31 marzo 2019

Youth (Feng Xiaogang, 2017)

Youth (Fang hua)
di Feng Xiaogang – Cina 2017
con Huang Xuan, Miao Miao
**1/2

Visto all'Auditorium San Fedele, con Marisa, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

Trent'anni di storia della Cina (dalla Rivoluzione Culturale alla morte di Mao, dalla guerra sino-vietnamita ai cambiamenti sociali e le riforme del paese) raccontate attraverso la vita, le amicizie, il cameratismo, gli amori, i tradimenti, i sacrifici e le sofferenze di un gruppo di giovani artisti (musicisti e ballerine) della "troupe artistica" dell'esercito cinese, una speciale compagnia di canto e danza incaricata di esibirsi in occasione di eventi e manifestazioni propagandistiche. La voce narrante è quella di Suizi (Zhong Chuxi), alter ego della scrittrice Yan Geling (dal cui romanzo – da lei stessa sceneggiato e parzialmente autobiografico – è tratto il film). E nonostante l'impostazione corale, la pellicola segue in particolare le vicende di due personaggi: Liu Feng (Huang Xuan), soldato modello, gentile e ammirato da tutti, che però soffrirà per amore, finirà a combattere in prima linea e diventerà un invalido di guerra; e He Xiaoping (Miao Miao), giovane ballerina figlia di un intellettuale esiliato durante la rivoluzione culturale, bullizzata e maltrattata dalle compagne, ma dotata di una grande forza di volontà. Fra colossal e melodramma, il film è forse un po' enfatico, nostalgico e patinato (da notare, per esempio, il lungo ed elaborato piano sequenza dell'assalto alla carovana durante la guerra): ma riesce comunque a descrivere in maniera equilibrata un passato ricco di idealismo ed entusiasmo (quello della gioventù, appunto), mettendolo a confronto con le amarezze e la disillusione del presente (e della maturità).

Ancora un giorno (De la Fuente, Nenow, 2018)

Ancora un giorno (Another Day of Life)
di Raúl de la Fuente, Damian Nenow – Polonia/Spagna 2018
animazione rotoscope
***

Visto all'Auditorium San Fedele, con Marisa, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

Nel 1975 il giornalista e scrittore polacco Ryszard Kapuściński si trova in Angola come corrispondente di guerra, ed è testimone del conflitto civile che esplode nel paese dopo che è stato abbandonato in fretta e furia dai colonialisti portoghesi. Gli scontri fra le due fazioni, spalleggiate rispettivamente da USA e URSS (allora in piena guerra fredda), fanno precipitare il paese nel caos (o nella confusão, per usare il termine locale). Questo bel documentario in animazione rotoscope è ispirato al libro scritto dallo stesso Kapuściński, integrato da filmati e interviste ad alcuni dei protagonisti di allora (un paio di giornalisti angolani che collaborarono con lo scrittore, il comandante portoghese Farrusco che guidò la resistenza nel sud del paese), e fa un ottimo lavoro nel descrivere l'atmosfera di quei giorni, ritraendo la situazione politica e sociale ma anche il difficile mestiere del corrispondente di guerra. Lo stesso Kapuściński si scopre legato a doppio filo alle sorti del conflitto, quando deve prendere la difficile decisione se comunicare o meno al mondo la notizia dell'intervento delle forze cubane (per far fronte all'invasione da parte del Sudafrica), rivelando così la verità ma rischiando di provocare la reazione degli Stati Uniti. La riflessione (l'osservatore perturba la realtà con la sua sola presenza?) ricorda uno dei concetti alla base della meccanica quantistica. Fra diario di viaggio, testimonianza storica e collezione di ritratti di personaggi indimenticabili (come Carlota, la giovane e carismatica soldatessa che accompagna Kapuściński e un suo collega al fronte), il tono del racconto è coinvolgente, stimolante, e mai retorico o superficiale. Anche l'animazione è ben fatta: l'uso dei disegni consente di rendere sullo schermo (in maniera anche surreale e immaginifica) sequenze che girate dal vivo sarebbero state irrimediabilmente cruente.

30 marzo 2019

Bulbul can sing (Rima Das, 2018)

Bulbul can sing
di Rima Das – India 2018
con Arnali Das, Manoranjoan Das
**

Visto all'Auditorium San Fedele, con Marisa, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

La quindicenne Bulbul abita con la famiglia in una fattoria nell'Assam (uno stato rurale dell'India nord-orientale), bighellona per la campagna o va a scuola con gli inseparabili amici Bonny e Sumu, e vive le prime esperienze sentimentali. Ma in una società troppo ancorata ai valori del passato, che osteggia l'espressione dei giovani e ne reprime ogni individualità, persino gli amori adolescenziali diventano qualcosa di cui vergognarsi. Sorprese a sbaciucchiarsi con i fidanzatini, Bulbul e Bonny vengono infatti severamente punite dalla scuola e disapprovate dall'intero villaggio, tanto che l'amica sceglierà il suicidio. La svolta tragica (che pure era preceduta da segnali premonitori nell'incipit: l'immagine dell'altalena e i racconti sugli spiriti delle ragazze morte) modifica all'improvviso il mood di un film che appariva semplice e leggero, una storia di coming-of-age di impostazione episodica e corale. La denuncia di un mondo insensibile, oppressivo e patriarcale ne eleva il valore, pur lasciando un retrogusto sgradevole. Come capita spesso, le vittime sono i membri più sensibili della società (l'amico preso in giro da tutti perché debole ed effemminato, il fidanzatino che ama scrivere poesie). Nonostante il titolo, che fa riferimento alle (presunte) doti canore della protagonista (il cui padre vorrebbe che diventasse una cantante, mentre lei si trova a disagio a cantare in pubblico), non ci sono sequenze o canzoni in stile bollywoodiano: la pellicola è (per fortuna) di natura essenzialmente realista.

Divine wind (Merzak Allouache, 2018)

Divine wind (Rih rabani)
di Merzak Allouache – Algeria/Francia 2018
con Sarah Layssac, Mohamed Oughlis
*1/2

Visto all'Auditorium San Fedele, con Marisa, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

In una capanna nel deserto algerino, ospiti di un'anziana contadina, una giovane reclutatrice dell'ISIS e un ragazzo che ha scelto di andare a combattere con i terroristi islamici attendono di ricevere gli ordini per compiere la propria missione: un attentato suicida presso un vicino impianto petrolifero. Girato in bianco e nero e caratterizzato da estrema lentezza, un film assai dilatato che lascia appena intuire il passato e i trascorsi dei suoi personaggi (nelle scarne telefonate che il ragazzo fa al padre, cercando di convincerlo di trovarsi a Barcellona, e negli sguardi che la ragazza rivolge alla foto della sorella defunta). Lui è fragile, insicuro, incerto, mentre lei è all'apparenza assai dura e decisa, salvo lasciarsi andare a profonde reazioni emotive quando non pensa di essere vista: e naturalmente fra i due scatta qualcosa, anche se una relazione affettiva non può aver veramente modo di svilupparsi. Ma nonostante la bella fotografia (quasi da cinema muto o da Nouvelle Vague) che rende al meglio gli affascinanti spazi del deserto, la pellicola risulta davvero troppo esile, anche perché la lunga fase di attesa e sospensione (gli eventi accadono soltanto nel finale) non è accompagnata da alcun approfondimento o riflessione particolare sui suoi personaggi e sul tema stesso del terrorismo (il titolo, "Vento divino", traduce il termine kamikaze) o del fanatismo religioso (perché i due protagonisti sono diventati così?).

29 marzo 2019

Flatland (Jenna Bass, 2019)

Flatland
di Jenna Cato Bass – Sudafrica/Ger/Lux 2019
con Nicole Fortuin, Faith Baloyi
*

Visto allo Spazio Oberdan, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

In fuga da una traumatica prima notte di nozze, Natalie (Nicole Fortuin) uccide il prete che l'aveva sposata e scappa insieme all'amica e "sorella di latte" Poppie (Izel Bezuidenhout), una sciroccata che si è fatta mettere incinta da un camionista. Insieme, le due partono come Thelma & Louise, ma sulle loro tracce c'è Beauty Cuba (Faith Baloyi), solitaria poliziotta appassionata di telenovelas, che intende scagionare l'ex fidanzato Billy, auto-accusatosi dell'omicidio (e "incastrato" da Bakkies, il marito di Natalie, figlio del capo della polizia). Un film sconclusionato, rocambolesco, con una sceneggiatura convoluta ed sovrabbondante, personaggi idioti (è praticamente impossibile empatizzare con chiunque di loro, compresa Natalie, che parla al proprio cavallo come se fosse sua madre) e alcuni fra gli attori più inespressivi che abbia mai visto. La regista vorrebbe giocare con i generi (dal western al thriller d'azione, dal melodramma alla denuncia sociale), ma fa un pasticcio senza alcun senso della misura, privo di grazia e di equilibrio, che procede per accumulo in maniera goffa e insensata, forse nel tentativo di fare il verso ad alcune (brutte) pellicole post-moderne americane. Il titolo (l'unico motivo per cui avevo scelto di vederlo) non ha purtroppo nulla a che fare con il romanzo satirico di Edwin Abbott, ma si riferisce alla piattezza del territorio dove si svolge la storia, la semi-desertica regione del Karoo.

Hotel by the river (Hong Sang-soo, 2018)

Hotel by the river (Gangbyun Hotel)
di Hong Sang-soo – Corea del Sud 2018
con Gi Ju-bong, Kim Min-hee
**

Visto allo Spazio Oberdan, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

Ospite in pieno inverno in un albergo sul fiume Han, un anziano poeta (Gi Ju-bong) riceve la visita dei due figli ormai cresciuti (Kwon Hae-hyo e Yoo Jun-sang), con i quali intende ricucire i rapporti. Nella stessa struttura c'è anche una ragazza (Kim Min-hee), da poco abbandonata dall'amante, che viene raggiunta da un'amica (Song Seon-mi). Il consueto minimalismo di Hong, non scevro da alcuni vezzi autoriali (qui l'uso del bianco e nero e i titoli di testa "recitati" a voce), è come al solito al servizio di una storia assai semplice per affrontare temi complessi, in questo caso l'avvicinarsi (più o meno inconsapevole) alla morte. Il candore della neve che circonda l'albergo (in Oriente, il bianco è il colore del lutto) è un chiaro segnale che si sta parlando dell'addio del padre ai due figli, dai quali è rimasto distante dopo aver abbandonato la famiglia. E come un segno premonitore, si spiegano i tanti momenti in cui i tre si perdono per un attimo di vista, con il padre che sparisce momentaneamente per girovagare intorno alla struttura, dove fra l'altro incontra le due ragazze che definisce come "angeli". Ma la sensazione è un po' quella dell'improvvisazione (per esempio, a seconda dei giorni delle riprese, la quantità di neve cresce o diminuisce) e di un vuoto ma poetico esistenzialismo, facilitato certo dai dialoghi che fluiscono con semplicità e naturalezza. Curiosità: l'albergo si chiama Heimat, come il film-capolavoro di Edgar Reitz, il che forse può ulteriormente giustificare l'uso del bianco e nero.

Freedom fields (Naziha Arebi, 2018)

Freedom fields
di Naziha Arebi – Libia/GB 2018
con attori non professionisti
**

Visto all'Auditorium San Fedele, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

Un documentario che racconta del tentativo di mettere in piedi una nazionale femminile di calcio nella Libia post-Gheddafi, dopo una rivoluzione che, anziché dare la libertà promessa, ha finito col rendere ancora più difficile la vita delle donne. L'ostilità e i pregiudizi che le calciatrici ricevono da ogni parte di una società che non approva il loro impegno nello sport fa naufragare ben presto il progetto della federazione, lasciando le giovani atlete completamente da sole. E dopo aver seguito alcune delle protagoniste nella loro difficile vita di tutti i giorni, il film documenta il loro viaggio in Libano per partecipare (come squadra "privata") a un torneo di calcio riservato a calciatrici dei paesi arabi. Girata nell'arco di cinque anni, una pellicola interessante (dove i temi dello sport e dell'autodeterminazione delle donne vanno a braccetto) ma anche un po' noiosetta, che a un certo punto tende a sfilacciarsi, forse anche perché la regista ha dovuto modificare in corsa il suo progetto quando gli eventi reali non sono andati come ci si sarebbe aspettati all'inizio.

28 marzo 2019

Baby (Liu Jie, 2018)

Baby (Bao bei er)
di Liu Jie – Cina 2018
con Yang Mi, Guo Jingfei
**1/2

Visto all'Auditorium San Fedele, in originale con sottotitoli (FESCAAAL). Era presente il regista.

Ogni anno, in Cina, moltissimi bambini nascono con disabilità o malformazioni più o meno gravi, e gran parte di questi vengono abbandonati dai loro genitori: se sopravvivono, finiscono in famiglie in affido fino al compimento dei 18 anni. È quello che è capitato alla giovane Jiang Meng (un'ottima Yang Mi) che, giunta all'età adulta, è costretta ad abbandonare la sua "madre" affidataria e a cercare lavoro in ospedale come donna delle pulizie. Qui è testimone di un caso simile al proprio: una bambina appena nata, il cui padre (Guo Jingfei) assume la sofferta decisione di rifiutare le cure per farla morire rapidamente anziché costringerla a condurre una vita da disabile. Prendendosi a cuore il destino della piccola, nella quale rivede evidentemente sé stessa, l'ostinata Jiang fa di tutto per convincere l'uomo a sottoporre la figlia alle operazioni necessarie, convinta che saprà sopravvivere e guarire. E arriverà fino al punto di organizzare il rapimento della piccola dall'istituto in cui è ricoverata... Liu Jie, già autore in passato del bel "Courthouse on the horseback", costruisce un melodramma a sfondo sociale a partire da uno scenario cupo e disperato (ispirato a diversi casi reali). La struttura narrativa, con la testardaggine della giovane protagonista che si batte contro tutto e tutti, fra l'indifferenza degli operatori sanitari e l'impotenza della polizia, può ricordare pellicole (neo)realiste cinesi come "Non uno di meno" di Zhang Yimou, anche se qui i toni sono decisamente meno poetici e più drammatici, e il coinvolgimento emotivo dello spettatore non manca di certo, nonostante il film si dilunghi un po' troppo nel finale.

Dreamaway (M. Omara, J. Domke, 2018)

Dreamaway
di Marouan Omara, Johanna Domke – Egitto/Germania 2018
con Horreya Hassan, Shaima Reda
*1/2

Visto all'Auditorium San Fedele, con Marisa, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

L'esistenza di un gruppo di lavoratori di un grande e lussuoso albergo di Sharm El Sheikh, durante la bassa stagione, quando di turisti non ce ne sono (forse anche per le conseguenze del terrorismo e della Primavera Araba) e i vari animatori, dj, massaggiatori, ecc. sono costretti a riflettere e a fare i conti con sé stessi. Film di impostazione anti-narrativa (è praticamente un documentario, che segue i sette personaggi nelle loro attività di tutti i giorni), venato da una profonda tristezza. Le immense strutture, pensate per divertire e intrattenere i villeggianti stranieri, sono vuote e desolate (o forse popolate da fantasmi), il che ne mette in luce tutta l'artificialità, e gli stessi operatori si rendono conto di come la frequentazione di questo mondo fasullo li stia cambiando poco a poco, facendo loro perdere la propria identità (vedi per esempio l'uomo che si dipinge di vernice dorata per fingere di essere una statua). Le varie sequenze che si succedono sono spesso ambientate all'alba, al tramonto o durante la notte, e il ritmo lento costruisce un'atmosfera ipnotica e quasi onirica. Ma francamente, forse anche per questo, durante la visione ho fatto fatica a tenere gli occhi aperti: e a vivacizzare una pellicola che forse avrebbe avuto bisogno di un tocco registico alla Jia Zhangke (o alla Robert Altman, vista la natura di film corale) non riesce nemmeno la trovata "surreale" di far intervistare i vari personaggi, lungo la strada, da un figurante vestito da scimmia gigante, o l'estemporanea scena in cui il massaggiatore si ritrova sotto le mani non una cliente, ma un manichino. Omara è un regista egiziano, Domke una videoartista tedesca: questo è il loro secondo lavoro insieme.

The day I lost my shadow (S. Kaadan, 2018)

The day I lost my shadow (Yom adaatou zouli)
di Soudade Kaadan – Siria/Libano/Francia/Qatar 2018
con Sawsan Arsheed, Reham Al Kassar
**1/2

Visto all'Auditorium San Fedele, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

Siria, 2012: il conflitto è iniziato da pochi mesi, ma le conseguenze sulla martoriata popolazione civile sono già pesanti. Alla ricerca di una bombola di gas, per poter cucinare un pasto caldo al proprio figlioletto, una giovane madre si avventura con altre due persone (un fratello e una sorella che hanno già sperimentato carcere e ingiustizie) in un'odissea dentro e fuori Damasco, fra le strade di periferia punteggiate da posti di blocco, i vasti uliveti ormai teatro di scontri a fuoco, e pericoli di ogni genere. E scopre che il paese sta perdendo la voglia di vivere (o forse addirittura la propria anima) a tal punto che persino le ombre stanno cominciando ad abbandonare le persone. Uno spunto surreale o fantastico (che mi ha ricordato una classica storia di Topolino, "La rivolta delle ombre" appunto, apparsa nel 1960) ma decisamente straniante per una pellicola ambientata in un contesto invece assai duro, concreto e realistico: ma è un buon modo per mettere in luce l'assurdità della guerra e il suo impatto sulla vita quotidiana di persone normali come la protagonista, costretta suo malgrado a fare i conti con la mancanza di elettricità o di gas e l'impossibilità di continuare a condurre un'esistenza ordinaria. Interessante il paragone che a un certo punto viene fatto con Hiroshima, dove invece furono le persone a sparire e le ombre a rimanere (le sagome rimaste impresse sui muri e le scale della città). La struttura circolare (la pellicola inizia e finisce nello stesso luogo, l'abitazione di mamma e figlio) favorisce il coinvolgimento emotivo. La regista, esordiente, ha vinto a Venezia il premio per la miglior opera prima.

27 marzo 2019

Los silencios (Beatriz Seigner, 2018)

Los silencios
di Beatriz Seigner – Brasile/Colombia 2018
con Marleyda Soto, Enrique Diaz
***

Visto all'Auditorium San Fedele, con Marisa, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

In fuga dalla guerra civile che per decenni ha insaguinato la Colombia, una donna e il suo figlioletto giungono su un'isola nei pressi del confine con il Brasile. E mentre cercano di riprendere una vita normale (attraverso il lavoro e la scuola), al loro fianco si muovono anche gli spiriti dei loro defunti: il marito, guerrigliero rimasto ucciso in battaglia, e la figlia più grande, Nuria. Un film stupefacente, permeato da un "realismo magico" che si fa via via sempre più esplicito (all'inizio non è affatto chiaro che, oltre al padre – del quale il figlio indossa gli stivali, il cappello, il fucile – anche Nuria è in realtà un fantasma: la verità, un po' come ne "Il sesto senso", viene alla luce poco a poco, suggerita da scene, dettagli e dialoghi sparsi, oltre che dal fatto che la bambina non parla mai con nessuno). Il clou si ha nella bellissima scena dell'incontro notturno fra i vivi e i morti, con i primi che domandano ai secondi quale sia il loro punto di vista sulle trattative di pace in atto fra il governo e le FARC: è giusto dimenticare, perdonare e andare avanti, oppure le ferite che il paese ha ricevuto sono ancora troppo fresche e dolorose per essere chiuse così rapidamente? La pellicola è ambientata nella "Isla de la fantasia", dove appunto il presente si congiunge con il passato (ed entrambi sono minacciati dal futuro, sotto la forma di speculazioni economiche o immobiliari). Particolarmente suggestiva la sequenza finale, quella del funerale sull'acqua, quando i defunti appaiono ancora una volta al fianco dei loro cari, ricoperti da colorati simboli e segni tribali come quelli degli antenati mitici. E i colori luminescenti e "fluo" che ne rivelano la natura ultraterrena finiscono per trasferirsi anche sui titoli di coda.

25 marzo 2019

Fiore gemello (Laura Luchetti, 2018)

Fiore gemello
di Laura Luchetti – Italia 2018
con Anastasya Bogach, Kallil Khone
*1/2

Visto all'Auditorium San Fedele (FESCAAAL). Era presente la regista.

Anna, sedicenne in fuga (scopriremo poi da che cosa, attraverso una lunga serie di flashback), incontra Basim, giovane immigrato clandestino della Costa d'Avorio, da poco sbarcato in Italia. Insieme trovano conforto l'uno nell'altra, in mezzo al disinteresse e all'ostilità circostante. Girato in Sardegna (di cui si intravedono scorci aspri e desolati), un film assai banale che racconta una storia banale come i suoi protagonisti (dei quali l'unico aspetto interessante è quello legato alla comunicazione: Anna non parla per nulla, Basim invece alterna due lingue, l'italiano e il francese). Anzi, si può persino dire che Basim cessa presto di essere un personaggio, e l'unica storia che il film racconta diventa quella di Anna, e non è che sia così interessante (o sconvolgente) soprattutto nelle sue svolte drammatiche e nel meccanismo farraginoso. Luoghi comuni, carenze logiche e narrative (vedi le figure di contorno, a partire dal "cattivo" interpretato da Aniello Arena, per non parlare dell'anziano floricoltore gentile (Giorgio Colangeli) o del "prostituto" travestito), prevedibilità e noia, anche nella regia e nell'utilizzo del paesaggio. E un affidamento al realismo filmico che mette a dura prova la pazienza dello spettatore (il cinema dovrebbe trasfigurare la realtà, non limitarsi a riprodurla). In più, la metafora insistita e retorica del fiore e della fragilità. I due attori sono esordienti: Khone, in particolare, era giunto in Italia soltanto sei mesi prima.

24 marzo 2019

FESCAAAL 2019

Anche quest'anno seguirò la programmazione del Festival del Cinema Africano, dell'Asia e dell'America Latina (FESCAAAL) che si svolgerà nei prossimi giorni a Milano. Come nella passata edizione, conosco pochissimi degli autori e dei registi coinvolti (il cinema africano e quello sudamericano, in particolare, sono oggetti sconosciuti e poco frequentati qui in Europa), con l'eccezione di giusto un paio di coreani (Lee Chang-dong e Hong Sang-soo). In ogni caso cercherò di vedere più film possibile, sperando in buone sorprese come in effetti accadde l'anno scorso. Il film di apertura (da cui, a giudicare dalle anteprime, mi aspetto ben poco) sarà però italiano. Stay tuned!

22 marzo 2019

Tredici anni

Qualcuno è convinto che il numero tredici porti sfortuna, ma per questo blog (che oggi compie proprio 13 anni) evidentemente non è così. Negli ultimi dodici mesi ha infatti ospitato le recensioni di ben 292 film (in netta crescita rispetto ai 241 dell'anno precedente), divisi fra 45 visioni in sala e 247 domestiche. Da quest'anno, complice l'acquisto di una smart tv (che si è portata dietro l'accesso ai vari servizi di streaming e di cinema on demand), ho incrementato parecchio le visioni di film in televisione, che vanno ad aggiungersi a quelli visionati su supporto fisico (DVD, divx). I film visti per la prima volta sono stati 228, quelli rivisti 64. Il totale delle recensioni presenti sul blog è salito così a 3137. Il regista più gettonato nel corso dell'ultimo anno (se escludiamo il "pioniere" William Dickson) è stato Federico Fellini con 7 pellicole, seguito da Miloš Forman e Lars von Trier con 5, e da Wes Anderson, Alfred Hitchcock, Dino Risi e Yoji Yamada con 4.

21 marzo 2019

Occhi senza volto (Georges Franju, 1960)

Occhi senza volto (Les yeux sans visage)
di Georges Franju – Francia/Italia 1960
con Pierre Brasseur, Alida Valli
***

Visto in divx.

Per restituire un volto alla figlia Christiane (Édith Scob), rimasta completamente sfigurata in un incidente stradale del quale lui stesso è stato responsabile, il dottor Génessier (Pierre Brasseur) – medico che gestisce una clinica privata nei dintorni di Parigi – rapisce giovani ragazze con la complicità della propria assistente/amante Louise (Alida Valli) e sperimenta in segreto tecniche innovative per trapiantare sulla figlia la pelle del loro viso. Mentre la polizia indaga, senza trovare tracce, la stessa Christiane comincia ad avere sensi di colpa... Il film più celebre di Franju, maestro del "realismo fantastico", è un horror caratterizzato da atmosfere sinceramente inquietanti (Christiane che si aggira per i corridoi della villa con una maschera priva di espressione, come una marionetta) e da alcune immagini piuttosto forti per l'epoca (le operazioni chirurgiche, l'assalto dei cani nel finale). Alla sua uscita fece scalpore e provocò proteste da parte della critica, ma con gli anni è assunto allo stato di cult movie. All'adattamento del romanzo di Jean Redon ha collaborato Claude Sautet (anche aiuto regista). La musica vivace e ossessiva di Maurice Jarre accompagna ironicamente le scorribande notturne di Louise in cerca di vittime (o per nasconderne i cadaveri), mentre la fotografia di Eugen Schüfftan ricorda a tratti l'espressionismo tedesco. Le ragazze rapite sono Juliette Mayniel (la studentessa Edna) e Béatrice Altariba (la ladruncola Paulette). In un piccolo ruolo (un giovane ispettore di polizia) c'è Claude Brasseur, figlio di Pierre. Il film avrà una profonda influenza su molti cineasti e ispirerà direttamente, fra gli altri, "Il diabolico dottor Satana" di Jess Franco e "La pelle che abito" di Pedro Almodóvar.

20 marzo 2019

La strada per Fort Alamo (M. Bava, 1964)

La strada per Fort Alamo
di Mario Bava – Italia/Francia 1964
con Ken Clark, Jany Clair
*1/2

Visto in TV.

Dopo aver assaltato una banca travestiti da soldati nordisti, due rapinatori (Ken Clark e Kirk Bert) vengono abbandonati dai loro complici nel deserto. Salvati da un convoglio militare diretto a Fort Alamo, sono costretti a continuare a fingersi soldati. E di fronte a un attacco degli indiani Osage, dimostreranno tutto il loro valore. Primo western diretto da Mario Bava (con lo pseudonimo di John Old, lo stesso che il regista italiano aveva già usato in passato per alcuni horror e thriller): un western vecchio stile, alquanto fumettoso (con personaggi che sembrano usciti da "Tex Willer", come il capitano troppo ligio alle regole) e che guarda ai classici hollywoodiani, visto che il genere più sporco e cinico degli spaghetti western doveva ancora nascere ("Per un pugno di dollari" usciva nelle sale quasi in contemporanea). Girato al risparmio (scenari e paesaggi, oltre ad essere evidentemente farlocchi, sono sempre gli stessi, riutilizzati in scene diverse!) e con diversi luoghi comuni (dalla partita a poker nel saloon all'assalto degli indiani al fiume), il film non ha molto di interessante da offrire: fra le poche cose decenti, la fotografia espressionista di alcune scene notturne (vero marchio di fabbrica di Bava). Jany Clair è la donna "perduta" di cui il protagonista si innamora, Dean Ardow il sergente che intuisce la sua identità ma si fida di lui.

19 marzo 2019

Rushmore (Wes Anderson, 1998)

Rushmore (id.)
di Wes Anderson – USA 1998
con Jason Schwartzman, Bill Murray
**

Visto in TV.

L'ambizioso e creativo Max Fischer (uno Schwartzman al debutto ma poco credibile nella parte di un quindicenne) frequenta con grande entusiasmo il prestigioso istituto privato Rushmore. Ma le troppe attività extrascolastiche cui si dedica (sport, teatro, ecc.), per non parlare delle mille iniziative in cui si lancia, lo distraggono in continuazione dagli studi. Innamoratosi della giovane insegnante Rosemary Cross (Olivia Williams), deve sopportare la delusione di vederla attratta dall'anziano imprenditore Herman Blume (Bill Murray), ex studente della scuola, nonché suo amico, finanziatore e mentore. Seguiranno ripicche e vendette, prima di una serena riappacificazione. Parzialmente autobiografico (è stato girato in parte presso la scuola che lo stesso regista ha frequentato, e dove – come il protagonista – metteva spesso in scena i suoi primi lavori teatrali), il secondo lungometraggio di Anderson – scritto ancora insieme a Owen Wilson, il cui fratello Luke ha una breve parte (il medico che accompagna Rosemary alla cena) – è un racconto di coming-of-age vivace e spigliato ma anche ondivago e poco focalizzato, oltre che (come tutto il cinema del regista) decisamente troppo impostato e calligrafico. La trama sembra procedere di momento in momento in maniera improvvisata, con un ritmo monotono e sempre uguale: e l'accatastamento delle situazioni cessa presto di essere divertente. Nel cast anche Seymour Cassel (il padre di Max), Brian Cox (il preside), Mason Gamble (l'amico) e Sara Tanaka (la fidanzatina).

18 marzo 2019

Tokyo family (Yoji Yamada, 2013)

Tokyo family (Tokyo kazoku)
di Yoji Yamada – Giappone 2013
con Isao Hashizume, Kazuko Yoshiyuki
***

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Gli anziani coniugi Hirayama (Isao Hashizume e Kazuko Yoshiyuki) lasciano il paesino di provincia per far visita ai tre figli che abitano a Tokyo. Ma questi, indaffarati e distratti, li trascureranno. Fa eccezione il figlio minore, Shoji (Satoshi Tsumabuki), considerato il più scapestrato e meno affidabile dei tre, che presenterà alla madre, prima dell'improvvisa morte di lei, la propria fidanzata Noriko (Yu Aoi). Remake (a sessant'anni di distanza) di "Viaggio a Tokyo" di Yasujiro Ozu, del quale Yamada era stato assistente (e a cui, nel cinquantenario della morte, è dedicata la pellicola). Le prime scene, con tempi, inserti e inquadrature perfettamente identiche a quelle che usava il grande maestro, facevano pensare al peggio, ovvero a una copia o imitazione spudorata del suo stile più che un omaggio. Poi invece, per fortuna, la pellicola assume una propria identità e la regia comincia a differenziarsi: e anche se la storia è praticamente la stessa (con minuscole differenze, come il fatto che il figlio minore non è morto in guerra e dunque Noriko non è vedova, e naturalmente il setting contemporaneo, con la presenza di cellulari e altro), l'umanità dei personaggi e l'universalità dei sentimenti non può che coinvolgere nuovamente. Certo, rimane la sensazione di aver assistito a uno strano mix, dove permangono dinamiche familiari, contesti e scenari degli anni cinquanta (anche per via di arredamenti, abbigliamenti, location che richiamano quelli del passato), tanto che forse la nuova collocazione temporale non era poi necessaria (e di sicuro le mancano i sottotesti: che le generazioni del dopoguerra fossero troppo impegnate e dunque distaccate da quelle precedenti aveva un senso socio-culturale ben preciso, per di più in un Giappone che allora viveva una profonda fase di trasformazione e di modernizzazione: tutto questo viene meno se la vicenda è collocata ai giorni nostri). Ma i temi del rapporto fra padri e figli (compromesso o recuperabile), della malinconia, dei rimpianti, delle delusioni, del distacco, ma anche dell'accettazione e della serenità, sono raccontati con delicatezza e sensibilità. Chi non ha mai visto il capolavoro di Ozu si lascerà commuovere, ma anche chi già lo conosce non potrà che essere soddisfatto nel vedere la storia aggiornata ma non travisata. La vecchia automobile di cui Shoji va tanto fiero è una Fiat 500. Musiche di Joe Hisaishi.

17 marzo 2019

Colossal (Nacho Vigalondo, 2016)

Colossal (id.)
di Nacho Vigalondo – USA/Canada/Spagna/Corea 2016
con Anne Hathaway, Jason Sudeikis
**1/2

Visto in TV.

Mollata dal fidanzato e decisa a rimettere un po' di ordine nella sua disastrata vita, Gloria (Hathaway) lascia New York per tornare nella cittadina del New England dove è nata e cresciuta. Qui riallaccia i contatti con Oscar (Sudeikis), suo compagno di scuola delle elementari, che ora gestisce un bar dove la ragazza viene assunta come cameriera. Ma la scoperta di avere un misterioso legame con un gigantesco mostro che ogni giorno semina il panico fra le strade di Seul, a mezzo mondo di distanza, la sconvolgerà e la costringerà a fare i conti con sé stessa... Film originale e bizzarro, che riesce mirabilmente (e incredibilmente) a fondere due generi cinematografici che sembrerebbero davvero agli antipodi: il chick flick romantico-esistenziale e i film di mostri (o kaiju eiga: alla "Godzilla", per intenderci). Anche se meno filosofico (e pretenzioso) di altre pellicole con spunti simili (penso ad "Another Earth" o anche, se parliamo di trovate surreali, a "Essere John Malkovich"), il film può essere gustato sia come semplice pellicola di genere fantastico che come metafora (Gloria deve far fronte al "mostro dentro di lei", una creatura distruttiva che personifica i suoi difetti come l'irresponsabilità, l'indolenza, la mancanza di autocontrollo e la dipendenza dall'alcol: e salvare la città di Seul diventerà un po' come salvare sé stessa). Assai divertente il modo in cui le tensioni amorose o le dinamiche di amicizia (gelosie, ripicche), spesso favorite dalla condizione di ubriachi in cui sia la protagonista che l'amico si ritrovano, si traducano negli scontri fisici fra il mostro e il robot gigante che gli si oppone. Peccato soltanto che questa parte del film non sia stata ambientata, come da tradizione, a Tokyo (pare che la Toho abbia diffidato i produttori dal riproporre troppo sfacciatamente Godzilla e la sua mitologia sullo schermo). Nel complesso: molto divertente, anche se basato su una sola idea (e con qualche problema nella caratterizzazione di alcuni personaggi, Oscar in primis). Il regista spagnolo Vigalondo, specializzato nella fantascienza, aveva già dimostrato nei suoi lavori precedenti di amare le commistioni di generi. Brava e autoironica la Hathaway. Nel cast anche Dan Stevens, Austin Stowell e Tim Blake Nelson.

15 marzo 2019

Primo amore (Matteo Garrone, 2004)

Primo amore
di Matteo Garrone – Italia 2004
con Vitaliano Trevisan, Michela Cescon
***

Rivisto in divx.

Vittorio (Trevisan), piccolo artigiano orafo, è ossessionato dalla magrezza femminile. E quando comincia a frequentare Sonia (Cescon), commessa e modella in una scuola d'arte, la spinge a perdere sempre più peso, cosa che la ragazza accetta di fare per amore: una sorta di "anoressia imposta" che mette a repentaglio non solo la sua salute ma anche i legami sociali e professionali di entrambi... Dopo "L'imbalsamatore", Garrone firma un'altra storia di ossessioni: per Vittorio è il tentativo di plasmare la sua donna a proprio desiderio, esattamente come fa con gli oggetti e i monili d'oro nel suo laboratorio (è una sorta di pigmalione alchemico e dietologo, che insegue una propria idea di perfezione o purificazione). Sonia, dal suo canto, è una vittima-succube del suo fidanzato, che in nome di un amore malsano si lascia modellare a piacimento da lui senza opporre alcuna resistenza, quasi annullando la propria volontà. Non si tratta di una vera e propria costrizione, quanto di una persuasione o di una pressione psicologica, che porta la ragazza a perdere le proprie certezze e a sentirsi giudicata e a disagio. La patologia di Vittorio lo rende invece un parassita che si realizza nel plasmare gli altri anziché nel lavorare su sé stesso (le sedute dallo psicologo che intravediamo ogni tanto non paiono avere frutti): in fondo anche la sua attività, il laboratorio di oreficeria, è stato ereditato dal padre e non è frutto di una sua iniziativa. E più si va avanti, più i personaggi si isolano nel proprio rapporto malsano, irrimediabilmente dipendenti l'uno dall'altra. Fra le scene migliori, quella al ristorante nel quale Sonia non ce la fa più e cede di colpo alla tentazione di mangiare dal piatto del compagno. La pellicola è girata e ambientata a Vicenza (e dintorni). Belle le musiche d'atmosfera della Banda Osiris. Un piccolo gioiellino di analisi psicopatologica, ben recitato e diretto con eleganza. Peccato per il sonoro in presa diretta, che aiuta a caratterizzare i personaggi in chiave realistica ma rende talvolta poco intelleggibili le battute.

14 marzo 2019

Il tesoro di Vera Cruz (Don Siegel, 1949)

Il tesoro di Vera Cruz (The Big Steal)
di Don Siegel – USA 1949
con Robert Mitchum, Jane Greer
**

Visto in TV.

Giunto in Messico sulle tracce di Jim Fisher (Patric Knowles), rapinatore che gli ha sottratto un milione di dollari destinati alle paghe dell'esercito statunitense, il tenente Douglas Anderson (Robert Mitchum) è inseguito a sua volta dal proprio superiore, il capitano Blake (William Bendix), convinto che il responsabile del furto sia invece lui. Con l'aiuto della spigliata Joan Graham (Jane Greer), anche lei con un conto da regolare con Fisher, i due si lanciano all'inseguimento dell'uomo lungo le polverose strade messicane. Ma ignorano di essere tutti tenuti sott'occhio dall'ispettore locale Ortega (Ramón Novarro), che gioca con loro come il gatto con i topi... I classici ingredienti del noir, trasfigurati in un'avventura solare e divertente (anche se latitano sia il realismo che la tensione), quasi un remake de "La collana insanguinata" di Robert Wise, uscito l'anno prima: una caccia al tesoro a base di inseguimenti (e qualche colpo di scena finale) in un paese straniero. A questo proposito, non mancano alcuni divertenti scambi idiomatici (la ragazza è l'unica fra gli americani a parlare lo spagnolo, mentre l'ispettore messicano si impappina spesso con i modi di dire inglesi). Mitchum e la Greer tornavano a fare coppia sullo schermo due anni dopo "Le catene della colpa". Forse Peckinpah si ricorderà del film al momento di farne una versione più violenta e sardonica con "Voglio la testa di Garcia". Ne esiste una versione colorizzata.

12 marzo 2019

Bullets over summer (Wilson Yip, 1999)

Bullets over summer (Baau lit jing ging)
di Wilson Yip – Hong Kong 1999
con Francis Ng, Louis Koo
***1/2

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Sulle tracce di Dragon (Joe Lee), pericoloso e spietato rapinatore di banche, la coppia di poliziotti formata dal "duro" e irascibile Mike (Francis Ng) e dal più giovane e immaturo Brian (Louis Koo) decide di tenere sotto sorveglianza 24 ore su 24 la casa del suo presunto fornitore di armi, piazzandosi in un appartamento al sesto piano nel condominio di fronte. Questo è abitato da un'anziana signora (Law Lan) che soffre di demenza senile, e che si convince che i due detective siano i suoi nipoti, tornati dopo tanto tempo a trovarla. Mentre l'indagine si impantana su false piste (si scopre che l'uomo sorvegliato, alla fine, era quello sbagliato), i poliziotti cominciano ad affezionarsi alla vecchietta, a lasciarsi coinvolgere nelle beghe del condominio e a formare una vera e propria famiglia insieme a lei e a due ragazze appena conosciute: Yen (Michelle Saram), una studentessa dalla vita scapestrata, per Brian; e Yuen (Stephanie Lam), la commessa di una lavanderia, incinta e lasciata dal suo fidanzato, per Mike. E proprio quando ormai il vero motivo della loro missione sembrava dimenticato, questo si manifesta all'improvviso quando il ricercato, per una serie di coincidenze, si materializza nell'appartamento della nonnina... Il primo vero capolavoro di Wilson Yip, una pellicola sorprendente e drammatica che cambia più volte direzione e che dietro la forma del film poliziesco affronta il tema della famiglia da un'angolazione davvero particolare. La scena del pranzo è il clou di tutto: attorno al tavolo abbiamo una serie di individui che in realtà non hanno nessun legame di sangue fra loro (anzi, fino a pochi giorni prima non si conoscevano nemmeno), eppure si percepisce la tensione del "nucleo familiare" messo in pericolo dall'irruzione dei banditi e dalla violenza dei gangster. Anche perché i protagonisti sono tutti soli, orfani o abbandonati, e proprio per questo sono portati a dare ancora più valore al fragile legame appena formato. Lo stile di regia e la fotografia colorata sono chiaramente debitori al cinema di Martin Scorsese (e non a caso un poster di "Taxi driver" con Robert De Niro, assieme a quelli di altre pellicole americane come "Natural born killers" e "La sottile linea rossa", fa capolino nell'appartamento dell'uomo sotto sorveglianza). Ottimi tutti gli interpreti. Peccato solo per il finale, dove la storia si sfilaccia un pochino. Yip confermerà subito il suo talento drammatico nel successivo "Juliet in love".

11 marzo 2019

I figli di Hitler (Edward Dmytryk, 1943)

I figli di Hitler (Hitler's Children)
di Edward Dmytryk – USA 1943
con Tim Holt, Bonita Granville
*1/2

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Film di propaganda che affronta il tema della Hitler-Jugend, l'organizzazione giovanile paramilitare del partito nazista. Diretto da un Dmytryk ancora agli esordi (che sostituì il regista inizialmente previsto, Irving Reis), riscosse un enorme e inaspettato successo al botteghino: merito del soggetto, che tutto sommato non banalizza l'argomento, e degli interpreti, convincenti nelle rispettive parti. La storia inizia nella Berlino del 1933, quando due studenti – Anna (Granville), che frequenta la scuola americana, e Karl (Holt), indottrinato al nazismo in un istituto che sorge proprio di fronte – si scontrano a ripetizione, in nome delle rispettive ideologie, prima di accorgersi di essere innamorati l'uno dell'altra. Negli anni successivi, man mano che il partito di Hitler acquista potere, Karl fa carriera come ufficiale della Gestapo, mentre Anna continua a professare il suo amore per la libertà. Quando il ragazzo sarà incaricato di deportare Anna in un campo di rieducazione, cercherà di salvarla a costo della propria vita. Dietro il canovaccio sentimentale, il film attacca con toni accesi il fanatismo degli educatori e il lavaggio del cervello cui venivano sottoposti i giovani tedeschi sin dalla tenera età: esemplare la testimonianza dell'anziano docente che afferma di non essere libero di parlare nemmeno in casa propria e davanti ai propri figli. Fra le scene clou anche il confronto (alquanto improbabile) fra il vescovo (H.B. Warner) e il colonnello tedesco (Otto Kruger), che afferma che nella nuova Germania non ci sarà posto per le chiese. Kent Smith è il professor Nichols, direttore della scuola americana.

10 marzo 2019

Le amiche (Michelangelo Antonioni, 1955)

Le amiche
di Michelangelo Antonioni – Italia 1955
con Eleonora Rossi Drago, Yvonne Furneaux
**1/2

Visto in TV.

Tornata da Roma nella natìa Torino per aprire un negozio di moda sartoriale, Clelia (Eleonora Rossi Drago) comincia a frequentare un gruppo di amiche dopo che una di loro, la fragile Rosetta (Madeleine Fischer), ha tentato il suicidio per amore. Rosetta è infatti innamorata di Lorenzo (Gabriele Ferzetti), pittore sposato con Nene (Valentina Cortese), un'artista che ha molto più successo di lui. Del gruppo fanno anche parte la ricca Momina (Yvonne Furneaux), che passa con disinvoltura dal marito all'amante, e la più "leggera" Mariella (Anna Maria Pancani). Quanto a Clelia, fra la carriera e l'amore per il manovale Carlo (Ettore Manni), finirà con lo scegliere il primo... Al quarto lungometraggio, Antonioni comincia ad addentrarsi in maniera sempre più approfondita in quel dedalo di emozioni che caratterizza l'insicurezza e il malessere della nascente borghesia italiana, in particolare da un punto di vista femminile, che sarà al centro dei suoi capolavori successivi (a partire da "L'avventura"). Ispirato a un romanzo di Cesare Pavese ("Tra donne sole"), ma con alcune affinità anche al classico "Donne" di George Cukor, il film mette al centro della scena i rapporti, le illusioni, le delusioni, i litigi, i rimpianti e la fragilità di un gruppo di donne che si barcamenano fra gli affetti e il lavoro (secondo alcuni critici, il film è praticamente un prototipo della serie "Sex and the city"!). Gli uomini restano un mondo a parte, fonte di felicità o di disperazione in maniera quasi casuale, e per loro c'è chi sceglie di rimanere (Nene), rinunciando al proprio successo, e chi invece di partire (Clelia). Le inquietudini e le introversioni dei personaggi prendono vita sullo schermo grazie al buon cast ma soprattutto alla sensibilità del regista, che mostra di essere a suo agio nel descrivere un microcosmo inserito in modi diversi nel tessuto della città. La sceneggiatura è firmata da Antonioni insieme (non a caso) a due donne: Suso Cecchi D'Amico e Alba de Céspedes. Nel cast anche Franco Fabrizi (l'architetto Cesare), Luciano Volpato e Maria Gambarelli.

9 marzo 2019

L'anno del dragone (M. Cimino, 1985)

L'anno del dragone (Year of the Dragon)
di Michael Cimino – USA 1985
con Mickey Rourke, John Lone
**

Visto in TV.

Incaricato di riportare l'ordine a Chinatown, il pluridecorato capitano della polizia Stanley White (Mickey Rourke) è convinto che si tratti di "un altro Vietnam". Odia i cinesi, la loro cultura e gli intrallazzi segreti delle varie bande, soprattutto adesso che il giovane e ambizioso Joey Tai (John Lone) sta cercando di scalzare gli anziani leader delle Triadi per impadronirsi del lucroso traffico di droga che dalla Thailandia giunge fino al cuore di New York. Ma la sua crociata personale gli costerà cara: le gang gli uccidono prima la moglie e poi l'agente che aveva infiltrato nel ristorante di Tai. Pur abbandonato dai propri superiori, che preferiscono lasciare le cose come stanno, grazie al sostegno della bella giornalista Tracy Tzu (Ariane Koizumi) riuscirà almeno ad avere la meglio su Tai. Il ritorno al cinema di Michael Cimino, cinque anni dopo il colossale fiasco de "I cancelli del cielo", è un adattamento di un romanzo di Robert Daley (la sceneggiatura è dello stesso regista e di Oliver Stone) che suscitò non poche controversie in patria per il presunto "razzismo" nei confronti degli asiatici che vivevano in America. In realtà i pensieri e le opinioni di White fanno parte del personaggio, mentre c'è chi gli ribatte per le rime sottolineando il ruolo e l'importanza che la comunità cinese ha storicamente rivestito nella costruzione degli Stati Uniti. Caratterizzato da una buona regia e da un'avvolgente fotografia (di Alex Thomson), il film perde qualche colpo nell'impianto generale, che alla resa dei conti si rivela quello di un poliziesco abbastanza convenzionale, con personaggi stereotipati (il poliziotto tutto d'un pezzo, il cattivo senza sfumature, la bella reporter esotica) e una struttura un po' disuguale (servivano davvero le parti girate in Thailandia con John Lone?). Da un "Chinatown" ambientato effettivamente nel quartiere newyorkese ci si poteva aspettare di più. Memorabile il lussuoso loft di Tracy con vista sul Ponte di Brooklyn. Nel cast brilla il solo Rourke, ma si riconoscono diversi attori asiatici che in quegli anni apparivano spesso nei film hollywoodiani (come Victor Wong e Dennis Dun).

7 marzo 2019

La casa di Jack (Lars von Trier, 2018)

La casa di Jack (The house that Jack built)
di Lars von Trier – Danimarca/Sve/Fra/Ger 2018
con Matt Dillon, Bruno Ganz
***1/2

Visto al cinema Eliseo.

Jack (Matt Dillon), psicopatico con un'ossessione compulsiva per la pulizia, è un serial killer con velleità artistiche (scatta fotografie delle sue vittime, ne conserva i corpi come trofei di caccia, cerca di compiere omicidi sempre più significativi e complessi). Attraverso il racconto di cinque "incidenti", discute delle proprie imprese – effettuate nello stato di Washington nell'arco di dodici anni – con un misterioso interlocutore, di cui a lungo udiamo soltanto la voce: dapprima pensiamo che possa trattarsi di un confessore, o di uno psicanalista (un po' come nel precedente lavoro di Lars von Trier, "Nymphomaniac", anche se la dipendenza qui passa da eros a thanatos), ma infine scopriremo che si tratta del Virgilio della "Divina Commedia" (Bruno Ganz, in una delle sue ultime apparizioni sullo schermo). E infatti, nell'epilogo ("catabasi"), la pellicola – ricchissima di spunti e cui già non mancavano senso dell'ironia e grottesco, nonostante il tema violento e le tante immagini cruente, alcune delle quali eliminate nella versione doppiata che è uscita nelle sale – diventa ancora più kitsch e surreale, mostrandoci una vera e propria discesa agli inferi (con il protagonista avvolto in una cappa rossa decisamente dantesca) che si conclude sui titoli di coda (fotografati in negativo) con la canzone "Hit the road Jack" di Ray Charles. Come detto, siamo di fronte al film gemello di "Nymphomaniac", apparentemente nichilista e perverso come quello, o forse anche di più. Lì, la confessione psicanalitica della protagonista (a partire da ricordi ed episodi legati alla propria infanzia) girava attorno alle sue molteplici esperienze legate al sesso; qui, invece, queste riguardano l'arte dell'uccidere. "Arte", perché il protagonista si vede come un vero e proprio artista dell'omicidio, alla continua esplorazione di nuovi modi e nuove "correnti" con cui compiere le proprie imprese. Se da un episodio all'altro cambiano le vittime (anche se la maggior parte di quelle che ci vengono mostrate sono donne), le modalità, la personalità del killer, le motivazioni, il contesto e il livello di audacia, ci sono naturalmente anche fili conduttori nel modus operandi, come il furgone rosso che utilizza ogni volta, incurante di lasciare tracce o indizi: anzi, quasi come se il brivido di farsi scoprire facesse parte del gioco, vediamo che Jack si fa via via più imprudente, correndo rischi inutili e contando spesso sulla stupidità dei poliziotti, dei testimoni o delle sue stesse vittime. In fondo non gli importa molto di essere preso, così come è indifferente alla morale, alla società e a quasi tutto quello che riguarda il mondo esterno, intrappolato invece in una continua ricerca dentro sé stesso, le proprie pulsioni e i tormenti interiori (di cui cerca di analizzare i meccanismi: esemplare il cartone animato che mostra una camminata sotto una serie di lampioni, le cui ombre spiegano l'alternanza fra la soddisfazione del desiderio di uccidere e il suo ripresentarsi periodicamente).

Come in "Nymphomaniac", il dialogo fra chi racconta e chi ne riceve la confessione è accompagnato da innumerevoli divagazioni e aneddoti sugli argomenti più disparati, anche se spesso legati al tema della morte e del decadimento: la falciatura dell'erba, il marcire dell'uva, la natura violenta della tigre, la "luce nera". Non mancano inoltre citazioni di vario genere: frasi di canzoni o di poemi ("Vuoi che ti mostri la strada per il prossimo whisky bar?" proviene da Bertolt Brecht), video musicali (Jack con i cartelli nel vicolo fa il verso al Bob Dylan di "Subterranean Homesick Blues"), dipinti e opere d'arte ("La barca di Dante" di Delacroix, ricostruita con stile iperrealista), personaggi eccentrici (i filmati di Glenn Gould che suona il piano), e naturalmente film (con l'autocitazione, da parte di LVT, della propria intera filmografia, di cui compaiono in rapida successione alcuni spezzoni). E in particolare l'allegoria dantesca permea tutta la pellicola (il film inizia in una foresta, dove Jack compie il suo primo omicidio, che potrebbe essere proprio la "selva oscura" di Dante). Lo stesso titolo originale, "La casa che Jack costruì", è un verso di una canzone/filastrocca per bambini assai popolare nel mondo anglosassone (analoga alla nostra "Alla fiera dell'est"), che von Trier aveva già citato in uno dei suoi primi lavori ("L'elemento del crimine", di cui questo potrebbe essere in fondo un aggiornamento). Qui è giustificato dal fatto che il protagonista, ingegnere che si autodefinisce architetto, progetta di costruirsi una casa ma finisce sempre per buttarla giù e per ricominciarla da capo, alla continua ricerca del giusto "materiale". Certo, è facile pensare che il nome Jack sia anche ispirato a quello di uno dei serial killer più celebri della storia, Jack lo squartatore, che come il personaggio interpretato da Dillon scriveva lettere ai giornali firmate con uno pseudonimo (in questo caso "Mr. Sophistication", nome che viene da "L'assassinio di un allibratore cinese" di Cassavetes) e si accaniva sulle donne (a Jack the Ripper sono attribuiti cinque vittime accertate, proprio come i cinque "incidenti" raccontati nel film: e la scena in cui asporta il seno di una donna sembra un rimando evidente). Alcune sequenze sono forti e brutali, permeate da una violenza realistica e difficile da sostenere, se non si sapesse che quelle di LVT sono come al solito provocazioni e l'andare sopra le righe è un effetto voluto (c'è chi ha parlato di "pulp", evocando forse Tarantino: io, come mi capita spesso, ci vedo anche qualcosa di Greenaway, altro regista ossessionato dalla morte). Per questo motivo è sbagliato fermarsi alla superficie delle immagini, e bollare questo film (o tutto il cinema del regista danese) come perverso, misogino, inutilmente violento: attraverso i suoi personaggi lui scava dentro di sé e dentro di noi, analizzando le pulsioni degli esseri umani (di cui il sesso e la violenza, ma anche la dipendenza e il narcisismo, sono elementi fondamentali). E spesso, come quando parla della "bellezza del decadimento", porta alla luce cose che pochi dicono o vogliono sentirsi dire. La prima vittima è interpretata da Uma Thurman, il cast comprende anche Riley Keough e Jeremy Davies. Curiosità: inizialmente LVT aveva pensato di realizzare il film sotto forma di serie televisiva.

6 marzo 2019

Il ritorno (Andrey Zvyagintsev, 2003)

Il ritorno (Vozvraščenje)
di Andrey Zvyagintsev – Russia 2003
con Ivan Dobronravov, Konstantin Lavronenko
***

Rivisto in divx.

Il piccolo Ivan (Ivan Dobronravov) e il fratello maggiore Andrey (Vladimir Garin) devono fare i conti con l'improvviso ritorno del padre (Konstantin Lavronenko) dopo dodici anni di assenza. A non prenderla bene è soprattutto il più piccolo, Ivan, che reagisce con diffidenza e ostilità verso questo genitore sconosciuto e misterioso, che li trascina in una "gita" fuori porta nel nord della Russia, dapprima in macchina per andare a pesca su un lago, e poi in barca verso un'isola al largo della costa. La sua inattesa ricomparsa, il mistero della sua assenza, suoi modi bruschi, il trattarli da adulti (anche per responsabilizzarli) sono visti da Ivan come una mancanza di affetto, e la sua ribellione è accentuata dal fatto che il fratello Andrey. invece, sembra subito pronto a "legare" col padre... La folgorante opera prima di Zvyagintsev, premiata con il Leone d'Oro a Venezia, è una plumbea tragedia on the road sui temi della famiglia e della crescita, un viaggio avventuroso alla scoperta di sé stessi e di un rapporto fra padri e figli che fatica ad ingranare e a recuperare gli anni perduti. La fotografia cupa, la regia avvolgente, le ottime prove di attori dai volti memorabili, l'inaspettato finale sono tutti elementi che concorrono a una pellicola di forte atmosfera, ricca di iconografie e di significati (basti pensare alla prima apparizione del padre, a letto, che sembra il "Cristo morto" del Mantegna, e che richiama la scena in cui è sdraiato nella barca nel finale). "Avrei potuto amarti se tu fossi stato diverso", grida Ivan al padre, manifestato tutta l'ambiguità di un ragazzino che desidera affetto ma che – per la sua giovane età o la difficile fase della crescita che sta attraversando – non riesce ad accorgersi del valore dell'esperienza che il viaggio insieme a lui può donargli. E poi rimane il mistero della cassetta, sepolta nell'isola, che il padre deve recuperare. In un tragico scherzo del destino, Vladimir Garin, che interpreta il fratello maggiore, è morto annegato in un lago subito dopo la fine delle riprese.

5 marzo 2019

The protagonists (Luca Guadagnino, 1999)

The protagonists (id.)
di Luca Guadagnino – Italia 1999
con Tilda Swinton
*

Visto in divx.

Una troupe cinematografica italiana vola a Londra per realizzare un film basato su una storia vera: due giovani di buona famiglia (Claudio Gioè e Paolo Briguglia) hanno ucciso "per gioco" un uomo scelto a caso, l'egiziano Mohammed (Andrew Tiernan), all'interno della sua automobile. Tilda Swinton (che interpreta sé stessa) fa la narratrice, l'interprete, la guida per le strade di Londra... Dal titolo "altmaniano", il primo lungometraggio di Luca Guadagnino è un pasticcio senza capo né coda, un minestrone di inchiesta giornalistica, metacinema, documentario, ricostruzione artistica, videoclip musicale, girato con un poco promettente guazzabuglio di stili, un montaggio frenetico, dialoghi banali. L'interesse dello spettatore non decolla mai, anche perché l'analisi psicologica dei personaggi è superficiale, il racconto della vicenda è ripetitivo, la riflessione sul male è vuota e del tutto fine a sé stessa. Ne risulta un film pretenzioso, retorico, compiaciuto, ma anche goffo e sconclusionato. Da mal di testa la colonna sonora incessante, mediocre anche il doppiaggio. Fra gli attori (talvolta poco riconoscibili) anche Fabrizia Sacchi, Laura Betti e Michelle Hunziker.

4 marzo 2019

Gli stigmatizzati (Carl T. Dreyer, 1922)

Gli stigmatizzati (Die Gezeichneten)
di Carl Theodor Dreyer – Germania 1922
con Vladimir Gajdarov, Polina Piekowskaia
**

Visto su YouTube, con cartelli in inglese.

Nella Russia zarista, scossa dai fremiti della rivoluzione del 1905, la giovane ebrea Hanne-Liebe (Polina Piekowskaia) deve fare i conti con l'ostilità e l'antisemitismo degli abitanti del suo villaggio... Primo film girato da Dreyer in Germania, dal respiro internazionale: l'ambientazione è appunto russa, così come molti degli interpreti (fra le comparse ci sono numerosi ebrei russi che erano fuggiti appunto dai pogrom del 1905 per rifugiarsi in Germania), ma il cast comprende anche attori danesi, tedeschi e polacchi. Thorleif Reiss interpreta il giovane e idealista rivoluzionario Sasha, innamorato della protagonista sin dall'infanzia, che la salverà dalla folla nella drammatica scena finale. Wladimir Gadjarov è Jakov, il fratello maggiore di Hanne-Liebe, che ha "tradito" la famiglia ripudiando la fede ebraica e diventando un celebre avvocato a San Pietroburgo (ma tornerà sui suoi passi e riconoscerà i propri errori). Il film è comunque ricco di personaggi minori e denso di situazioni, frose anche troppo, e ha il merito di ritrarre con un certo realismo e un senso di autenticità (e qualche tocco melodrammatico, dovuto forse all'origine letteraria del soggetto, da un romanzo semi-autobiografico di Aage Madelung del 1918) una tragedia storica che allora era relativamente recente (e che, purtroppo, prefigura quello che accadrà nuovamente proprio in Germania una quindicina di anni più tardi). Dreyer vivacizza il tutto con uno stile ricco di stacchi di montaggio, di primi piani (anche su oggetti), di cambi d'ambientazione, passando da un personaggio all'altro e rendendoli tutti vivi a loro modo (si pensi a Gadja, il figlio del mercante russo; all'infiltrato della polizia zarista che tradisce i rivoluzionari; al falso monaco che semina fra la popolazione l'odio per gli ebrei; per non parlare di tante altre figure minori, dal "pretendente" di Hanne-Liebe alla spia-prostituta a San Pietroburgo). Da notare anche la sovrimpressione nella scena del sogno di Jakov. Forse la storia risulta un po' compressa e mescola troppi temi (la rivoluzione, i pogrom, le vicende personali e familiari di Hanne-Liebe e del fratello), ma l'affresco che ne risulta ha sicuramente il suo valore, storico prima ancora che artistico. Da tempo il film era ritenuto perduto, prima che se ne trovasse una copia con cartelli in russo in un archivio di Tolosa.

3 marzo 2019

1860 (Alessandro Blasetti, 1934)

1860 (aka 1860: I Mille di Garibaldi)
di Alessandro Blasetti – Italia 1934
con Giuseppe Gulino, Aida Bellia
**1/2

Visto in TV.

I pastori e i contadini della Sicilia, insorti contro l'oppressione borbonica, attendono con speranza l'annunciato arrivo di Garibaldi. Per sollecitare il suo intervento, il "picciotto" Carmeliddu (Trau) parte alla volta di Genova, attraversando l'intera Italia in tumulto. Unitosi alla spedizione dei Mille, tornerà nell'isola per combattere nella battaglia di Calatafimi. Uno dei più importanti film italiani degli anni trenta sul tema del Risorgimento, del quale all'epoca il regime fascista tentava di accreditarsi come erede naturale (una sequenza finale, di ambientazione contemporanea, in cui gli ultimi reduci garibaldini assistevano a una sfilata delle camicie nere, fu tagliata nella riedizione del 1951). Eppure, il film di Blasetti (co-sceneggiatore con Gino Mazzucchi ed Emilio Cecchi) è molto di più di una semplice celebrazione storica e propagandistica: con la sua regia nervosa e moderna, la scelta di attori non professionisti con i loro volti particolari, l'uso dei dialetti, la rilevanza data alle immagini e al paesaggio (le campagne brulle e rocciose della Sicilia), la gestione dei tempi, degli spazi e dei dialoghi (nella prima parte, per lunghi tratti, sembra quasi di assistere a un film muto), anticipa addirittura il neorealismo. E inoltre ha il pregio di non appiattirsi sulla retorica e l'agiografia (lo stesso Garibaldi si intravede a malapena in una manciata di rapide scene: e in quella più importante che lo vede protagonista, il discorso alle truppe durante la battaglia, la macchina da presa non lo inquadra mai ma si sofferma sui volti di chi lo ascolta). E anche se nell'ultima parte, quella successiva allo sbarco dei Mille in Sicilia, crescono le ingenuità retoriche e patriottiche, la scena finale è tutt'altro che trionfalistica (l'urlo "Abbiamo fatto l'Italia!" echeggia su una panoramica dei tanti morti sul campo). Inoltre, il mantenimento del focus su Carmeliddu e sulla sua giovane sposa consente di non perdere mai di vista l'elemento umano della storia. Interessante anche il ritratto dell'Italia divisa dell'epoca (durante il suo viaggio, il protagonista incontra rappresentanti di varie correnti e idee politiche: c'è l'autonomista, il papalino, il mazziniano, il giobertiano...). Molti di questi, però, li ritroveremo a Quarto pronti a unirsi alla spedizione. Di contro, il "nemico" è per forza di cosa straniero (le truppe che i borbonici mandano in Sicilia sono composte da mercenari svizzeri, che parlano tedesco, mentre Civitavecchia è occupata dai soldati francesi di Napoleone III), anche perché sarebbe stato controproducente mostrare italiani che uccidono altri italiani.

2 marzo 2019

Un colpo da dilettanti (Wes Anderson, 1996)

Un colpo da dilettanti (Bottle Rocket)
di Wes Anderson – USA 1996
con Luke Wilson, Owen Wilson
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Visto in divx.

Appena uscito – con una finta "fuga" a beneficio dell'amico Dignan (Owen Wilson) – da una clinica psichiatrica dove era stato ricoverato per un "esaurimento emotivo", il fragile e depresso Anthony (Luke Wilson) si lascia coinvolgere da questi, entusiasta e iperattivo, a organizzare una rapina insieme all'autista Bob (Robert Musgrave). Sprovveduti, stralunati e sognatori, i tre si riveleranno tutt'altro che tagliati per il ruolo. E mentre Anthony si innamorerà di Inez, ragazza delle pulizie (che parla solo spagnolo) nel motel in cui i tre soggiornano, il "colpo" pianificato da Dignan avrà esiti tragicomici... Una commedia indie leggera e svagata che segna l'esordio del regista Wes Anderson, nonché dei fratelli Owen e Luke Wilson (il primo anche co-sceneggiatore). Un terzo Wilson, Andrew, interpreta John, il fratello "bullo" di Bob. Più spontaneo e meno artificiale dei film successivi del regista, ne ha però già alcuni difetti, come l'intrinseco infantilismo dei personaggi, l'eccesso di forma sulla sostanza e la mancanza di senso ultimo. Alcune scene azzeccate, con momenti o dialoghi divertenti, sono sparse in un mare di esistenzialismo sconclusionato. Nel ruolo dell'ex boss di Dignan, gangster part time e titolare di un'impresa di giardinaggio, James Caan è solo il primo di una serie di attori affermati che accettano di rendersi strampalati o ridicoli in un film di questo regista. Il titolo originale è lo stesso di un cortometraggio girato quattro anni prima da Anderson e Owen Wilson quando erano compagni di università.