30 settembre 2012

Animal House (John Landis, 1978)

Animal House (National Lampoon's Animal House)
di John Landis – USA 1978
con John Belushi, Tim Matheson
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele e Ilaria.

Siamo nel 1962: gli studenti che si iscrivono al Faber College devono scegliere – com'è consuetudine nei campus degli Stati Uniti – una confraternita di cui far parte. Quelli che vengono scartati dalle più elitarie e prestigiose finiscono nella Delta Tau Chi, la più scalcinata e meno rispettabile dell'intero istituto, talmente famigerata che persino il rettore della scuola (John Vernon) complotta in ogni modo per poterla sciogliere e cacciarne i membri dal college. Più interessati a compiere scherzi e bravate e ad organizzare festini (come il mitico "toga party") che a studiare, i membri del Delta Tau Chi finiranno col combinarla talmente grossa (e col totalizzare punteggi talmente bassi negli esami) da farsi espellere. Sapranno però vendicarsi sabotando in maniera dirompente la parata di fine anno organizzata dal college nelle strade della città. Il tema degli "spostati" e dei disadattati che lottano contro un establishment troppo rigido con le armi dell'anarchia e della goliardia è di vecchia data (e nel cinema ha precedenti illustri: dai fratelli Marx a "Zero in condotta" di Jean Vigo), ma il film di Landis lo eleva alla massima potenza, donando alla pellicola una carica liberatoria senza pari, grazie a un gruppo di personaggi (e di attori) che si fanno beffe di ogni regola, mostrando così quanto sia ridicola quella caricatura dell'ordine costituito che regna in certe istituzioni (il confronto fra le cerimonie per essere accolti nelle varie confraternite è esemplare). La demenzialità non è dunque fine a sé stessa, come in molti dei successivi epigoni, ma all'interno di un contesto sociale e quindi con una valenza satirica ben precisa che riporta nel cinema americano quell'anarchia sovversiva e purificatrice che (con sporadiche eccezioni, tipo "MASH") mancava appunto dai tempi dei fratelli Marx. Nel cast, che comprende molti giovani attori alle prime armi ma destinati a fare fortuna (come Tom Hulce, Karen Allen e Kevin Bacon: ma nei progetti iniziali avrebbero dovuto esserci anche Chevy Chase, Bill Murray e Dan Aykroyd) nonché una guest star del calibro di Donald Sutherland (nel ruolo di un professore hippie), domina John Belushi, vero punto di forza della pellicola con la sua energia comica dirompente e sfacciata, incurante di tutto ciò che gli sta attorno (si pensi a quando si schiaccia le lattine sulla testa, a quando sfascia la chitarra di Stephen Bishop, a quando si infila le matite nel naso, a quando ammicca allo spettatore mentre sbircia dalla finestra le cheerleader che si spogliano). Belushi, fino ad allora star televisiva del "Saturday Night Live", era alla sua prima apparizione sul grande schermo. Molte le scene memorabili, dallo scherzo del cavallo allo scontro in mensa, dall'adescamento delle ragazze del college femminile al processo-farsa, fino naturalmente al momento più celebre di tutti, quello in cui Bluto (Belushi) recita il suo discorso d'incoraggiamento che termina con le immortali parole "...e quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare!". Ma indimenticabili restano anche le scritte sullo schermo nel finale che rivelano quale sarà il destino dei vari personaggi (il film è accreditato come uno dei primi ad aver utilizzato questo espediente), con l'esilarante "Senatore Blutarsky e signora" in sovrimpressione sulla fuga di Bluto e di una delle cheerleader, da lui rapita. Il titolo originale ("National Lampoon's Animal House") rivela che il lungometraggio è nato come spin-off della rivista satirica "National Lampoon": la sceneggiatura (di Douglas Kenney, Chris Miller e Harold Ramis) è infatti ispirata ad alcuni racconti pubblicati sulle sue pagine e alle reali esperienze universitarie di Miller, Ramis e del produttore Ivan Reitman. Insieme ad altri film usciti alla fine degli anni settanta (come "Ridere per ridere" dello stesso Landis) ha contribuito a definire la commedia demenziale americana negli anni a venire. Nonostante il tono del racconto, sempre sopra le righe, la regia di Landis è solida e controllata ma anche dinamica, e getta le basi per il successivo capolavoro “The Blues Brothers” del quale anticipa già alcune caratteristiche (non solo la presenza di Belushi e l’aria di scampagnata goliardica, ma anche sequenze musicali come le due in cui DeWayne Jessie si esibisce nei panni di Otis Day, con le canzoni "Shout" e "Shama Lama Ding Dong"). E a proposito di colonna sonora, oltre che dal title theme “Animal’s House”, questa è impreziosita da numerosi brani anni '50 e '60 come "Louie Louie" di Richard Berry e "Twistin' the Night Away" di Sam Cooke. La scelta del 1962 come anno in cui ambientare la pellicola non è dovuta soltanto alle esperienze autobiografiche dei suoi autori: per Miller e compagni il 1962 è stato "l'ultimo anno innocente degli Stati Uniti", e la parata che conclude il film si svolge il 21 novembre 1963, il giorno prima dell'assassinio del presidente Kennedy, di cui è una sorta di parodia (o di inquietante premonizione). Il film è stato girato nel campus dell'Università dell'Oregon di Eugene, il cui rettore diede l'assenso perché non voleva commettere lo stesso errore di quando aveva rifiutato il permesso alle riprese del film "Il laureato", ritenendolo di dubbio valore artistico.

27 settembre 2012

Prima dell'alba (R. Linklater, 1995)

Prima dell'alba (Before Sunrise)
di Richard Linklater – USA/Austria 1995
con Ethan Hawke, Julie Delpy
***1/2

Visto in divx, con Sabrina.

Due ragazzi, l’americano Jesse (Hawke) e la francese Céline (Delpy), fanno conoscenza sul treno che va da Budapest a Parigi. Percependo la nascita di un certo feeling, Jesse le propone di scendere insieme a lui a Vienna, per trascorrere insieme la notte camminando per le strade della città e parlando a ruota libera fino all’alba, quando lei ripartirà per Parigi e lui prenderà un volo per gli Stati Uniti. Prima di lasciarsi, dopo aver inizialmente progettato di non rivedersi mai più e di consegnare quella notte al solo ricordo, prometteranno però di ritrovarsi nello stesso luogo dopo sei mesi. Originale e romantica love story costruita attorno a un incontro casuale e a una lunga notte in una città straniera dove i due protagonisti non conoscono nessuno e nessuno li conosce, fatta di passeggiate per piazze, ponti, bar, parchi, cimiteri o lungo le rive del Danubio, di incontri con artisti di strada, chiromanti, poeti barboni e suonatori di arpicorda, di lunghi dialoghi e scambi di pensieri e di opinioni sulla vita, la morte, i sogni dell'adolescenza, l’amore e le esperienze precedenti. La spontaneità degli attori ma soprattutto la naturalezza e il realismo della situazione (una vicenda simile può capitare a chiunque, durante le vacanze estive – magari con l’inter-rail – o nel corso di viaggi in paesi stranieri: l'idea, in effetti, è venuta al regista proprio dopo aver trascorso un'intera notte passeggiando e chiacchierando con una ragazza a Philadelphia) hanno reso la pellicola un vero e proprio cult movie, che esprime al meglio la magia che può concentrarsi in un particolare luogo e in momento unico al mondo. Molto bella, fra le altre cose, la sequenza finale che mostra nuovamente al mattino tutti i posti che i due ragazzi hanno visitato durante la notte: luoghi che sembrano ora del tutto ordinari, ma che per i due protagonisti (e per noi spettatori) manterranno per sempre un significato particolare. La sceneggiatura è dello stesso Linklater in collaborazione con Kim Krizan (trattandosi di un film tutto imperniato sui dialoghi di una coppia, il regista ha infatti voluto una sceneggiatrice donna al proprio fianco), anche se Delpy e Hawke avrebbero contribuito ai dialoghi con qualche improvvisazione. Il finale non rivela se Jesse e Céline manterranno la promessa di rivedersi sei mesi dopo: ma a distanza di nove anni, nel 2004, il regista ha riportato in scena gli stessi personaggi in un sequel, “Before Sunset – Prima del tramonto” (ambientato stavolta a Parigi), che rivela cosa è accaduto loro in tutto quel tempo.

25 settembre 2012

Venezia e Locarno 2012 - conclusioni

Nessun capolavoro ma tanti film di medio livello: questo il mio bilancio personale della rassegna veneziana appena conclusa. Dei dodici lungometraggi che ho visto, tre mi sono piaciuti in maniera particolare: "Pietà" di Kim Ki-duk, con cui il regista coreano è tornato alla "cattiveria" che lo contraddistingueva a inizio carriera e che la giuria ha voluto premiare con un Leone d'Oro che a questo punto ritengo abbastanza giusto (anche se non ho ancora visto le altre due pellicole che da alcune parti erano state indicate come meritevoli, vale a dire "Bella addormentata" di Bellocchio e "The Master" di Paul Thomas Anderson); il metaforico e surreale "La cinquième saison" della coppia Brosens/Woodworth; e "Paradise: Faith" di Ulrich Seidl, secondo capitolo di una trilogia interessante e controversa. Ho apprezzato, con qualche riserva, anche i film di Assayas, Kitano, Serebrennikov e – per quanto riguarda Locarno – Brisseau e Baker. Deludenti invece De Oliveira, Bier, Lo Cascio e Wakamatsu.

23 settembre 2012

Outrage beyond (T. Kitano, 2012)

Outrage beyond (id.)
di Takeshi Kitano – Giappone 2012
con Takeshi Kitano, Hideo Nakano
**1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

Nel 2010 Kitano aveva realizzato "Outrage" con l'unico scopo di divertirsi e di far divertire lo spettatore. Addirittura, nello scrivere la sceneggiatura, il regista era partito inventandosi i modi più disparati per uccidere i personaggi e soltanto dopo vi aveva "cucito" sopra una storia. Ma il risultato – nonostante il successo di pubblico – lo aveva convinto solo in parte, e per questo motivo ha deciso, per la prima volta nella sua carriera, di realizzare un sequel nel quale riporta in scena quei (pochi) personaggi che erano sopravvissuti alla carneficina del lungometraggio precedente. La storia prende l'avvio cinque anni dopo la conclusione del primo film: il traditore Kano ha sostituito il vecchio capo del clan Sanno, attorniandosi di giovani spregiudicati e insofferenti all'antico stile degli yakuza ("non hanno nemmeno i tatuaggi giusti", commentano alcuni della vecchia guardia). Sotto il suo controllo la banda si è ingrandita a dismisura ed è arrivata persino a infiltrarsi nella vita politica, stringendo affari con vari ministri o – più spesso – ricattandoli. Anche per questo motivo, oltre che per fare carriera, l'infido poliziotto Kataoka complotta affinché scoppi una guerra fra il Sanno e un clan rivale di Osaka, gli Hanabishi. Nel suo progetto di mettere una banda contro l'altra si ritrova coinvolto anche Otomo, yakuza "vecchio stile" interpretato da Kitano stesso, che non era morto alla fine del film precedente come ci era stato lasciato intendere. Appena uscito di prigione, l'ormai vecchio e stanco Otomo non avrebbe intenzione di rituffarsi nel giro: ma il suo antico rivale Kimura, istigato da Kataoka, lo convince ad allearsi con lui e ad entrare in azione per vendicarsi di Kato e degli altri traditori. Rispetto alla pellicola precedente, questo sequel è più equilibrato e lineare, nonché più efficace nel mettere in scena la corruzione e la sete di potere di tutti i vari attori coinvolti nella guerra di bande: yakuza, poliziotti e politici si muovono tutti alla ricerca del proprio tornaconto e tramano l'uno alle spalle dell'altro senza onore e senza rispetto per i valori della lealtà e della "famiglia" (a parte Otomo, Kimura e i loro giovani sottoposti, unici baluardi rimasti di un mondo in cui anche i malviventi erano ancora "rispettabili"). Certo, pur nobilitato dall'ottima regia di Kitano e da alcuni momenti geniali, rimane un puro film di genere, senza la poesia o i guizzi che Beat Takeshi ha dispensato a piene mani nei film del passato. Ma il divertimento non manca, e nel mettere in scena le guerre intestine fra yakuza Kitano è ormai un vero e proprio maestro.

22 settembre 2012

Izmena (Kirill Serebrennikov, 2012)

Izmena
di Kirill Serebrennikov – Russia 2012
con Albina Dzhanabaeva, Dejan Lilic
**1/2

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Un uomo e una donna scoprono che i rispettivi coniugi sono amanti. Cominciano così a frequentarsi per discutere dell'argomento e finiscono col pedinare i due adulteri fino alla stanza d'albergo dove si incontrano abitudinalmente. Dopo un incidente in cui i due traditori perdono la vita (e per il quale una bizzarra detective in gonnella sospetterà di loro), i due protagonisti scelgono di separarsi: ma qualche anno dopo, quando ormai si sono entrambi risposati, l'attrazione reciproca li farà ritrovare e diventare amanti a loro volta. Impossibile non pensare a un confronto con "In the mood for love", il capolavoro di Wong Kar-Wai che partiva da uno spunto simile ma che presentava sviluppi, toni e atmosfere completamente diverse. Se quello era un melodramma struggente, qui siamo più dalle parti del neo-noir esistenzialista ("gelido e metafisico", hanno scritto i critici). I personaggi rimangono sfuggenti e distanti dallo spettatore, che non ha quasi nessuna occasione per lasciarsi coinvolgere dalla vicenda, anche perché la sceneggiatura gioca a mantenere un velo di ambiguità su alcuni momenti chiave. La fotografia fredda, la regia elegante e ricercata (lunghi piani sequenza, spesso con la camera a mano che segue i personaggi, e un'attenzione estetica per inquadrature insolite che si svelano piano a piano), la cura negli effetti sonori (per esempio nella scena del temporale), il fondamentale ruolo delle scenografie (l'ospedale, l'albergo, i piazzali antistanti alle inospitali architetture di periferia della Russia post-sovietica) e le buone prove degli interpreti lo rendono comunque abbastanza interessante. Per non parlare di alcuni momenti imprevedibili che possono stimolare riflessioni sul caso, il destino e la predeterminazione. Il titolo significa "Tradimento".

21 settembre 2012

Love is all you need (S. Bier, 2012)

Love is all you need (Den skaldede frisør)
di Susanne Bier – Danimarca/Svezia/Italia 2012
con Trine Dyrholm, Pierce Brosnan
*1/2

Visto al cinema Apollo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Amici e parenti si ritrovano in Italia, in una grande villa circondata dai limoni sulla costiera amalfitana, per festeggiare il matrimonio fra i giovani Patrick e Astrid. Ma nonostante l'atmosfera romantica, i dubbi, le gelosie, i problemi famigliari e le incomprensioni finiranno col mandare a monte la cerimonia. Poco male: alla fine l'amore trionferà comunque, se non tra i figli, almeno tra i genitori. Saranno infatti il padre di Patrick e proprietario della villa, un ricco manager dal cuore indurito da una lunga vedovanza (Pierce Brosnan), e la madre di Astrid, un'imbranata parrucchiera reduce da un tumore al seno e che ha appena scoperto che il marito la tradisce (Trine Dyrholm, già protagonista del film precedente della Bier, "In un mondo migliore"), a capire di essere fatti l'uno per l'altra e a trovare in questo modo una via di fuga dalle rispettive crisi e solitudini. Un'Italia da cartolina, fra mare, cappuccini, limoni e mandolini (e "That's amore" in colonna sonora, insieme a "Sarà perché ti amo" e "Tintarella di luna"), un'ambientazione mediterranea che può ricordare "Mamma mia!", un finale altamente prevedibile e la presenza di Brosnan rendono il film pericolosamente simile a una commedia romantica hollywoodiana, al punto che ci si chiede che cosa ci facesse una pellicola del genere al festival di Venezia. Risate e divertimento non mancano, ma dalla Bier ci si attende ben altro. Nel cast anche il Ciro Petrone di "Gomorra".

20 settembre 2012

Paradise: Faith (Ulrich Seidl, 2012)

Paradise: Faith (Paradies: Glaube)
di Ulrich Seidl – Austria 2012
con Maria Hofstätter, Nabil Saleh
***

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Secondo episodio della trilogia “Paradise” di Ulrich Seidl, dedicata alle insolite vacanze dei membri di una famiglia austriaca: dopo il capitolo sull’amore (“Paradise: Love”), che era incentrato sul turismo sessuale, ecco quello sulla fede, che parla invece del fanatismo e del proselitismo religioso. La protagonista è Anna Maria, sorella della precedente Teresa. Fervida credente, approfitta del tempo concessole per le ferie (è un medico che lavora in un centro diagnostico) per girare di casa in casa nelle desolate periferie di Vienna, portando con sé una statua della Madonna, nel tentativo di convertire stranieri e protestanti al cattolicesimo. Frequenta inoltre un gruppo di preghiera (“Siamo le truppe d’assalto della chiesa!”) e, in privato, giunge addirittura a fustigarsi per espiare i propri e gli altrui peccati. Ma anche la devota Anna ha un segreto, una sorta di scheletro nell’armadio: prima di trovare la fede ha infatti sposato un musulmano, Nabil, paralizzato e costretto a stare sulla sedia a rotelle in seguito a un incidente. La presenza di Nabil in casa, ora che Gesù è tutta la sua vita (sostituendo di fatto il marito), diventa per lei un tormento e una prova forse troppo difficile da superare. Se da un lato il fanatismo religioso di Anna è comunque sempre vissuto in maniera sincera, all’insegna della coerenza e non dell’ipocrisia (tanto che non si può non provare per lei una certa compassione: esilaranti o tragiche – a seconda dei casi – le sequenze in cui visita le case dei personaggi più vari e improbabili, dalla coppia di divorziati che “convivono nel peccato” agli immigrati che non capiscono che cosa lei voglia da loro, dalla giovane prostituta russa dedita all’alcolismo al grassone trasandato che vive nel disordine), dall’altro la pellicola mostra come in nome di quello stesso fanatismo si possa passare da un estremo all’altro: affidarsi completamente a Dio e vivere solo in funzione della fede può condurre senza troppe difficoltà dal dichiarare “Ti amo” al Cristo, quando tutto va bene, al dirgli “Ti odio”, quando le difficoltà si fanno insormontabili. Lo stile sobrio di Seidl si esprime anche attraverso le scenografie (come la casa di Anna, spoglia e decorata da crocifissi in ogni stanza). Non mancano alcune scene shock, come quella in cui la protagonista si masturba sotto le coperte con un crocifisso, o quella in cui assiste a un’orgia notturna in un parco pubblico. Il regista ha dichiarato di non voler mandare nessun messaggio, ma solo di far riflettere lo spettatore: ed è proprio quello che il film – interessante come il precedente e vincitore del premio speciale della giuria a Venezia – riesce a fare. Restiamo ora in attesa del terzo capitolo della trilogia, che sarà dedicato alla speranza (“Paradise: Hope”) e sarà incentrato sui campi per dimagrire.

19 settembre 2012

The millennial rapture (Koji Wakamatsu, 2012)

The millennial rapture (Sennen no yuraku)
di Koji Wakamatsu – Giappone 2012
con Shinobu Terajima, Kengo Kora
*1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Gli uomini della famiglia Nakamoto – un clan dal sangue “nobile ma empio” che vive all’interno di una piccola comunità di emarginati, in un villaggio situato fra il mare e le montagne – sembrano essere segnati da una maledizione: giovani e belli, attraggono con facilità donne e guai e sono tutti destinati a una morte prematura e violenta. Oryu, la levatrice che ha contribuito a portare alla luce molti di loro, giunta ormai in tarda età discorre con l’effige del suo defunto compagno (un monaco: se lei si occupava i nascituri, lui accompagnava i morti) e ricorda la turbolenta esistenza di alcuni di questi ragazzi, in particolare quella dello sciupafemmine Hanzo e quella dello sfaccendato e delinquente Miyoshi. Con un’ambientazione fuori dal tempo (siamo evidentemente ai giorni nostri, visto che sono presenti furgoni e automobili moderne; ma atmosfere, abiti e scenografie – per non parlare della colonna sonora, un accompagnamento con lo shamisen – rimandano al passato), il film – tratto da un romanzo di Kenji Nakagami, “Mille anni di piacere”, e diretto da un regista di pink eiga, i film erotici giapponesi degli anni sessanta e settanta – si snoda in maniera poco appassionante e ripetitiva, tanto che per ben due volte la narrazione riparte da capo con un nuovo personaggio di cui fino ad allora non era mai stata fatta menzione: quando Hanzo muore, a metà film, Miyoshi viene introdotto “dal nulla”; e lo stesso capita nel finale con Tatsuo, che a sua volta prende il testimone dal cugino. L’apparente cura nella fotografia e l’aura “mitica” che la sceneggiatura eredita dal romanzo è inficiata da una certa raffazzonatura generale: ne sono un esempio gli errori di continuità, come quello nella scena in cui Miyashi mostra a Oryu il suo tatuaggio (che dapprima sembra prolungarsi fino alle sue braccia e poi si rivela confinato alla sola schiena). Il simbolismo sui temi della vita, della morte e del sesso si limita al classico legame fra eros e thanatos, mentre le parabole umane dei personaggi non vanno al di là di una perenne sensazione di ciclicità e dell’impossibilità di scampare a un destino predeterminato e autodistruttivo. Resta il sospetto che il film sia stato prodotto soltanto per dare un’occasione di ribalta ad alcuni giovani attori “bellocci” (Kengo Kora, Sosuke Takaoka, Shota Sometani).

18 settembre 2012

Qualcosa nell'aria (Olivier Assayas, 2012)

Qualcosa nell'aria (Après mai)
di Olivier Assayas – Francia 2012
con Clement Metayer, Lola Créton
**1/2

Visto al cinema Apollo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

La vita, gli amori, le ribellioni e la crescita di un gruppo di liceali inquieti e politicamente impegnati – fra anarchia e comunismo – nell’estate del 1971 (il titolo originale significa “Dopo maggio”): critici verso le istituzioni e gli idoli del passato, i protagonisti vivono pienamente l’ondata libertaria della controcultura, sognando di diventare artisti, pittori o registi e di portare a compimento quella rivoluzione che pochi anni prima, nel 1968, non avevano potuto cominciare perché ancora troppo giovani. Assayas stesso, che nel 1971 aveva sedici anni, fa parte di questa generazione: il film è dichiaratamente autobiografico e affonda a pieni mani in ricordi, canzoni, letture, visioni, sensazioni e illusioni di quegli anni. L’individualismo e il pluralismo, il lavoro e lo studio, i viaggi (in Italia, in Nepal, a Londra, in America) e l’impegno si fondono e si confondono in una narrazione frammentata e lineare al tempo stesso, che non segue una trama ma un flusso di vita dove trovano posto anche indecisioni e confusione (si pensi alla diatriba fra i documentaristi su quale “stile” cinematografico adottare: rivoluzionario ma incomprensibile alle masse o tradizionale ma più efficace?), l’incoscienza dovuta all’età e gli inevitabili intoppi nel percorso di crescita, fra amori e delusioni, certezze e dubbi, estremismi e ripensamenti. Il film è stato premiato a Venezia per la miglior sceneggiatura, anche se forse non sono i dialoghi il suo vero punto di forza bensì l’atmosfera generale (cui contribuisce una bellissima fotografia, luminosa ed eterea come solo i ricordi dell’adolescenza possono essere), la ricostruzione della cultura che si respirava in quegli anni, i sogni e gli ideali di chi cercava a fatica di individuare la propria strada in un mondo sempre più vasto e complicato. La politica, l’arte e la vita si fondono così in un mosaico di esperienze e di sensazioni, alla continua ricerca di coerenza e libertà. Fra i personaggi (tutti interpretati da bravi e giovanissimi attori) spicca Gilles, vero e proprio alter ego di Assayas, più interessato alla pittura che alla politica, diviso fra due amori e colto dai primi dubbi sul reale significato degli stravolgimenti che lo circondano. Il suo è un percorso alla scoperta della propria vita, fra compagni sempre più estremisti e rivoluzionari e altri che invece si ripiegano su sé stessi, sull’amore o sul misticismo, fra la sperimentazione artistica che si ribella al passato (“Odio i vecchi poeti”, recita una poesia di Gregory Corso che il ragazzo legge a un certo punto) e l’esperienza che solo un’industria culturale ben organizzata può garantire (gli sceneggiati televisivi su Maigret che il padre produce, le pellicole di fantascienza trash che si girano nei Pinewood Studios di Londra). Alla fine la vita continua, e quell’epoca – come ogni epoca – si rivelerà essere solo un momento di passaggio, per quanto importante, nel corso di un’esistenza.

17 settembre 2012

Gebo e l'ombra (M. de Oliveira, 2012)

Gebo e l'ombra (Gebo et l'ombre, aka O Gebo e a sombra)
di Manoel de Oliveira – Francia/Portogallo 2012
con Michael Lonsdale, Claudia Cardinale
**

Visto al cinema Mexico, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Gli anziani coniugi Gebo (Michael Lonsdale) e Doroteia (Claudia Cardinale) abitano in povertà insieme alla nuora Sofia (Leonor Silveira) e attendono inutilmente notizie del figlio (e marito) João, partito otto anni prima in cerca di fortuna. Tutti e tre, malgrado l’età e la stanchezza, continuano a vivere in funzione di un “ombra”, quella di João appunto, che si manifesta continuamente nei loro pensieri e nelle loro esistenze: la stessa ombra che spinge Gebo a mentire alla moglie, dicendole di aver ricevuto di tanto in tanto sue notizie. Ma quando João fa finalmente ritorno a casa, si rivela molto diverso da come era partito: quasi un estraneo, insofferente all’onesta vita del padre, ne deride la morale e spiega di essere diventato un ladro e di vivere di espedienti. Di notte fugge nuovamente, non prima di essersi impossessato del denaro che il genitore – che lavora come contabile – custodiva nella sua cassaforte. Per proteggerlo, sarà proprio Gebo ad assumersi la colpa del furto. Liberamente ispirato a una pièce teatrale teatrale di Raul Brandão (che il regista ha descritto come un'anticipazione di "Aspettando Godot"), ambientato nel tardo diciannovesimo secolo e interpretato da un nugolo di vecchi mostri sacri (c’è anche una strepitosa Jeanne Moreau, che a 84 anni illumina ancora la scena con la sua presenza), è l’ultimo film realizzato dall’ormai 103enne (!) De Oliveira. Certo, è un tipo di cinema decrepito e soporifero, ai limiti del teatro filmato: quasi tutta la pellicola consiste in inquadrature fisse su personaggi seduti attorno a un tavolo, in una stanza a malapena illuminata dalle candele o da deboli lampade, che senza nemmeno guardarsi fra di loro (lo sguardo è spesso rivolto allo spettatore) discutono a lungo su temi come il senso della vita, la menzogna, l’etica e la società. Ma in fondo il film è da apprezzare più per quello che lascia dentro che per quello che comunica durante la visione, e poi la qualità pittorica della fotografia (l’utilizzo della luce è strepitoso), il valore degli interpreti e le implicazioni morali dei lunghi dialoghi (che mettono in evidenza la psicologia di personaggi “condannati all’infelicità e alla povertà” come Gebo, che nonostante la sua onestà non può far altro che ricorrere alla menzogna per “erigere un muro di abitudini e di illusioni” in grado di proteggere la propria famiglia) possono aiutare a tenere desta l’attenzione.

16 settembre 2012

Pietà (Kim Ki-duk, 2012)

Pietà (Pieta)
di Kim Ki-duk – Corea del Sud 2012
con Lee Jung-jin, Jo Min-soo
***

Visto al cinema Anteo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Il trentenne Lee Kang-do si guadagna da vivere riscuotendo denaro per conto di alcuni strozzini. Quando il debitore non è in grado di pagare, Kang-do provoca un "incidente" e lo rende storpio, in modo che il denaro incassato dall'assicurazione possa ripianare il prestito. Freddo e spietato, non si cura dell'odio e del desiderio di vendetta che le sue azioni generano nei propri confronti. Ma un giorno un'esile donna si presenta alla sua porta, dichiarando di essere la madre che lo aveva abbandonato alla nascita. Inizialmente il ragazzo non le crede e la tratta in malo modo, sottoponendola anche a una serie di prove sempre più dure e umilianti, fino alla violenza. Ma lentamente l'idea di avere finalmente qualcuno da amare e da cui essere amato si fra breccia in lui; e la presenza della madre arriva a cambiare i suoi modi, dandogli compassione per le sue vittime. Il male che ha compiuto in passato tornerà tuttavia a tormentarlo in maniera sorprendente e inaspettata. Dopo una serie di pellicole poco convincenti e una profonda crisi personale (che lo ha portato a non girare film per tre anni, lui che era solito realizzarne a getto continuo), Kim Ki-duk abbandona le derive zen e torna alla cupa durezza dei suoi primi lavori, ottenendo a Venezia un meritato Leone d'Oro. Il titolo internazionale, "Pietà", fa riferimento all'iconografia della madonna che regge il figlio morto sulla croce (la locandina ricostruisce addirittura, con le immagini dei due attori, la Pietà di Michelangelo), ma la pietà nel film è affrontata su più livelli: quella che Kang-do arriva a provare verso le proprie vittime e quella della donna, nel finale, verso di lui. Tuttavia, prima ancora della compassione e della vendetta, il vero tema del film è il denaro, di cui l'uomo finisce per diventare schiavo e per il quale è disposto a tutto, anche a perdere una parte di sé. In Corea, come da noi, di fronte alla crisi economica sono aumentati in maniera impressionante coloro che ricorrono ai prestiti: Kang-do giustifica le proprie azioni accusando le sue vittime di chiedere denaro senza pensare alle conseguenze e al modo di ripagarlo; si tratta per lo più di operai, artigiani e proprietari di piccole officine meccaniche di uno squallido quartiere destinato comunque a sparire e a soccombere all'avanzata dei grattacieli, che per sopravvivere al duro presente non si curano del futuro. Lo stesso fa il giovane padre che progetta addirittura di amputarsi le mani in occasione della nascita del figlio (personaggio che è fra l'altro l'unica figura "paterna" in un film fatto soprattutto di madri, anziane e passive così come irose e vendicative). "Il denaro è il terzo personaggio del film", ha spiegato il regista. E la pietà diventa un "sentimento quanto mai necessario vista la crisi profonda che il mondo attraversa proprio a causa di un sistema economico degenerato, che crea tanta sofferenza e assenza di umanità". Ma nonostante un quadro tanto cupo (che si riflette nella fotografia oscura e nelle scenografie squallide ma efficaci della pellicola, cui non mancano squarci di genio pittorico: indimenticabile, per esempio, la scena finale, con quella lunga pennellata sull'asfalto), la pietà produce anche speranza. "E se non credessi alla speranza", ha detto Kim Ki-duk, "non avrei mai girato questo film".

La città ideale (L. Lo Cascio, 2012)

La città ideale
di Luigi lo Cascio – Italia 2012
con Luigi Lo Cascio, Luigi Maria Burruano
*1/2

Visto al cinema Apollo, con Sabrina (rassegna di Venezia).

La "città ideale" – almeno secondo il protagonista – è Siena, dove il meticoloso architetto Michele Grassadonia si è trasferito a vivere da Palermo. Una sera scorge sul ciglio di una strada il corpo di un uomo, un importante medico locale: chiama i soccorsi, ma si vede accusato di averlo investito lui (anche perché poco prima aveva effettivamente avuto un incidente, del quale peraltro non sa ricostruire i dettagli). Comincia così un'odissea personale e giudiziaria in cui il protagonista dovrà mettere in discussione le proprie convinzioni (come la mania per l'ecologia, anche a causa della quale si è ritrovato in questa situazione). Lo Cascio esordisce alla regia cinematografica con un film (da lui anche scritto e interpretato) che da un lato vuole descrivere a fondo un personaggio e il suo rapporto con il mondo che lo circonda, e dall'altro far riflettere sulla difficoltà di ricostruire la "verità": i vari avvocati cui il protagonista si rivolge, infatti, sottolineano come il punto non sia quello di far emergere i fatti ma semplicemente quello di vincere la causa. Ma la trovata drammaturgica dell'innocente perseguitato, le sequenze oniriche e la sottotrama dell'attrazione per la studentessa russa cui Michele affitta il proprio appartamento non salvano il film (definito da alcuni critici come un "noir kafkiano") dalla mancanza di focalizzazione e da un finale sospeso e irrisolto che lascia più perplessi che convinti. E l'immagine degli addetti del tribunale che si passano al volo i faldoni, così come le domande dell'avvocato ("Se tornasse indietro, farebbe le stesse cose?"), lasciano francamente il tempo che trovano. A intepretare la mamma del protagonista c'è la vera madre di Lo Cascio.

15 settembre 2012

La quinta stagione (Brosens, Woodworth, 2012)

La quinta stagione (La cinquième saison)
di Peter Brosens e Jessica Woodworth – Belgio 2012
con Aurélia Poirier, Gil Vancompernolle
***

Visto all'Auditorium San Fedele, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

In un piccolo villaggio di campagna, gli abitanti si preparano al tradizionale rito che segna la fine dell'inverno: bruciare un fantoccio di paglia che simboleggia "zio inverno", in modo da scacciare la stagione fredda. Ma incomprensibilmente, la paglia e le frasche non prendono fuoco, e il rogo non attecchisce. Nei giorni seguenti, accade anche di peggio: la primavera non arriva, i semi non germogliano, gli animali muoiono o non producono più nulla. I mesi passano ma il villaggio resta immerso in una stagione eternamente spoglia e brulla, che porta a inasprire i contrasti e a far uscire il peggio da ogni uomo. E molti, naturalmente, se la prenderanno con lo "straniero", nella fattispecie un filosofo-apicultore venuto da fuori che diventerà il capro espiatorio per tutti. Al terzo film, la coppia formata dal documentarista belga Brosens e dalla regista americana Woodworth continua a descrivere il rapporto conflittuale fra uomo e natura: lo fa con una pellicola dalla forte connotazione simbolica, che fonde suggestioni buñueliane ("L'angelo sterminatore") o post-apocalittiche (un'apocalisse silenziosa e misteriosa, visto che le origini del fenomeno non sono esplicitate: ma è evidente che l’uomo perde il contatto con la natura perché la percepisce in maniera esclusivamente utilitaristica, come qualcosa da sfruttare, al punto che nessuno si preoccupa del mancato arrivo della primavera in sé ma solo perché il ciclo produttivo dell’agricoltura e dell’allevamento si interrompe) ed elementi che possono ricordare i film italiani "Il vento fa il suo giro" e "Le quattro volte". Molto belle le immagini di una campagna spoglia e arida, così come certi squarci surreali (l'apparizione improvvisa dei giganteschi pupazzi di cartapesta che raffigurano un contadino, una contadina e una mucca; tutte le scene che mostrano un uomo nell'infruttuoso tentativo di addestrare il proprio gallo a cantare), ma anche sequenze come il ballo collettivo degli abitanti del villaggio prima del rogo, o la scena in cui padre e figlio, in macchina, intonano il duetto "Pa-pa-pa-pa" dal "Flauto magico" di Mozart. Di forte impatto, infine, la "trasformazione" degli uomini in animali mediante le rudimentali maschere da uccello che indossano prima della spedizione punitiva, così come la significativa sequenza finale: tutto ciò che rimane sono struzzi che si aggirano per un cimitero.

14 settembre 2012

La fille de nulle part (J.C. Brisseau, 2012)

La fille de nulle part
di Jean-Claude Brisseau – Francia 2012
con Jean-Claude Brisseau, Virginie Legeay
**1/2

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli (rassegna di Locarno).

Michel, insegnante di matematica in pensione, soccorre e ospita la giovane Dora, una misteriosa ragazza che ha trovato ferita e sanguinante sulle scale del proprio condominio. Fra il solitario professore e la problematica "ragazza venuta dal nulla" nasce una strana amicizia che cresce giorno dopo giorno e si sviluppa in varie direzioni. Dora comincia ad aiutare Michel nella stesura di un saggio di filosofia e teologia (sulle credenze che plasmano la vita quotidiana), ma la sua presenza catalizza anche strani fenomeni paranormali: nell'appartamento dell'uomo cominciano a manifestarsi presenze maligne, legate forse alla moglie defunta o più in generale al passato non risolto, inattese incursioni di entità soprannaturali che rapresentano tutta la zavorra di una vita ormai inchiodata su un binario morto e che l'arrivo di Dora contribuisce a far emergere affinché possano essere scacciate. Nel frattempo il rapporto fra i due si fa sempre più stretto, al punto che Michel – che comincia a percepire la propria morte come imminente – medita di lasciare alla ragazza l'appartamento e tutti i propri beni, magari dopo averla adottata o addirittura sposata (a un certo punto giunge persino a ritenerla la reincarnazione della moglie). Girato letteralmente "in casa" e con un budget bassissimo (l'appartamento dove si svolge la vicenda – traboccante di libri, film e manifesti – è la vera dimora del regista, mentre i due protagonisti sono interpretati da Brisseau stesso e dalla sua assistente, che già aveva recitato per lui nel micidiale "Gli angeli sterminatori"; persino i fantasmi sono stati resi con delle semplici lenzuola!), si tratta di un film bizzarro e difficile da giudicare: poco convincente a livello di regia e di recitazione, affascina invece a tratti per la sceneggiatura, che straborda in varie direzioni e che nella sua confusione di registri (drammatico, comico, soprannaturale) alterna banalità esistenzialiste e interessanti riflessioni intellettuali e soprattutto emotive, con lunghi dialoghi e seducenti visioni incastonate in una scenografia minimalista. Forse il Pardo d'Oro assegnatogli al Festival di Locarno è esagerato (d'altronde la giuria era presieduta da Apichatpong Weerasethakul, a sua volta appassionato propinatore di atmosfere che fondono il realismo con il fantastico), ma è comprensibile che una pellicola del genere possa rimanere impressa e scavare nell'inconscio degli spettatori. In ogni caso, erano anni che non sussultavo sulla poltrona come nella scena di una delle prime apparizioni del fantasma: è talmente inaspettata che fa davvero paura, molto più che se non ci trovassimo in un tradizionale film horror.

Starlet (Sean Baker, 2012)

Starlet
di Sean Baker – USA 2012
con Dree Hemingway, Besedka Johnson
**1/2

Visto al cinema Anteo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Locarno).

Jane è una giovane attrice di film pornografici, appena trasferitasi in California per lavoro. Ospite nella casa di un'amica e "collega", decide di arredare la propria stanza con alcuni oggetti acquistati negli yard sale del quartiere (i mercatini in giardino, così popolari negli Stati Uniti). Quando scopre che in un vecchio thermos erano nascosti 10.000 dollari, pensa inizialmente di tenerseli senza dire niente all'ex proprietaria, una burbera e scontrosa vecchietta che vive da sola e che non sa nulla del denaro (nascosto lì anni prima dal marito, un giocatore d'azzardo da tempo defunto). Ma poi, spinta dai sensi di colpa, comincia a frequentare l'anziana donna, superandone (a fatica) la diffidenza e aiutandola nella vita di tutti i giorni. Un film "piccolo" e minimalista che racconta in maniera simpatica e naturale la storia di un'improbabile amicizia fra due persone che non sembrano avere niente in comune fra loro, soprattutto a causa dell'età. Ben presto l'iniziale motivazione che aveva spinto Jane ad avvicinarsi a Sadie (il rimorso per il denaro) cede il posto a una sincera voglia di riempire la grigia esistenza della donna, che ha come unico interesse le partite a bingo al circolo locale (dove non vince mai) e lo shopping al supermercato, mentre anche questa passa dal sospetto e dal rifiuto verso la ragazza al vedere in lei una sorta di figlia (e a questo proposito il finale getta una particolare luce sul suo personaggio). La pellicola ha inoltre il pregio di mostrare in maniera inedita e realistica il "dietro le quinte" dell'industria americana del porno (nel ruolo di sé stessi compaiono anche una manciata di star del settore, come la nippo-americana Asa Akira e il francese Manuel Ferrara): fuori dal set Jane è una ragazza normalissima, quasi "acqua e sapone" (fisico statuario a parte!), e per tutta la prima parte della pellicola non viene nemmeno evidenziato in che cosa consista il suo lavoro (anche se gli indizi per lo spettatore non mancano). Il titolo del film non si riferisce alla protagonista, ma è il nome del suo cagnolino.

12 settembre 2012

Venezia e Locarno 2012

Domani comincia la rassegna milanese che come di consueto presenterà una selezione dei film del Festival di Venezia (e di quello di Locarno). Fra i titoli che conto di vedere c'è il vincitore del Leone d'Oro, "Pietà" di Kim Ki-duk, che dopo gli ultimi deludenti lavori sembrerebbe tornato ai livelli del passato. Attendo con interesse anche i film di Kitano (proprio per prepararmi a "Outrage Beyond" mi sono appena visto o rivisto i suoi titoli recenti), Assayas (di cui sono un fan sin dai tempi di "Irma Vep"), Seidl e Wakamatsu. E darò una nuova possibilità a registi che in passato non ho amato particolarmente, come De Oliveira, o che ho addirittura detestato, come J. C. Brisseau. Peccato che dal programma – per restare ai film del concorso ufficiale – manchino Paul T. Anderson, De Palma, Malick e Bellocchio (ma quest'ultimo è già in sala, e gli altri troveranno sicuramente distribuzione).

11 settembre 2012

Outrage (Takeshi Kitano, 2010)

Outrage (id.)
di Takeshi Kitano – Giappone 2010
con Takeshi Kitano, Kippei Shiina
**

Visto in divx.

Dopo la parentesi della "trilogia artistica", Kitano torna ai film di yakuza con una pellicola che non devia di un millimetro da ciò che si propone di raccontare: sgarbi, vendette, tradimenti e rese dei conti fra famiglie mafiose nello scenario urbano giapponese (Beat Takeshi ha dichiarato di averlo realizzato per puro divertimento, e di aver scritto la sceneggiatura dopo aver immaginato in quali modi diversi far morire i vari personaggi). Se la regia è elegante, la recitazione rigorosa e il controllo sulla materia è serrato, il film complessivamente delude: freddo e monotono, e privo di quella poesia – anche astratta – che in passato aveva sempre fatto capolino nei film più violenti di Kitano ("Brother", "Sonatine"). Beat Takeshi è Otomo, al servizio della famiglia Ikemoto (a sua volta affiliata al clan Sanno), per la quale si occupa dei "lavori sporchi". Quando il subdolo presidente dei Sanno ordina a Ikemoto di rompere i legami con la famiglia Murase, alla quale era legata da un patto di fratellanza ma il cui territorio interessa per lo spaccio di droga, sono proprio gli uomini di Otomo a occuparsene. Episodio dopo episodio, ben presto fra i due gruppi scoppia la guerra: ma oltre che dai nemici, tutti devono guardarsi ancor più dagli amici, visto che tradimenti e complotti sono all'ordine del giorno. Senza offrire possibilità di scampo o redenzione, il film – il più "nero" mai realizzato da Kitano – si conclude anche senza lieto fine: ma Otomo tornerà in scena per vendicarsi nel successivo "Outrage Beyond". Personaggi senza onore (non esistono "buoni", solo "cattivi"), fra capi che tramano alle spalle dei loro sottoposti (e viceversa) e li mettono gli uni contro gli altri, poliziotti corrotti, uomini pronti a cambiare alleanza a seconda delle circostanze, gli yakuza ne escono spogliati di quelle caratteristiche "romantiche" che in passato avevano dato loro un certo fascino cinematografico: anche gli uffici sono bui, spogli e squallidi, e i mafiosi più "vecchio stile", come Otomo, si sentono dire cose tipo "Questa usanza di tagliarsi il mignolo è superata". A parte l'implausibile sottotrama del diplomatico africano (la cui ambasciata – quella di un paese immaginario, il "Gbana" – viene trasformata dai gangster in una bisca clandestina), il film non introduce mai elementi estranei al tema principale e non concede allo spettatore occasioni per rifiatare, infilandoci qua e là anche qualche scena estremamente cruenta. Anche per questo, forse, non decolla mai e fatica a emozionare. Tecnicamente eccelso, questo sì (la regia fredda ed elegante si traduce anche in una fotografia che predilige i toni di blu). Ma che nostalgia per il Kitano degli anni 90... Visto il successo di pubblico (è stato il suo secondo miglior film al botteghino, dopo "Zatoichi") ma essendo rimasto in parte insoddisfatto del risultato e volendo dunque fare di meglio, due anni dopo Kitano ha deciso di realizzare per la prima volta un sequel: "Outrage beyond".

10 settembre 2012

Chacun son cinéma (aavv, 2007)

Chacun son cinéma (id.)
di aavv – Francia 2007
film a episodi
***

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli inglesi.

Film a episodi ideato da Gilles Jacob e realizzato nel 2007 per festeggiare il 60° anniversario del festival di Cannes. A 34 registi (in realtà 36, visto che ci sono due coppie di fratelli, i Coen e i Dardenne) – quasi tutti vincitori in passato della Palma d'Oro o comunque protagonisti della kermesse francese – è stato chiesto di girare un segmento di tre minuti, ambientato in una sala cinematografica, che rendesse omaggio al cinema come luogo fisico (il sottotitolo è "Ce petit coup au coeur quand la lumière s'éteint et que le film commence", ossia "Quel piccolo colpo al cuore quando la luce si spegne e il film comincia"). Aperto da una frase di Jim Harrison e chiuso da un segmento estratto da "Il silenzio è d'oro" di René Clair (con bacio e happy ending), il film è dedicato alla memoria di Federico Fellini: e non sono pochi gli omaggi o i rimandi alle opere del cineasta italiano – così come ai suoi attori, alle sue musiche, alle sue atmosfere – fatti dai vari autori (anche se naturalmente non mancano altre citazioni cinefile: molte, per esempio, quelle relative a Godard o Bresson). L'unicità del tema trattato e la breve durata dei vari episodi rendono la pellicola complessivamente più gradevole e omogenea rispetto ai consueti lungometraggi a episodi: e la lista degli autori coinvolti è davvero straordinaria. La magia della sala cinematografica emerge prepotentemente, in un viaggio attraverso tutti i paesi del mondo e tutte le epoche: che si tratti di amore per i film proiettati o semplicemente per la sala stessa, vista come luogo popolare per la condivisione di emozioni (ma molti lamentano la continua chiusura di sale che un tempo erano stati importanti luoghi d’incontro). C'è chi ha affrontato l'argomento con ironia (Polanski, Kitano) e chi con cinefilia intellettuale (Angelopoulos), chi sdrammatizza (Loach, Kaurismäki) e chi sceglie l'erotismo (Wong Kar-Wai), chi diventa protagonista (Chahine, Moretti) e chi si autoparodizza (Von Trier, Cimino), chi celebra la modernità e la tecnologia (Egoyan) e chi guarda con nostalgia al passato (Tsai Ming-Liang, Hou Hsiao-Hsien), chi racconta il futuro (Cronenberg) e chi fa l'eccentrico (Campion, unica donna del gruppo), chi vira sul surreale (Van Sant) e chi sulla farsa (De Oliveira), chi ha velleità politiche (Kiarostami, Gitai) e chi omaggia le sale improvvisate (Zhang Yimou, Wenders), per finire con chi ci dice che in fondo gli spettatori ideali sono i ladri (Dardenne, Assayas) o i ciechi (Iñárritu, Chen Kaige). Ogni episodio può essere considerato come un cortometraggio a sé stante, completo di titoli di coda. Dal montaggio finale, per problemi di diritti, è stato escluso il segmento di David Lynch ("Absurda"), anche se è stato poi recuperato come extra nel DVD, mentre da alcune versioni (forse per lo stesso motivo) manca anche quello dei fratelli Coen. Fra i miei preferiti: Kitano, Konchalovsky, Moretti, i Coen (ebbene sì, per una volta!), Kaurismäki, von Trier.

1 - Arena estiva (Cinéma d'été) di Raymond Depardon
In un paese del Medio Oriente (l’episodio è stato girato ad Alessandria), una folla di giovani assiste a un film di Bollywood proiettato all'aperto in un'arena estiva.

2 - Una bella giornata (One Fine Day) di Takeshi Kitano
Un contadino cerca di vedere "Kids Return" in un isolato cinema di campagna (dove è l’unico spettatore), ma il proiezionista (lo stesso Kitano) combina pasticci.

3 - Tre minuti (Trois minutes) di Theo Angelopoulos
In una sala dove sono proiettati i loro film (fra cui "L'apicultore" dello stesso Angelopoulos), Jeanne Moreau reincontra per tre minuti Marcello Mastroianni (ovviamente una controfigura, visto che l’attore era morto dieci anni prima) e dichiara il proprio amore per lui e per il cinema (con dialoghi tratti da "La notte").

4 - Al buio (Dans le noir) di Andrei Konchalovsky
In un vetusto cinema russo viene proiettato "8½" di Fellini. La cassiera chiude in anticipo il botteghino perché vuole vedersi il film da sola (e per l’ennesima volta), ma è disturbata da una coppia di giovani che amoreggia sulle poltroncine.

5 - Diario di uno spettatore (id.) di Nanni Moretti
Seduto da solo in varie sale vuote, Moretti ricorda diverse esperienze personali di film visti al cinema negli anni passati, e racconta le proprie reazioni e quelle di chi era con lui (come, per esempio, suo figlio).

6 - The Electric Princess House (id.) di Hou Hsiao-Hsien
Durante la guerra, un soldato porta la moglie (Shu Qi, incinta!) e le figlie al cinema. Ai giorni nostri la sala è ormai ridotta in rovina, ma vi si proietta la sequenza degli autoscontri di "Mouchette".

7 - Nell'oscurità (Dans l'obscurité) di Jean-Pierre e Luc Dardenne
Un ladro striscia nel buio fra le poltroncine e cerca di aprire la borsetta di una ragazza. Ma lei, commossa per "Au hasard Balthazar" di Bresson, prende la sua mano e se la porta alle guance.

8 - World cinema (id.) di Ethan e Joel Coen
In un cinema d'essai che proietta "La regola del gioco" di Renoir e "Climates" di Nuri Bilge Ceylan, un cowboy indeciso su quale film vedere (Josh Brolin) chiede informazioni al cassiere. Per la cronaca, alla fine sceglie il film turco, e gli piace pure. Non presente in alcune versioni.

9 - Anna (id.) di Alejandro Gonzàlez Iñárritu
Una ragazza si emoziona al cinema mentre guarda "Il disprezzo" di Godard: solo alla fine, quando il suo ragazzo le spiegherà che il film era a colori e non in bianco e nero, scopriremo che era cieca.

10 - Guardando il film (En regardant le film) di Zhang Yimou
Nella piazza di un villaggio rurale, un bambino è particolarmente curioso ed eccitato per l'arrivo del cinema. Ma quando il film comincia, dopo il tramonto, lui si è già addormentato.

11 - Il dibbuk di Haifa (Le dibbouk de Haifa) di Amos Gitai
Una proiezione, a Varsavia nel 1936, viene interrotta bruscamente: lo stesso avverrà 70 anni dopo ad Haifa, per un raid aereo che uccide anche alcuni spettatori.

12 - Lady Insetto (Lady Bug) di Jane Campion
L'inserviente di un cinema cerca di schiacciare un insetto, che ha l’aspetto di una piccola danzatrice con manie di protagonismo.

13 - Artaud doppio spettacolo (Artaud Double Bill) di Atom Egoyan
A una proiezione di "Vivre sa vie", durante la sequenza in cui Anna Karina guarda "La passione di Giovanna d'Arco" di Bresson, alcuni spettatori si scambiano commenti via cellulare su Antonin Artaud.

14 - La fonderia (Valimo) di Aki Kaurismäki
Gli operai di una fonderia escono dal lavoro e si recano in un cinema d'essai, dove assistono a "L'uscita dalle fabbriche Lumière".

15 - Recrudescenza (Recrudescence) di Olivier Assayas
Un ladro ruba la borsetta di una donna al cinema. Terminato il film, lei chiama il proprio cellulare con quello del compagno, e il ladro risponde: che fosse il suo ex fidanzato?

16 - 47 anni dopo (47 ans aprés) di Youssef Chahine
Chahine ricorda quando giunse per la prima volta a Cannes, portando il suo secondo film, che passò inosservato. 47 anni dopo, ricevendo un premio per l'insieme dell'opera, spiega ai giovani "Siate pazienti". Autocelebrativo.

17 - È un sogno (It's a dream) di Tsai Ming-Liang
Mentre mangia durian (un tipo di frutta esotica) in una sala cinematografica, Hsiao-kang (Lee Kang-sheng) ricorda il padre e la nonna. Nostalgico.

18 - Occupazioni (Occupations) di Lars von Trier
Von Trier prende a martellate uno spettatore cafone che, seduto accanto a lui, lo disturbava in continuazione durante un film. Splatter-comico.

19 - Il dono (Le don) di Raoul Ruiz
Un regista racconta alla nipote antropologa un bizzarro episodio che gli è capitato durante un viaggio fra gli indigeni cileni, ai quali aveva regalato un proiettore. Ma forse è stato solo il frutto di un’allucinazione.

20 - Il cinema sul boulevard (Cinéma de Boulevard) di Claude Lelouch
I genitori di Lelouch si conobbero in un cinema, guardando "Cappello a cilindro". Poi, col tempo, videro insieme tanti altri grandi film (da "La grande illusione" a "Quando volano le cicogne"). Morto il padre, la madre si emoziona rivedendo Ginger e Fred negli anni sessanta.

21 - Primo bacio (First Kiss) di Gus Van Sant
Un giovane proiezionista entra nello schermo per raggiungere la ragazza dei suoi sogni e baciarla. Surreale ma banalotto.

22 - Cinema erotico (Cinéma erotique) di Roman Polanski
In un cinema che proietta "Emmanuelle", una coppia seduta in platea crede che un uomo si stia masturbando e chiama la maschera: in realtà l'uomo stava lamentandosi perché era caduto giù dalla galleria.

23 - Traduzione non richiesta (No Translation Needed) di Michael Cimino
Cimino filma il concerto di alcuni musicisti cubani che si esibiscono all'interno di un cinema, ma la bella cantante non apprezza i suoi "godardismi" registici.

24 - Il suicidio dell'ultimo ebreo del mondo nell'ultimo cinema del mondo (At the suicide of the last jew in the world in the last cinema in the world) di David Cronenberg
In un futuro in cui i cinema sono illegali, una videocamera sta riprendendo il suicidio dell'ultimo ebreo rimasto al mondo (interpretato dallo stesso Cronenberg), chiuso nei bagni dell'ultima sala sopravvissuta alla distruzione. Due commentatori descrivono la scena, che si interrompe prima dello sparo.

25 - I travelled 9000 km to give it to you (id.) di Wong Kar-Wai
In un'assolata estate, una coppia mangia frutta e amoreggia mentre guarda "Alphaville" di Godard.

26 - Dov'è il mio Romeo (Where is my Romeo) di Abbas Kiarostami
Alcune donne iraniane, costrette all'esilio (fra loro c'è anche Golshifteh Farahani) guardano "Romeo e Giulietta" al cinema e si commuovono. La camera riprende solo i loro volti.

27 - Appuntamento all'ultimo spettacolo (The Last Dating Show) di Bille August
Un ragazzo danese porta al cinema una ragazza iraniana. I due vengono disturbati da tre teppistelli, ma poi si ritrovano tutti insieme nella cabina del proiezionista a guardare come finisce il film.

28 - Maldestro (Irtebak) di Elia Suleiman
Un regista, presente in sala alla proiezione del suo film, è protagonista di varie peripezie nel bagno e nel parcheggio. Comicità astratta e surreale.

29 - L'unico incontro (Rencontre unique) di Manoel De Oliveira
Un "finto" filmato d'epoca (muto e in b/n) mostra l’incontro fra Nikita Kruscev (Michel Piccoli) e Giovanni XXII, "il compagno papa, che quando ordina ai compagni cattolici di pregare, loro pregano". Al segno della croce dell'uno, l'altro replica con il saluto a pugno chiuso. Ma scoprono di avere una cosa in comune: la pancia.

30 - A 8.944 chilometri da Cannes (à 8944 km de Cannes) di Walter Salles
In Brasile, davanti a un cinema che proietta "I 400 colpi" di Truffaut, due uomini discutono a proposito del festival di Cannes (pur non essendoci mai stati), cantando e accompagnandosi con i tamburelli.

31 - Guerra in tempo di pace (War in Peace) di Wim Wenders (e collaboratori)
In un villaggio nel Congo, nel primo anno di pace dopo cent’anni di colonialismo, sfruttamento e guerre civili, bambini e adulti si commuovono davanti a un film bellico ("Black Hawk Down") in un cinema improvvisato (un dvd e un vecchio televisore).

32 - Nel villaggio di Zhanxiou (Zhanxiou Village) di Chen Kaige
Nel 1977 alcuni bambini guardano "Il circo" di Chaplin nella piazza di un villaggio. Quando va via la corrente, usano le bici per alimentare il proiettore. Uno di loro diventa cieco per il freddo: lo rivedremo da adulto, nel 2007, ancora davanti a uno schermo cinematografico.

33 - Lieto fine (Happy Ending) di Ken Loach
In coda davanti alle casse di un cinema, padre e figlio non riescono a scegliere quale film vedere (sono tutti mediocri film hollywoodiani). E allora decidono di andare allo stadio per una partita di calcio.

Extra - Absurda (id.) di David Lynch
Segmento surreale e criptico: una camera fissa riprende una sala cinematografica. Dallo schermo escono delle enorme forbici. Una delle giovani spettatrici si vede come ballerina sullo schermo, dal quale fuoriesce del fumo che invade il salone. Grida e commenti fuori campo.

9 settembre 2012

Achille e la tartaruga (T. Kitano, 2008)

Achille e la tartaruga (Akilles to kame)
di Takeshi Kitano – Giappone 2008
con Takeshi Kitano, Kanako Higuchi
***

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli.

Dopo i surreali "Takeshis'" e "Glory to the filmmaker!" (che avevano fatto precipitare le sue quotazioni presso pubblico e critica), con il terzo film della sua trilogia sull'arte Kitano torna a una pellicola "seria" e a un tipo di narrazione più tradizionale (tanto che, nella prima parte, non sembra nemmeno un film di Beat Takeshi!). Ma la tematica non cambia: come nel lungometraggio precedente siamo ancora una volta di fronte alle vicende di un artista fallito che sperimenta inutilmente le strade più disparate, anche se stavolta i toni comici e disimpegnati lasciano frequentemente spazio all'amarezza e alla crudeltà. Il titolo proviene naturalmente dal celebre paradosso di Zenone (esposto all'inizio del film con una sequenza in animazione), dove l'eterna rincorsa di Achille alla tartaruga è usata come metafora dell'inseguimento di un pittore al successo (o alla felicità, come suggerisce la didascalia finale). Figlio di un ricco industriale della seta, il piccolo Machisu ha ereditato dal padre l'amore per l'arte: cresciuto nella bambagia, gli è permesso di tutto, anche di disegnare durante le lezioni scolastiche. Uno dei pittori di cui il padre è mecenate gli dona il suo basco (che Machisu indosserà per tutta la vita), incoraggiandolo a continuare a inseguire il suo sogno. Ma dopo il fallimento e il suicidio del genitore, il bambino viene adottato da uno zio tirannico che lo costringe a lavorare in campagna, e poi finisce all'orfanotrofio. Durante la difficile adolescenza, fra un lavoretto e l'altro frequenta una scuola d'arte con l'obiettivo di impadronirsi delle basi tecniche e di incanalare la propria creatività, e con un gruppo di compagni si lancia in spericolate provocazioni artistiche di ogni tipo. Sposa una ragazza che comprende la sua arte e che in seguito lo asseconderà in sperimentazioni sempre più azzardate. Ma non riuscirà mai a trovare la propria strada, finendo per copiare quasi tutto quello che è già stato fatto (dal cubismo all'impressionismo, dagli schizzi di vernice su tela ai graffiti, dalle installazioni alle avanguardie: Picasso, Pollock, Warhol, Basquiat, ecc.). Spinto da un gallerista che critica ogni suo lavoro, continuerà a muoversi a casaccio in tutte le direzioni, mettendo anche a repentaglio la propria vita. Ma alla fine, se non il successo, troverà almeno la pace interiore e la felicità. A metà fra l'appassionato affresco storico (con l'inarrestabile anelito verso l'arte come filo conduttore, e la satira verso pittori, commercianti e galleristi che rimane sullo sfondo) e l'amaro ritratto di un fallito, è forse il lavoro più "monumentale" e ad ampio respiro di tutta la filmografia di Kitano (ma i temi di fondo – come detto – rimangono gli stessi dei due film precedenti, personali e intimi: anche se stavolta il protagonista è un personaggio di fantasia, resta comunque evidente il marchio autobiografico). Nel complesso il lungometraggio può essere diviso in tre parti dai toni abbastanza diversi fra loro – si va dal melodrammatico al grottesco – e che seguono la vita di Machisu nell'infanzia, nell'adolescenza e in tarda età (interpretate rispettivamente da Reiko Yoshioka, Yurei Yanagi – già protagonista di "Boiling Point" – e Kitano stesso). Eccezionale la fotografia, i cui colori smorti (soprattutto nelle sequenze dell'infanzia) fanno risaltare per costrasto le vivacissime tinte dei dipinti. Tutti i numerosissimi quadri e opere d'arte che si vedono nel film sono ovviamente opera dello stesso regista: i credits specificano infatti che il film è "scritto, diretto, montato e dipinto da Takeshi Kitano". A un certo punto si rivede un quadro già apparso in "Hana-bi", mentre un altro dipinto mostra il paesaggio che fa da sfondo allo spezzone kitaniano contenuto in "Chacun son cinéma".

8 settembre 2012

Glory to the filmmaker! (T. Kitano, 2007)

Glory to the filmmaker! (Kantoku, banzai!)
di Takeshi Kitano – Giappone 2007
con Takeshi Kitano, Tohru Emori
**

Visto in divx alla Fogona, in originale con sottotitoli.

Il secondo capitolo della trilogia autobiografica di Kitano sull'arte (o meglio, sul fallimento artistico) comincia con una sorta di autoanalisi (che si tramuta in una riflessione metacinematografica) e prosegue nello stile del blob demenziale, goliardico e grottesco già sperimentato in "Getting any?" e caratteristico anche di parte dei suoi show televisivi. Se in "Takeshis'" aveva "frammentato" la propria personalità, qui procede – con lucida consapevolezza – a distruggerne i frammenti, uno dopo l'altro. L'incipit è indicativo: dopo che il regista si è fatto sostituire a un check-up medico da un pupazzo con le sue sembianze (elemento che continuerà a ricorrere per l'intero film: di fronte a ogni difficoltà, un Kitano senza idee non sa far altro che trasformarsi in un fantoccio), una voce narrante ci introduce alla crisi personale e artistica del nostro eroe, che avendo incautamente dichiarato in un'intervista di non voler più realizzare film sui gangster (nonostante le pellicole sulla yakuza siano le sue preferite e il suo marchio di fabbrica) non sa più in che direzione proseguire la propria carriera ed è alla disperata ricerca di un successo commerciale. Le prova tutte, con risultati disastrosi (stroncature da parte della critica o del pubblico, progetti abbandonati per i motivi più disparati): il film alla Ozu, in bianco e nero, sui problemi della gente comune (girato in modo esilarante: anche le inquadrature e il modo di parlare dei personaggi sono identici alle pellicole del grande maestro!); la love story strappalacrime oppure tragica; il film ambientato nostalgicamente negli anni '50, l'epoca della sua infanzia (uno spezzone mica male, con gli scorci di vita dei bambini nelle periferie disadattate che mi hanno ricordato certe sequenze di "20th Century Boys"!); l'horror orientale (genere che "spesso viene copiato da Hollywood"!); il film in costume, o chambara (il narratore ricorda che dei dodici film girati finora da Kitano uno solo, "Zatoichi", è stato un successo al botteghino in Giappone), nello specifico una fumettosa storia di ninja; e infine la fantascienza. Se inizialmente ci si stanca un po' di fronte al susseguirsi di frammenti, con la storia che ricomincia sempre diversa (e spesso non va a concludersi), l'episodio fantascientifico prende invece corpo e si sviluppa per tutta la seconda metà della pellicola, anche se in un crescendo di nonsense e di situazioni grottesche e surreali, corrispettivo – come ha dichiarato lo stesso Kitano – della comicità manzai dei suoi esordi. Lo pseudo-film di SF comincia con un asteroide che minaccia di schiantarsi contro la Terra, ma poi la sceneggiatura sembra dimenticarsene per seguire le peripezie di una coppia di donne spiantate e truffatrici (la madre è Kayoko Kishimoto, la figlia è Anne Suzuki) che cercano di trarre profitto dalla ricchezza di un bizzarro industriale, la cui formidabile ed eroica guardia del corpo (con tanto di poteri alla "Matrix", oltre che con la capacità di trasformarsi in pupazzo nei momenti di difficoltà) è appunto Beat Takeshi. Molte le gag e le situazioni umoristiche che si succedono e si accavallano senza posa: il ristorante gestito dai due wrestler che scaraventano fuori i clienti che si lamentano, la conferenza del ricco industriale, lo scienziato pazzo che costruisce robot e inventa un modo più semplice per fare le rovesciate calcistiche, la lezione di karate, la gag su Zidane... Se il divertimento – per quanto di bassa lega, sconclusionato e talvolta persino scurrile – non manca, il vero scopo di Kitano è quello di mettere sé stesso sotto l'obiettivo in una sorta di autoanalisi aperta al pubblico, come e più che in "Takeshis'", non senza un pizzico di megalomania ma sempre con sincera onestà. Al termine, al regista che domanda "Com'è il mio cervello?", il dottore non potrà che rispondere "Devastato": l'autodistruzione è completa, rimane solo una tabula rasa su cui provare in futuro a ricostruire qualcosa. Certo è che, dopo aver montato e smontato il cinema (il proprio e quello altrui) in questo modo, sarà difficile per Kitano tornare a girare un film "normale" prendendolo sul serio (o pretendendo che lo facciano gli spettatori).

7 settembre 2012

Takeshis' (Takeshi Kitano, 2005)

Takeshis' (id.)
di Takeshi Kitano – Giappone 2005
con Takeshi Kitano, Kotomi Kyono
***

Rivisto in DVD alla Fogona.

Questo film e i due successivi di Kitano ("Glory to the filmmaker!" e "Achille e la tartaruga"), fortemente autobiografici, costituiscono un'ideale trilogia sull'arte, chiamata anche del "suicidio artistico" non solo perché tratta il tema del fallimento ma anche perché è stata caratterizzata da un pessimo riscontro da parte del pubblico e della critica, soprattutto in occidente (fa in parte eccezione la terza pellicola), tanto da aver fatto cadere in disgrazia il regista presso quelle stesse audience che lo avevano amato in precedenza: di fatto, dopo "Takeshis'" i suoi film non hanno più trovato distribuzione in sala nel nostro paese. Eppure si tratta di lavori assai personali e sinceri, in cui Kitano espone tutto sé stesso, comprese quelle contraddizioni e quello spirito (auto)ironico e irriverente che già in passato lo avevano spinto a realizzare film considerati minori – o addirittura "inguardabili" – come "Getting any?". E bisogna rendergliene merito, magari analizzandoli con maggiore attenzione e guardandoli più di una volta: io stesso devo ammettere di aver faticato a comprendere "Takeshis'" alla prima visione, restando confuso e frastornato dalla sua anarchia demenziale e surreale, e di averlo rivalutato solo in seguito, quando sono riuscito a destreggiarmi meglio nella sua struttura complessa, fatta di scatole cinesi, metacinema e riferimenti ironici (e onirici) ai lavori precedenti. Nell’era della multiplicity (“la moltiplicazione delle competenze, la capacità di adattamento, l'abilità di operare contemporaneamente in contesti e su piattaforme diverse”, cito dal bando di un concorso; e chi meglio di Kitano, artista poliedrico che spazia dal teatro alla pittura, dalla tv al cinema, dal comico al drammatico, ne può incarnare il concetto?) il regista sceglie di mettere direttamente in scena la “frammentazione” del proprio io.

Il tema è infatti quello del doppio: Takeshi Kitano, attore e showman di successo, ha un sosia identico a lui (sfoggia persino la medesima tintura di capelli che il "vero" Kitano aveva inaugurato in "Zatoichi") e che porta lo stesso nome. Questi conduce una vita miserabile, lavora come commesso in uno squallido negozio di alimentari e aspira a sua volta a fare l'attore, presentandosi a numerose audizioni dove viene regolarmente scartato o adattandosi a lavoretti degradanti (come quello di impersonare un clown: un riferimento alle origini di Kitano come comico di bassa lega). Quando uno yakuza ferito a morte lascia nel suo negozio una borsa piena di armi, decide di vendicarsi di tutte le umiliazioni subite, in un'escalation di violenza surreale: uccide i suoi persecutori, compie una rapina in banca e fugge su un'isola insieme a una ragazza, dove sarà protagonista di uno scontro a fuoco con la polizia (in una serie di scene che ricordano quelle di "Hana-bi" e "Sonatine"). Il tutto si rivela un sogno, ma di chi? Del sosia (che fantastica di emulare le imprese del divo e di essere protagonista di uno dei suoi film) o del "vero" Beat Takeshi (che, in crisi d'identità artistica, immagina la propria degradazione e autodistruzione – non manca infatti una scena catartica in cui viene pugnalato dal suo doppio)? Il lungometraggio è un pastiche di situazioni grottesche e bizzarre, per alcuni critici addirittura "felliniane" (è stato paragonato a "8½"), con personaggi che ricorrono in continuazione sotto varie forme (praticamente tutti hanno un sosia o più di uno, e ritornano anche dopo la morte), frasi identiche ma ripetute in contesti diversi, sogni contenuti dentro altri sogni, scontri fra yakuza, giocatori di mahjong, producer, cantanti, attori e ballerini di tip tap (la nuova passione di Kitano da "Zatoichi" in poi), tassisti avidi, pagliacci rancorosi, ristoratori sgarbati, fan insistenti, una misteriosa donna che si accanisce contro il protagonista, la metafora del bruco come simbolo di riscatto e di vendetta, le sparatorie nel buio che si trasformano in costellazioni, e mille altre immagini o situazioni che si concatenano in maniera suggestiva fra sogno e fantasia. Il titolo di lavorazione della pellicola era "Fractal", il che può spiegare la sua complessa struttura autoreferenziale. In Giappone è uscito nelle sale con la tagline "500% Kitano – Nothing to Add!". Nel cast sono riconoscibili quasi tutti gli attori che fanno parte del "clan Kitano" (da Ren Osugi a Susumu Terajima, da Kayoko Kishimoto a Tetsu Watanabe), mentre alcuni celebri artisti giapponesi (Taichi Saotome, Akihiro Miwa) interpretano sé stessi.

6 settembre 2012

Zatoichi (Takeshi Kitano, 2003)

Zatoichi (id.)
di Takeshi Kitano – Giappone 2003
con Takeshi Kitano, Tadanobu Asano
***

Rivisto in DVD, con Sabrina.

Zatoichi, all’apparenza un massaggiatore cieco ma in realtà un provetto e letale spadaccino che agisce come giustiziere nel Giappone feudale, è un personaggio ideato dal romanziere Kan Shimozawa, protagonista di numerosissimi film e sceneggiati televisivi a partire dagli anni sessanta. La serie interpretata da Shintaro Katsu, in particolare, conta ben 26 pellicole (realizzate fra il 1962 e il 1973, più un ultimo episodio nel 1989) e ha radicato indelebilmente il personaggio nell’immaginario collettivo nipponico. Quando Kitano ha annunciato di volerlo riportare sugli schermi in una versione da lui stesso interpretata, non sono mancate sorprese e perplessità: si tratta infatti del primo film del regista ambientato nel passato (e appartenente, nello specifico, al genere chambara, il cinema di spade e samurai), anche se nelle sue precedenti dieci pellicole non mancavano occasionali scene in costume o elementi della cultura “tradizionale” (basti pensare ai burattini di “Dolls” o ai comici riferimenti allo stesso Zatoichi già presenti in “Getting any?” e “L’estate di Kikujiro”). Per di più ci si chiedeva come Beat Takeshi avrebbe approcciato il personaggio: con il dovuto rispetto o con la consueta irriverenza? La risposta non poteva essere che: con tutti e due. Il film – che, per la cronaca, è stato il più grande successo di Kitano al box office in Giappone (cosa che verrà ironicamente sottolineata nel successivo “Glory to the filmmaker!”) – è assai curato nel ricostruire l’ambientazione, le scenografie e i costumi dell’epoca Edo (ci sono persino riferimenti a “La sfida del samurai” di Kurosawa), ma non rinuncia a inserire – a margine della trama principale – scene, personaggi o situazioni comiche, surreali o grottesche. La vicenda non si discosta da quelle delle classiche storie del personaggio, e vede Zatoichi impegnato a sgominare una banda di yakuza che spadroneggia in un povero villaggio di montagna, anche per aiutare due ragazzi (una sorella e un fratello, con quest’ultimo che si veste da donna) a ottenere la loro vendetta sui malviventi che dieci anni prima avevano sterminato la loro famiglia. Dovrà però vedersela con un avversario formidabile, un ronin (interpretato da Tadanobu Asano) che ha venduto al capo della banda i propri servigi come “guardia del corpo” (yojimbo) per guadagnare il denaro necessario a curare la moglie malata.

Registicamente, oltre alla consueta maestria nei movimenti di camera (che qui vanno spesso a ritmo di musica), è da sottolineare l’utilizzo diffuso di flashback che spesso partono all’improvviso, spiazzando un po’ lo spettatore, per ricostruire il passato dei personaggi. Le scene d’azione e gli scontri con la spada sono coreografati in maniera eccellente ed essenziale, e resi spettacolari dalla rapidità dei movimenti e dall’uso – moderato ma comunque sempre in evidenza – di effetti digitali che aggiungono schizzi di sangue come se si trattasse di un videogioco. I momenti comici sono forniti, oltre che occasionalmente dallo stesso Kitano (indimenticabile lo sberleffo finale, che ironizza sulla reale portata della cecità del personaggio) e da brevi scenette con personaggi minori, soprattutto da Shinkichi, inetto nipote di una delle contadine che l’eroe ha deciso di proteggere, appassionato giocatore d’azzardo che tenta invano di replicare le gesta di Zatoichi (interpretato da un comico dall’improbabile nome di Guadalcanal Taka). Per discostarsi maggiormente dai personaggi dei lavori precedenti, Beat Takeshi ha scelto di tingersi i capelli e di presentarsi così con un “nuovo look” alquanto straniante. Ma non è l’unico elemento di rottura con il passato: dal cast sono assenti gran parte dei consueti attori del “clan Kitano” (Susumu Terajima, Ren Osugi, ecc.) e compaiono invece molti volti nuovi (Michiyo Okusu, Yui Natsukawa, Yuko Daike, l’onnagata Daigoro Tachibana). Inoltre, dopo sette film in cui il suo contributo era stato fondamentale, si rompe il sodalizio con il compositore Joe Hisaishi (di suo rimane solo il jingle che accompagna il logo “Office Kitano” all’inizio della pellicola): la colonna sonora, ricca di percussioni e di sonorità che la regia occasionalmente sottolinea (per esempio quando vediamo i contadini zappare a ritmo di musica, ballare sotto la pioggia o martellare mentre costruiscono una casa), è di Keiichi Suzuki. Il film si conclude con un’elaborata danza dei contadini che si trasforma in un’enorme tip-tap cui prendono parte tutti i personaggi (comprese le versioni infantili dei due ragazzi vendicati), in un’esplosione di energia e di gioia. Contagiato dalla passione per il tip-tap, negli anni successivi Kitano si esibirà personalmente in tv in questo tipo di danza e vi farà riferimento nel successivo “Takeshis’”. Visto il successo della pellicola (premiata anche a Venezia con il Leone d’Argento per la miglior regia), i produttori avevano pensato a realizzare un seguito e a dare così l’avvio a una nuova franchise: ma non se n’è fatto nulla, e così il primo sequel ufficiale di un film di Kitano è arrivato solo quest’anno, con “Outrage Beyond”.

5 settembre 2012

Lies (Jang Sun-wu, 1999)

Lies (Gojitmal)
di Jang Sun-wu – Corea del Sud 1999
con Lee Sang-hyun, Kim Tae-yeon
*1/2

Visto in divx con Sabrina, in originale con sottotitoli.

Tratto da un romanzo di Jang Jung-il pubblicato nel 1996 e subito sequestrato per oscenità, il film racconta la relazione – con venature sadomasochistiche – fra un uomo di 38 anni e una ragazza di 18. Conosciutisi per telefono (la ragazza chiamava per conto di un’amica, alla quale confiderà successivamente ogni sviluppo della vicenda), lo scultore “J” e la studentessa “Y” decidono immediatamente di incontrarsi e di fare sesso: da lì si svilupperà un rapporto che si protrarrà per diversi mesi, fatto di incontri clandestini in alberghi sempre diversi e da un’escalation di violenza consensuale e condivisa. Ben presto le sculacciate lasciano posto a frustate o bastonate sul sedere che diverranno per i due una vera dipendenza, indispensabili preliminari al sesso quando non addirittura l’unico vero motivo per incontrarsi. Ripetitivo e monotono, al film – caratterizzato da lunghe ed estenuanti sequenze sempre uguali in cui i due attori nudi si frustano a vicenda, alternandosi nel ruolo di “padrone” e “vittima” – manca del tutto l’erotismo ma anche ogni tentativo di azzardare una lettura psicologica o sociale del fenomeno: non siamo certo di fronte, per intenderci, a una versione BDSM de “L’impero dei sensi”. Il regista cerca di rendere più “artistico” il soggetto con inserti godardiani (i cartelli con i titoli dei capitoli, brevi sequenze con il cineasta e i membri del cast che parlano direttamente all’audience, rompendo il “quarto muro”, e in un caso anche mostrando la troupe del film al lavoro), voice-over, immagini sgranate e riprese con la camera a mano per donare maggior “autenticità” alla pellicola. Ma il risultato è deludente, se non squallido o addirittura soporifero. Il titolo, spiegato solo alla fine, si riferisce alla menzogne che il protagonista comincia a raccontare alla moglie a proposito della sua relazione con Y.

4 settembre 2012

Il cavaliere oscuro - Il ritorno (C. Nolan, 2012)

Il cavaliere oscuro - Il ritorno (The Dark Knight Rises)
di Christopher Nolan – USA 2012
con Christian Bale, Joseph Gordon-Levitt
**1/2

Visto al cinema Colosseo.

Sono passati otto anni dalla conclusione del precedente film di Batman: Gotham City è ormai in pace e libera dalla criminalità, l'uomo pipistrello ha cessato di apparire in pubblico e Bruce Wayne – ferito nel fisico e nello spirito – vive come un recluso nella sua lussuosissima villa. Ma la minaccia di Bane, mercenario-terrorista dalle forza sovrumana e dalle misteriose origini che si impadronisce della città, instaurando una dittatura e scatenando una rivoluzione anarchica e "proletaria", costringerà l'eroe a tornare in azione, aiutato da un giovane poliziotto orfano (un'inedita e originale rivisitazione del personaggio di Robin), da un'affascinante gatta ladra (ovvero Catwoman: ma com'è consuetudine nella franchise di Nolan, i nomi dei fumetti vengono usati raramente) e dai soliti alleati (il commissario Gordon, l'inventore Fox, il maggiordomo Alfred). La conclusione della trilogia si trascina un po' troppo a lungo e tradisce qualche momento di stanca, ma sfocia in un finale ad alta tensione e impatto emotivo (che per un attimo lascia anche incerti sulla sorte di Batman stesso), tanto che gli si può perdonare qualche cliché (per esempio la bomba termonucleare con il timer, la cui minaccia viene sventata solo all'ultimo secondo). Come sempre il punto di forza sta nella caratterizzazione dei personaggi, che non tradisce quella originale dei comics ma è arricchita da una dimensione a più ampio raggio e parecchio sofferta (la figura di Bruce Wayne, in particolare, è qui ancora più interessante di quella del suo alter ego mascherato). I temi del sacrificio, della vendetta, della libertà e della necessità del male sono riproposti in maniera non banale. Non mancano scene puramente spettacolari e ad alto impatto visivo – siamo pur sempre di fronte a un blockbuster hollywoodiano, per quanto d'autore – come la distruzione dello stadio da football o quelle che coinvolgono il Batwing, così come è buona la sequenza dell'evasione di Bruce dalla prigione (fisica e mistica) dove Bane lo ha rinchiuso dopo il loro primo scontro. Certo però che questa volta Nolan non riesce a superare sé stesso: si tratta probabilmente del film meno interessante della trilogia, cupo e monolitico come i precedenti ma assai meno originale e intrigante, soprattutto per colpa di una sceneggiatura che avrebbe forse meritato qualche ulteriore revisione (il modo in cui Bane esce di scena, per esempio, è decisamente anticlimatico). A fianco dei reduci delle prime due pellicole (Christian Bale, Gary Oldman, Morgan Freeman, Michael Caine, più una breve comparsata di Cillian Murphy) compaiono diversi volti nuovi: il Bane di Tom Hardy punta tutto sulla fisicità (e su una voce cavernosa, affossata dal mediocre doppiaggio italiano), mentre la Selina Kyle di Anne Hathaway non è nulla di trascendentale, e l'ambigua Miranda Tate di Marion Cotillard fatica a comunicare qualcosa allo spettatore. Meglio il Blake/Robin interpretato da Joseph Gordon-Levitt, a tratti coprotagonista (ma mai in costume). Ma alla fine la vera protagonista risulta essere la città di Gotham, con la sua anima apocalittica, violenta e anarchica, isolata dal mondo e scenario ideale delle avventure di un supereroe che con essa si identifica alla perfezione.

2 settembre 2012

I mercenari 2 (Simon West, 2012)

I mercenari 2 (The Expendables 2)
di Simon West – USA 2012
con Sylvester Stallone, Jean-Claude Van Damme
**1/2

Visto al cinema Uci Bicocca, con Sabrina, Elena, Monica e Roberto.

I "sacrificabili" sono tornati! Come nel primo capitolo, Sylvester Stallone (autore anche della sceneggiatura, ma non della regia che stavolta ha lasciato a Simon West) ha riunito attorno a sé un nutritissimo roster di star del cinema d'azione degli anni ottanta, veri "pezzi da museo" (come recita ironicamente una delle tante battute del film) e totem di un'epoca in cui questo genere puntava le proprie carte sugli scontri fisici e non sugli effetti speciali generati al computer. Inutile aggiungere che la pellicola, per i nostalgici e i fan di quel tipo di film, è imperdibile quanto la precedente, pur scontando il rischio della ripetizione; ma rispetto al primo capitolo i dialoghi sono conditi da maggior humour: tanti gli in-jokes, in particolare, che riguardano Schwarzenegger ("Sono tornato!"). Se Jet Li esce di scena dopo poche sequenze, in compenso rispetto al precedente episodio Schwarzy e Bruce Willis hanno maggior spazio – e partecipano al combattimento finale – e soprattutto fanno la loro comparsa Chuck Norris (memorabile la sua entrata, accompagnata dal refrain de "Il buono, il brutto, il cattivo" di Morricone e seguita dall'attore stesso che racconta una delle tante "leggende urbane" che circolano in internet su di lui: "Una volta sono stato morso da un cobra. Ma dopo cinque giorni di dolore atroce... il cobra è morto") e Jean-Claude Van Damme nei panni del "cattivo", lo spietatissimo Jean Vilain (si chiama proprio così!). Questi ha deciso di impadronirsi delle riserve di plutonio che i sovietici hanno nascosto in una miniera bulgara, ma troverà sulla sua strada i nostri eroi, decisi a vendicare la morte del più giovane di loro (il "pivello" Liam Hemsworth). Tutto il cast (completato da Jason Statham, Dolph Lundgren, Terry Crews, Randy Couture e da una donna, Nan Yu) è protagonista di sparatorie, combattimenti e inseguimenti senza soluzione di continuità e ad alto livello di testosterone: il film mantiene tutte le sue promesse, che non comprendevano certo raffinati momenti di introspezione psicologica. Peccato solo che Schwarzy e Norris abbiano girato le loro scene in pochi giorni (e si vede: entrano ed escono dalla storia in maniera un po' casuale). Fra le performance migliori, quelle di Lundgren e Van Damme. Un terzo episodio è in cantiere: i produttori hanno già contattato Steven Seagal, Mel Gibson e altri ancora.