28 settembre 2019

Venezia e Locarno 2019 - conclusioni

Cosa ci rimarrà di questa edizione della rassegna? Forse ben poco. Intanto, come purtroppo capita da qualche anno, non c'è stato nessun vero capolavoro. Quello che ci è andato piu vicino è stato "Atlantis" dell'ucraino Valentyn Vasyanovych, seguito – nella mia personale classifica – da "Ema" di Pablo Larraín, "All this victory" di Ahmad Gossein e "Les enfants d'Isadora" di Damien Manivel. Nella media il resto, con poche sorprese e qualche delusione. I film peggiori sono stati il giapponese "A girl missing" e il cinese "Saturday fiction". Fra i temi ricorrenti delle pellicole viste, come l'anno scorso, spicca l'ispirazione alla realtà: tanti i lavori che portavano sul grande schermo storie veramente accadute, in chiave di ricostruzione storica o di docu-fiction ("Adults in the room", "Camille", "C'era una volta a... Hollywood", "Les enfants d'Isadora"), e in particolare occupandosi di guerre più o meno attuali ("All this victory", "Atlantis", "Nafi's father", "Saturday fiction") o di emergenze umanitarie (compresa la crisi del lavoro, vista in "Gloria mundi").

27 settembre 2019

Saturday fiction (Lou Ye, 2019)

Saturday fiction (Lan xin da ju yuan), aka Teatro Lyceum
di Lou Ye – Cina 2019
con Gong Li, Mark Chao
*1/2

Visto al cinema CityLife Anteo, con Viviana, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Nel dicembre del 1941, l'attrice Jean Yu (Gong Li) torna nella Shanghai occupata dai giapponesi (con l'eccezione delle poche zone sotto il controllo delle potenze europee), ufficialmente per prendere parte a una rappresentazione teatrale diretta da Tan Ma (Mark Chao), suo amante di un tempo, e ufficiosamente per perorare la causa dell'ex marito, dissidente prigioniero dei nipponici. In realtà la donna è una spia al servizio degli alleati, e il suo compito è quello di estorcere ad un alto ufficiale giapponese (Joe Odagiri) quale sarà il luogo dell'imminente attacco del paese del Sol Levante nel Pacifico. Un confuso film di spionaggio, incredibilmente noioso, con personaggi dalla caratterizzazione inesistente o ballerina, svolte poco chiare o implausibili, una regia mediocre che cerca di costruire l'atmosfera attraverso una fotografia in bianco e nero cupa e livida, e una fastidiosissima camera a mano sempre in movimento. Sprecata l'ottima Gong Li, costretta a un certo punto a trasformarsi in Rambo, prima di un finale prolungato che sembra non voler terminare più. Mai si percepisce l'afflato della storia, immersi come siamo in una ragnatela di intrighi spionistici di quart'ordine, in balia di personaggi con cui è difficile empatizzare (e di cui in fondo ci importa ben poco), anche per via di una forma stilistica pretenziosa (vedi la patina noir) e ammiccante alla Nouvelle Vague. Nel cast anche Huang Xiangli e Pascal Greggory.

No. 7 Cherry Lane (Yonfan, 2019)

No. 7 Cherry Lane (Ji yuan tai qi hao)
di Yonfan – Hong Kong/Cina 2019
animazione tradizionale
**1/2

Visto al cinema CityLife Anteo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

Nella Hong Kong del 1969, scossa da fermenti politici, lo studente di letteratura straniera Fan Ziming si innamora della signora Yu, madre della ragazza cui dà lezioni private di inglese. Caledoiscopico film d'animazione, caratterizzato da toni nostalgici (non solo per l'ambientazione: Ziming porta la signora Yu al cinema a vedere vecchi film stranieri, come quelli interpretati da Simone Signoret con cui la donna finisce per identificarsi), estrema lentezza ed eleganza (in senso proustiano: "Alla ricerca del tempo perduto", il libro preferito di Ziming, è un po' il filo conduttore), ma anche da occasionali momenti onirici e surreali che donano alla vicenda una patina di ambiguità (la signora Yu trasfigura la propria "liberazione" in una serie di sogni bizzarri). La storia, intima e personale (anche se sullo sfondo ci sono le contestazioni studentesche e la società che cambia, con l'avvento del materialismo e della moda), è raccontata attraverso il mutare delle stagioni, accompagnate da una colonna sonora assai ricca e soprattutto da parecchie citazioni cinematografiche (a partire da "Blow up": all'inizio vediamo Ziming e un suo compagno impegnati in una partita a tennis senza pallina). Interessanti anche alcuni bizzarri personaggi di contorno, come la signora May, diva dell'opera di Pechino che abita al piano di sopra della palazzina (al numero 7 di Cherry Lane, appunto) dove risiedono Yu e la figlia Meiling, fuggite da Taiwan per scappare dalle persecuzioni politiche. Fra i doppiatori: Sylvia Chang, Zhao Wei e Alex Lam.

26 settembre 2019

Ema (Pablo Larraín, 2019)

Ema
di Pablo Larraín – Cile 2019
con Mariana Di Girolamo, Gael García Bernal
***

Visto al cinema Arcobaleno, con Daniela, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Dopo aver perso il figlio adottivo Polo in circostanze non del tutto chiare (il bambino, in seguito a gravi intemperanze, è stato riconsegnato all'orfanotrofio e quindi adottato da una nuova coppia), la ballerina Ema (Mariana di Girolamo) fa di tutto per riprenderselo. In particolare, dopo aver lasciato Gastón (Gael García Bernal), suo marito nonché regista e coreografo dello spettacolo di danza cui partecipa, seduce (separatamente) i nuovi genitori di Polo (Santiago Cabrera e Paola Giannini). La cosa più interessante del film – oltre alla protagonista sopra le righe, iperattiva e manipolatrice, che tira le (multiple) fila della vicenda barcamenandosi fra i vari personaggi – è lo stile con cui è girato: estetizzante, seducente, ondivago, ipnotico, pieno di energia, sorprendente a ogni svolta. Che per lunghi tratti sembra procedere in modo casuale, per poi stupire lo spettatore in maniera inaspettata. Proprio come Ema, in fondo, personaggio multiforme e a lungo difficile da decifrare, che passa dai rapporti familiari all'amore per la danza (esibendosi per le strade in uno scatenato reggaeton in compagnia del suo "branco" di amiche), dalle feste notturne al lavoro (come insegnante di ballo nelle scuole), mentre la pellicola fonde in un modo del tutto suo il realismo sociale alla Ken Loach (periferie urbane, temi sociali) a un colorato mondo del sesso e dello spettacolo quasi almodovariano. Difficile inquadrare un film (ambientato nella città portuale di Valparaiso, di cui sfrutta molte suggestive location) e un personaggio così, che in una scena vediamo armata di lanciafiamme per dare fuoco agli arredi urbani (un rimando a una delle "colpe" di Polo, quella di aver giocato con i fiammiferi dando fuoco ai capelli di una zia), in un'altra sperimentare il sesso in maniera disinibita con le sue amiche, in un'altra ancora implorare un'assistente sociale affinché le faccia rivedere il figlio, e in un'altra ancora provare sul palcoscenico una coreografia di danza moderna, espressiva ed energetica. Il tutto mentre è divisa fra i sensi di colpa e il desiderio di rivalsa, il piacere del presente e sogno di un futuro migliore, all'insegna della libertà, dell'espressione di sé, della forza di volontà e della famiglia allargata.

You will die at 20 (Amjad Abu Alala, 2019)

You will die at 20
di Amjad Abu Alala – Sudan/Francia 2019
con Mustafa Shehata, Islam Mubark
**

Visto al cinema Eliseo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

Un santone itinerante, dal quale Sakina aveva portato il figlio neonato Muzamil per essere benedetto, profetizza che il bambino morirà all'età di vent'anni. La previsione sconvolge la comunità, che pure la accetta senza metterla in discussione. Abbandonata dal marito, Sakina è costretta a crescere il figlio tutta da sola, cercando di proteggerlo in ogni maniera. Il piccolo, che viene dileggiato e chiamato "Il figlio della morte" dai suoi coetanei, non esce mai dal suo villaggio. Ciò nonostante, crescendo, comincia a sviluppare sempre più curiosità e sete di conoscenza. Iscritto alla scuola coranica, ne diventa uno degli alunni più promettenti. E contemporaneamente frequenta la casa di uno "straniero" ai margini della comunità, che gli insegna la matematica e l'amore per le culture occidentali, e dal quale apprenderà anche a "peccare". Nel frattempo, però, man mano che il suo ventesimo compleanno si avvicina, tutto il villaggio comincia a fare i preparativi per il suo funerale. E la ragazza di cui è innamorato viene data in sposa a un altro, visto che il legame con lui non avrebbe prospettive... Uno spunto interessante, legato alla fede assoluta nella religione e alle superstizioni fondate sul nulla, per un film pittoresco che però alla resa dei conti mantiene forse meno di quello che promette. Se il contesto è interessante, i temi morali e quelli della predestinazione sono svolti con una certa pretestuosità. Deludente in particolare il finale, anticlimatico e incapace di tirare adeguatamente le fila della vicenda.

25 settembre 2019

Gloria mundi (Robert Guédiguian, 2019)

Gloria mundi (id.)
di Robert Guédiguian – Francia 2019
con Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Daniela, Federica e Viviana, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Alla nascita della nipotina Gloria, Sylvie (Ariane Ascaride) contatta dopo anni il suo ex marito Daniel (Gérard Meylan) per informarlo che è diventato nonno. Appena uscito di prigione, l'uomo torna dunque a Marsiglia per stringere nuovamente i contatti con i membri della famiglia, trovandoli tutti in una forte crisi dovuta al lavoro. La neomamma, Mathilda (Anaïs Demoustier), è commessa in prova in un atelier dove è vessata dalla padrona; suo marito Nicolas (Robinson Stévenin), autista di vetture a noleggio con conducente, è vittima di un agguato da parte di colleghi tassisti; il secondo marito di Sylvie, Richard (Jean-Pierre Darroussin) viene sospeso dal suo lavoro come autista di bus; la stessa Sylvie, impiegata di un'impresa di pulizie, deve fare i conti con gli scioperi selvaggi organizzati dai suoi colleghi; gli unici cui apparentemente le cose vanno bene sono la sorella di Mathilda, Aurore (Lola Naymark), e il suo compagno Bruno (Grégoire Leprince-Ringuet), che gestiscono un negozietto di compravendita di oggetti usati, senza troppi scrupoli e senza guardare in faccia nessuno, nemmeno i propri familiari in difficoltà. Guédiguian ha sempre affrontato i temi del lavoro e della famiglia in un mondo in continuo cambiamento, ma mai con tale pessimismo. Le occasioni e le opportunità si riducono a vista d'occhio, mentre il gap generazionale si allarga: le nuove generazioni non solo hanno meno prospettive di quelle che le hanno precedute, ma sono anche dominate dall'egoismo e dalla mancanza di quella solidarietà che, in qualche modo, un tempo aiutava ad andare avanti. Al ritratto simpatetico dei personaggi più anziani fa così da contraltare il cinismo e l'egocentrismo di quelli più giovani, che dividono l'universo fra vincenti e perdenti e capiscono che l'unico modo per restare a galla è quello di vivere sulla pelle degli altri. "Parafrasando Marx", ha detto il regista, "ovunque regni, il neocapitalismo ha schiacciato relazioni fraterne, amichevoli e solidali, e non ha lasciato altro legame tra le persone se non il freddo interesse e il denaro, annegando tutti i nostri sogni nelle gelide acque del calcolo egoistico". Chissà che mondo erediterà la piccola Gloria, rappresentante della generazione ancora successiva, e se quando sarà grande le cose cambieranno di nuovo... Pur con alcune svolte melodrammatiche, un film attuale, realistico e intenso, dai contenuti quasi sgradevoli in certi passaggi, che fonde molto bene le sue due anime, quella sociale e quella familiare. E ci sono anche alcuni sprazzi di poesia (gli haiku estemporanei composti da Daniel). Bella la colonna sonora di Michel Petrossian. Un po' inspiegabile la Coppa Volpi assegnata alla pur brava Ascaride per una prova in fondo normale all'interno di un film corale.

24 settembre 2019

Babyteeth (Shannon Murphy, 2019)

Babyteeth
di Shannon Murphy – Australia 2019
con Eliza Scanlen, Toby Wallace
**1/2

Visto al cinema CityLife Anteo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

La sedicenne Milla (Eliza Scanlen), figlia di uno psichiatra (Ben Mendelsohn) e di un'ex pianista (Essie Davis), è gravemente malata di tumore allo stadio terminale. Ma i suoi ultimi mesi sono caratterizzati da una "botta di vita" con l'infatuamento per il ventitreenne Moses (Toby Wallace), delinquentello di strada e piccolo spacciatore: una relazione che i genitori dapprima osteggiano e poi cercheranno invece di favorire, pur di rendere felice la ragazza. Opera prima di una regista che in precedenza ha diretto cortometraggi ed episodi di serie televisive, la pellicola ha un'origine teatrale (da una commedia di Rita Kalnejais, che ha adattato la sceneggiatura) ma non ci se ne accorge, per come è girata in maniera vivace e sbarazzina, anche visivamente, con una leggerezza che stupisce visto il tema trattato. Diviso in micro-capitoletti (ciascuno con un proprio titolo, spesso ironico o pretestuoso, che appare sullo schermo), il film accatasta situazioni di vita familiare, ribellione adolescenziale, problematiche legate all'uso (e all'abuso) di farmaci (che coinvolgono un po' tutti i personaggi: il padre li prescrive, la madre li utilizza per i propri problemi di depressione, la figlia ne è dipendente per la malattia, il fidanzato perché li ruba e li spaccia), ma anche il legame con la natura e soprattutto con la musica (il primo amore della madre, pianista classica, che spinge anche la figlia a imparare a suonare il violino). Peccato che, man mano che procede, la storia si sfilacci un po'. In ogni caso, una visione simpatica e piacevole. Eugene Gilfedder è l'insegnante di musica (e vecchio partner della madre di Milla), Emily Barclay la vicina di casa incinta (con cui il padre ha la tentazione di una scappatella extraconiugale).

23 settembre 2019

Atlantis (Valentyn Vasyanovych, 2019)

Atlantis
di Valentyn Vasyanovych – Ucraina 2019
con Andriy Rymaruk, Liudmyla Bileka
***

Visto al cinema Anteo, con Viviana, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

L'Ucraina del 2025, "un anno dopo la fine della guerra" (siamo dunque sei anni nel futuro), è un paese ormai devastato e senza speranza: la terra e l'acqua sono irrimediabilmente inquinate, le strade sono inutilizzabili perché imbottite di mine antiuomo, e ogni possibilità di tornare a una vita normale sembra preclusa. Dopo aver assistito al suicidio di un suo ex commilitone, sofferente per la sindrome da stress post-traumatico, il reduce Sergiy (Rymaruk), operaio di una fabbrica siderurgica in via di chiusura, conosce una ragazza (Bileka) che lavora come volontaria per recuperare i cadaveri dei soldati – ucraini e russi – rimasti abbandonati durante il conflitto. Un film lento, pesante, cupo e angosciante, a tratti difficile da guardare (si pensi alle sequenze delle autopsie dei cadaveri ormai putrefatti o in decomposizione), del tutto privo di colonna sonora e composto da lunghe sequenze con la macchina da presa in posizione fissa. Eppure è di rara intensità e potenza espressiva, capace di restare con lo spettatore per molto tempo dopo la visione, con un suo fascino e una sua ragion d'essere nel denunciare le (possibili) conseguenze di un conflitto fratricida dove la prima a pagare a caro prezzo è la terra stessa, ridotta a un ammasso di strade desolate e di fanghiglia grigia. Vasyanovych dirige con mano ferma e consapevole, e ogni inquadratura è accuratamente studiata, quasi un quadro (di videoarte) a sé stante, dalle riprese di una sepoltura vista attraverso una telecamera a infrarossi, a un fugace incontro amoroso in un camion rimasto fermo sotto una pioggia sferzante e battente. Il titolo fa riferimento a un'altra "terra perduta" e andata ormai distrutta (Atlantide): vogliamo che la storia si ripeta? Un'Atlantide, si badi bene, sommersa da quell'acqua che qui, onnipresente in molte scene, ha un ruolo invece protettivo e salvifico.

Estasi (Gustav Machatý, 1933)

Estasi (Extase, aka Symphonie der Liebe)
di Gustav Machatý – Cecoslovacchia 1933
con Hedy Lamarr, Aribert Mog
***

Visto al cinema Beltrade, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

Trascurata dal noioso marito (Zvonimir Rogoz) sin dalla prima notte di nozze, la giovane sposa Eva chiede il divorzio. E nel frattempo ha una fugace storia d'amore con un aitante ingegnere che lavora alla costruzione di una strada. Girato nel 1933 in tre versioni (rispettivamente in ceco, in francese e in tedesco), presentato alla Mostra di Venezia nel 1934 e ora restaurato (nella versione in lingua ceca) per l'edizione del 2019, questo film è passato alla storia per quello che viene considerato il primo nudo integrale di un'attrice protagonista sul grande schermo: quello di Hedy Lamarr, che ai tempi era diciottenne e si firmava ancora col suo vero nome (Hedy Kiesler). Si dice che suo marito Fritz Mandl, spinto dalla gelosia, cercò di acquistare tutte le copie della pellicola per distruggerle, ma inutilmente. Pur sonorizzato (e musicato: la colonna sonora è pressoché ininterrotta), stilisticamente il film è praticamente un muto, visto come ricorre quasi esclusivamente alle immagini per raccontare la sua storia. E in ogni inquadratura abbondano allusioni e metafore di ogni tipo (la natura che si risveglia di pari passo ai sensi della protagonista, fra campi di grano e cavalli selvaggi, per esempio). Se l'incipit può ricordare certe commedie di ambito domestico come quelle di Lubitsch, la parte centrale è pervasa da un erotismo assai spinto e suggestivo, grazie alla bellezza della Lamarr e, naturalmente, alla celebre e succitata scena, quella in cui la ragazza, mentre fa il bagno in un fiume, rimane nuda perché il suo cavallo è scappato portandosi via i suoi vestiti, e viene soccorsa da Adam (Aribert Mog). La regia elegante, la fotografia avvolgente e la leggerezza con cui scorrono le situazioni lo rendono estremamente gradevole ancora oggi: peccato solo per il finale spurio e "sovietico", con l'esaltazione del lavoro, che c'entra poco con tutto il resto. Naturalmente il soggetto "scandaloso" suscitò tentativi di censura in diversi paesi (anche perché, contrariamente alla morale e alle consuetudini dell'epoca, l'adulterio di Eva non è punito né rappresentato come riprovevole in alcun modo: si tratta semplicemente del naturale sfogo di una ragazza rimasta senza amore), ma diede grande fama internazionale al regista (già noto per un precedente film muto su temi simili, "Erotikon" del 1929) e soprattutto alla bella (e geniale) attrice, che qualche anno più tardi si trasferirà a Hollywood in fuga dalla Germania nazista.

22 settembre 2019

Il sindaco del rione sanità (M. Martone, 2019)

Il sindaco del rione sanità
di Mario Martone – Italia 2019
con Francesco Di Leva, Massimiliano Gallo
**

Visto al cinema Arcobaleno, con Sabrina, Florian e Sabine
(rassegna di Venezia).

Don Antonio Barracano, "uomo d'onore" temuto e rispettato da tutti, elargisce consigli e dispensa a modo suo la giustizia nel sottobosco criminale di Napoli, agendo fuori dalla legge e in favore di coloro che alla legge dello stato non possono fare ricorso, con l'intenzione di ridurre la spirale di odio e di violenza. Ma quando si troverà a dirimere un contrasto insanabile fra un padre e un figlio, la situazione gli sfuggirà di mano. Dopo averla diretta anche sul palcoscenico (da cui provengono praticamente tutti gli interpreti), Martone firma un adattamento cinematografico dell'omonima opera teatrale di Eduardo De Filippo, dandole un taglio moderno con scenografie e attori i cui volti ricordano la serie tv "Gomorra". E proprio la recitazione così caricata, con smorfie e atteggiamenti intimidatori, è il punto debole dell'operazione: non serve a rendere più realistica la vicenda, visto che la struttura dei dialoghi e l'impianto della storia rimangono comunque inequivocabilmente teatrali, e anzi disorienta lo spettatore, che si ritrova continuamente a fare i conti con lo "scarto" fra quello che vede e quello che sente. L'aspetto visivo così "serio" e l'impostazione così aggressiva non rendono peraltro giustizia alle mille sfumature del testo, dove non manca un certo sarcasmo e una sottile ironia dell'assurdo. Anche perché Martone esplicita e mostra sullo schermo molte scene e antefatti che nel testo originale erano soltanto raccontati a parole (una scelta giustificata dall'esigenza di "movimentare" cinematograficamente una storia che a teatro non aveva bisogno di cambi di scena), togliendo un po' di stupore e lasciando meno suggestione all'immaginazione del pubblico. Eliminando l'ultimissima scena del dramma, infine, il film ne capovolge di fatto il messaggio. Impari, naturalmente, anche il confronto espressivo fra Francesco Di Leva e lo stesso Eduardo nella sua versione televisiva del 1964: più che una guida di alta caratura o un'autorità riconosciuta dal popolo che va a chiedergli consiglio, qui il "sindaco" sembra un boss arrogante e distante, che impone dall'alto la sua legge. Complessivamente inutile: la potenza e la bellezza dell'originale si intravede soltanto nelle occasionali scene dei lunghi monologhi. Nel cast anche Massimiliano Gallo, Roberto De Francesco e Salvatore Presutto. Cameo di Ernesto Mahieux.

21 settembre 2019

All this victory (Ahmad Gossein, 2019)

All this victory (Jeedar el sot)
di Ahmad Gossein – Libano 2019
con Karam Ghossein, Adel Chahine
***

Visto al cinema Arcobaleno, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

Durante il conflitto fra Libano e Israele del luglio 2006, approfittando di una momentanea tregua, Marwan si reca nel villaggio del padre, in piena zona di guerra nel sud del paese, con l'intenzione di riportarlo a Beirut. Ma non lo trova, rimane bloccato dai bombardamenti e si rifugia in una casa diroccata, in compagnia di altre quattro civili (due anziani commilitoni del padre e una coppia in fuga), impossibilitati a uscire anche perché un drappello di soldati nemici si è insediato al piano superiore. La guerra vista da una stanza: tutt'attorno i rumori degli spari e delle esplosioni, da sopra i passi e le comunicazioni dei nemici, e all'interno angoscia e paura. Dieci anni fa, un film israeliano chiamato "Lebanon" aveva raccontato un altro conflitto fra i due paesi (quello del 1982) tutto dall'interno di un carro armato. Questa pellicola è in un certo senso la sua controparte, dato che mostra lo scontro dal punto di vista opposto (quello dei civili libanesi), ma ne condivide l'impostazione ristretta e claustrofobica, portando allo scoperto in maniera assai efficace le emozioni, i sentimenti e le paure di chi ne resta coinvolto. Opera prima di un regista che in precedenza ha realizzato alcuni cortometraggi, il film è girato con mano ferma e una particolare attenzione ai rumori e al montaggio sonoro. Quasi tutti gli eventi e gli orrori della guerra, infatti, non si vedono – se non di sfuggita – ma si sentono: fa eccezione la sequenza finale nella quale Marwan si aggira in mezzo alle rovine della città distrutta. Anche delle ragioni e del contesto specifico del conflitto si parla poco, tanto che il film potrebbe essere spostato o ambientato durante una qualsiasi guerra (appena fuori dalla nostra finestra) in ogni parte del mondo.

20 settembre 2019

Love me tender (Klaudia Reynicke, 2019)

Love me tender
di Klaudia Reynicke – Svizzera 2019
con Barbara Giordano, Antonio Bannò
**

Visto al cinema Colosseo, con Daniela e Marisa (rassegna di Locarno). Erano presenti la regista e l'interprete.

Terrorizzata dal mondo esterno e iperprotetta dai genitori, Seconda (così chiamata perché nata dopo una sorella scomparsa a 5 anni) si rifiuta di uscire dal proprio appartamento. Dopo l'improvvisa morte della madre e l'inattesa fuga del padre, la giovane sarà costretta a cavarsela da sola. Tragicommedia dai toni un po' surreali, sui temi della pazzia e del superamento dei limiti autoimposti: lo spunto non può che ricordare il bel film coreano "Castaway on the moon", ma se in quel caso gli sviluppi della vicenda, per quando assurdi e sopra le righe, apparivano comunque naturali e permettevano allo spettatore di empatizzare con i protagonisti, in questo caso molti aspetti risultano troppo astratti o del tutto random o gratuiti. Certo, si (sor)ride di fronte alle peripezie della ragazza, alla sua difficoltà di rapportarsi con il mondo esterno, ai maldestri tentativi di suicidio, alle vicissitudini che coinvolgono – fra gli altri – Santo, il malcapitato ragazzo al quale chiede aiuto, ed Henry, l'insistente agente di riscossione dei debiti; e a vivacizzare il tutto ci sono gli incontri di Seconda con sé stessa da bambina. Ma l'impressione è che si proceda a casaccio, un po' in tutte le direzioni, senza un vero traguardo in mente (tanto che il finale astratto è tutt'altro che memorabile). Pretestuosa la lettura femminista e anti-patriarcale avanzata da alcune critiche. Molto buona comunque la prova della Giordano, che si esprime attraverso una recitazione assai "fisica". La regista, di origine peruviana, è anche sceneggiatrice e co-autrice delle musiche.

Camille (Boris Lojkine, 2019)

Camille
di Boris Lojkine – Francia 2019
con Nina Meurisse, Fiacre Bindala
**

Visto al cinema Colosseo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Locarno).

Biopic su Camille Lepage, giovane fotoreporter francese che rimase uccisa nel 2014 nella Repubblica Centrafricana, dove si trovava per documentare con i suoi scatti le violenze della guerra civile e gli scontri fra i ribelli mussulmani (i Séléka) e le milizie cristiane (gli anti-Balaka). Alternando il ritratto simpatetico di una protagonista giovane e idealista alla rappresentazione di una tragedia umanitaria della quale ai paesi occidentali importa davvero poco (a parte forse ai francesi, per via del loro passato coloniale), ma di cui in realtà non approfondisce particolarmente i retroscena, il film colpisce per la cura tecnica con cui ricostruisce sullo schermo scenari ed eventi anche molto recenti (la guerra è tuttora in corso) e per la potenza dell'intepretazione di Nina Meurisse. Ma gli manca quel "quid" che c'era nei reportage di Kapuściński (come "Ancora un giorno", ambientato in Angola, dal quale è stato tratto recentemente un bel film in animazione rotoscope) o persino in pellicole hollywoodiane come "Sotto tiro" con Nick Nolte, dove la situazione contingente non impediva di allargare lo sguardo al di là della tragica realtà. In questo caso siamo invece di fronte a poco più di un documentario, incapace di uscire dai limiti ristretti del suo argomento e che si limita a ribadire concetti generici sull'assurdità della guerra e della violenza.

Les enfants d'Isadora (Damien Manivel, 2019)

Les enfants d'Isadora
di Damien Manivel – Francia/Corea del Sud 2019
con Agathe Bonitzer, Manon Carpentier
***

Visto al cinema Colosseo, con Eleonora e Paola, in originale con sottotitoli (rassegna di Locarno).

Nel 1913 la celebre Isadora Duncan, la fondatrice della danza moderna, perse i due figli di 7 e 3 anni, annegati nella Senna dopo esservi caduti a bordo di un'automobile. Per elaborare il lutto la Duncan creò un assolo, "La mère", con il quale dava spiritualmente l'addio ai suoi bambini e li lasciava andare via. Cento anni dopo, alcune donne scoprono questa danza e ciascuna la interpreta alla sua maniera. Vediamo infatti una ragazza (Agathe Bonitzer) studiare accuratamente la coreografia del pezzo per replicarne con precisione i movimenti (e questo film mi ha fatto scoprire che esistono "partiture" della danza, con simboli che identificano ogni posizione e ogni movimento sul palco); una bambina con sindrome di down (Manon Carpentier) che si prepara insieme alla sua istruttrice (Marika Rizzi) per mettere in scena l'assolo, con la seconda che le spiega come per Isadora "ciascuno deve trovare il proprio gesto, il proprio modo di danzare"; e infine un'anziana spettatrice fra il pubblico (Elsa Wolliaston), che rimane emotivamente colpita dalla performance, forse perché – a differenza delle due ragazze – probabilmente anche lei ha vissuto davvero quel dolore (ed essendo nera, è anche una sorta di "grande madre" di tutti). Tre modi diversi – o quattro, se contiamo l'insegnante – di rivivere la danza della Duncan (su una musica di Scriabin), tutti a loro modo validi, che rendono le protagoniste in fondo figlie (spirituali) anch'esse di Isadora, della quale sullo schermo non si vedono che un paio di fugaci fotografie. Il film è lento, fatto quasi solo di silenzi e di corpi in movimento, impegnati sì nella danza ma anche in momenti della vita quotidiana. La consapevolezza di sé e del proprio corpo e l'espressione dei sentimenti rinchiusi al proprio interno può aiutare non solo ad elaborare il lutto ma anche a trasmettere queste emozioni agli altri, facilitando la comprensione e annullando le distanze (di spazio, di tempo, di cultura) che separano gli esseri umani. Ottime le protagoniste e la regia, premiata a Locarno.

19 settembre 2019

Adults in the room (Costa-Gavras, 2019)

Adults in the room
di Costa-Gavras – Grecia/Francia 2019
con Christos Loulis, Alexandros Bourdoumis
**1/2

Visto al cinema Anteo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Un resoconto dei primi sei mesi del governo Tsipras in Grecia (da gennaio a luglio 2015), raccontati in una docu-fiction che si concentra soprattutto sulla figura del combattivo ministro delle finanze Yanis Varoufakis (Christos Loulis) e sulle sue estenuanti trattative con i suoi omologhi europei, i membri dell'Eurogruppo e le istituzioni economiche del Vecchio Continente (la cosiddetta "Troika": Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale), nel tentativo di rinegoziare il debito ellenico e uscire dall'austerità. Comincia con la sera delle elezioni e termina con le dimissioni del ministro dopo che Tsipras accettò di firmare il memorandum d'intesa con l'Europa messo a punto dal precedente governo, nonostante il popolo greco avesse manifestato la propria opposizione con un referendum. Ma la parte principale del film illustra le negoziazioni, le trattative e gli scontri dialettici che avvengono all'interno delle stanze segrete dell'Eurogruppo, mostrando con sarcasmo e cinismo tutto il lato "nascosto" della politica, dove le dichiarazioni in privato contraddicono totalmente quelle in pubblico, dove gruppi di alleanze e di rivalità si formano e si disfano dietro le quinte, dove si dibatte per ore (se non per giorni) su una singola parola o un particolare aggettivo da inserire in un comunicato ufficiale, dove smuovere qualcuno dai propri principi ideologici sembra impossibile, dove le esigenze reali delle persone e dei popoli perdono di significato rispetto a teorie economiche senza base concreta. E nel finale, la pellicola si fa surreale con il "balletto" che viene imposto a Tsipras dai suoi colleghi: adeguarsi o morire. Era difficile rendere appetibile o accattivante un argomento di questo tipo: c'era riuscito Adam McKay con "La grande scommessa", e tutto sommato ci riesce anche Costa-Gavras (anche se in questo caso, più che di economia, si parla di politica, e più specificatamente dell'arte della contrattazione), sfornando un political thriller coinvolgente e moderno, sia pure dalla struttura un po' ripetitiva al suo interno. La regia si sofferma soprattutto sulle grandi stanze, gli enormi palazzi, i corridoi vuoti, dentro i quali si decidono le sorti dell'Europa e di popoli che spesso non hanno alcuna voce in capitolo. Il film è tratto da un libro dello stesso Varoufakis ("Adulti nella stanza. La mia battaglia contro l'establishment dell'Europa"), il cui cognome non è peraltro mai pronunciato durante la pellicola, così come quello di quasi tutti i personaggi, che vengono chiamati soltanto per nome. Compreso il "cattivo", Wolfgang (Ulrich Tukur), che naturalmente è tedesco: si trattava del ministro Wolfgang Schäuble. Alexandros Bourdoumis è Alexis Tsipras. Particina per Valeria Golino (la moglie di Varoufakis). Il titolo proviene da una frase detta da Christine (Lagarde), direttrice del FMI, durante un battibecco fra i ministri: "Servirebbero degli adulti in questa stanza".

A girl missing (Koji Fukada, 2019)

A girl missing (Yokogao)
di Koji Fukada – Giappone 2019
con Mariko Tsutsui, Mikako Ichikawa
*1/2

Visto al cinema Colosseo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Locarno).

Ichiko, premurosa infermiera che fornisce assistenza a domicilio agli anziani, stringe un forte rapporto d'amicizia con Saki e Motoko, nipoti di una sua cliente. Ma quando Saki scompare nel nulla per una settimana, e soprattutto dopo che il colpevole, arrestato, si rivela essere suo nipote Tatsuo, la vita di Ichiko cambia improvvisamente: assediata dai media e dalle riviste scandalistiche, che l'accusano di essere complice del rapimento, la donna finisce col perdere il lavoro e il fidanzato. La scoperta che dietro molte delle sue disavventure c'è Motoko, patologicamente invaghita di lei, la spingeranno a meditare vendetta... Costruito in maniera non lineare, alternando cioè scene ambientate nel passato (che raccontano i retroscena della vicenda) e nel presente (che mostrano la azioni di Ichiko), un thriller che parte bene, stimolando la curiosità dello spettatore per cercare di mettere insieme i vari pezzi a incastro. Ma si sfalda progressivamente, anche per la mancanza di sottigliezza con cui rappresenta le azioni dei personaggi, che pure sono spesso incapaci di cogliere quei segnali così evidenti allo spettatore (come la bisessualità di Motoko). E nel finale parte quasi per la tangente (anche per via di alcune scene oniriche), lasciando peraltro un paio di punti, se non irrisolti, quantomeno ambigui. Tante rimangono anche le ellissi, di certo volute, come il pochissimo spazio dedicato ad alcuni personaggi chiave (compresa la ragazza rapita e il suo rapitore!). Non certo una visione piacevole, per via di una sceneggiatura non troppo riuscita, tutta costruita su un gioco pretestuoso di ingenuità, fiducia tradita, ripicche amorose e vendette, anche se sono da apprezzare le interpretazioni, la regia elegante e precisa, e la freddezza dell'ambientazione.

Nafi's father (Mamadou Dia, 2019)

Nafi's father (Baamum Nafi)
di Mamadou Dia – Senegal 2019
con Alassane Sy, Saikou Lô
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Locarno).

In un villaggio nel nord-est del Senegal dove l'Islam convive con le antiche tradizioni e alcune credenze animiste, il Tierno (l'imam locale) disapprova il fidanzamento della propria figlia Nafi con il cugino Tokara, figlio del suo fratello maggiore Ousmane. La questione, però, non è solo familiare ma anche religiosa e politica: Ousmane è infatti legato a un gruppo di integralisti islamici, finanziati da uno sceicco fondamentalista che vorrebbe prendere il potere nella zona e imporre la sharia. La rivalità fra i due fratelli divide pian piano la comunità: e per screditare Ousmane, il Tierno suggerisce ai due ragazzi di mettere in scena una "fuga d'amore"... Il primo lungometraggio del regista senegalese Mamadou Dia mette in scena lo scontro (fratricida) fra una concezione gentile e moderata dell'autorità religiosa (quella dell'imam protagonista) e una invece rigida, oppressiva e imposta con il potere della forza e dei soldi (grazie ai quali Ousmane si compra pian piano il favore e l'approvazione degli abitanti del villaggio). Efficace nel mettere in scena drammi, dubbi e aspirazioni personali all'interno di un contesto sociale (Nafi sogna di andare a studiare all'università, e in effetti il suo fidanzamento con il cugino fa parte di una strategia per poter trasferirsi nella capitale Dakar, dove anche il ragazzo vorrebbe studiare la danza), la pellicola ha come suo centro nevralgico un personaggio di forte integrità, coerente e deciso nell'opporsi (anche se passivamente) alle ingiustizie e alla barbarie che avanza, ma al tempo stesso diviso fra i suoi doveri di padre, di fratello, di autorità religiosa e di guida spirituale per i membri della comunità (oltre che sofferente per una malattia terminale che lentamente lo sta devastando).

18 settembre 2019

C'era una volta a... Hollywood (Q. Tarantino, 2019)

C'era una volta a... Hollywood (Once upon a time in... Hollywood)
di Quentin Tarantino – USA 2019
con Leonardo DiCaprio, Brad Pitt
**1/2

Visto al cinema Orfeo, con Daniela, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Rick Dalton (DiCaprio) è un ex attore di western televisivi, la cui carriera sta rapidamente calando a picco: dopo una serie di pellicole di serie B, si ritrova a fare piccole parti da cattivo in episodi pilota di nuovi telefilm, mentre il suo agente cerca di convincerlo ad andare a girare spaghetti western in Italia. Cliff Booth (Pitt) è il suo stuntman, nonché miglior amico, autista ed aiutante tuttofare. La loro vicenda, nella Hollywood del 1969, si intreccia con quella di Sharon Tate (Margot Robbie), giovane moglie del regista Roman Polanski. Per una volta Tarantino sforna una pellicola dai toni per lo più compassati, ricolma sì di spunti citazionistici ma anche assai più intima e misurata del suo solito. La violenza estrema e grottesca fa capolino soltanto nel finale, peraltro ampiamente preannunciata, almeno per chi conosce bene i retroscena dei delitti della "famiglia" di Charles Manson. Saranno proprio questi spettatori, dotati delle necessarie "conoscenze enciclopediche" (ovvero al corrente dei dettagli della morte di Sharon Tate, o che capiscono che il "Charlie" citato dagli hippie al ranch è Manson) a rimanere particolarmente colpiti e sorpresi dal finale catartico che gioca a stravolgere la storia. Già, perché come aveva già fatto in "Bastardi senza gloria", Tarantino si diverte a modificare il corso degli eventi reali. La villa di Rick si trova in Cielo Drive, proprio a fianco di quella dei Polanski: ed è da lui, anziché dai vicini di casa, che i membri della Manson Family fanno irruzione, con esiti inaspettati. Il che giustifica anche il titolo "fiabesco", al di là dell'evidente omaggio a Sergio Leone (a proposito: nei manifesti e nel materiale in rete il titolo è scritto con l'ellisse – i tre puntini... – immediatamente prima della parola "Hollywood", ma quando compare sullo schermo, proprio prima dei titoli di coda, i puntini sono anticipati: "C'era una volta... a Hollywood"). Pervaso da un'atmosfera nostalgica, appropriata per quello che è un sincero omaggio alla Hollywood e al mondo dell'intrattenimento di fine anni sessanta (particolarmente curata la ricostruzione storica, dalle scenografie che riportano in vita celebri locali e drive-in, agli spezzoni di pellicole e telefilm di quell'epoca: esilaranti, in particolare, i finti "film italiani" – uno dei quali di Sergio Corbucci! – che Dalton si trova a interpretare), il film è però dispersivo (sembra procedere a casaccio, guidato soltanto dall'evidente finale cui si tende), inutilmente lungo e dilatato (le quasi tre ore di durata non sono giustificate). Se non mancano dialoghi, scene e situazioni memorabili (il confronto fra Rick e la bambina attrice; la Tate che va al cinema a rivedersi in un filmetto da lei interpretato; l'irriverente scontro fra Cliff e Bruce Lee), resta comunque l'impressione che molte parti avrebbero potuto tranquillamente essere sforbiciate: tutto il personaggio di Cliff, per esempio, è in fondo quasi superfluo, nonostante un buon tentativo di caratterizzazione (ma la scena in cui lavora sul tetto a torso nudo è soltanto un fan service), privo com'è di autentico conflitto in relazione al vero protagonista del film, Rick Dalton. Ottimo DiCaprio, che si conferma un grande attore. Nel cast, in ruoli minori, anche Margaret Qualley, Emile Hirsch, Dakota Fanning e Al Pacino. Lorenza Izzo è la moglie italiana di Rick, Rafał Zawierucha è Roman Polanski, Damian Lewis è Steve McQueen, Mike Moh è Bruce Lee. Camei di Bruce Dern, Kurt Russell, Zoë Bell e Michael Madsen. Bravo anche il pitbull Sayuri (Brandy), che a Cannes (dove il film era stato presentato in anteprima) ha vinto la Palm Dog.

17 settembre 2019

Venezia e Locarno 2019

Con l'anteprima in lingua originale di "Once upon a time in... Hollywood" di Quentin Tarantino, comincia oggi la rassegna annuale dei film provenienti dalla Mostra del Cinema di Venezia (più una manciata di titoli in arrivo da Locarno e altri festival minori). Conto di vedere diverse pellicole, fra cui quelle di Pablo Larraín, Mario Martone, Robert Guédiguian, Shannon Murphy, Lou Ye, Yonfan e Costa-Gavras. Purtroppo mancano sia il Leone d'Oro ("Joker" di Todd Phillips) che quello d'Argento ("J'accuse" di Roman Polanski), che dovrebbero uscire in sala fra ottobre e novembre, e anche altri lavori che mi interessavano, come quelli di Assayas, Gray, Egoyan e Koreeda. In programma invece un recupero d'altri tempi ("Extase" di Gustav Machatý, del 1933) e svariati lavori di registi a me sconosciuti. Speriamo bene. Stay tuned!

16 settembre 2019

In nome del popolo italiano (Dino Risi, 1971)

In nome del popolo italiano
di Dino Risi – Italia 1971
con Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman
***

Visto in divx alla Fogona.

Il giudice istruttore Mariano Bonifazi (Tognazzi) vede nell'imprenditore Lorenzo Santenocito (Gassman) tutto quello che combatte con severità e solerzia: l'arroganza del potere, l'arricchimento ai danni della comunità, la disonestà, la corruzione, la spregiudicatezza nel commettere abusi edilizi e nell'inquinare l'ambiente, le mani in pasta in mille affari di grande e piccolo calibro. Come se non bastasse, Santenocito è un ex fascista (mentre Bonifazi è di sinistra), e questo ne fa un avversario anche dal punto di vista ideologico. Tanto basta per concentrare su di lui le indagini sulla morte di una giovane prostituta d'alto bordo (Ely Galleani) che Santenocito non solo frequentava, ma di cui si serviva per “ammorbidire” le trattative d'affari durante cene e festini. L'alibi dell'uomo per la sera in questione non regge: ma sarà davvero colpevole? Nonostante qualche personaggio minore un po' caricaturale (il medico legale, l'archivista del tribunale che cita Belli, il cameriere gay), i toni non sono quelli della commedia o della satira: strutturato come un giallo (soltanto nel finale scopriremo la verità sulla morte della ragazza) e basato sullo scontro fra due personalità contrapposte, il film fa riflettere su come il boom economico abbia prodotto una categoria di imprenditori che sfruttano ogni occasione, legale o meno, per arricchirsi (come i palazzinari de “Le mani sulla città”), nell'indifferenza se non con la complicità della società civile. Tanto che Bonifazi si trova a riflettere amaramente se quel “popolo italiano” in nome del quale la giustizia emette le sue sentenze – e che sembra trovare una propria unità soltanto di fronte alle vittorie calcistiche, per di più non senza manifestazioni di teppismo e volgarità – meriti davvero di essere tutelato e protetto. Di fatto Santenocito è un Berlusconi prima di Berlusconi (manca soltanto la discesa in politica, per il resto c'è tutto: dagli appoggi altolocati alle “cene eleganti”). Soggetto e sceneggiatura sono di Age e Scarpelli, la musica è di Carlo Rustichelli.

15 settembre 2019

Non si uccidono così anche i cavalli? (S. Pollack, 1969)

Non si uccidono così anche i cavalli? (They shoot horses, don't they?)
di Sydney Pollack – USA 1969
con Jane Fonda, Michael Sarrazin
***

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Nell'America colpita della grande depressione (siamo nel 1932), un locale organizza una maratona di ballo che richiede alle coppie partecipanti di danzare ininterrottamente per giorni e giorni (anzi, addirittura settimane), con appena dieci minuti di sosta ogni due ore. A partecipare sono soprattutto disperati e disoccupati, attratti non solo dal premio di 1500 dollari in palio ma soprattutto dal vitto offerto gratuitamente ai concorrenti. Fra di loro troviamo la coppia estemporanea formata dalla scostante Gloria (Fonda), che dalla vita ha già ricevuto una nutrita dose di sconfitte e disillusioni, e dall'ingenuo Robert (Sarrazin), un ragazzo che vagabonda senza meta e “che non sa dire di no”. Tratto dal romanzo del 1935 di Horace McCoy, il film segue il progredire della gara, sempre più estenuante man mano che passano i giorni, resa ancora più difficile (ma più spettacolare per il pubblico che si affolla a seguirla) dalle occasionali e massacranti “prove” supplementari, come le corse a eliminazione. E naturalmente, spogliato da tutto il piacere e il divertimento (almeno per i contendenti), il ballo diventa una travagliata metafora della vita (con tanto di coppie che si formano, si rompono e si ricongiungono, di nascite – una delle partecipanti è incinta – e di morti). Susannah York è la platinata inglese Alice, che spera inutilmente che fra il pubblico ci sia qualche pezzo grosso di Hollywood a notarla (il fascino del cinema e del suo mondo dorato, specie in California dove si svolge la storia, è onnipresente), Red Buttons è l'anziano marinaio, Gig Young (premiato con l'Oscar al miglior attore non protagonista: la pellicola ebbe in totale nove nomination) è l'ambiguo proprietario del locale e organizzatore della gara. La struttura del film alterna le scene del ballo a quelli che sembrerebbero alcuni flashback del passato di Robert (ma solo nel finale scopriremo che sono invece flashforward).

13 settembre 2019

Un uomo per tutte le stagioni (F. Zinnemann, 1966)

Un uomo per tutte le stagioni (A man for all seasons)
di Fred Zinnemann – GB 1966
con Paul Scofield, Robert Shaw
***1/2

Rivisto in divx alla Fogona, con Marisa.

Inghilterra, 1529: l'integerrimo sir Thomas More, avvocato e Lord Cancelliere del regno, non nasconde la propria disapprovazione di fronte al desiderio del re Enrico VIII di divorziare dalla sua prima moglie per risposarsi con Anna Bolena. In seguito, rifiutandosi – in quanto cattolico – di accettare il sovrano come capo supremo della nuova chiesa anglicana, verrà rinchiuso nella Torre di Londra e condannato a morte per tradimento. Da un testo teatrale di Robert Bolt, che ha adattato personalmente la sceneggiatura per il grande schermo, un apologo sul tema dell'integrità morale, sacrificando ogni cosa (compresa la vita) pur di non tradire i propri principi e la propria coscienza: speculare a quella di More è infatti la parabola del giovane Richard Rich (John Hurt), che si lascia invece corrompere dalla sete di ricchezza e di potere, tradendo e spergiurando pur di fare carriera. L'ottimo cast vede Robert Shaw nei panni di Enrico VIII, Leo McKern in quelli di Thomas Cromwell, rivale e successore di More, e Orson Welles in una breve comparsata in quelli del cardinale Wolsey, suo predecessore. Wendy Hiller e Susannah York sono rispettivamente la moglie e la figlia di More, Nigel Davemport è il duca di Norfolk, Vanessa Redgrave appare brevemente come Anna Bolena. L'attore shakesperiano Paul Scofield aveva interpretato il ruolo di More anche a teatro: i produttori avrebbero voluto dare la parte a Richard Burton o Laurence Oliver, ma Zinnemann si impuntò. Ottima la ricostruzione storica, anche se non c'è bisogno di scene sontuose, epiche o spettacolari: il film riflette su politica e teologia con toni intimi e meditativi. Il titolo proviene da una definizione di Thomas More da parte di un suo contemporaneo. Grande successo di critica, con otto nomination agli Oscar e sei statuette vinte: quelle per il miglior film, la regia, il protagonista, la sceneggiatura, la fotografia (con i colori vibranti di Ted Moore) e i costumi. Nel 1988 Charlton Heston diresse e interpretò un rifacimento televisivo del dramma teatrale.

11 settembre 2019

I migliori anni della nostra vita (W. Wyler, 1946)

I migliori anni della nostra vita (The best years of our lives)
di William Wyler – USA 1946
con Dana Andrews, Fredric March, Harold Russell
***

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Alla conclusione della seconda guerra mondiale, tre soldati americani appena tornati a casa – il capitano dell'aeronautica Fred Derry (Andrews), il sergente di fanteria Al Stephenson (March) e il marinaio Homer Parrish (Russell) – cercano, non senza difficoltà, di riadattarsi alla vita civile. Fred, eroe pluridecorato in battaglia, fatica a trovare un lavoro decente e questo mette a repentaglio il suo fresco matrimonio con la bionda ed esigente soubrette Marie (Virginia Mayo). Il veterano Al, che ritrova ad attenderlo la paziente moglie Milly (Myrna Loy) e i figli Peggy e Rob, riprende a lavorare in banca, dove si occupa di concedere prestiti ad altri reduci privi di garanzie finanziarie. Homer, rimasto mutilato in guerra, teme che la sua fidanzata Wilma (Cathy O'Donnell) non voglia più stare al suo fianco ora che ha delle protesi meccaniche al posto delle mani. Stupisce pensare che già nel 1946 (la lavorazione del film iniziò solo sette mesi dopo la fine del conflitto) si portassero sullo schermo le problematiche del reinserimento dei reduci nella società, con tanto di riflessioni sulla sindrome di stress post-traumatico (Fred ha continui incubi relativi alle sue missioni e alla morte dei suoi commilitoni), sulle difficoltà nei rapporti familiari e sui problemi economici. Della guerra si parla molto (e anche dei timori sul futuro, ora che l'energia nucleare è stata liberata), ma non la si vede mai: priva di flashback, la pellicola (lunga quasi tre ore) si concentra con grande realismo sulla descrizione dell'America post-bellica (è ambientata a Boone City, fittizia città di provincia ispirata a Cincinnati), sulle relazioni umane dei personaggi, sui loro sogni e sulle loro paure. Fra le sottotrame che collegano le vicende dei tre protagonisti, spicca quella “romantica” fra Fred e la figlia di Hal, Peggy (Teresa Wright). Memorabile la scena finale, girata in un “cimitero” di aeroplani da combattimento da demolire. Russell non era un attore professionista, ma un autentico veterano di guerra (le sue protesi non sono finte). La sceneggiatura di Robert E. Sherwood è tratta da un racconto (“Glory for Me”) dell'ex corrispondente di guerra MacKinlay Kantor. Ottime le interpretazioni, la regia di Wyler e la fotografia di Gregg Toland, che aiutarono la pellicola a riscuotere un enorme successo di pubblico e critica: vinse ben sette premi Oscar – quelli per il miglior film, regista, attore protagonista (March), non protagonista (Russell), montaggio, sceneggiatura e colonna sonora – più altre due statuette onorarie (a Russell e al produttore Samuel Goldwyn). Esiste un remake televisivo del 1975, con Tom Selleck. Nessun legame, invece, con l'omonima canzone di Renato Zero e con il film del 2019 di Claude Lelouch.

10 settembre 2019

La ragazza con la valigia (V. Zurlini, 1961)

La ragazza con la valigia
di Valerio Zurlini – Italia/Francia 1961
con Jacques Perrin, Claudia Cardinale
***

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Il sedicenne Lorenzo Fainardi (Jacques Perrin) si innamora di Aida (una Cardinale giovane e bellissima), ballerina spiantata che suo fratello maggiore Marcello aveva sedotto (sotto falso nome, millantando di poterle procurare una scrittura) e poi abbandonato. Forse il film più famoso di Zurlini, è una classica storia di educazione sentimentale: Lorenzo, puro e ingenuo anche perché sempre vissuto nella bambagia, si affeziona alla ragazza dapprima per compassione, come per voler rimediare alla colpa del fratello, e poi per amore sincero, senza rendersi conto che lei, più grande e avvezza alle cose della vita, appartiene a un mondo diverso. Se infatti lui è di famiglia facoltosa, lei ha imparato a battersi per ogni cosa, sfruttando eventualmente anche la propria bellezza e i favori degli uomini, col rischio sempre concreto di rimanere vittima di qualche mascalzone. Ambientato fra una Parma raffinata (dove abitano i Fainardi) e una volgare Riccione (dove Aida si esibiva nei locali sulla riviera e dove torna nel finale, nella speranza di farsi riassumere nella sua vecchia orchestra), il film è delicato e ottimamente interpretato dai suoi giovani attori: per la Cardinale, in particolare, la parte fu significativa perché anche l'attrice – come il suo personaggio – aveva avuto da giovanissima un figlio che doveva tenere nascosto alla società. Certe dinamiche familiari (oltre che il volto da “bravo ragazzo” di Lorenzo) sembrano quasi anticipare “I pugni in tasca”. La Cardinale è doppiata da Adriana Asti. Nel cast anche Corrado Pani (il fratello Marcello), Romolo Valli (il prete) e Gian Maria Volonté (Piero, l'ex di Aida). La colonna sonora è ricca di hit e canzonette dell'epoca (“Il cielo in una stanza”, “Tintarella di luna”), ma c'è anche l'aria “Celeste Aida” cantata da Beniamino Gigli, che Lorenzo fa ascoltare ad Aida sul giradischi.

9 settembre 2019

Il cameraman e l'assassino (R. Belvaux et al, 1992)

Il cameraman e l'assassino (C'est arrivé près de chez vous)
di Rémy Belvaux, André Bonzel, Benoît Poelvoorde – Belgio 1992
con Benoît Poelvoorde, Rémy Belvaux
**

Visto in divx.

Una troupe cinematografica (composta dal reporter Rémy, dal fonico Patrick e dall'operatore André, con quest'ultimo che non si vede mai sullo schermo perché appunto è lui che impugna la macchina da presa) accompagna un serial killer, Benoît, nel corso del suo "lavoro", riprendendone le imprese mentre l'uomo stesso spiega i propri metodi e i trucchi del mestiere. Originale e spiazzante black comedy del tutto sui generis, difficile da prendere sul serio per come "normalizza" in maniera quasi amorale o nichilista la professione dell'assassino seriale, che viene seguito costantemente dalla cinepresa non solo durante i delitti ma anche nel tempo libero (per esempio mentre mangia, o quando fa visita ai genitori o agli amici). L'uomo è estroverso, arrogante, a tratti volgare e comunque sempre sicuro di sé e ben disposto a raccontare con un certo compiacimento tutti i segreti della sua professione (come scegliere le vittime o come sbarazzarsi dei cadaveri, per esempio), finendo col coinvolgere la troupe di cineasti in alcune delle sue imprese, ma anche ad esporre le proprie opinioni sulll'arte, sul mondo, sulla società, sulla violenza stessa. E non mancano livelli di assurdità surreale, come quando l'uomo si "scontra" con un collega assassino, anche lui seguito dalla propria troupe di operatori (televisivi, in questo caso). Girato in bianco e nero, a basso costo (e ovviamente con la camera a mano), il film è nato come progetto amatoriale di quattro studenti di cinema (Belvaux, Bonzel e Poelvoorde, che firmano anche la regia, e il co-sceneggiatore Vincent Tavier) e pur risultando controverso per alcune scene ritenute eccessivamente violente (come quella in cui Benoît uccide un bambino), ha riscosso il plauso e l'attenzione della critica, finendo col diventare un cult movie. Per certi versi (anche per il tema metacinematografico, il cinismo ipocrita e l'aspetto vouyeuristico della violenza), può essere paragonato a "Funny games" di Michael Haneke. Dei quattro autori, l'unico che farà carriera nel mondo del cinema è Poelvoorde, che qui interpreta il killer protagonista ed è sempre al centro della scena. Un'idea simile sarà alla base nel 2017 del neozelandese "Vita da vampiro - What we do in the shadows".

7 settembre 2019

Mademoiselle (Park Chan-wook, 2016)

Mademoiselle (Agassi, aka The handmaiden)
di Park Chan-wook – Corea del Sud 2016
con Kim Tae-ri, Kim Min-hee
**1/2

Visto al cinema Eliseo.

Nella Corea occupata dai giapponesi, la giovane orfana Sook-hee (Kim Tae-ri) viene assunta come dama di compagnia per Hideko (Kim Min-hee), nipote di un ricchissimo collezionista di libri erotici (Cho Jin-woong). In realtà Sook-hee è una truffatrice e una borseggiatrice, introdottasi nella casa con l'obiettivo di convincere Hideko ad accettare il corteggiamento di un suo complice (Ha Jung-woo) che finge di essere un conte giapponese, con l'intenzione di appropriarsi delle ricchezze della ragazza, sposandola e facendola poi ricoverare in un ospedale psichiatrico. Ma Sook-hee finisce prima con l'affezionarsi e poi con l'innamorarsi di Hideko. E se fosse lei a essere ingannata? Da un romanzo di Sarah Waters ("Ladra"), che però era ambientato nell'Inghilterra vittoriana, un film ambiguo ed elegante, raffinato nella regia (dell'autore di "Old boy" e "Lady Vendetta") e ricco di colpi di scena, i primi dei quali giungono alquanto inaspettati e ribaltano le prospettive dell'intera vicenda. Più avanti, però, lo schema tende a farsi più prevedibile. La pellicola è infatti divisa in tre parti, ciascuna caratterizzata da una differente ripartizione dei ruoli dei tre personaggi principali (due, coalizzati, che complottano contro il terzo, a rotazione). E in tema di inganni e di finzioni, è da notare come numerose frasi dette dai personaggi sono in realtà "prese in prestito" da qualcun altro che le ha dette prima di loro. C'è forse un eccesso di voyeurismo e di compiacimento nel mostrare le scene lesbiche, ma i sottotesti sessuali sono fondamentali ai fini della trama (vedi anche le letture pubbliche dei preziosi libri erotici collezionati dallo zio di Hideko), così come i temi del sadomasochismo, della dominanza e della sottomissione. Molto belle le scenografie e i costumi. Moon So-ri, in un piccolo ruolo, è la zia di Hideko, il cui suicidio tormenta la ragazza.

5 settembre 2019

Operazione sottoveste (B. Edwards, 1959)

Operazione sottoveste (Operation Petticoat)
di Blake Edwards – USA 1959
con Cary Grant, Tony Curtis
***

Rivisto in TV, con Sabrina.

Nel dicembre 1941, durante la seconda guerra mondiale, il capitano della marina americana Matt Sherman (Cary Grant) cerca in ogni modo di rimettere in sesto il sommergibile da guerra Sea Tiger, da lui comandato e di stanza nelle Filippine, rimasto danneggiato dopo un attacco nemico mentre era in rada. Costretto ad accogliere a bordo il tenente Holden (Tony Curtis), raffinato damerino e donnaiolo senza alcuna esperienza di vita in mare, ne scopre le preziose qualità come "trovarobe": furbo e maneggione, Holden riesce infatti a procurarsi per vie traverse tutto il materiale necessario alle riparazioni di fortuna, bypassando (non sempre in modo legale) le vie gerarchiche e le pastoie burocratiche dell'esercito americano (a tratti sembra il conte Oliver del Gruppo TNT!). Per causa sua, però, sul sottomarino vengono imbarcate anche cinque infermiere militari che, essendo donne, porteranno scompiglio a bordo (ma proprio la loro presenza salverà l'equipaggio da una difficile situazione). Divertentissima commedia di ambientazione (sotto)marina, primo grande successo di pubblico e di critica per Blake Edwards, che ai temi classici dello scontro fra personalità (l'eroico, "inquadrato" e irritabile Sherman, che non pensa ad altro che tornare in guerra, contro il furbo e spregiudicato Holden, refrattario alle regole e in grado di cavarsela in ogni circostanza) e delle complicazioni romantiche (con love story incrociate fra le infermiere e i marinai, in mezzo a guai, ingerenze e tentativi di seduzione di ogni tipo) aggiunge una satira corrosiva dell'ambiente militare, compresa la confusione e i sotterfugi, che anticipa addirittura "MASH", il che è sorprendente: se scherzare sui rapporti fra i sessi era comune sin dalle commedie screwball degli anni trenta (alle quali la sceneggiatura di Stanley Shapiro e Maurice Richlin si rifà apertamente, aiutata anche dalla presenza di Grant), stupisce notare come ironizzare sugli ambienti di guerra fosse già possibile dieci anni prima della controcultura e delle proteste contro il conflitto in Vietnam, terreno fertile per il capolavoro di Altman. E dire che il film è stato realizzato con il supporto costruttivo della difesa e della marina americana. In più c'è l'evidente ironia sul maschilismo imperante nelle forze armate, esemplificata dalle indimenticabili sequenze in cui il sommergibile, per una serie sfortunata di eventi, finisce con l'essere ridipinto interamente di rosa, fra lo sconcerto dei marinai a bordo. Da notare che, nel mondo reale, solo nel 2010 le donne sono state finalmente ammesse sui sottomarini americani! Lo stesso sommergibile, scalcinato, fumante e destinato alla demolizione, è quasi un personaggio a sé stante. Tutta la vicenda, colma di momenti imbarazzanti e di situazioni paradossali, è rievocata in un flashback nella cornice ambientata ai giorni nostri, ossia nel 1959 (l'incipit e la conclusione del film). Alcuni episodi, per quanto strano possa sembrare, sono ispirati ad eventi realmente accaduti durante la seconda guerra mondiale (compresi l'affondamento del camion e la lettera con cui Sherman lamenta il mancato approvvigionamento di carta igienica!). Battuta celebre (di Grant): "Quando una ragazza ha meno di 21 anni è protetta dalla legge, quando ha superato i 65 è protetta dalla natura. A qualsiasi età intermedia, è caccia libera". Nel cast anche Gene Evans (il capo macchinista), Dick Sargent, Joan O'Brien, Dina Merrill e Virginia Gregg. Nel 1977 è stata realizzata una serie tv ispirata al film, con John Astin e Jamie Lee Curtis. Cary Grant aveva comandato un sommergibile anche nel lungometraggio "Destinazione Tokyo"del 1943, e fu proprio la visione di quel film a ispirare Tony Curtis (al quale si deve l'idea della pellicola) ad arruolarsi in marina durante la guerra.

4 settembre 2019

20.000 leghe sotto i mari (R. Fleischer, 1954)

20.000 leghe sotto i mari (20,000 Leagues Under the Sea)
di Richard Fleischer – USA 1954
con Kirk Douglas, James Mason
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Rivisto in TV.

Salpati alla ricerca di un misterioso "mostro" che affonda le navi mercantili, il professor Aronnax (Paul Lukas), il suo assistente Consiglio (Peter Lorre) e il fiocinatore Ned Land (Kirk Douglas) scoprono che si tratta in realtà di un avveniristico sottomarino, il Nautilus, comandato dal carismatico Capitano Nemo (James Mason), in guerra contro l'umanità intera e intenzionato a fermare gli approvvigionamenti di armi ai vari governi della Terra. Non è il primo lungometraggio completamente in live action della Disney (il primato va a "L'isola del tesoro" del 1950) ma il primo in Cinemascope e con un cast di grandi nomi (oltre che il primo distribuito direttamente, attraverso la neonata Buena Vista). Ambizioso e girato con un grande dispendio di risorse (si trattava del film più costoso mai prodotto a Hollywood fino ad allora) ed effetti speciali e visivi all'avanguardia (ovvero set dipinti, modellini e animatroni), è probabilmente il miglior adattamento per il grande schermo di un romanzo di Jules Verne (mai particolarmente fortunato al cinema). Il che, ahimè, non basta a compensarne i difetti (è lungo, episodico e noioso, soprattutto nella prima parte, oltre che diretto con uno stile datato e con un ritmo tutt'altro che accattivante se giudicato con i progressi che il cinema d'intrattenimento ha compiuto dagli anni settanta in poi). Da salvare le interpretazioni, su tutte quelle di un Mason barbuto nei panni del Capitano Nemo (anche se il personaggio, le sue origini e i dettagli delle sue scoperte sono annacquati nella genericità rispetto al romanzo originale), e alcune scene d'azione (in particolare la lotta contro la piovra gigante). Molte comunque le alterazioni al romanzo originale (come la sorte finale di Nemo) e le concessioni al gusto disneyano (vedi la foca Esmeralda). Due Oscar per le scenografie e gli effetti speciali. La colonna sonora è di Paul Smith. Harper Goff ha disegnato gli interni del Nautilus.

3 settembre 2019

We're no animals (Alejandro Agresti, 2013)

We're no animals (No somos animales)
di Alejandro Agresti – Argentina/USA 2013
con John Cusack, Al Pacino
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Visto in TV, con Sabrina, in originale con sottotitoli.

L'attore hollywoodiano Tony Lovecraft (John Cusack), insieme allo sceneggiatore Syd Kuliaky (Kevin Morris) e al musicista Rudy Maravilla (Paul Hipp), viene convinto dal suo agente (Al Pacino) a girare un film a Buenos Aires con il regista dilettante Patrick Pesto (Alejandro Agresti). La realizzazione della pellicola è del tutto estemporanea e improvvisata: nessuno sa bene di cosa tratti il copione, che si ispira alla vita vera e al tragico passato dell'Argentina (con la dittatura militare e i desaparecidos); e l'attore e la troupe trascorrono il tempo parlando fra loro, mangiando, bevendo, girovagando come turisti, perdendosi in riflessioni di stampo filosofico, letterario, sociale e politico. Fra il Fellini di "8 e mezzo" (citato) e il Godard de "La cinese", un film intellettuale, metacinematografico, svagato e pretenzioso al tempo stesso: e purtroppo, molto, molto noioso. Una certa ironia (anche se si tratta di un umorismo freddo e distaccato), qualche riferimento metacinematografico (Tony è criticato per aver recitato in una pellicola-spazzatura hollywoodiana, il cui titolo richiama quello del precedente film dello stesso Agresti, "La casa sul lago del tempo") e il desiderio di guardare il tragico passato dell'Argentina con gli occhi di chi proviene dall'esterno, non bastano a salvare il film stesso dalla mancanza di coerenza e di collante fra le varie sequenze, alcune delle quali sembrano più turistiche che altro. E le posticce ambizioni intellettuali (il mix fra colore e bianco/nero, i continui riferimenti ad artisti e scrittori più o meno underground, le fumosità filosofiche dei lunghi dialoghi) non aiutano di certo a ben disporsi. Girato nel 2013, non è mai uscito in sala per via di dispute fra i produttori e l'entourage di John Cusack (anche co-sceneggiatore), finendo per trovare la propria strada solo su Netflix.

1 settembre 2019

Una gita scolastica (Pupi Avati, 1983)

Una gita scolastica
di Pupi Avati – Italia 1983
con Carlo Delle Piane, Tiziana Pini
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Rivisto in divx, per ricordare Carlo Delle Piane.

In punto di morte, l'ultraottantenne Laura rivive in sogno un episodio chiave della sua gioventù: la gita scolastica della sua classe di liceo, la terza G del Liceo Galvani di Bologna, avvenuta nel 1914 (e dunque alla vigilia della prima guerra mondiale), quando lei e i suoi compagni di classe, trenta studenti in tutto (maschi e femmine) accompagnati da due professori, si recarono (a piedi!) fino a Firenze, attraversando i fiumi, i campi e i boschi dell'Appennino. Il viaggio in sé, prima ancora che la destinazione, rappresentò un episodio di svolta per la sua crescita e quella dei suoi compagni, e come tale è raccontato con nostalgica malinconia e tutta la magia di un passato mai dimenticato, fra speranze (e delusioni) d'amore, scoperte, avventure e rimpianti. Vero protagonista della vicenda, però, è Carlo Balla (Delle Piane), il timido e impacciato professore di lettere che guida la comitiva, innamorato della bella professoressa di disegno Serena Stanzani (Pini), per difendere la quale, accusata di un flirt con uno studente, si sacrificherà nel finale. Prima commedia di Pupi Avati (che in precedenza si era dedicato a pellicole horror gotiche e grottesche), scritta insieme al fratello Antonio, con toni leggeri, affabili e agrodolci, sentimentali ma non retorici, che convivono in una forma stranamente accattivante, fra il bucolico, il poetico e l'irreale (i personaggi sono avvolti da quella magia dell'"incanto" di cui il professor Balla – alla ricerca, forse, di un personale "posto delle fragole" – parla ai suoi studenti all'inizio del viaggio). E chissà che il ricordo (o il sogno) di Laura non abbia trasfigurato la realtà, avvolgendola di un'aura mitica. Importante, come sempre nei film del regista, il legame con il proprio territorio (l'Emilia-Romagna): i personaggi transitano, fra gli altri luoghi, per l'attuale Sasso Marconi (dove incontrano l'inventore Guglielmo Marconi) e per Porretta Terme. Carlo Delle Piane, premiato con il Nastro d'Argento come miglior attore (il film ricevette in tutto cinque riconoscimenti), era già alla sesta collaborazione con Avati, per il quale resterà un attore feticcio. Uno dei ragazzi è interpretato dal futuro regista e sceneggiatore Giovanni Veronesi. Fra gli altri studenti si riconoscono Nik Novecento (all'esordio), Marcello Cesena e Lidia Broccolino (Laura da giovane). L'albergatore nano è Bob Tonelli, altro habitué dei film di Avati. Le canzoni "L'incanto" e "A tu per tu", cantate dai ragazzi (ma presenti nella colonna sonora di Riz Ortolani anche in versione strumentale), sono interpretate da Rossana Casale.