanna d'Arco (Procès de Jeanne d'Arc)
di Robert Bresson – Francia 1962
con Florence Delay, Jean-Claude Fourneau
**1/2

Visto in divx.

Processata a Rouen da un tribunale ecclesiastico asservito agli invasori inglesi, la "pulzella di Orléans" – che afferma di udire nella sua testa le voci di santa Caterina e santa Margherita e il conforto di san Michele, che le avrebbero intimato di prendere le armi in favore del re di Francia – viene condannata a morte come eretica (in quanto ritiene di poter comunicare con Dio senza la mediazione della chiesa e dei sacerdoti) e bruciata sul rogo. Tratto direttamente dagli atti e dalle minute del processo del 1431, nonché dalle deposizioni e testimonianze di quello di venticinque anni dopo, che riabilitò Giovanna, il film è breve (dura solo 65 minuti), asciutto e privo di qualsivoglia fronzolo, com'è nello stile di Bresson. Impossibile però non fare un confronto con il capolavoro di Dreyer, "La passione di Giovanna d'Arco" del 1928, che – forse perché muto – era molto più intenso e "spirituale". Questo si dipana in maniera più meccanica e distaccata, come un resoconto stenografico o la ricostruzione di una seduta in tribunale: tantissime domande su dettagli spesso insignificanti (ma, immagino, teologicamente importanti), cui Giovanna risponde sempre con raziocinio e dignità, rifiutando di farsi trascinare dove gli inquisitori vorrebbero. Anche le inquadrature sono sempre le stesse, ripetute uguali e inserite nel ritmo monotono della pellicola. Fra i pregi: il rigore, la compostezza e il senso di austerità (favorito dal bianco e nero), che fanno percepire, se non le emozioni, la trascendenza e la spiritualità (come era in Dreyer), quanto meno il peso della storia e la posta in gioco. Gli interpreti, come capita spesso nei film del regista, sono attori non professionisti: Florence Delay (accreditata come Florence Carrez) diventerà una scrittrice; Jean-Claude Fourneau (che interpreta il vescovo Cauchon) era un pittore surrealista.

1 luglio 2020

Diario di un ladro (Robert Bresson, 1959)

Diario di un ladro (Pickpocket)
di Robert Bresson – Francia 1959
con Martin LaSalle, Marika Green
***

Visto in divx.

Il punto di forza di Bresson è senza dubbio l'estremo rigore che riversa tanto nella forma quanto nei contenuti delle sue pellicole. Per certi versi "Pickpocket" mi ha ricordato il suo film che finora mi era piaciuto di più, ovvero "Un condannato a morte è fuggito", anche se il tema trattato è, almeno all'apparenza, ben diverso: ma lo stile asciutto, quasi documentaristico, e il tentativo di scavare nell'anima del personaggio principale, solo contro tutti (per obbligo più che per scelta), resta identico. Michel (Martin LaSalle), il protagonista, è un giovane disoccupato che per disperazione diventa un borseggiatore. Nonostante il suo miglior amico, una sua graziosa vicina di casa (Marika Green) e persino un poliziotto (Jean Pélégri) cerchino di rimetterlo sulla retta via, lui prosegue nella sua “professione” fino a quando, inesorabilmente, non verrà arrestato. Ma proprio nel punto più basso della sua vita, quando addirittura arriverà a meditare propositi di suicidio, troverà inaspettatamente un amore salvifico. Bresson indugia sui movimenti delle dita e sui piccoli trucchi usati dai borseggiatori per sfilare portafogli e orologi senza essere visti (Michel che si allena sembra quasi un Oliver Twist cresciuto), e i titoli di testa accreditano persino un certo Kassagi – che interpreta il complice di Michel – come "consulente tecnico per le gesta dei ladri". Notevole la tensione di alcune scene, costruita quasi completamente con la scelta delle inquadrature: per esempio quando la macchina da presa rimane fissa sul volto di Michel, mentre noi sappiamo che le sue mani stanno sfilando un portafogli, oppure quando si muove rivelandoci solo all'ultimo minuto – e spesso in ritardo rispetto all'onnipresente voce fuori campo del protagonista – un elemento chiave che genera sorpresa (il volto di un personaggio del quale avevamo visto solo i piedi, oppure la bambina che gioca per terra nella stanza). Michel, la cui disperazione sembra avergli alienato ogni fiducia nell'esistenza o nel genere umano, è un personaggio ai limiti dell'amoralità che trova nel finale una sorta di redenzione quasi divina (e dire che poco prima dichiara di essere ateo: "Ho creduto in Dio... per tre minuti"). La sceneggiatura, dello stesso Bresson, è originale (è il primo film del regista francese a non essere tratto da un testo pre-esistente). Il film ha influenzato, fra gli altri, Paul Schrader, che vi si è ispirato per i propri film e per la sceneggiatura di "Taxi Driver".

13 giugno 2020

Un condannato a morte è fuggito (R. Bresson, 1956)

Un condannato a morte è fuggito (Un condamné à mort s'est échappé)
di Robert Bresson – Francia 1956
con François Leterrier, Charles Le Clainche
****

Rivisto in DVD.

Nel 1943, nella Francia occupata dai tedeschi, il membro della resistenza Fontaine (Leterrier) viene rinchiuso nella prigione di Fort Montluc a Lione, in attesa di un processo dall'esito scontato. Nei tre mesi in cui attende la sua condanna a morte, però, progetta e mette in atto una meticolosa fuga: dapprima scavando con un cucchiaio di metallo fra le assi di legno massiccio della porta della sua piccola cella; e poi calandosi di notte lungo le mura e sopra il fossato del carcere, con l'aiuto di un compagno (Le Clainche) e grazie alle funi che ha realizzato con i propri abiti, le coperte e il filo della rete del letto. Dalle memorie autobiografiche del partigiano André Devigny, il capolavoro di Bresson e del cinema essenziale e minimalista. La didascalia introduttiva, firmata dal regista, afferma: "Questa è una storia vera, la propongo così com'è, senza ornamenti". E infatti il film – che reca il sottotitolo "Il vento soffia dove vuole", da un passo dal vangelo secondo Giovanni – riesce a costruire una tensione elevata e costante senza bisogno di ricorrere a fronzoli, sovrastrutture, elementi spuri o inutili: la quintessenza del cinema che piace a me. Accompagnato soltanto dalla voce fuori campo del narratore e dalla musica sacra di Mozart (la Grande Messa in do minore K. 427), il lungometraggio mostra ogni gesto e ogni fase dell'ideazione della fuga, che il protagonista mette in atto con enorme pazienza e certosino lavoro, senza mai rassegnarsi di fronte alle difficoltà o agli imprevisti, e cogliendo l'occasione quando questa si presenta al momento giusto. La sua storia è quasi una celebrazione dello spirito umano che non si lascia piegare nemmeno nelle situazioni peggiori e lotta sempre e comunque per sopravvivere. Attorno a Fontaine i carcerieri sembrano figure fugaci ed evanescenti, mentre la macchina da presa è sempre fissa sul suo volto e talvolta su quello dei compagni di prigionia, fra i quali cerca complici per l'evasione, scontrandosi con la paura e la rassegnazione e trovandone infine uno in un giovane soldato collaborazionista accusato di diserzione, del quale inizialmente non sa nemmeno se può fidarsi. La regia mirabile e asciutta di Bresson si prende i tempi necessari, focalizza l'attenzione sui gesti (ognuno dei quali assume un proprio valore e significato: non in sé stesso o in chiave simbolica, ma perché indispensabile e irrinunciabile anello di una catena che porta alla libertà) e rende coinvolgente quasi ogni sequenza: memorabile quella in cui, durante la fuga, Fontaine è costretto a uccidere una sentinella, azione che avviene fuori inquadratura e che ci viene comunicata solo attraverso il sonoro. Lo stesso Bresson fu rinchiuso per un anno in un campo di prigionia tedesco durante la seconda guerra mondiale. La pellicola vinse il premio per la miglior regia al festival di Cannes.

19 marzo 2017

Diario di un curato di campagna (R. Bresson, 1951)

Diario di un curato di campagna (Journal d'un curé de campagne)
di Robert Bresson – Francia 1951
con Claude Laydu, Nicole Ladmiral
***

Visto in divx.

Un giovane curato (Laydu), appena uscito dal seminario, viene assegnato alla parrocchia di Ambricourt, piccolo paese di campagna nel nord della Francia. Umile e ascetico, il giovane si sente a disagio nella sua missione, essendo fra l'altro poco interessato ai bisogni materiali (al punto da trascurare anche la propria salute, decisamente cagionevole) e semmai più incline al misticismo. Anche per questo motivo non è ben visto dai suoi parrocchiani: le bambine del catechismo lo sbeffeggiano e – poiché si nutre solo di pane e di vino – si sparge la voce che sia un alcolizzato. Come da titolo, il curato affida i suoi pensieri e le sue preoccupazioni alle pagine di un diario, che vengono lette dalla sua voce narrante nell'arco di tutta la pellicola: all'inizio è un modo per documentare i piccoli episodi della vita quotidiana, ma poi si traduce in un tentativo di fare chiarezza nei tormenti dello spirito. Ben diverso da lui è l'anziano e pragmatico curato del vicino villaggio di Torcy (Adrien Borel), che oltre a consigliargli di "pregare di più" gli suggerisce di stringere relazioni più strette con i suoi parrocchiani, in particolare con la nobiltà del luogo. Tutto ciò comporterà però ulteriori incomprensioni: mentre l'anziana contessa (Rachel Berendt) si strugge nel ricordo del figlio morto, il conte (Jean Riveyre) ha una relazione clandestina con l'istitutrice della figlia Chantal (Nicole Ladmiral), la quale è una ragazzina piena d'odio, che nutre sentimenti ambivalenti verso il giovane prete. Le parole del curato aiuteranno la contessa a ritrovare la pace, superando solitudine e rassegnazione, ma non ridurranno l'ostilità nei suoi confronti. Il tutto mentre la sua salute peggiora sempre di più... Il terzo film di Bresson – tratto dall'omonimo romanzo di Georges Bernanos – è considerato quello della sua svolta stilistica, in cui la qualità poetico-letteraria si accompagna a uno stile asciutto e minimalista che non concede alcunché al melodramma o allo spettacolo, a costo di risultare un po' pesante durante la prima visione (le visioni ripetute, però, sono quanto mai ripaganti!). Il regista francese comincia qui a usare attori non professionisti o comunque alle prime armi (per Laydu si tratta dell'esordio), la cui recitazione austera pare a volte quasi assente. Il suo diventa un cinema di sottrazione, che sullo schermo mostra solo l'indispensabile (e cela tantissimi dettagli: per esempio ignoriamo del tutto il nome del protagonista) e che pure crea forti suggestioni nella mente dello spettatore. A concorrere a questo risultato ci sono anche gli scenari e la fotografia contemplativa, che calano la vicenda in un mondo senza tempo, una specie di limbo al di fuori della modernità (se si eccettua la scena con la motocicletta, il film potrebbe svolgersi in qualsiasi epoca; per la cronaca, il romanzo originale è del 1936): un ambiente ideale per parlare di argomenti come le sofferenze dello spirito e del corpo, la felicità e la rassegnazione, l'amore e l'odio, il rancore e il perdono, il tormento e la pace ("La pace: quanto è meraviglioso che si possa donare quel che non si ha").

27 maggio 2016

Perfidia (Robert Bresson, 1945)

Perfidia (Les dames du Bois de Boulogne)
di Robert Bresson – Francia 1945
con María Casares, Paul Bernard
***

Rivisto in divx, in originale con sottotitoli.

Per vendicarsi di Jean (Paul Bernard), l'amante che l'ha lasciata, l'intrigante parigina Hélène (María Casares) lo spinge fra le braccia della giovane Agnès (Elina Labourdette), all'apparenza una semplice ragazza di campagna, in realtà con un torbido passato da prostituta. Soltanto dopo che i due si saranno sposati, Hélène rivelerà a Jean la verità. Nonostante il disonore, però, l'uomo continuerà ad amare la ragazza. Ispirandosi a un episodio contenuto nel romanzo "Jacques il fatalista" di Diderot, Bresson realizza un dramma che a tratti può ricordare gli intrighi de "Le relazioni pericolose" (anche se in questo caso la ragazza da sedurre è tutt'altro che innocente e il seduttore è la vera vittima del complotto), coadiuvato ai dialoghi da Jean Cocteau (che si ricorderà della Casares cinque anni più tardi, quando girerà il suo "Orfeo"). Al centro dell'intreccio c'è ovviamente la morale in fatto di costumi sessuali e il contrasto fra la povera Agnès, che le circostanze avverse della vita hanno trasformato suo malgrado in una donna non onorevole, ed Hélène, dama dell'alta società ma dall'animo contorto, manipolatrice e vendicativa nei confronti dell'ingenuo Jean. Pur ambientato in epoca contemporanea, sono assenti riferimenti sociali e politici alla Francia del dopoguerra. Al suo secondo film, Bresson ricorre qui ancora ad attori professionisti e a una messa in scena tradizionale: a partire dalla pellicola successiva, "Il diario di un curato di campagna", cambierà approccio e affinerà il suo stile essenziale e minimalista.

18 febbraio 2016

La conversa di Belfort (R. Bresson, 1943)

La conversa di Belfort (Les anges du péché)
di Robert Bresson – Francia 1943
con Renée Faure, Jany Holt
***

Visto in divx.

In un convento domenicano, le suore accolgono abitualmente fra loro le ex carcerate che escono dalla vicina prigione e che intendono abbracciare una nuova vita. Una novizia, Anna Maria, ragazza di buona famiglia che ha scelto di diventare suora per aiutare le peccatrici a "trovare la serenità", si prende a cuore in modo particolare la sorte di Teresa, ex galeotta ribelle e indisciplinata, che però è entrata in convento non per vocazione ma per nascondersi dalla polizia: il giorno stesso in cui era uscita di galera, infatti, ha assassinato l'uomo che l'aveva incastrata per un furto che non aveva commesso. Buona e semplice, ma anche testarda e ostinata, Anna Maria dedica tutta sé stessa alla "redenzione" di Teresa, apparentemente senza successo: anzi, la sua eccessiva dedizione la porta a trascurare gli altri doveri e le mette contro le sue stesse sorelle, che la reputano orgogliosa e piena di sé. Fomentate in parte anche dalla "distruttrice" Teresa, nel convento nascono così tensioni, zizzannie e gelosie... Ma il "percorso parallelo verso la grazia" di Anna Maria e Teresa si concluderà insieme. Girato mentre la Francia era sotto l'occupazione tedesca, il primo lungometraggio di Bresson è ancora lontano dal suo stile asciutto e minimalista, si serve di attori professionisti e mostra più di qualche concessione al melodramma (tutti aspetti che tenderanno a sparire dal suo cinema dopo un paio di film). Eppure, per l'ambientazione e i temi religiosi (su tutti il sacrificio, la redenzione e la lotta fra bene e male), il rigore formale e l'austerità della messa in scena, già prefigura molto di quel che verrà. Alla sceneggiatura ha collaborato anche un prete domenicano, Raymond Leopold Bruckberger, insieme al drammaturgo Jean Giraudoux e a Bresson stesso.

20 gennaio 2008

Les affaires publiques (R. Bresson, 1934)

Affaires publiques, aka Les affaires publiques
di Robert Bresson – Francia 1934
con Béby, Andrée Servilanges, Marcel Dalio
**

Visto su YouTube, in originale.

Innamorata del cancelliere (Béby) della rivale repubblica di Crogandie, la principessa (Servilanges) del regno di Miremie parte in aereo per raggiungerlo, innescando un incidente diplomatico fra le due nazioni. La prima pellicola realizzata da Robert Bresson (a lungo ritenuta perduta, ma di cui negli anni ottanta è stata ritrovata una copia – in condizioni non proprio ottime – negli archivi della Cinémathèque Française) è un cortometraggio comico-surrealista, lontano anni luce dalla cifra stilistica sobria e drammatica che caratterizzerà i suoi lungometraggi nel dopoguerra. Si tratta infatti di una farsa scatenata, colma di gag che si prendono gioco della pomposità e delle cerimonie di stato (si passa dall'inaugurazione di una statua talmente noiosa da far addormentare tutti, all'esercitazione in una caserma di pompieri imbranati e pasticcioni, per terminare con il varo di una nave che affonda non appena lascia il porto). Che Bresson abbia scelto di esordire alla regia con una commedia (anche la sceneggiatura è sua, sia pure con la collaborazione di André Josset e Paul Weill) non deve però sorprendere: il cineasta francese era infatti un grande ammiratore di Charles Chaplin, e probabilmente si è ispirato anche a Max Linder, a René Clair e ai fratelli Marx. Gran parte dei ruoli comici sono affidati a Marcel Dalio, che interpreta ben quattro parti: lo speaker radiofonico, lo scultore, il comandante dei pompieri e l'ammiraglio navale. L'immagine della donna aviatrice, assai popolare in quegli anni (si pensi anche alla Katharine Hepburn de "La falena d'argento" o alla Dolores Del Rio di "Carioca"), è senza dubbio ispirata ad Amelia Earhart. Béby (vero nome Aristodemo Frediani) era un clown di origini italiane. Fra le numerose comparse ci sono i pagliacci del Cirque d'Hiver e le ragazze del Teatro Pigalle e delle Folies Bergère. La colonna sonora è di Jean Wiéner, con cui Bresson collaborerà anche negli anni sessanta.