30 dicembre 2018

Eva contro Eva (Joseph L. Mankiewicz, 1950)

Eva contro Eva (All about Eve)
di Joseph L. Mankiewicz – USA 1950
con Bette Davis, Anne Baxter
****

Visto in TV.

Mentre la giovane Eva Harrington (Anne Baxter), astro nascente del teatro, riceve un prestigioso premio durante una serata di gala, i personaggi che sono stati testimoni della sua rapida ascesa, seduti ad un tavolo vicino, ricordano gli eventi che l'hanno portata fin lì. Timida, insicura, ingenua e innocente (o almeno così sembrava), Eva era riuscita ed entrare nelle grazie di Margo Channing (Bette Davis), diva attempata ma ancora sulla cresta dell'onda, di cui si era professata ardente ammiratrice, conquistando con il proprio entusiasmo e l'amore per il teatro non solo lei ma tutto il suo entourage, dal drammaturgo Lloyd Richards (Hugh Marlowe) alla moglie di questi (e miglior amica di Margo) Karen (Celeste Holm), dal regista Bill Sampson (Gary Merrill) al produttore Max Fabian (Gregory Ratoff), fino al pungente critico Addison DeWitt (George Sanders), l'unico peraltro che riconosce Eva per quello che davvero è: una ragazza fintamente modesta ma in realtà un'ambiziosa arrampicatrice, pronta a tutto (falsità, menzogne, inganni e manipolazioni) per "spodestare" Margo e prenderne il posto (nel lavoro, ma anche negli affetti e nella vita privata). Capolavoro (uno dei tanti, perlomeno) di Mankiewicz e cinico ritratto del mondo dello spettacolo (il teatro, ma di riflesso anche il cinema: Eva disprezza Hollywood, però finirà per trasferirsi lì). Lo scontro fra le due donne, che il titolo italiano sottolinea ancora di più, è quello fra due personalità che in realtà sono quasi agli antipodi. Tanto Margo, la diva affermata, vorrebbe tornare a una vita semplice e aspira solo ad essere amata dall'uomo che ama, tanto Eva invece vive esclusivamente per il palcoscenico, si fa beffe dei reali sentimenti delle persone (che manipola con spregiudicatezza) e aspira alla fama, alla gloria, agli applausi, anche a costo di rimanere sola. "Per fare teatro bisogna dare tutti sé stessi, ci vuole ambizione, forza di volontà, abnegazione..." le viene detto: e lei non si tira indietro, calpestando ogni cosa. Nel finale, come una ruota che gira, le si presenta in stanza una giovane ammiratrice, Phoebe (Barbara Bates), pronta a farle quello che lei ha fatto con Margo (significativa la scena in cui si prova il suo costume allo specchio).

La sceneggiatura (dello stesso Mankiewicz, ispirata a un racconto di Mary Orr) è brillante e sofisticata, ricca di battute scoppiettanti e sardoniche, con tantissimi paralleli (ma anche smarcamenti) fra il teatro e la vita reale. Il mondo di Broadway è descritto come una grande famiglia, i cui componenti (attori, scrittori, registi, produttori) agiscono insieme e concorrono tutti verso un solo obiettivo: esemplare il discorso (ironicamente assai ipocrita) di Eva quando riceve il premio, in cui ringrazia tutti coloro che l'hanno portata al successo (e che pure la odiano). E grandioso il cast, dove spicca in particolare una strepitosa Bette Davis, che alterna momenti in cui il suo personaggio si mostra orgoglioso, stizzoso o geloso ad altri in cui è fragile, insicuro o rassegnato, da quando soffre per la vecchiaia che avanza a quando finalmente accetta la propria età e decide di rifiutare le parti (giovanili) che continuano a proporle ma che non le si addicono, lasciando di fatto il campo libero ad Eva. Per questo motivo la sua non è una sconfitta, ma una serena uscita di scena. Particina anche per un'allora sconosciuta Marilyn Monroe nei panni dell'attricetta Claudia Caswell: pur comparendo in poche sequenze, emana già una luce propria e calamita lo sguardo su di sé (favorita anche dal fatto di vestire di bianco, unica fra tutti i personaggi). Da notare qualche sottotesto lesbico (non esplicitato, ovviamente), per esempio nelle scene con la bizzosa Berta ("Birdie" in originale), l'anziana "fedele amica e compagna" di Margo, interpretata da Thelma Ritter. Ma, tra le righe, la stessa Eva è omosessuale (come probabilmente anche Addison). Il tema dell'attrice che invecchia, invece, può invogliare a qualche paragone con un altro capolavoro uscito nelle sale in quello stesso anno (il 1950), "Viale del tramonto". Trionfo agli Oscar, con ben 14 nomination (record fino ad allora, poi soltanto eguagliato da "Titanic" nel 1997 e da "La La Land" nel 2016), fra cui ben 4 alle attrici, e 6 statuette vinte (miglior film, regia, sceneggiatura, costumi, sonoro, e Sanders come attore non protagonista). La pellicola ispirerà, fra gli altri, "Tutto su mia madre" di Almodóvar e "Il cigno nero" di Aronofsky.

29 dicembre 2018

Quella sporca ultima meta (R. Aldrich, 1974)

Quella sporca ultima meta (The Longest Yard)
di Robert Aldrich – USA 1974
con Burt Reynolds, Eddie Albert
**

Visto in divx.

Paul Crewe (Burt Reynolds), ex campione nazionale di football americano – chiamato "rugby" per tutto il film dall'imbarazzante doppiaggio italiano – da tempo caduto in disgrazia, tocca il punto più basso della propria esistenza quando viene rinchiuso in un carcere in Georgia per furto d'auto e resistenza a pubblico ufficiale. Hazen (Eddie Albert), il direttore della prigione, è "fissato" con questo sport e chiede all'ex campione di organizzare una squadra di detenuti affinché facciano da sparring partner al team delle guardie in una partita di esibizione. Per molti prigionieri è l'occasione per prendersi una rivincita sulle angherie dei secondini, ma anche per ritrovare orgoglio e dignità. E per Crewe sarà una forma di riscatto, dopo essere stato accusato in passato di aver venduto una partita... Da una storia scritta dal produttore Albert S. Ruddy e sceneggiata da Tracy Keenan Wynn (e con un finale ispirato al classico di Robert Rossen "Anima e corpo", cui lo stesso Aldrich aveva collaborato come aiuto regista), un film che innesta i luoghi comuni del prison movie (o delle pellicole ambientate nei campi di prigionia durante la seconda guerra mondiale: le violenze e le prepotenze delle guardie sui detenuti non sfigurerebbero in titoli come "La grande fuga") sul genere sportivo, aprendo la strada a tutta una serie di imitazioni (come "Fuga per la vittoria", nel complesso superiore) o remake (come "Mean machine", che fra l'altro è il nome della squadra dei carcerati, o "L'altra sporca ultima meta"). Impegnati in duri lavori (come la bonifica delle paludi), malmenati, rinchiusi in isolamento, oggetto di epiteti razzisti (ma i neri e i bianchi si ritrovano all'improvviso compagni e solidali quando giocano nella stessa squadra), i detenuti accettano ben volentieri di affrontare le guardie per vendicarsi degli sgarbi subiti (e infatti praticheranno un gioco duro quanto quello degli avversarsi, non scevro da trucchi e scorrettezze di ogni tipo: ma si sà, lo sport è per "uomini veri"!). Ma il vero cattivo e scorretto, alla fine, si rivela il direttore del carcere, anche più del capitano delle guardie (Ed Lauter). Nel cast anche Michael Conrad (il giocatore veterano), James Hampton (l'amico "maneggione") e Richard Kiel (il gigante Sansone), più numerosi ex giocatori della NFL. Improbabile la capigliatura della segretaria del direttore (Bernadette Peters). Ma a parte il protagonista, le caratterizzazioni sono minime o semplicistiche, e lo sport è visto come una metafora della vita, con tutta le esagerazioni, l'enfasi e la retorica del caso. Per quanto riguarda la regia, da notare lo split screen durante la presentazione della gara e il memorabile ralenti sulla meta finale (cui è dedicato il titolo italiano, che peraltro richiama volutamente un altro classico di Aldrich, "Quella sporca dozzina").

28 dicembre 2018

La casa dei matti (A. Konchalovsky, 2002)

La casa dei matti (Dom Durakov)
di Andrei Konchalovsky – Russia 2002
con Yulia Vysotskaya, Sultan Islamov
***

Visto in divx.

I pazienti di un ospedale psichiatrico sul confine fra Inguscezia e Cecenia, abbandonati a sé stessi dopo che tutti gli infermieri sono fuggiti per paura della guerra (siamo nel 1996), vedono la propria quotidianità invasa dagli eventi bellici quando un gruppo di ribelli ceceni occupa il manicomio per usarlo come base. Fra i malati spicca Zhanna (Yulia Vysotskaya), una ragazza schizofrenica innamorata del cantante Bryan Adams (da cui immagina di essere ricambiata), che per scherzo viene chiesta in moglie da uno dei soldati, Ahmed (Sultan Islamov): è attraverso i suoi occhi – oltre che quelli dei suoi compagni – che osserviamo le follie della guerra e giungiamo a chiederci se siano più sani i matti o coloro che stanno fuori, impegnati a massacrarsi fra loro anche quando potrebbero essere amici (vedi l'incontro fra i due comandanti, quello russo e quello ceceno). Forse ispirato a "Tutti pazzi meno io" di Philippe De Broca, uno dei film più gradevoli e riusciti di Konchalovsky, le cui atmosfere attraversano un ampio ventaglio di toni e di situazioni: dal caotico e confusionario mondo dei malati di mente (che però, a modo loro, un ordine e un'organizzazione ce l'hanno, con ruoli ben definiti per ciascuno di essi) al surreale e onirico universo della protagonista (con le apparizioni a sorpresa di Bryan Adams nella sua immaginazione), dalla satira sulla guerra (di cui mostra sia il lato cruento che quello assurdo e grottesco: a tratti i soldati sembrano più "schizzati" dei matti) ad episodi di volta in volta felliniani e leggeri, di convivialità o di tragica drammaticità. Il tutto senza mai essere retorico, rischio principale per questo tipo di film (con l'elogio della follia e dell'escapismo o il messaggio antibellico a tutti i costi), e presentando alcuni momenti di regia, di fotografia e di scrittura assai elevati. In ogni caso, se i "malati di mente" non hanno una reale consapevolezza del mondo esterno (o ce l'hanno parecchio deformata), anche perché isolati in un vero e proprio microcosmo che lo riflette al proprio interno, gli orrori e le assurdità della guerra arrivano comunque a sfiorarli (e a cambiarli): alla fine, però, proprio il maniconio si rivelerà l'oasi perfetta per sfuggire alla pazzia fuori imperante. Nel cast anche Stanislav Varkki, Yevgeni Mironov, Elena Fomina e lo stesso Bryan Adams. Premio speciale della giuria al Festival di Venezia.

27 dicembre 2018

La dominatrice (George Stevens, 1935)

La dominatrice (Annie Oakley)
di George Stevens – USA 1935
con Barbara Stanwyck, Preston Foster
**1/2

Visto in TV.

Annie Oakley, ragazza di campagna e tiratrice provetta, entra a far parte dello spettacolo itinerante di Buffalo Bill sul selvaggio west, dove si conquista lentamente il rispetto e l'ammirazione dei suoi colleghi maschi. Qui si invaghisce della star Toby Walker, scalzando ben presto il suo nome dai cartelloni. Ma se tutti credono che fra di loro ci sia un'accesa rivalità, o addirittura che si odino a morte, in realtà i due si amano in segreto... Biografia romanzata di una delle più celebri pistolere della sua epoca, realmente vissuta, che si esibì in tour anche in Europa davanti a re e imperatori. Un'ottima Stanwyck, decisa e sicura di sé ma anche dolce e innocente, rende giustizia a un personaggio forte e indipendente, mentre il tiratore damerino e sciovinista (almeno in apparenza) interpretato da Preston Foster è ispirato al vero marito di Annie, Frank Butler. Moroni Olsen è Buffalo Bill, Melvyn Douglas è l'impresario Jeff Hogarth (che si contende con Toby l'amore di Annie), Chief Thunderbird è Toro Seduto, Dick Elliott (non accreditato) è Ned Buntline, i cui romanzi pulp e le cui trovate pubblicitarie contribuiscono ad accrescere la fama di Annie e a fomentare in pubblico la sua rivalità con Toby (in maniera non dissimile dai feud dei lottatori di wrestling). In effetti, il tema della realtà e della finzione ricorre a più riprese: lo spettacolo di Buffalo Bill "ricostruisce" eventi del west (come gli assalti alle carovane) a beneficio degli spettatori, suscitando la perplessità di chi quegli eventi li ha realmente vissuti (come gli indiani). E le gare di tiro a segno sono soltanto elaborate pantomime, per quanto l'abilità dei tiratori sia indubbia. D'altronde siamo ormai alla fine dell'ottocento, quando il west sta uscendo dalla storia per diventare leggenda. Un po' sbilanciato sul versante romantico, il film scorre piacevolmente grazie alle buone interpretazioni e alla regia di Stevens, pur con qualche gag di troppo e qualche ingenuità figlia del suo tempo (vedi la rappresentazione di neri e indiani). Annie Oakley sarà al centro anche del musical (e film) "Anna prendi il fucile".

25 dicembre 2018

Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (Mel Stuart, 1971)

Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato
(Willy Wonka & the Chocolate Factory)
di Mel Stuart – USA 1971
con Gene Wilder, Peter Ostrum
***

Rivisto in divx.

Il piccolo Charlie Bucket (Peter Ostrum), povero e orfano di padre che lavora per mantenere la sua numerosa famiglia (la madre e i quattro nonni), scopre di essere uno dei cinque fortunati bambini che, grazie al "biglietto dorato" trovato all'interno delle tavolette di cioccolato prodotte da Willy Wonka, potranno visitare la leggendaria fabbrica in cui il suo misterioso proprietario (Gene Wilder) vive da anni come un recluso, nel timore che gli rubino i segreti. Accompagnato dal nonno Joe (Jack Albertson), Charlie scoprirà così un mondo favoloso e incantato, colmo di dolci e di prelibatezze, di fiumi di cioccolata e cespugli di caramelle, di stravaganti invenzioni "impossibili", di creature strane o fantastiche (come gli Umpa Lumpa, sorta di folletti dalla pelle arancione e dai capelli verdi che lavorano alla produzione dei dolciumi), ma anche di regole severe e di prove da superare. E mentre gli altri bambini si dimostreranno ingordi, disobbedienti, avidi o maleducati, ricevendo le appropriate punizioni, soltanto il gentile e generoso Charlie saprà vincere ogni tentazione e giungere indenne fino alla fine del viaggio, conquistandosi così il rispetto di Wonka che lo renderà suo erede. Da un romanzo di Roald Dahl (che collaborò alla sceneggiatura, poi rimaneggiata da David Seltzer), una colorata fiaba moderna a sfondo morale che comincia come un melodramma dickensiano e si trasforma in un incrocio fra "Alice nel paese delle meraviglie" e "Il mago di Oz". Accolta tiepidamente alla sua uscita, la pellicola è diventata – nel corso degli anni e per via dei ripetuti passaggi televisivi – un vero cult movie, anche grazie ai suoi momenti surreali e grotteschi, al mix fra il candore infantile e le inquietanti vicissitudini all'interno della fabbrica, e alla recitazione di Wilder (trattenuta e mai sopra le righe), che rende Wonka un personaggio indimenticabile: stravagante, appariscente (con giacca viola e cilindro color ciocciolata), burlone, ma anche serio e indecifrabile, che parla per citazioni (spesso stravolgendole) e resta enigmatico fino alla fine. Circondato dagli Umpa Lumpa, è in fondo una specie di Babbo Natale (il che spiega come mai la pellicola, pur non essendo esplicitamente natalizia, venga spesso programmata durante le festività).

Le svariate invenzioni di Wonka nascondono spesso un lato oscuro o pericoloso: dalla caramella che non si consuma mai, alle gomme che gonfiano chi le mastica, dalle bibite "frizzosollevanti" (che Charlie e il nonno bevono nonostante fosse stato proibito, dimostrando che anche il protagonista "buono" ha la tentazione di compiere qualche trasgressione), alle oche giganti che depongono uova dorate, dalla wonka-visione (una tv che rimpicciolisce oggetti e persone) all'ufficio dove ogni cosa è divisa a metà. Così come alcuni ambienti possono essere paurosi (il tunnel, per esempio), e certe situazioni anche impressionanti per un bambino (Violet che si gonfia) o poco politically correct (i rutti per tornare a terra dopo aver bevuto la bibita gassata). Fra le numerose canzoni, forse non tutte memorabili (soprattutto quelle della prima parte), la più famosa è "Pure Imagination", cantata dallo stesso Gene Wilder (si sente anche in versione strumentale sui titoli di testa), ma non va dimenticata quella (orecchiabilissima) degli Umpa Lumpa, che si ripete ogni volta che uno dei bambini "fallisce" una prova. Certo, in assenza di effetti digitali e di CGI il tutto ha un aspetto un po' cheap, ma fa parte del suo fascino "artigianale". Girato (per risparmiare) a Monaco di Baviera, rimane a oggi il film più famoso di Mel Stuart, regista mestierante e assai prolifico, nonché l'unica prova d'attore di Peter Ostrum (che dopo il ruolo di Charlie scelse di abbandonare il cinema). Gli altri bambini che vengono ammessi nella fabbrica (cisacuno accompagnato da un membro della famiglia) sono l'ingordo tedesco Augustus, la ricca e viziata Veruca, la sgarbata e disobbediente Violet, e il teledipendente Mike. Robert Kaufman, non accreditato, ha scritto le scenette comiche e satiriche che ironizzano sulla Wonka-mania durante la ricerca dei biglietti dorati. Nel 2005 arriverà un remake di Tim Burton con Johnny Depp (da noi intitolato semplicemente "La fabbrica di cioccolato").

24 dicembre 2018

Tangerine (Sean Baker, 2015)

Tangerine (id.)
di Sean Baker – USA 2015
con Kitana Kiki Rodriguez, Mya Taylor
**1/2

Visto in TV, con Sabrina, in originale con sottotitoli.

Appena uscita di prigione dopo un mese di detenzione, la prostituta transgender Sin-Dee (Kitana Kiki Rodriguez) viene a sapere dall'amica Alexandra (Mya Taylor) che il suo "fidanzato" e pappone Chester (James Ransone) l'ha tradita con una delle sue ragazze, Dinah (Mickey O'Hagan). E mediterà vendetta, lanciandosi alla sua ricerca per l'intera giornata (il film si svolge tutto alla vigilia di Natale, per le strade e i quartieri di una Hollywood di periferia, come il celebre Santa Monica Boulevard). La loro storia si intreccia con quella di Razmik (Karren Karagulian), tassista armeno con una passione per le prostitute trans, alle prese con una suocera impicciona (Alla Tumanian). In questo piccolo film indipendente e a basso costo, con uno stile esuberante e spigliato, favorito da una fotografia ipersaturata e dalla rapidità di azione (l'intera pellicola è stata girata con un Apple iPhone 5S), Baker ci offre uno spaccato di vita su personaggi dall'esistenza non proprio regolare, ma comunque ritratti in maniera simpatica e senza moralismo. L'ambientazione natalizia (ma del tutto sui generis: non c'è neve, né alberi, né altro di tipico della stagione) rende la vicenda quasi un "cantico di Natale" sul tema dell'amicizia e della riconciliazione. Fra le scene da ricordare: quella del pompino nell'autolavaggio, l'esibizione di Alexandra in un locale (dove canta "Toyland"), la "resa dei conti" quando tutti si ritrovano in un negozio di ciambelle, la riappacificazione finale fra Sin-Dee e Alexandra nella lavanderia a gettore. Luiza Nersisyan è la moglie di Razmik, la pornostar Ana Foxxx è la prostituta Selene. Nella colonna sonora spunta all'improvviso (e in maniera inaspettata) l'ouverture Coriolano di Beethoven.

23 dicembre 2018

Dio esiste e vive a Bruxelles (J. Van Dormael, 2015)

Dio esiste e vive a Bruxelles (Le Tout Nouveau Testament)
di Jaco Van Dormael – Belgio/Fra/Lux 2015
con Benoît Poelvoorde, Pili Groyne
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Dio, con aspetto dimesso e trasandato (sovrappeso, bevitore di birra, perennemente in canottiera e vestaglia), abita in uno squallido appartamento di Bruxelles, dal quale controlla il mondo da lui creato e si diverte a tormentare l'umanità, attraverso un vetusto computer, con "leggi universali della sfiga" che ricordano quelle di Murphy. Stufa del suo caratteraccio e dei suoi abusi, sua figlia Ea, di dieci anni, decide di andarsene di casa (dopo aver indispettito il padre, inviando a tutti gli abitanti del pianeta – attraverso un messaggio sul telefonino – la propria data di morte) e di fare come prima di lei aveva fatto suo fratello J.C.: cercarsi degli apostoli (sei persone scelte a caso, in modo da portare il totale a 18) e diffondere il suo "Nuovo nuovo testamento". Un'insolita pellicola satirica e filosofica, surreale ed esistenzialista, con la quale Van Dormael cerca di lanciare un messaggio chiaro, per quanto per nulla religioso o trascendentale: Ea afferma che "non c'è nulla dopo la morte", e la felicità va ricercata durante la vita, nel presente. L'insieme, non sempre omogeneo, a tratti ricorda "Amelie" ma anche certe cose di Greenaway, di Von Trier e di Jodorowsky. Ma se la cornice è decisamente interessante (nonché irriverente quasi come il "Dogma" di Kevin Smith), quando l'attenzione si sposta sui sei apostoli il film si fa più pretenzioso e noioso, con le sue divagazioni sulla vita, la morte e l'amore. E mentre si sopportano le vicende di questi sei personaggi (Laura Verlinden, Didier De Neck, Serge Larivière, François Damiens, Catherine Deneuve, Romain Gelin), che man mano interagiscono fra loro (Ea rivela che ciascuno ha una propria "musica interiore"), di fatto si aspetta in continuazione che ritorni in scena il Dio interpretato da Poelvoorde, con tutto il suo carico di misantropia, sadismo, sciattezza e volgarità. Yolande Moreau è la moglie di Dio, dea della natura; Marco Lorenzini è Victor, il barbone che scrive il "Nuovo nuovo testamento".

22 dicembre 2018

Howard e il destino del mondo (W. Huyck, 1986)

Howard e il destino del mondo (Howard the Duck)
di Willard Huyck – USA 1986
con Lea Thompson, Jeffrey Jones
*1/2

Rivisto in TV.

Proveniente da un mondo parallelo popolato da paperi antropomorfi, Howard viene trasportato da un misterioso raggio di energia fino al nostro pianeta, dove farà amicizia con la giovane rocker Beverly (Lea Thompson) e dovrà vedersela con uno scienziato (Jeffrey Jones) trasformatosi in mostro. Dal fumetto Marvel ideato da Steve Gerber, che aveva furoreggiato negli anni '70 prima di essere interrotto per dispute legali fra l'editore e l'autore, una delle più famigerate e imbarazzanti pellicole associate alla Casa delle Idee (anche se vanta il primato di essere il primo film uscito al cinema basato su un personaggio Marvel). Prodotta dalla Lucasfilm e stroncata da critica e pubblico, la sua lavorazione ha attraversato varie fasi: inizialmente avrebbe dovuto essere un film a cartoni animati, per poi passare alla live action (con il personaggio modificato nell'aspetto per non assomigliare troppo ai pennuti della Disney). Nei fumetti, Howard il papero era cinico e sarcastico, e l'umorismo assurdo e surreale nascondeva una feroce satira allo stile di vita di noi "scimmie senza pelo", nonché all'industria dell'entertainment. Nulla di tutto questo si ritrova nel film, che a parte poche scene e un certo fascino camp dovuto all'understatement di situazioni tipiche della fantascienza, non è altro che un'avventura fracassona e infantile contro un nemico generico (uno degli "occulti supersovrani dell'universo") che vuole distruggere il mondo. A parte la sceneggiatura e i dialoghi, però, il vero problema è il protagonista stesso, privo di espressioni e per nulla credibile: in assenza di CGI, è evidente che siamo di fronte a un pupazzo animato (in alcune scene) oppure a un mascherone come quelli di Disneyland (indossato da Ed Gale e da altri cinque "attori"). Difficile anche comprendere il target della pellicola: tutto lascia pensare che sia diretta a spettatori minorenni o adolescenti, ma non mancano riferimenti e accenni a situazioni "adulte" (Howard ha un preservativo nel portafoglio e trova momentaneamente lavoro in una spa erotica). Nel cast anche un giovane Tim Robbins. Willard Huyck (anche sceneggiatore insieme alla moglie Gloria Katz) era stato un compagno di Lucas alla scuola di cinema, e aveva collaborato con lui al copione di "American Graffiti": questo è il suo quarto e ultimo film come regista.

20 dicembre 2018

Roma (Alfonso Cuarón, 2018)

Roma (id.)
di Alfonso Cuarón – Messico 2018
con Yalitza Aparicio, Marina de Tavira
***

Visto in TV, con Giovanni e Daniela.

Il titolo si riferisce alla Colonia Roma, il quartiere residenziale di Città del Messico dove è nato lo stesso Cuarón, e dove vive la famiglia benestante (il dottor Antonio, sua moglie Sofia, i quattro figli, la nonna Teresa e il cane Borras) di cui la protagonista Cleo – una donna di etnia mixteca – è la domestica. Vincitore del Leone d'Oro al Festival di Venezia, più che su una trama complessa il film – che è semi-autobiografico, essendo ispirato a ricordi e personaggi conosciuti dal regista in gioventù – punta sul racconto della quotidianità e sulla ricostruzione di un'atmosfera e di un periodo storico ben preciso (i primi anni settanta). Certo, Cleo vive drammi personali (frequenta Fermín, un ragazzo che la abbandona quando rimane incinta; subirà un aborto), ma è soprattutto testimone silenziosa degli avvenimenti che si svolgono attorno a lei: da quelli legati alla famiglia per cui lavora (Antonio abbandona la casa, lasciando da sola la moglie con i figli) a quelli che sconvolgono l'intero paese (il terremoto, le proteste di strada, con gli scontri fra studenti e gruppi paramilitari). Fra alti e bassi, le due donne (Cleo e Sofia) dovranno così imparare a cavarsela da sole, all'insegna di un'amicizia e di una solidarietà che travalica le differenze di classe. Anche perché, a suo modo, Cleo ha sempre fatto parte della famiglia, occupandosi della casa e dei bambini. Girato splendidamente, con una magnifica e luminosa fotografia digitale in bianco e nero (dello stesso Cuarón) che valorizza i paesaggi e gli ambienti con la sua profondità di campo, e tutta la maestria tecnica alla quale il regista ci ha abituato in passato (bellissimo, per esempio, il piano sequenza nel finale sulla spiaggia, con il salvataggio dei bambini fra le onde da parte di Cleo), rispetto ai precedenti lavori il film è decisamente anti-hollywoodiano e ricorda per molti versi le pellicole del regista filippino Lav Diaz (anche se i tempi, pur lenti, non sono dilatati a quei livelli). È inoltre impreziosito da una grande attenzione per i dettagli, da una curatissima ricostruzione storica, da mille particolari e simboli (uno su tutti: l'automobile di Antonio, così larga da entrare a malapena nell'androne della casa, verrà sostituita da Sofia con un modello più piccolo e maneggevole non appena la donna si sarà fatta una ragione del suo abbandono). Molte comunque le scene memorabili (l'esibizione di arti marziali di Fermín, nudo, con il bastone della doccia; l'allenamento di gruppo guidato dal "professor Zovek", interpretato dal luchador Latin Lover; l'incendio nel bosco durante la notte di Capodanno). E non mancano comunque momenti di grande intensità emotiva, come tutta la sequenza del parto di Cleo in ospedale. La pellicola è dedicata a Liboria "Libo" Rodríguez, la domestica di casa Cuarón sin da quando il regista aveva nove mesi. Yalitza Aparicio, la protagonista, non aveva mai recitato in precedenza. Il regista ha affermato di aver scelto il nome Cleo in ossequio al film di Agnès Varda "Cleo dalle 5 alle 7". Curiosità: quando i bambini vanno al cinema a guardare "Abbandonati nello spazio", Cuarón sembra voler fare riferimento al suo maggior successo precedente, "Gravity".

18 dicembre 2018

Le notti di Cabiria (F. Fellini, 1957)

Le notti di Cabiria
di Federico Fellini – Italia 1957
con Giulietta Masina, François Périer
***1/2

Visto in divx.

Maria Ceccarelli, in arte Cabiria (il nome è un omaggio al leggendario film muto del 1914, ideato nientemento che da Gabriele D'Annunzio), è una prostituta di Roma, una popolana minuta e sgraziata che lavora di notte fra le rovine della "Passeggiata Archeologica". Assai diversa dalle sue colleghe e compagne di borgata, cerca di mantenersi a galla con una certa dignità (si vanta di possedere una casa e di non aver mai dormito per la strada), senza mai smettere di sognare l'amore e una vita migliore. La pellicola la segue attraverso una serie di episodi apparentemente slegati fra loro, cominciando da quando viene "mollata" da Giorgio, suo sedicente fidanzato che le ruba la borsa e la getta nel Tevere, da dove viene ripescata da alcuni ragazzini. Fra le sue avventure notturne spiccano l'incontro con il grande e attempato divo del cinema Alberto Lazzari (Amedeo Nazzari, praticamente nei panni di sé stesso), che la invita nella sua lussuosa villa dopo aver litigato con l'amante (Dorian Gray), salvo abbandonarla quando si riappacifica con quella; l'episodio dell'uomo con il sacco, che si aggira per le campagne romane a fare "beneficenza laica" ai poveri e diseredati che vivono nelle grotte e nelle catacombe (una sequenza eliminata dalla censura, per essere poi recuperata nella versione restaurata del film, e che era stata ispirata a Fellini dall'incontro con una persona reale); il pellegrinaggio al Santuario della Madonna del Divino Amore, alla quale Cabiria chiede inutilmente la grazia di poter "cambiare vita"; la scena dell'ipnotizzatore (Aldo Silvani), che riesce in qualche modo a portare allo scoperto l'innocenza e la tenerezza che la donna nasconde sotto la sua scorza cinica; e naturalmente tutta la parte finale in cui Cabiria si illude di aver trovato un uomo che l'ama e che la vuole sposare nonostante il suo passato (François Périer), salvo rendersi conto che si tratta dell'ennesimo profittatore (in un pre-finale che riecheggia l'incipit). Ma una materia che nelle mani di un altro regista avrebbe potuto sfociare nel patetismo e nel melodrammatico, in mano a Fellini diventa fiaba e poesia, come dimostra il bellissimo finale in cui Cabiria, rimasta ormai senza nulla, torna a sorridere alla vita quando viene affiancata e circondata da ragazzi che suonano e che ballano, come in una specie di circo: e la lacrima cristallizzata sul viso, mentre guarda in macchina cercando quasi il contatto con lo spettatore, la accomuna subito a Gelsomina, al Matto e agli altri personaggi de "La strada". È proprio la sua innocenza interiore, più che quello che ha vissuto nel corso del suo lavoro, a darle forza e speranza e a proteggerla dal male che la circonda. Il personaggio, sempre interpretato dalla Masina (che qui sforna forse la prova migliore della sua carriera), era già apparso in una breve scena del primo film di Fellini, "Lo sceicco bianco": qui viene arricchito dai racconti e dalle esperienze di una vera "passeggiatrice" romana, conosciuta da Fellini durante le riprese de "Il bidone". Il risultato è un ricco e colorato affresco d'ambiente, mai sopra le righe o accondiscendente verso i personaggi e il mondo disperato in cui vivono. Grande successo di critica, con numerosi riconoscimenti (fra cui l'Oscar per il miglior film straniero e il premio per la migliore attrice a Cannes). Franca Marzi è l'amica Wanda, Ennio Girolami è il giovane magnaccia, Mario Passante è lo zio zoppo. La sceneggiatura di Fellini, Ennio Flaiano e Tullio Pinelli (alla quale ha collaborato anche Pier Paolo Pasolini, cui si deve evidentemente il "realismo" dei dialoghi) ispirerà il musical di Broadway "Sweet Charity" e l'omonimo film di Bob Fosse.

17 dicembre 2018

A bigger splash (Luca Guadagnino, 2015)

A bigger splash
di Luca Guadagnino – Italia/Francia 2015
con Ralph Fiennes, Tilda Swinton
**

Visto in TV.

L'introverso fotografo Paul (Matthias Schoenaerts) e la cantante rock Marianne (Tilda Swinton), temporaneamente muta perché operata alle corde vocali, sono in vacanza a Pantelleria. Qui vengono raggiunti da Harry (Ralph Fiennes), produttore musicale ed ex fidanzato di Marianne, insieme alla sua giovanissima figlia Penelope (Dakota Johnson). L'entusiasmo invadente di Harry e la provocante sensualità di Penelope incrinano subito il fragile equilibrio, portando alla luce tensioni pronte a scoppiare... Remake de "La piscina" di Jacques Deray, è un raro caso in cui il rifacimento è migliore dell'originale. Rispetto al film del 1969, infatti, c'è maggiore attenzione nella caratterizzazione dei personaggi, cui viene fornito un background interessante (il tentato suicidio di Paul, per esempio) e vengono indagate le relazioni passate (anche grazie ad alcuni brevi flashback). L'ottima prova dei quattro protagonisti (strepitoso soprattutto Fiennes, davvero in gran forma: e dire che nel film di Deray il personaggio di Harry era quasi insignificante, mentre qui è una forza trainante) e la bella ambientazione (una Pantelleria immersa in un'atmosfera pigra ed estiva, simile a quella che Guadagnino riproporrà in "Chiamami col tuo nome") rendono assai piacevole il film almeno per due terzi. Ma nell'ultima mezz'ora crolla tutto, anche perché la trama è in fondo poco interessante, la svolta da thriller impedisce il naturale sviluppo dei temi imbastiti fino ad allora, e la pellicola scivola verso un finale deludente (imbarazzante e del tutto fuori posto, poi, la scena finale dell'autografo sotto la pioggia). Nel cast anche Aurore Clément, Lily McMenamy e Corrado Guzzanti (il maresciallo dei carabinieri). Fastidioso il doppiaggio nella sequenza dell'interrogatorio di Marianne (dove era evidente che in originale i personaggi parlavano lingue diverse, per mezzo di un interprete). Tante le nudità integrali (anche per Fiennes e la Johnson), mentre il setting "esotico" lascia immaginare che il film fosse rivolto a un pubblico internazionale più che a quello italiano. Inevitabili, ma spuri, i molti riferimenti all'emergenza dei migranti. Nella colonna sonora, alcuni brani del "Falstaff" di Verdi. Il titolo è preso da un dipinto pop di David Hockney.

16 dicembre 2018

Il tagliagole (Claude Chabrol, 1970)

Il tagliagole (Le boucher)
di Claude Chabrol – Francia 1970
con Stéphane Audran, Jean Yanne
***

Visto in TV.

La signorina Hélène (Audran, all'epoca moglie del regista e protagonista in molti suoi film), direttrice e insegnante di una scuola elementare in un paesino di provincia, comincia a frequentare Popaul (Yanne), garbato macellaio con un lungo passato da soldato nelle guerre coloniali in Algeria e Indocina. Quando nei boschi circostanti vengono ritrovati i cadaveri di alcune ragazze, uccise a colpi di coltello, la donna inizia a sospettare che l'assassino possa essere proprio lui... Girato nel villaggio di Trémolat (vicino ai Pirenei: le grotte con i disegni rupestri che la scolaresca visita sono quelle di Cougnac), un giallo a tratti hitchcockiano (si pensi all'indizio dell'accendino) che però, più che sul mistero poliziesco, vuole indagare sulle inquietudini del quotidiano e della "borghesia di provincia", temi di cui Chabrol sarà uno dei massimi cantori. Semplice come trama (e praticamente con due soli personaggi: i bambini della scuola, gli altri insegnanti e il poliziotto che indaga non sono che comparse), la pellicola scorre piacevolmente grazie alla buona caratterizzazione dei due protagonisti (Hélène, trentenne e single per scelta; Popaul, affabile ma inquieto e represso), la cui platonica storia d'amore è raccontata con realismo e sensibilità, e al setting agli antipodi rispetti ai consueti noir o thriller: urbani quelli, rurale questo (ma i francesi sono maestri nell'ambientare film di questo tipo in piccoli paesini di provincia, sin dai tempi de "Il corvo" di Clouzot). Il titolo originale era semplicemente "Il macellaio".

15 dicembre 2018

Epidemic (Lars von Trier, 1987)

Epidemic (id.)
di Lars von Trier – Danimarca 1987
con Lars von Trier, Niels Vørsel
**

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Incaricati di scrivere un copione, il regista Lars (von Trier) e lo sceneggiatore Niels (Vørsel) decidono di raccontare la storia di un'epidemia che dilaga in Europa, prendendo spunto dalle vere pestilenze che hanno sconvolto il vecchio continente nel medioevo. Il loro protagonista, il dottor Mesmer (il nome, forse non a caso, è quello dell'inventore del mesmerismo) è un giovane medico idealista che sceglie di abbandonare la città fortificata, che si è isolata per paura del contagio, per portare le proprie cure nelle campagne e nelle regioni più colpite dalla malattia. Ma durante i cinque giorni in cui Lars e Niels lavorano alla sceneggiatura, a loro insaputa una vera epidemia si sta diffondendo fra la popolazione... Il secondo lungometraggio di LVT dipana la sua trama su più livelli (i due cineasti al lavoro, il film da loro scritto, il mondo circostante), affrontando così il tema dell'infezione da più punti di vista: la natura che impazzisce senza motivo, l'uomo che avvelena sé stesso (il viaggio nella Germania industrializzata e inquinata), i provvedimenti che si rivelano inutili per arrestare il contagio (la chiusura della città, la formazione di un governo fatto solo da medici, con alcuni tocchi ironici: l'anestesista come ministro dell'istruzione, per esempio), l'impotenza della teologia di fronte alla morte... C'è anche spazio per alcune sequenze che sembrano poco collegate con il resto (il racconto di Niels sulle "ragazze di Atlantic City", con cui ha corrisposto per lettera facendosi passare per un liceale; la scena dell'ipnotismo). L'amico che i due incontrano a Colonia è Udo Kier, qui alla prima collaborazione con LVT (e l'aneddoto che racconta, il bombardamento dell'ospedale quando è nato, è reale). Formalmente la pellicola si fa notare per il bianco e nero, la camera a mano, il mix di immagini girate in 35 e 16 mm, oltre che per la scritta con il titolo del film e il simbolo del copyright, in rosso, stabilmente in sovrimpressione nell'angolo in alto a sinistra dello schermo, come a indicare che si tratta di una copia di lavorazione. Ma nell'insieme resta un film d'autore un po' pretenzioso e convoluto, anche se alcuni spunti interessanti, come detto, non mancano (bellissima la sequenza in cui Mesmer, attaccato a una bandiera della croce rossa e trasportato da un elicottero, pare "volare" sopra i campi di grano), anche per via della struttura a "scatole cinesi" (la scatola più esterna, quella in cui Lars von Trier interpreta sé stesso, è forse la nostra realtà, il che ne fa un film horror). La colonna sonora del film-nel-film è data dall'ouverture del "Tannhäuser" di Wagner, mentre il testo della canzone sui titoli di coda ("Epidemic - We all fall down") è scritto dagli stessi Lars e Niels.

13 dicembre 2018

Lola Darling (Spike Lee, 1986)

Lola Darling (She's Gotta Have It)
di Spike Lee – USA 1986
con Tracy Camilla Johns, Redmond Hicks
***

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Nola Darling (Tracy Camilla Johns) – chiamata Lola nel doppiaggio e nel titolo italiano – vive a Brooklyn in un grande attico, fa l'artista e ha una vita sessuale particolarmente attiva, visto che si destreggia fra tre uomini diversi (consapevoli della cosa, pur accettandolo a fatica ed essendo gelosi l'uno dell'altro): il maturo e sensibile Jamie (Redmond Hicks), l'infantile e scanzonato Mars (interpretato dallo stesso regista) e il vanesio e salutista Greer (John Canada Terrell). Primo vero film di Spike Lee (il precedente "Joe's Bed-Stuy Barbershop: We Cut Heads" era stato girato come tesi di laurea), ha il grande pregio di presentare un personaggio femminile indipendente, lontano dagli stereotipi dei neri (e delle donne) delle pellicole hollywoodiane. In fondo i personaggi sono di colore, ma potrebbero anche non esserlo, visto che non è questo a caratterizzarli (a differenza di quelli visti fino ad allora sul grande schermo). Nola è irrequieta e in cerca di qualcosa, ma anche libera e sicura di sé, capace di tenere sempre salde le redini del gioco. Dei suoi tre amanti, comunque, è evidente da subito come Jamie sia "quello giusto": gli altri sono solo un divertimento estemporaneo. Se la forma della pellicola è parecchio "cinefila", con molteplici rimandi e omaggi alla Nouvelle Vague (le interviste dei personaggi che parlano allo spettatore guardando in camera, la fotografia "povera", sgranata e in bianco e nero: c'è un'unica sequenza a colori, quella del balletto, giustificata e introdotta da un riferimento a "Il mago di Oz"), i contenuti sono all'insegna di freschezza e autenticità: dai dialoghi, che parlano di sesso in maniera aperta, all'ambientazione in una Brooklyn ritratta con cura e affetto. Il tutto ricorda un po' anche i primi, coevi, lavori di Jim Jarmusch. Oltre a recitare nei panni di Mars (un personaggio che riprenderà poi in una serie di spot per la Nike), Spike Lee coinvolge suo padre Bill (nel ruolo del padre di Nola, anche autore della colonna sonora) e sua sorella Joie (Clorina, l'ex coinquilina della protagonista). Raye Dowell è Opal, l'amica lesbica. Dieci anni più tardi il regista tornerà su temi simili in "Girl 6 - Sesso in linea". Nel 2017 lo stesso Lee ne ha fatto un remake sotto forma di serie televisiva per Netflix.

12 dicembre 2018

The program (Stephen Frears, 2015)

The program (id.)
di Stephen Frears – GB/Francia 2015
con Ben Foster, Chris O'Dowd
**

Visto in TV.

Il film racconta quello che fu definito "il piu sofisticato programma di doping nella storia dello sport", messo in piedi dal ciclista Lance Armstrong (Ben Foster) per vincere sette Tour de France consecutivi (dal 1999 al 2005), che poi gli furono revocati. Basato sul libro "Seven Deadly Sins" del giornalista David Walsh (qui interpretato da Chris O'Dowd e vero eroe positivo della storia, in contrapposizione al "cattivo" Armstrong), la pellicola è quasi una docu-fiction, visto che si limita a riproporre gli eventi (ricostruendoli con attori) e rinuncia a "scavare" nei personaggi, soprattutto in Armstrong stesso, di cui – a parte l'arroganza e la smisurata ambizione – non veniamo a sapere nulla che non riguardi le corse e il doping. Affidandosi alle pratiche illegali del medico sportivo Michele Ferrari (Guillaume Canet) e radunando attorno a sé una squadra di corridori disposti a tutto pur di vincere, Armstrong eluse per anni i controlli antidoping in maniera calcolata e scientifica, rimanendo sempre un passo avanti agli altri. E nel frattempo divenne un vero e proprio idolo delle folle, un modello di vita anche al di fuori delle corse, grazie ai suoi discorsi ispirazionali e alla sua fondazione benefica contro il cancro (lui stesso fu operato ai testicoli, prima di iniziare la sua cavalcata vittoriosa). Interessante come ricostruzione degli eventi e come sguardo su un mondo che dovrebbe essere di sana competizione e invece è fatto di menzogne e inganni, ottimi gli attori (Jesse Plemons è il gregario Floyd Landis, Lee Pace è l'agente Bill Stapleton, Denis Ménochet è il direttore sportivo Johan Bruyneel, Dustin Hoffman ha un cameo nel ruolo dell'assicuratore Bob Hamman) e belle le riprese delle tappe di montagna, con le alpi sullo sfondo: ma la sceneggiatura semplifica molto il tema del doping (di cui mostra una visione parecchio ingenua: basta assumere l'EPO e si vince) e, come detto, non approfondisce i personaggi (forse con l'eccezione di Landis, di cui mostra i sensi di colpa dovuti al suo background religioso). Sui titoli di coda, "Everybody knows" di Leonard Cohen.

11 dicembre 2018

Soldi sporchi (Sam Raimi, 1998)

Soldi sporchi (A simple plan)
di Sam Raimi – USA 1998
con Bill Paxton, Billy Bob Thornton
***

Rivisto in TV.

Hank Mitchell (Bill Paxton) conduce una vita semplice con la moglie Sarah (Bridget Fonda) e un modesto impiego in una cittadina fra le montagne del Minnesota. Tutto cambia quando, insieme al fratello sempliciotto Jacob (Billy Bob Thornton) e al miglior amico di questi, l'ubriacone Lou (Brent Briscoe), scopre un piccolo aeroplano caduto nella neve, a bordo del quale ci sono il cadavere del pilota e una borsa con oltre 4 milioni di dollari. I tre decidono di tenerseli senza dire niente a nessuno, evitando di spenderli prima che il velivolo venga ritrovato a primavera. Ma da subito le cose non vanno come previsto: non tutti sono in grado di mantenere il segreto, e sospetti e incidenti faranno precipitare la situazione. Una riflessione sulle conseguenze dell'avidità umana sotto forma di noir extraurbano, in uno scenario perennemente innevato dove gli animali – i corvi che osservano posati sui rami degli alberi come testimoni silenziosi, la volpe a caccia di prede nel bianco della neve – sono la metafora degli istinti predatori e dell'arrivismo degli esseri umani. Fosse stato girato con humour grottesco e sardonico, saremmo di fronte a una black comedy in stile "Fargo". Raimi, invece, coadiuvato dalla sceneggiatura di Scott B. Smith (che adatta un proprio romanzo), peraltro un po' troppo "costruita" e dal flusso di eventi non sempre naturale, sceglie i toni del dramma, caratterizzato da un intenso crescendo e dallo scavo psicologico nei personaggi. In particolare Hank, il protagonista principale della storia, si crede migliore degli altri (che guarda con disprezzo e dall'alto al basso), ma dovrà rivedere il proprio sistema di valori quando si ritroverà, proprio lui, a compiere le peggiori nefandezze (oltre che ad acquisire consapevolezza dei retroscena della propria vita che ignorava). Da notare anche il personaggio di Sarah, vera e propria "Lady Macbeth" di provincia, che consiglia il marito con piani e strategie senza scrupoli, spronandolo ad andare avanti quando questi ha dubbi o paura. Bella e funzionale l'ambientazione, inevitabile il finale con apologo morale. Nominato a due premi Oscar (per Billy Bob Thornton e per la sceneggiatura).

10 dicembre 2018

Il proiezionista (Andrei Konchalovsky, 1991)

Il proiezionista (The Inner Circle)
di Andrei Konchalovsky – Russia/Italia/USA 1991
con Tom Hulce, Lolita Davidovich
**1/2

Visto in divx.

Nel 1939, alla vigilia della seconda guerra mondiale, Ivan Sanchin (Tom Hulce) diventa il proiezionista privato di Iosif Stalin al Kremlino, dove avrà l'occasione di conoscere da vicino tutti gli "eroi della rivoluzione" che tanto ammira e idolatra. Rimarrà a far parte di questa "cerchia ristretta" fino al 1953, anno della morte di Stalin, quando finalmente si renderà conto della reale portata di quel "culto della personalità" che ha caratterizzato il suo paese (lui stesso, in un misto di ingenuità politica e furore patriottico, fino a poco prima affermava di amare Stalin più della propria moglie). Ispirata alla storia vera di Aleksander Ganshin, ancora vivo all'epoca in cui il film fu girato, la pellicola intreccia le vicende personali con quelle storiche, portando sullo schermo tutta l'atmosfera di paranoia e di delazione, dove ogni scusa era buona per denunciare un vicino di casa, un collega o persino un ufficiale come traditore o "nemico del popolo" (esemplare la scena iniziale in cui i Gubelmann, vicini di casa di Sanchin e della moglie Anastasia, vengono arrestati solo perché ebrei: la loro figlioletta Kayja, rinchiusa in un orfanotrofio, diventerà la ragione di vivere di Anastasia, e più avanti l'ancora di salvezza dello stesso Ivan). L'ottima ricostruzione storica e l'intensa prova di Hulce reggono fino in fondo un film al quale si può perdonare un pizzico di melodramma di troppo (nelle scene con la bambina), e che ha il merito di offrire uno sguardo inedito, umano e intimista, sulla dittatura e gli uomini che l'hanno guidata. Aleksandr Zbruyev è Stalin, Bob Hoskins è Beria, il capo del KGB. Fra i film che Stalin e gli altri membri del governo si fanno proiettare in privato da Sanchin, oltre a cinegiornali e pellicole di propaganda, ci sono soprattutto musical e commedie occidentali (come "Il grande valzer" di Duvivier).

8 dicembre 2018

Partitura incompiuta per pianola meccanica (N. Michalkov, 1977)

Partitura incompiuta per pianola meccanica
(Neokonchennaya pyesa dlya mekhanicheskogo pianino)
di Nikita Michalkov – URSS 1977
con Aleksandr Kalyagin, Yelena Solovey
***1/2

Rivisto in DVD.

Anna Petrovna (Antonina Shuranova), nobildonna decaduta, ospita nella propria villa di campagna un gruppo di amici in una pigra giornata estiva: fra questi c'è Mikhail Platonov (Aleksandr Kalyagin), il maestro elementare del villaggio, che scopre che la nuova moglie del figliastro della padrona di casa è Sofia (Yelena Solovey), la ragazza che un tempo aveva amato e che aveva perso di vista da molti anni. Ispirato a un lavoro incompiuto di Anton Čechov, che Michalkov e il suo co-sceneggiatore Aleksandr Adabashian integrano con materiale proveniente da altri suoi scritti, il film racconta la presa di coscienza di un fallimento esistenziale, al tempo stesso personale (quello di Platonov, che un tempo tutti credevano destinato a grandi cose e che invece è rimasto imprigionato in una vita semplice e banale, in un distretto di periferia lontano dalla capitale: "Ho 35 anni e non ho fatto niente!", grida, paragonandosi a Napoleone e a Lermontov) ma anche di un'intera classe sociale: una borghesia aristocratica, annoiata e impotente, che parla molto e non conclude nulla (il medico rifiuta di accorrere da chi l'ha chiamato; chi vuole fuggire si addormenta nella carrozza senza cavalli; chi vuole suicidarsi buttandosi nel fiume cade in dieci centimetri d'acqua). Siamo all'inizio del ventesimo secolo: si parla di emancipazione femminile, delle teorie darwiniste, delle differenze di classe, ma sono tutti discorsi vuoti da parte di personaggi che si lasciano trascinare dal destino, come suggerisce la metafora della pianola meccanica che ripete la stessa melodia in maniera automatica, senza possibilità di variazione creativa. Un'impasse esistenziale e una decadenza dalla quale sarà possibile uscire solo grazie alle nuove generazioni (il film termina con un raggio di sole che illumina la pelle del più giovane del gruppo, il ragazzino al quale saranno affidate le speranze della nuova Russia). La bellissima atmosfera cechoviana (la stessa che ritroveremo in tanti film del regista, a partire dal capolavoro "Sole ingannatore") è perfettamente riprodotta sullo schermo, nei dialoghi e nel flusso degli eventi. La storia si dipana nell'arco di 24 ore, che iniziano all'insegna dell'allegria, delle risate, degli scherzi e dei giochi (anche stupidi) per farsi progressivamente più tesa, triste e malinconica, quando i nodi vengono al pettine e la verità spazza via le illusioni e le nostalgie ("Da giovani si crede nel futuro, in una vita lunga e felice"). Un simbolo di tutto ciò è la villa stessa, che ha decisamente visto tempi migliori ed è ora circondata da una vegetazione lussureggiante e fuori controllo. Ottimo il cast, che comprende Evgeniya Glushenko (Sasha, la moglie di Platonov), Oleg Tabarov, Yuri Bogatyryov e lo stesso Michalkov. Nella colonna sonora spicca "Una furtiva lagrima" di Donizetti, mentre la pianola suona una riduzione della seconda rapsodia ungherese di Liszt.

7 dicembre 2018

Ridere per ridere (John Landis, 1977)

Ridere per ridere (The Kentucky Fried Movie)
di John Landis – USA 1977
con Evan Kim, Bong Soo Han
**

Rivisto in divx.

Il secondo film di John Landis, scritto dal trio ZAZ (Zucker-Abrahams-Zucker, all'esordio cinematografico: fino ad allora avevano lavorato solo in teatro, firmandosi come The Kentucky Fried Theater, da cui il titolo originale della pellicola, che ovviamente fa il verso a una celebre catena di fast food) è una parodia della programmazione di un canale televisivo, con tanto di telegiornali, programmi di attualità, dibattiti, film e persino finte pubblicità. L'idea è forse ispirata a "The Groove Tube" di Ken Shapiro (1974, inedito in Italia): da notare che Landis, insieme ad altri registi, ripeterà l'esperimento nel 1987 con "Donne amazzoni sulla Luna". Trattandosi essenzialmente di un collage di sketch spesso scollegati fra loro, il risultato è diseguale: il film è composto per lo più da gag demenziali, volgari, nonsense o semplicemente stupide, giochi di parole puerili (molti dei quali andati persi nel doppiaggio italiano), nudità femminili gratuite e scenette di cattivo gusto. Ma ha anche dei difetti. No, parlando seriamente: oggi, in epoca di political correctness, sarebbe forse impossible realizzare un film come questo per il circuito mainstream (e senza il divieto ai minori!). E in mezzo all'anarchia e al trash si annidano perle di geniale umorismo, quasi da teatro dell'assurdo, che non sfigurerebbero in uno sketch dei Monty Python (la mia preferita è la scena dei prigionieri nelle gabbie all'interno del film "Per un pugno di yen": "Sono relitti che non sanno dove sono e non gliene importa..."). Fra le gag da ricordare: la rubrica dell'oroscopo, con il tormentone dei nati sotto il segno dei gemelli che devono "aspettarsi l'inaspettato" (e per tutto il film vengono colpiti da frecce vaganti); la proiezione del film "con gli effetti speciali" realizzati direttamente in sala dalle maschere del cinema; la pubblicità dell'Unione Amici della Morte, che suggerisce di reinserire i defunti nella società; il documentario sull'ossido di zinco; i finti trailer di pellicole in arrivo (tutte prodotte dal fittizio Samuel L. Bronkowitz, al cui nome si ispirerà il gruppo comico italiano Broncoviz), che appartengono ai generi di serie B più in voga negli anni '70: l'erotico soft-core ("Liceali cattoliche in calore"), il catastrofico ("Il giorno del giudizio"), la blaxploitation ("Cleopatra Schwartz"). E naturalmente la parte del leone (ovvero la "fetta" più consistente della pellicola, visto che dura oltre 30 minuti, ma anche il segmento più riuscito) è data dal suddetto "Per un pugno di yen", spoof de "I tre dell'operazione drago" e in generale di tutto il cinema di arti marziali, anche se il finale a sorpresa sconfina in un'altra celebre pellicola classica. Evan Kim è Loo, parodia di Bruce Lee, mentre il fantastico Bong Soo Han è il suo arcinemico Dottor Klahn (che, nella scena in cui parla in coreano, chiede scusa agli spettatori che conoscono questa lingua). per il resto, per tutto il film sono distribuiti camei e comparsate di attori noti come Donald Sutherland, George Lazenby, Bill Bixby e lo stesso John Landis. Nella scena al cinema si può notare il poster del suo primo film, "Slok".

6 dicembre 2018

L'elemento del crimine (Lars von Trier, 1984)

L'elemento del crimine (Forbrydelsens element)
di Lars von Trier – Danimarca 1984
con Michael Elphick, Jerold Wells
**1/2

Rivisto in DVD.

Sotto ipnosi al Cairo, un poliziotto rievoca la sua ultima missione in Europa, dove era stato richiamato due mesi prima per indagare sugli omicidi di un serial killer. Seguendo il metodo teorizzato dal suo anziano mentore (e descritto nel libro "L'elemento del crimine"), il detective si identifica nell'assassino, ripercorrendone tutti i passi. Il lungometraggio che segna l'esordio cinematografico di Lars von Trier (in precedenza autore di alcuni corti e mediometraggi realizzati da studente di cinema) è un noir lento e ipnotico, che punta le sue carte sull'atmosfera sospesa e misteriosa, sullo stile formalista e su una fotografia iperfiltrata, praticamente monocromatica (l'utilizzo di un'illuminazione con lampade a vapori di sodio rende le immagini color ambra o seppia), perennemente scura o con alternanza di luci e ombre come nell'espressionismo tedesco. Evidenti inoltre le ispirazioni al cinema di Tarkovskij (vedi anche le immagini di cavalli o asini morenti e l'abbondanza di acqua) e al mondo malsano de "L'infernale Quinlan" di Orson Welles. La storia stessa (e non solo perché è raccontata in prima persona dal protagonista, in trance, al suo terapista: il voice over, fra l'altro, richiama gli stilemi dell'hard boiled) ha una qualità onirica e kafkiana, mentre l'ambientazione è decadente: siamo in un mondo degradato e post-industriale, fra fabbriche dismesse, discariche, canali di scolo e uffici con posta pneumatica. L'intreccio poliziesco procede quasi in maniera random, scoprendo le sue carte con estrema lentezza (c'è di mezzo uno strano rituale, e anche la distribuzione geografica dei luoghi degli omicidi sembra avere una propria importanza), ma alla fine trova una risoluzione soddisfacente. Insieme ai successivi "Epidemic" ed "Europa", tutti scritti (come questo) da LVT insieme all'amico Niels Vørsel, il film forma un'ideale "trilogia europea".

4 dicembre 2018

Whiplash (Damien Chazelle, 2014)

Whiplash (id.)
di Damien Chazelle – USA 2014
con Miles Teller, J. K. Simmons
***

Visto in TV, con Sabrina.

Il diciannovenne Andrew Neiman (Teller), batterista jazz e studente presso il prestigioso conservatorio di musica Shaffer, entra a far parte dell'orchestra diretta dall'esigentissimo insegnante Terence Fletcher (Simmons), la cui fama è pari alla sua severità e al suo carattere intrattabile. Per stimolare gli studenti a dare il meglio di sé, infatti, Fletcher li spinge fino al limite, pretendendo il massimo impegno e non esitando a maltrattarli a parole e nei fatti (anche ricorrendo a feroci insulti, neanche fosse l'istruttore di "Full Metal Jacket"). Quello con Andrew, a sua volta ostinato e ambizioso, diventa così uno scontro di personalità, che il film descrive con intensità e in crescendo. Più che sulla musica in senso stretto, la pellicola affronta il mito (americano) del successo (la storia potrebbe essere ambientata in una palestra di pugilato o in qualsiasi altro ambiente competitivo, e non cambierebbe una virgola). Andrew aspira a diventare il batterista migliore della sua generazione, il numero uno, e per questo è disposto a versare (letteramente) sangue e sudore, sottoponendosi a durissime prove e a tutte le angherie di Fletcher. Che dal suo canto, per quanto collerico e vendicativo (ma in alcune scene suggerisce di avere anche un lato di grande sensibilità), intravede nel ragazzo un grande e potenziale talento, e proprio per questo lo mantiene sempre sul filo, senza dargli tregua o sicurezza. Entrambi i personaggi hanno lati negativi ed esagerati, e pur di raggiungere i rispettivi obiettivi passano sopra i rapporti umani: Andrew rinuncia agli amici o alla fidanzata, e segue la propria strada in maniera egoistica, come se fosse un vistuoso solista (dimenticandosi che fa parte di un ensemble); Fletcher calpesta i sentimenti e i sogni dei suoi studenti, non solo insultandoli e umiliandoli ma mettendoli anche l'uno contro l'altro. Il loro scontro sconfina sul piano fisico (nonostante si parli di musica, vediamo tanto sangue, dolore e sofferenza: forse il paragone con il pugilato o lo sport in generale non è campato per aria). Chazelle ha girato il film in preda alla frustrazione per l'impasse in cui si trovava un altro suo progetto, il musical "La La Land", che riuscirà a realizzare nel 2016 proprio grazie al successo di questo. Ottimo infatti il riscontro critico, con cinque nomination agli Oscar e tre statuette vinte (Simmons come miglior attore non protagonista, oltre a montaggio e sonoro). Il titolo "Whiplash" è quello di uno dei brani jazz (di Hank Levy) che vengono suonati ripetutamente (l'altro è "Caravan" di Duke Ellington).

3 dicembre 2018

Bright (David Ayer, 2017)

Bright (id.)
di David Ayer – USA 2017
con Will Smith, Joel Edgerton
*1/2

Visto in TV.

Immaginate un mondo dove razze come orchi ed elfi convivano con l'uomo, e dove sopravvivano tracce (antiche) di magia. Soltanto che non siamo nel medioevo (come nel "Signore degli Anelli", cui si ispira l'iconografia e la storia di queste razze), bensì ai giorni nostri, e per di più a Los Angeles. L'idea di base è proprio questa: cosa sarebbe successo se la Terra di Mezzo (o qualcun altro degli scenari dei classici fantasy) fosse in realtà il nostro passato? Alcuni accenni sembrano confermarlo (si dice che gli orchi, duemila anni prima, fecero la scelta sbagliata, alleandosi con il Signore Oscuro) e non mancano strizzatine d'occhio ai fan di Tolkien (vedi il mezzelfo agente federale). La pellicola si dipana poi come un qualsiasi buddy movie poliziesco, con tutti i suoi luoghi comuni, come la coppia di agenti costretti a collaborare controvoglia – in questo caso, un uomo (Will Smith) e un orco (Joel Edgerton) – che nel corso dell'avventura impareranno a conoscersi e a fidarsi l'uno dell'altro, mentre l'intreccio vero e proprio ruota attorno a un MacGuffin (la bacchetta magica). E la premessa viene anche utilizzata per rimandi di natura sociale: in un mondo del genere, gli orchi prendono il posto delle persone di colore, ovvero visti con diffidenza e disprezzo dalle altre razze (c'è persino la scena di un pestaggio alla Rodney King), costretti ai lavori più pesanti e "invisibili", chiusi in ghetti o parte di gang criminali (tutto negli orchi, dall'abbigliamento ai tatuaggi, rimanda alle bande di strada afro-americane). Di contro, gli elfi sono le élite, quelli che vivono nei quartieri alti e non amano mescolarsi con le altre razze. Lo scenario, dunque, offre i suoi spunti, e non mi stupirei di vederlo riutilizzare in altri film (un sequel sarebbe già in cantiere) o magari in una serie televisiva (il film è targato Netflix). Peccato che i cattivi siano generici e privi di personalità, e che Ayer, come già in "Suicide squad" (sempre con Smith), riesca a rendere noiose tutte le scene che dovrebbero essere di tensione (inseguimenti, sparatorie). Noomi Rapace è la giovane elfa Leilah. L'idea di prendere la forma del buddy movie poliziesco ma di calarla in uno contesto bizzarro od originale era già stata sfruttata in film come "Osmosis Jones".

2 dicembre 2018

Peccatori in blue-jeans (M. Carné, 1958)

Peccatori in blue-jeans (Les tricheurs)
di Marcel Carné – Francia/Italia 1958
con Jacques Charrier, Pascale Petit
***

Visto in TV.

Il ragazzo perbene Bob (Jacques Charrier), studente universitario e figlio di un industriale di provincia, conosce a Parigi Alain (Laurent Terzieff), rivoluzionario esistenzialista e cinico antiborghese, che lo introduce nel suo gruppo di amici che vivono in totale libertà, insofferenti alle leggi della società e alle regole morali dei loro genitori. Ripudiano infatti il lavoro e gli impegni ma anche i legami e complicazioni sentimentali, sognano di fare soldi con poca fatica e passano le giornate fra musica jazz, feste e divertimenti, incuranti del futuro e delle conseguenze. Sono i rappresentanti di una generazione che rinnega le scelte di vita dei loro padri (quelli che hanno combattuto la guerra), non danno valore a nulla e non esitano a infrangere la legge (non dissimili dai protagonisti de "I vinti" di Antonioni o di "Gioventà bruciata"). Fra questi c'è Mic (Pascale Petit), una ragazza della quale Bob si innamora (ricambiato), nonostante entrambi lo neghino davanti agli altri. Naturalmente finirà in tragedia... Grande successo di pubblico, il film venne attaccato dai giovani critici francesi, gli stessi che stavano per dare vita alla Nouvelle Vague, che lo vedevano come un simbolo del cinema del passato. E in effetti gli aspetti di analisi sociale, come la descrizione di certi ambienti giovanili, sembrano un po' superficiali e schematici, ma la tensione drammatica è ben costruita e l'evoluzione del rapporto sentimentale fra i protagonisti (ottimamente caratterizzati, con tutte le loro contraddizioni) coinvolge fino in fondo. E tecnicamente la regia e la fotografia vantano una buona intensità espressionistica (i primi piani alla festa, l'inseguimento notturno sulle strade di campagna nel finale), dimostrando che il regista sapeva farsi valere anche senza il sostegno di Jacques Prévert, col quale aveva realizzato tutti i suoi capolavori nel genere del "realismo poetico" (qui soggetto e sceneggiatura sono dello stesso Carné). Curiosamente, nel gruppo di amici si riconosce un giovane Jean-Paul Belmondo, che due anni più tardi sarà il protagonista proprio del film-manifesto della Nouvelle Vague, "Fino all'ultimo respiro" di Jean-Luc Godard.

1 dicembre 2018

Okja (Bong Joon-ho, 2017)

Okja (id.)
di Bong Joon-ho – USA/Corea del Sud 2017
con Ahn Seo-hyun, Tilda Swinton
*1/2

Visto in TV.

Okja è un "super maiale", una creatura creata geneticamente nei laboratori della Mirando, azienda biotech che prima di commercializzarla ne ha affidato alcuni esemplari – a scopi propagandistici – ad allevatori sparsi ai quattro angoli della Terra. Fra questi c'è Mija, una ragazzina che vive con il nonno sui monti boscosi della Corea e che, quando l'azienda si fa viva per riprendersi l'animale (al quale si è ormai affezionata), si ostina a volerlo riportare indietro, aiutata da un gruppo di ribelli animalisti. Prodotto per Netflix, nella prima parte il film di Bong è una fiaba un po' ingenua e noiosetta: se non fosse per il sottotesto fantascientifico e l'utilizzo diffuso della computer grafica per animare Okja (come avveniva per il mostro di "The host"), saremmo di fronte a uno dei tanti film per bambini con il piccolo protagonista che stringe amicizia con un animale che gli viene sottratto. Meglio invece la seconda metà, che preme sul pedale della denuncia contro l'industria alimentare e della carne, le cui due facce – quella bonaria, rassicurante ma anche ipocrita, idealizzata dal marketing, e quella cinica e tesa soltanto allo sfruttamento – sono rappresentate dalle due sorelle gemelle (interpretate da Tilda Swinton in un doppio ruolo) a capo della Mirando (il nome dell'azienda è ovviamente uno spoof della Monsanto e dei suoi OGM). E qui ci si rende conto che il film non è proprio una pellicola per bambini, per via di scene come quella dell'"abuso" di Okja, per non parlare del finale dolce-amaro (e realistico), in cui la cattiva non viene sconfitta, e che fa guadagnare qualche punto a quello che comunque rimane finora il peggior film di Bong, schematico, disequilibrato e retorico, con caratterizzazioni semplicistiche (la protagonista Mija, Okja stessa) o caricaturali (tutti gli altri). Paul Dano è Jay, il capo degli animalisti; Jake Gyllenhaal è Dr. Johnny, lo showman al soldo dei cattivi. La Swinton aveva già lavorato con Bong nel precedente "Snowpiercer". La scena all'inizio in cui Mija dorme sul pancione di Okja in mezzo al bosco è un chiaro rimando a "Totoro".

29 novembre 2018

Il tè nel deserto (B. Bertolucci, 1990)

Il tè nel deserto (The sheltering sky)
di Bernardo Bertolucci – Italia/GB 1990
con Debra Winger, John Malkovich
**1/2

Rivisto in divx.

Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, tre viaggiatori americani giungono sulle coste del Nordafrica: si tratta dei coniugi Port e Kit Moresby (Malkovich e Winger), artisti annoiati e in cerca di nuovi stimoli (anche per rinsaldare il proprio rapporto coniugale), e del loro giovane amico George Tunner (Campbell Scott). L'avventura, però, si rivela meno piacevole del previsto, fra compagni di viaggio sgradevoli, come il grassoccio Eric Lyle (Timonthy Spall) e sua madre (Jill Bennett), difficoltà logistiche con mezzi di trasporto improvvisati, imprevisti e malattie (Port si ammala di tifo). E i personaggi si smarriscono e si addentrano sempre più nel Sahara e nei suoi misteri. Tratto dal romanzo di Paul Bowles (che compare nel film nei panni del vecchio gentiluomo nel bar, testimone e narratore dell'intera vicenda), sceneggiato da Bertolucci insieme al cognato Mark Peploe e prodotto da Jeremy Thomas (come il precedente "L'ultimo imperatore"), un film difficile da gustare appieno se non ci si adagia nel suo ritmo e non si partecipa, insieme ai protagonisti, al viaggio con i tempi giusti. Caratterizzato, prima ancora che dalla regia di Bertolucci (e da un estetismo e una sensualità un po' melensi e noiosi), dalla fotografia dorata e crepuscolare di Vittorio Storaro, che rende reali e suggestivi gli scenari del deserto (compresa la sabbia e le mosche), sembra procedere a lungo senza una vera trama: in realtà la trama è sotto la superficie, e viene pienamente alla luce soltanto nell'ultima mezz'ora, la parte più bella e suggestiva della pellicola, quando Kit – rimasta sola – si unisce a una carovana di tuareg ed entra per un breve periodo a far parte della loro vita, diventando anche l'amante del berbero Belqassim. Allora dal film spariscono i dialoghi (visto che la donna non parla la lingua dei nomadi), sostituiti da canti e da silenzi, e anche la fotografia muta i propri toni, facendosi lunare (il sole è associato a Port, la luna a Kit). Celebre il tema musicale di Ryuichi Sakamoto.

27 novembre 2018

L'ultimo imperatore (B. Bertolucci, 1987)

L'ultimo imperatore (The Last Emperor)
di Bernardo Bertolucci – Italia/GB 1987
con John Lone, Joan Chen
***

Rivisto in DVD, per ricordare Bernardo Bertolucci.

Salito al trono nel 1908 a soli 3 anni, Pu Yi è stato l'ultimo imperatore della Cina: la sua abdicazione forzata, alla nascita della Repubblica Popolare Cinese, ha posto fine a una tradizione bimillenaria. Questo kolossal storico-epico di enorme successo (conquistò, fra le altre cose, ben 9 premi Oscar, fra cui quelli per la miglior pellicola e il miglior regista) si basa sulla sua autobiografia, scritta in tarda età, e racconta – attraverso le vicende personali del protagonista – le immense trasformazioni che il paese ha vissuto nel corso del Novecento, dopo secoli (millenni?) di immobilismo. E sotto questo aspetto, nonostante l'ambientazione esotica (la Cina può sembrare quanto di più lontano dalla provincia emiliana o dai confini europei), non mancano i punti in comune con gli altri capolavori di Bernardo Bertolucci, "Novecento" appunto, ma anche "Il conformista" (con la sua ragnatela di passioni e intrighi politici, rievocati in particolare nelle sequenze in cui Pu Yi diventa il sovrano dello stato fantoccio del Manchukuo). Strutturata come una serie di flashback, la sceneggiatura segue la prigionia di Pu Yi bambino all'interno della sua stessa corte, dalla quale non può uscire né quando è il divino "figlio del cielo" né quando rimane solo un simbolo mentre all'esterno il mondo sta cambiando rapidamente. In fondo non è dissimile dal topolino, dal grillo o dagli altri animaletti di corte. Dal carattere aperto, riformista ed esterofilo (anche per merito del precettore britannico Reginald Johnston), per tutta la vita Pu Yi rimane suo malgrado una pedina in mano ad altri: prima ai nazionalisti cinesi, e poi ai giapponesi che lo mettono a capo della Manciuria occupata. Infine, a guerra terminata, è accusato di collaborazionismo dal Partito Comunista e rinchiuso in un "campo di rieducazione", dal quale uscirà dopo dieci anni, nel 1959, per vivere gli ultimi suoi giorni da cittadino comune. Le ultime sequenze (forse immaginarie) ce lo mostrano mentre visita il suo palazzo, ormai diventato un'attrazione turistica. Per la prima volta una troupe cinematografica occidentale ebbe il permesso, da parte delle autorità cinesi, di girare all'interno della Città Proibita, la vasta cittadella che fu sede della corte imperiale. Bertolucci ebbe totale libertà d'azione, e il risultato è sontuoso, grazie anche alla fotografia di Vittorio Storaro. Nella sua lunghezza (due ore e quaranta minuti), il film attraversa molteplici fasi e atmosfere: dallo splendore formale dei riti e dei cerimoniali di corte, al progressivo svuotamento del palazzo man mano che il sovrano cresce, dal trasferimento a Tianjin ai venti di guerra, dagli interrogatori nella prigione all'avvento della rivoluzione culturale di Mao (con gli inesorabili contrappassi che genera ogni svolta di potere). La produzione richiese quasi 20.000 comparse, molte delle quali fornite dall'esercito cinese. Nel ruolo di Pu Yi si alternano quattro attori: John Lone è l'imperatore da adulto, mentre tre bambini o ragazzini lo interpretano a varie età (a 3, a 8 e a 15 anni). Joan Chen è Wanrong/Elizabeth, l'imperatrice, mentre Wu Junmei è Wenxiu, la seconda moglie. Peter O'Toole è il precettore scozzese, Ying Ruocheng il governatore della prigione, Ryuichi Sakamoto (autore anche delle musiche) il giapponese Amakasu. Nel cast anche Victor Wong (il gran tutore), Dennis Dun, Maggie Han (la spia "Gioiello d'oriente"), Cary-Hiroyuki Tagawa e il regista Chen Kaige (il capo delle guardie). Al vasto successo di critica non sono estranei la cura dei costumi, delle scenografie e del montaggio. E il film rimane forse l'esempio per eccellenza del respiro vasto e internazionale che il cinema italiano un tempo poteva vantare (anche attraverso le co-produzioni, come in questo caso).

26 novembre 2018

Callas forever (Franco Zeffirelli, 2002)

Callas forever
di Franco Zeffirelli – Italia/Fra/Spa 2002
con Jeremy Irons, Fanny Ardant
**

Visto in TV.

Reduce da una disastrosa tournée in Giappone, nel 1977 Maria Callas (Ardant) considera la propria carriera finita e si chiude nel suo appartamento parigino, dove vive da sola e nel rimpianto dopo la morte di Onassis. A tirarla fuori sarà Larry (Irons), impresario teatrale e suo amico di lunga data, che la convince a recitare in una serie di film-opera dove canterà in playback, "doppiata" grazie alle incisioni dei suoi anni d'oro. Ma dopo aver realizzato il primo di questi film, una "Carmen" piena di colore e di vigore (che per lei è un modo di chiudere un rapporto rimasto incompiuto con il personaggio, visto che non lo aveva mai interpretato a teatro), cambia nuovamente idea e chiede all'amico di distruggere il filmato... Insolito biopic "di finzione" (la didascalia conclusiva recita: "Gli avvenimenti narrati in questo film appartengono alla fantasia dell'autore e al ricordo della sua lunga amicizia con Maria Callas") che ritrae la Diva negli ultimi mesi della sua vita (morirà nel settembre di quello stesso anno), quando ormai la voce di un tempo si era deteriorata e il mondo intorno a lei stava cambiando velocemente (lo stesso Larry si dedica ora a promuovere "scandalosi" gruppi punk rock). Ma le visite notturne dei "fantasmi" del personaggi delle sue opere (Norma, Violetta, Tosca...) la spingeranno a tornare sulle scene... Se la Callas non fosse una figura realmente esistita, il suo personaggio sembrerebbe la solita diva capricciosa e patetica: ma Zeffirelli la ritrae con affetto, grazie anche all'ottima interpretazione di una Ardant che, se fisicamente non le somiglia, psicologicamente si cala del tutto nelle contraddizioni del personaggio. Bene anche Irons. Per il resto, però, il film – che più che una biografia va considerato dunque come un omaggio alla Diva che più di ogni altra ha incarnato l'ideale della cantante lirica del ventesimo secolo – dà il meglio di sé nelle scene dell'opera-nel-film (Zeffirelli allestirà personalmente una "Carmen" all'Arena di Verona nel 1995), girate in maniera sontuosa, ricche di atmosfera e di barocchismi, molto superiori al resto della pellicola che soffre invece per i dialoghi didascalici e alcuni momenti un po' stucchevoli. Joan Plowright è la giornalista Sarah, Jay Rodan è il pittore amante di Larry, Gabriel Garko è Marco, il bel cantante che interpreta Don José. Fra i brani cantati dalla Callas si possono sentire (oltre alla "Habanera" e altri spezzoni della "Carmen") "Casta diva", "O mio babbino caro", "Un bel dì vedremo", "Libiamo nei lieti calici" e "Vissi d'arte".

25 novembre 2018

Identità (James Mangold, 2003)

Identità (Identity)
di James Mangold – USA 2003
con John Cusack, Ray Liotta, Amanda Peet
***

Rivisto in TV.

In una notte di pioggia forte e incessante, undici persone rimangono bloccate in un motel nel deserto del Nevada, impossibilitate a comunicare con l'esterno. Ben presto si rendono conto che uno di loro è un assassino psicopatico, che intende uccidere gli altri dieci uno a uno. Nel frattempo, in città, un giudice, un avvocato e uno psichiatra discutono sulla possibile infermità mentale di un condannato alla sedia elettrica che deve essere giustiziato la mattina seguente... Un plot che inizialmente ricorda "Dieci piccoli indiani" (come nel classico di Agatha Christie, i personaggi scoprono di avere tutti dei segreti e, soprattutto, qualcosa in comune...) si trasforma, a metà strada, in un thriller psicologico con un notevole colpo di scena (che a differenza di pellicole come "Il sesto senso" o "Fight club", non giunge alla fine ma appunto a due terzi di film, e non del tutto imprevedibile: è sì il fulcro della vicenda ma non impedisce di provare suspense anche dopo la sua rivelazione). Alcune analogie, meno evidenti, anche con "Ombre rosse", per via del gruppo di personaggi costretti a stare insieme in una situazione di pericolo, e che comprende, fra gli altri, un criminale, un poliziotto, una prostituta, una famiglia... Pur essendo costruito su un'ipotesi che richiede la piena disponibilità dello spettatore ad accettarne premesse e conseguenze, come puro thriller non è pretenzioso, ma solido e ben girato (con un diffuso utilizzo del "multiplo punto di vista" all'inizio, nella presentazione dei personaggi), e regge anche a una seconda visione: forse il miglior film di Mangold fra quelli che ho visto. Ottimo il cast: fra gli occupanti del motel ci sono John Cusack, Ray Liotta, Amanda Peet, Rebecca De Mornay, Clea DuVall e Jake Busey, mentre Alfred Molina è lo psichiatra. Buona la fotografia notturna e piovosa.

23 novembre 2018

La samaritana (Kim Ki-duk, 2004)

La samaritana (Samaria)
di Kim Ki-duk – Corea del Sud 2004
con Kwak Ji-min, Lee Eol, Han Yeo-reum
***

Rivisto in DVD.

La liceale Jae-young (Han Yeo-reum) si prostituisce per raccogliere il denaro necessario a un viaggio in Europa con la sua amica del cuore Yeo-jin (Kwak Ji-min), la quale, pur disapprovandone il comportamento, la aiuta organizzando gli incontri e facendole da palo. Quando però Jae-young si suicida gettandosi dalla finestra di un albergo, Yeo-jin decide di sostituirsi a lei (cui già prestava la voce al telefono) e di incontrare nuovamente tutti i suoi clienti per restituire loro il denaro che le avevano dato... Con la consueta fusione di temi scabrosi e poesia delle immagini (tutta la vicenda è ammantata di colori autunnali), il film di Kim Ki-duk è soltanto in parte una pellicola sulla prostituzione minorile, un fenomeno sociale peraltro assai diffuso in estremo oriente: a metà strada cambia infatti il proprio focus e si concentra sul rapporto (venato di incomunicabilità) fra genitori e figli. Il padre di Yeo-jin (Lee Eol), dopo aver scoperto per caso gli incontri clandestini della figlia, inizia infatti a seguirne i clienti per punirli in maniera sempre più violenta. E infine, decide di partire con la ragazza per un viaggio in montagna, dal quale prevede di non tornare più... Divisa in tre sezioni (intitolate "Vasumitra", "Samaria" e "Sonata", e dedicate rispettivamente a Jae-young, a Yeo-jin e a suo padre), la storia cambia focus più volte, tanto che sembra quasi di assistere a tre film diversi, accomunati però dal fatto di rappresentare un percorso "iniziatico", che attraverso il sesso (e la morte) conduce ciascuno dei tre protagonisti verso la scoperta del proprio ruolo e del rapporto con il mondo circostante. Jae-young è il più "libero" dei tre personaggi, quello che vive il sesso in maniera gioiosa e disinteressata, consapevole di donare felicità agli altri (si identifica appunto in Vasumitra, monaca-cortigiana indiana che convertiva gli uomini al buddhismo attraverso l'amore fisico). Per Yeo-jin (la "samaritana" del titolo) si tratta invece di una questione morale, un modo per onorare la memoria dell'amica ed espiare al tempo stesso le proprie colpe. Il padre, poliziotto che progressivamente perde il controllo di sé, sospinto da un furore vendicativo, è infine una figura più complessa, che nel terzo atto del film lascia intendere più volte allo spettatore di voler compiere un atto irreparabile nei confronti della figlia: ma dopo averlo evocato oniricamente, il regista ci sorprende invece con un bel finale di metaforica responsabilità (la lezione di guida). L'intero viaggio in campagna, lontano dunque dal setting cittadino delle prime due sezioni, sembra quasi trasportarci in un altro mondo e in un altro tempo, dove è più facile dimenticare, perdonare e ricominciare. Se da un lato la pellicola cammina su un terreno sottile e rischioso (non sono mancate le controversie, in patria e all'estero) per il modo con cui affronta il tema della prostituzione giovanile (che pure è mostrato attraverso diversi punti di vista: quelli delle due ragazze, inizialmente opposti, ma anche quello del padre e quelli dei vari clienti, che spaziano dall'indifferenza totale ai sensi di colpa), dall'altro offre numerosi spunti, anche appena accennati: il tema del doppio, con l'identificazione fra le due ragazze, ma anche quello dell'amicizia (che confina, o sconfina, nell'amore) o quello dell'immancabile connubio fra eros e thanatos (con l'inquietante sorriso di Jae-young al momento del suo suicidio). Molto brave le due giovani attrici, praticamente esordienti. Nella colonna sonora (che ricorda Joe Hisaishi) si sentono brani di Erik Satie.

22 novembre 2018

Aniki Bóbó (Manoel de Oliveira, 1942)

Aniki Bóbó
di Manoel de Oliveira – Portogallo 1942
con Horácio Silva, Nascimento Fernandes
***1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Nei quartieri poveri di Porto, lungo le sponde del fiume Douro, il piccolo Carlitos si contende l'amore della coetanea Teresinha con il compagno di classe (e bulletto) Eduardo, leader naturale del loro gruppo di monelli di strada. Per lei arriva a rubare una bambola, finendo poi in balia dei sensi di colpa. Quando però sarà accusato dagli amici di aver spinto il rivale giù da uno strapiombo sulla ferrovia sottostante, sarà proprio il negoziante che lo sospettava del furto (Nascimento Fernandes) a scagionarlo. Opera prima del prolifico regista Manoel de Oliveira (che in precedenza aveva realizzato soltanto alcuni brevi documentari), un'affascinante pellicola che trasporta le dinamiche del mondo degli adulti (amori, gelosie, crimini, sensi di colpa) in quello dei bambini, ritratti con affetto e attenzione all'ambiente circostante. Lasciando da parte il neorealismo italiano, siamo più dalle parti del realismo poetico francese: la vicenda ha la connotazione di una favola, con tanto di lieto fine ed insegnamento morale (già preannunciato dalla scritta che Carlitos reca sulla borsa con cui va a scuola: "Segui sempre la retta via"), anche se per fortuna gli intenti pedagogici alla "Pinocchio" sono tenuti a distanza grazie a una deliziosa leggerezza, lontana dall'anarchia o dalla sovversione di un Jean Vigo ("Zero in condotta") o un Luis Buñuel ("I figli della violenza"), titoli con cui pure ha qualcosa in comune. Convincenti (e assai simpatici) i piccoli protagonisti. Non mancano alcuni tocchi onirici (l'incubo di Carlitos in preda ai sensi di colpa), surreali e comici (le scenette ambientate a scuola; quelle con Pistarim, il piccolo amico del protagonista, che inciampa sempre nelle sue scarpe). Il titolo è l'incipit di una filastrocca che i bambini utilizzano come conta (prima di giocare a guardie e ladri) e come parola d'ordine. All'epoca la pellicola non ebbe successo (tanto che il regista non dirigerà più un'opera di finzione per quasi trent'anni), salvo essere rivalutata col tempo.

21 novembre 2018

Widows (Steve McQueen, 2018)

Widows - Eredità criminale (Widows)
di Steve McQueen – USA/GB 2018
con Viola Davis, Michelle Rodriguez
*1/2

Visto al cinema Colosseo.

Quando una banda di rapinatori muore durante un colpo, le loro vedove si vedono costrette a prendere il loro posto e a progettare una pericolosa rapina per restituire il denaro che i mariti avevano sottratto a un gangster. Dopo l'esordio folgorante con due pellicole d'autore intense e sorprendenti ("Hunger" e "Shame"), McQueen – per la prima volta senza l'attore feticcio Michael Fassbender – prosegue purtroppo sulla strada della normalizzazione, o se vogliamo della "hollywoodizzazione": e al successo agli Oscar "12 anni schiavo" fa seguire questo thriller d'azione ispirato a una serie televisiva inglese del 1983, una versione sofisticata e psicologica di "Ocean's eleven" (o meglio, di "Ocean's eight", il cui cast era interamente femminile). Purtroppo abbondano cliché e stereotipi, a partire dalla composizione del gruppo di protagoniste, una banda multietnica come le peggiori gang dei fumetti Marvel degli anni ottanta: c'è la nera ricca (Viola Davis), la nera proletaria (Cynthia Erivo), l'ispanica tamarra (Michelle Rodriguez) e la bionda slavata (Elizabeth Debicki). D'altronde il film è tutto un tentativo di distribuire le etnie in maniera equilibrata fra buoni e cattivi, rispettando in questo modo le minoranze (e probabilmente ammiccando anche alle femministe). Se la regia è solida e la tensione a tratti non manca (la parte migliore, come in ogni heist movie che si rispetti, è la sequenza della rapina), molte situazioni sono però scontate, i dialoghi poco incisivi, i colpi di scena prevedibili (è evidente che un personaggio interpretato da un attore noto come Liam Neeson non possa morire dopo cinque minuti!), per non parlare di trovate abusatissime come lo sparo fuori campo. E il tentativo di complicare la vicenda, inserendo più parti in gioco (molteplici antagonisti, per esempio), non fa che rendere la trama più sfilacciata. Viola Davis con il cagnolino bianco ricorda un cattivo di 007. Nel cast anche Colin Farrell (il politico bianco) e Robert Duvall (suo padre).

20 novembre 2018

Contro il destino (Olivier Assayas, 1991)

Contro il destino (Paris s'éveille)
di Olivier Assayas – Francia 1991
con Judith Godrèche, Thomas Langmann
**1/2

Visto in TV.

Il diciannovenne Adrien (Thomas Langmann), in fuga dalla polizia, lascia Tolosa per rifugiarsi a Parigi dal suo padre naturale, Clément (Jean-Pierre Léaud), che non vede da diversi anni. L'uomo convive con la diciottenne Louise (Judith Godrèche), aspirante attrice e modella, che ben presto lo lascia per mettersi proprio con il figlio. Ma la vita dei due ragazzi è difficile, anche perché Louise è tossicodipendente e Adrien non ha né lavoro né documenti... Il terzo film di Assayas è uno spaccato esistenziale di personaggi irrequieti e problematici, alla continua ricerca di stabilità e di qualcosa che li completi. La bella atmosfera (costruita dalla regia avvolgente e dalla fotografia di Denis Lenoir) e la ricchezza dei dialoghi, curati e realistici, sono al servizio di una vicenda priva di focus, proprio come i suoi protagonisti, indecisi e in balìa di loro stessi (oltre che di rapporti familiari e sentimentali irrisolti e tormentati), che alla fine non potranno che prendere strade separate. Memorabile la Godrèche, in bilico fra ragazzina e donna matura, con i capelli corti e l'espressione sognante, a volte timida e incerta (come nell'audizione) e a volte decisa e sicura di sé. Il titolo originale, che significa "Parigi si sveglia", sembra rimandare al classico di René Clair "Parigi che dorme" e sottolinea l'ambientazione in una città catturata in un momento di passaggio, sospesa, nervosa e dai colori cangianti, che promette molte opportunità ma si rivela anche poco accogliente e anzi quasi ostile. Musica di John Cale.

19 novembre 2018

La signora di tutti (Max Ophüls, 1934)

La signora di tutti
di Max Ophüls – Italia 1934
con Isa Miranda, Memo Benassi
**

Visto in TV.

La diva del cinema Gabriella "Gaby" Doriot (Isa Miranda) tenta il suicidio: sotto anestetico, mentre viene operata in ospedale, la sua mente ricorda tutte le traversie della sua vita, causate dall'irresistibile fascino che ha sempre esercitato sugli uomini. Cacciata da scuola per via di una relazione con un insegnante sposato, viene accolta nella casa dei ricchi conti Nanni per tenere compagnia alla signora Alma (Tatiana Pavlova), costretta sulla sedia a rotelle. Qui si fidanza con il giovane Roberto (Friedrich Benfer), ma a perdere davvero la testa per lei è suo padre, Leonardo Nanni (Memo Benassi), industriale che a causa sua si rovinerà. Da un romanzo di Salvator Gotta, l'unico film girato in Italia da Ophüls è un melodramma sentimentale prodotto dall'editore Angelo Rizzoli (all'esordio nel cinema, dove sperava di fare la stessa fortuna che in quegli anni stava sperimentando il suo rotocalco femminile "Novella", poi "Novella 2000"). La pellicola riscosse molto successo, rendendo popolare la sua protagonista Isa Miranda, nonché la canzone "La signora di tutti" interpretata da Nelly Corradi (che nel film recita nel ruolo della sorella di Gaby, Anna). Lamberto Picasso è il padre di Gaby, Franco Coop è il suo agente. Acclamato all'epoca per la qualità superiore alla media del cinema italiano (merito soprattutto della regia elegante di Ophüls, a suo agio nell'affrontare i temi del destino e della perdizione, e della figura della protagonista, un'ingenua ragazza di campagna che diventa "femme fatale suo malgrado"), rivisto oggi il film è poco più di un feuilletton molto datato (soprattutto nella recitazione: i migliori sono Benassi e la Pavlova), e inoltre soffre di problemi nell'audio in presa diretta che rendono quasi inudibili alcuni dialoghi: evidentemente l'industria italiana non aveva ancora preso le misure con le nuove tecnologie del sonoro.

17 novembre 2018

Ragtime (Miloš Forman, 1981)

Ragtime (id.)
di Miloš Forman – USA 1981
con Howard E. Rollins jr., Brad Dourif
**1/2

Rivisto in TV.

Nella New York di inizio novecento si intrecciano le storie di diversi personaggi (alcuni dei quali realmente esistiti): la più importante è quella di Coalhouse Walker Jr. (Howard Rollins), pianista di colore che, per vendicarsi di un affronto subito (uno scherzo razzista che porta a tragiche conseguenze), terrorizzerà l'establishment bianco, minacciando di far saltere in aria la biblioteca privata del milionario J.P. Morgan se non gli sarà consegnato il responsabile del gesto, il pompiere volontario Willie Conklin (Kenneth McMillan). Ma c'è anche la storia della famiglia bianca e benestante di New Rochelle, appena fuori New York, che accoglie Sarah, compagna di Coalhouse e madre di suo figlio, rimanendo coinvolta nella vicenda: i suoi membri – il padrone di casa (James Olson), la sua sensibile moglie (Mary Steenburgen) e il fratello minore di lei (Brad Dourif) che, simpatizzante della causa di Walker, si unirà al gruppo di questi fornendogli armi e bombe – curiosamente non hanno nome per tutto il film. E c'è la giovane modella e attrice Evelyn Nesbit (Elizabeth McGovern), che ha posato per una statua nuda posizionata sul tetto del Madison Square Garden, cosa che fa impazzire di gelosia il suo ricco marito, l'industriale Harry Thaw (Robert Joy), il quale sparerà all'architetto Stanford White (Norman Mailer). E c'è l'artista di strada Tateh (Mandy Patinkin), migrante che farà fortuna nel mondo del cinema, scegliendo proprio Evelyn come protagonista dei suoi lavori... Un montaggio di spezzoni di cinegiornale, all'inizio della pellicola, introduce alcuni di questi e molti altri personaggi pubblici dell'epoca (Harry Houdini, Theodore Roosevelt e il suo vice Charles W. Fairbanks, Booker T. Washington, J. P. Morgan) che saranno legati, in maniera diretta o indiretta, alle vicende narrate. Ne risulta un affresco corale e "altmaniano", fra la realtà storica e la fiction, bel calato nell'atmosfera di inizio secolo: un momento in cui la società americana era in piena trasformazione, fra nuove forme di arte (il cinema, la musica, come il ragtime che dà il titolo alla pellicola), mutamenti sociali e di costume (il ruolo della donna, le minoranze razziali), l'incombere della guerra. Nel cast spicca James Cagney (nel ruolo del capo della polizia Rheinlander Waldo), di ritorno al cinema dopo vent'anni di assenza e alla sua ultima apparizione sullo schermo (a lui, per rispetto, va il primo posto nei titoli). Ultimo film anche per Pat O'Brien. Ma ci sono anche piccole parti per interpreti all'esordio come Samuel L. Jackson, Debbie Allen e Jeff Daniels. La musica è di Randy Newman. Otto nomination agli Oscar (fra cui sceneggiatura, fotografia e colonna sonora, oltre a Rollins e McGovern come attori non protagonisti) ma nessuna statuetta. Il film è tratto dall'omonimo romanzo storico di E. L. Doctorow.

16 novembre 2018

Aspettando il re (Tom Tykwer, 2016)

Aspettando il re (A Hologram for the King)
di Tom Tykwer – USA/Fra/Ger 2016
con Tom Hanks, Alexander Black
**

Visto in TV.

Alan Clay (Hanks), venditore in crisi familiare, professionale e di salute, viene inviato dalla sua azienda in Arabia Saudita per cercare di vendere al re di quel paese – che sta costruendo una gigantesca città nel deserto – un avveniristico sistema di teleconferenze olografico. Ma il sovrano non si fa vivo, e l'incontro con lui viene rimandato di giorno in giorno senza che a Clay (in un crescente stato di frustrazione e alienazione) vengano fornite spiegazioni... Da un romanzo di Dave Eggers, una pellicola che mostra un personaggio catapultato dall'altra parte del mondo, in un paese a lui totalmente estraneo e incomprensibile (potrebbe essere su Marte, per quanto lo riguarda), dove però finirà per trovare un punto di contatto. Gli echi kafkiani ("Il castello", "Davanti alla legge") e beckettiani ("Aspettando Godot", evocato dal titolo italiano), gli accenni ai pericoli dell'economia globale (l'outsourcing), la crisi personale ed esistenziale, si intrecciano in un film che parte bene ma che da metà in poi comincia a perdere per strada il proprio focus, trascinandosi verso un improbabile lieto fine hollywoodiano (la love story con la dottoressa). Surreali e suggestive le scene della città in costruzione nel deserto, ma per il resto l'ambientazione araba appare stereotipata (un po' come lo era quella giapponese in "Lost in translation", film con cui ha qualche similarità). La regia di Tykwer è comunque spigliata. Flop al botteghino, nonostante un buon Hanks. Alexander Black è l'autista, Sarita Choudhury la dottoressa, Sidse Babett Knudsen la collega danese. Nel cast anche Ben Whishaw e Tom Skerritt.