26 febbraio 2011

Il cigno nero (D. Aronofsky, 2010)

Il cigno nero (Black Swan)
di Darren Aronofsky – USA 2010
con Natalie Portman, Mila Kunis
***1/2

Visto al cinema Arlecchino, con Costanza.

La giovane ballerina Nina (Natalie Portman) viene scelta come protagonista di una nuova e imminente rappresentazione de "Il lago dei cigni". Frigida e perfezionista, sarebbe adattissima al ruolo del Cigno Bianco: ma l'esigente regista e coreografo Thomas (Vincent Cassel) la spinge a tirare fuori di sé anche il suo lato oscuro e passionale, quello da Cigno Nero. Tormentata dalle allucinazioni, da una madre invadente e possessiva (a sua volta ex ballerina fallita, che vede nella figlia la possibilità di realizzare i propri sogni di gloria), ma soprattutto da Lily (Mila Kunis), una collega che sembra incarnare tutto quello che lei non è, scivolerà lentamente verso l'autodistruzione, l'unico modo per far uscire da sé ciò che ha a lungo represso. Aronofsky torna a temi che aveva già affrontato nel suo primo film, "Pi – Il teorema del delirio" (e come in quello si prende qualche libertà con la materia trattata) sfornando un thriller psicologico con i fiocchi, anche dal lato formale. La bicromia, in particolare, si riflette a più livelli nell'estetica del film: dagli abiti (Nina veste sempre di bianco, Lily di nero) alle scenografie (gli arredi, gli interni e persino gli esterni), tutto è giocato sulla contrapposizione fra i due colori estremi, simbolo di una divisione netta che non può che produrre qualche incrinatura (il rosso del sangue). Angosciante, dark e disturbante, il film è attraversato da evidenti atmosfere polanskiane ("Repulsion" è il titolo che viene subito alla mente), ma ci ho anche visto rimandi a Dario Argento (il personaggio della madre), Cronenberg (la metamorfosi fisica che esprime quella interiore), Lynch (l'ambiguità del reale) e, perché no?, il Satoshi Kon di "Perfect blue" (la pressione di un ambiente che pretende troppo da una giovane artista, già fragile di suo). E poi: fantasie, specchi, riflessi, il tema del doppio (Nina proietta in Lily la parte di sé che ha a lungo represso, ossia l'audacia, la sensualità, l'istinto), ferite, graffi, e una scena lesbica già cult. Se bisogna trovargli qualche difetto, è la mancanza di sottigliezza: regia e sceneggiatura insistono troppo sui suoi temi, in maniera finanche ossessiva. Notevole la prova della Portman, che per sostenere il ruolo è dimagrita di parecchi chili (ma in alcune scene di ballo c'è una controfigura). Nel cast molti volti noti, in alcuni casi quasi irriconoscibili, come Barbara Hershey (la madre di Nina) e Winona Ryder (Beth, la "vecchia" diva che viene soppiantata suo malgrado proprio dalla protagonista).

23 febbraio 2011

Il grinta (Joel ed Ethan Coen, 2010)

Il grinta (True Grit)
di Joel ed Ethan Coen – USA 2010
con Jeff Bridges, Hailee Steinfeld
**

Visto al cinema Colosseo.

L'ostinata quattordicenne Mattie Ross assolda l'anziano sceriffo Rooster Cogburn, detto "il grinta", per dare la caccia all'uomo che ha ucciso suo padre. Ai due, nelle terre selvagge, si unirà anche un ranger texano. Per una volta non sono uscito infastidito dalla proiezione di un film dei Coen, ma persino soddisfatto per essere stato piacevolmente intrattenuto. Certo, rimane un film innocuo ed essenzialmente inutile, che si limita a riproporre pedissequamente storia, personaggi e persino inquadrature e dialoghi della versione precedente, visto che i due fratelli, come sempre, sono incapaci di elaborare una propria interpretazione e di aggiungere idee originali al materiale che saccheggiano. Rispetto alla pellicola del 1969 ci sono solo due scene in più: il suggestivo incontro con il medico-sciamano vestito con la pelle di orso e il patetico (e superfluo) controfinale nel quale vediamo Mattie invecchiata: ma non avendo letto il romanzo originale di Charles Portis, non escluderei che provengano entrambe da quelle pagine. Per il resto, faccio fatica a capire che bisogno ci fosse di realizzare un remake di un western già di per sé non eccezionale (e che è passato alla storia solo per essere valso a John Wayne il suo unico Oscar) senza nemmeno tentare un approfondimento o una rilettura dei suoi temi. Buono il cast, nel quale spicca Matt Damon nel ruolo dello sbruffone texano Le Boeuf, mentre Jeff Bridges è monolitico e macchiettistico (e perde alla distanza il confronto con Wayne, il che è tutto dire) e all'acerba Hailee Steinfeld è difficile prevedere una carriera di successo (ma almeno dimostra i quattordici anni del personaggio, a differenza della Kim Darby del film di Hathaway). Josh Brolin, senza infamia e senza lode, è il "cattivo" Tom Chaney. Alla resa dei conti, si tratta di un film divertente e gradevole da vedere proprio perché canonico, essenziale e privo di ambizioni autoriali, un puro e semplice omaggio a una pellicola del passato. Quanto all'epica della frontiera, alla tensione della caccia all'uomo, all'ossessione della vendetta e all'elogio dell'amicizia, meglio cercarli altrove: magari in uno dei tanti capolavori del genere usciti negli anni '50, '60 e '70, un'epoca in cui peraltro l'Academy si guardava bene dal regalare a un western dieci candidature ai premi Oscar.

22 febbraio 2011

Il grinta (Henry Hathaway, 1969)

Il grinta (True Grit)
di Henry Hathaway – USA 1969
con John Wayne, Kim Darby
**1/2

Visto in divx.

Per vendicare la morte del padre, fattore ucciso a tradimento da un lavorante che poi si è dato alla fuga in territorio indiano, la giovane Mattie Ross assolda il più "duro" degli sceriffi federali, l'anziano e guercio Rooster Cogburn detto "il grinta", affinché la accompagni alla ricerca del colpevole, che nel frattempo si è unito a un gruppo di banditi. Al loro fianco c'è anche un giovane ranger texano, sulle tracce dello stesso uomo. Il settantunenne Hathaway dirige il sessantaduenne John Wayne (che nell'occasione vinse il suo unico Oscar: un premio assegnatogli forse più per la carriera che per questa singola interpretazione) in quello che potrebbe essere considerato l'ultimo grande western hollywoodiano "classico" (e che anche per questo motivo ha acquisito un'aura da cult che va oltre i suoi effettivi meriti), il canto del cigno di un genere che all'epoca era stato già stravolto e rivoluzionato dalle opere di Sam Peckinpah e Sergio Leone. Per ritmo e per stile, "Il grinta" invece si muove ancora sui binari delle pellicole degli anni cinquanta e sessanta: scenari vasti e spaziosi, caratterizzazioni semplici ma efficaci, gag innocue (il tormentone dell'avvocato), immancabile lieto fine. In ogni caso, resta uno spettacolo assai gradevole: la Darby, ostinata ragazzina androgina e dai capelli corti, tiene testa al burbero sceriffo che, dopo aver cercato inutilmente di convincerla a non seguirlo, commenta: "Per la miseria! Quella ragazzina mi ricorda me!". Dal suo canto, Wayne dà vita a un personaggio memorabile: vecchio, grasso, alcolizzato, dalla cattiva fama, che vive da solo con un anziano cinese e un gatto pigrone. Alla fine, i due personaggi stringeranno una solida amicizia. Spettacolare il duello a cavallo contro i banditi, uno contro quattro. Brevi particine per Robert Duvall (Ned, il capo della banda) e Dennis Hopper (uno degli uomini uccisi nella capanna). Con un seguito nel 1975 ("Torna El Grinta", con Katharine Hepburn al fianco di John Wayne) e un remake dei fratelli Coen nel 2010, con Jeff Bridges (ho rivisto l'originale proprio per prepararmi all'uscita di quest'ultimo).

21 febbraio 2011

Aliens vs. Predator 2 (Brothers Strause, 2007)

Aliens vs. Predator 2 (Aliens vs. Predator: Requiem)
di The Brothers Strause – USA 2007
con Steven Pasquale, John Ortiz
*

Visto in DVD, con Martin.

L'astronave dei Predator, che al termine del film precedente decollava dall'Antartide portando con sé un guerriero infettato a sua insaputa da uno xenomorfo, precipita nei pressi di una cittadina del Colorado. I numerosi Aliens che trasportava, rimasti liberi, seminano morte e panico fra i residenti. Ben presto tutti gli abitanti della zona rimangono coinvolti nella lotta senza esclusione di colpi fra i feroci alieni e un Predator giunto appositamente per sterminarli. Privo di idee originali e di qualsiasi spunto di interesse, il film è essenzialmente un susseguirsi di scene d'azione frenetiche e confuse (perennemente al buio) e carneficine assortite di cui restano vittima personaggi stereotipati e senza alcuno spessore, interpretati da attori anonimi. Se già un confronto con il primo "Alien vs. Predator" (con il quale non ha quasi nulla a che vedere) è impietoso, figuriamo quanto sia impensabile azzardarne uno con i prototipi. I registi, i due fratelli Colin e Greg Strause, sono al loro esordio nel mondo del cinema e provengono dai videoclip e dagli effetti speciali.

Alien vs. Predator (Paul W.S. Anderson, 2004)

Alien vs. Predator (AVP: Alien vs. Predator)
di Paul W. S. Anderson – USA 2004
con Sanaa Lathan, Raoul Bova
**

Rivisto in DVD.

Un gruppo di esploratori – di cui fanno parte il magnate Weyland (Lance Henriksen), la guida ambientalista Alexa (Sanaa Lathan) e l'archeologo Sebastian (un Raoul Bova che in quegli anni tentava, senza troppa fortuna, di sfondare a Hollywood) – scopre l'esistenza di un'antica piramide sotto i ghiacci dell'Antartide: l'edificio, che fonde caratteristiche delle culture egiziane, cambogiane e azteche, era stato costruito in tempi remoti per ospitare le battute di caccia di una razza di extraterrestri contro la preda per eccellenza, gli xenomorfi di "Alien", in una sorta di rito di passaggio. L'ingresso degli esseri umani nella piramide risveglia questi ultimi e contemporaneamente richiama i predatori sul pianeta: coinvolti nella sfida fra le due specie di alieni, i protagonisti dovranno scegliere da che parte stare se vorranno sopravvivere. Dalla fusione di due delle più popolari franchise horror/fantascientifiche degli anni ottanta nasce un crossover rivolto ai fan di entrambe le serie e tutto sommato abbastanza godibile, sebbene non certo all'altezza dei capostipiti (in particolare delle classiche pellicole di "Alien", di cui è di fatto un prequel visto che si svolge ai giorni nostri). Il regista è lo stesso del primo "Resident Evil", e si vede: molte trovate (come la mappa digitale della piramide in 3D che mostra i personaggi al suo interno) ricordano quel film, e anche la vicenda è essenzialmente simile, incentrata com'è su un gruppo di esseri umani in un luogo chiuso e sotterraneo e alle prese con mostri letali. Peccato che la caratterizzazione dei personaggi lasci un po' a desiderare: ma nel finale, quando Alexa si allea con il Predator per combattere l'Alien (all'insegna del motto "il nemico del mio nemico è mio amico"), e viene riconosciuta da questi come una degna "compagna di caccia", non mancano alcuni buoni momenti. Curiosa la presenza di Lance Henriksen, già apparso in due film di Alien nei panni di un androide (Bishop) che evidentemente verrà costruito a immagine di questo milionario, il fondatore della Weyland-Yutani Corporation. Era previsto anche un cameo di Arnold Schwarzenegger, ma l'attore ha declinato l'offerta dopo l'elezione a governatore della California. L'idea di unire le franchise di Alien e di Predator risale alla fine degli anni ottanta, quando la casa editrice Dark Horse aveva pubblicato un fumetto intitolato, appunto, "Aliens vs. Predator" (ma la trama era diversa). La febbre del crossover aveva già portato, l'anno precedente, alla realizzazione di un'altra pellicola di questo tipo, "Freddy vs. Jason", incentrata sullo scontro fra gli antagonisti delle saghe horror di "Nightmare" e "Venerdì 13".

19 febbraio 2011

Tony Manero (Pablo Larraín, 2008)

Tony Manero (id.)
di Pablo Larraín – Cile 2008
con Alfredo Castro, Paola Lattus
***1/2

Visto in DVD, con Giovanni e Ilaria.

Ambientato negli anni della dittatura di Pinochet, il secondo lungometraggio di Pablo Larraín (vincitore del Torino Film Festival) è un disperato e claustrofobico ritratto di un uomo imprigionato nelle proprie ossessioni, che curiosamente in questo caso riguardano un film simbolo dell'ìnvasione culturale statunitense alla fine degli anni settanta, "La febbre del sabato sera". Il cinquantaduenne Raúl Peralta, infatti, è un appassionato fan del personaggio interpretato in quel film da John Travolta (Tony Manero, appunto), di cui ripete le frasi e scimmiotta i movimenti, esibendosi in numeri di danza nello squallido locale dove vive, circondato dalle attenzioni di tre donne di età differenti. Insensibile agli orrori che si svolgono intorno a lui, pur di raggiungere i propri obiettivi (esibirsi in pubblico con una coreografia ispirata al film americano, partecipare a un concorso televisivo per sosia di Tony Manero) non esita nemmeno a uccidere: ma i suoi delitti si perdono e si confondono con quelli della dittatura contro gli oppositori politici e la gente comune, verso i quali Raúl pare quasi indifferente. Intenso, disperato e incisivo, il film può contare sulla grande prova di Alfredo Castro, anche co-sceneggiatore insieme con il regista, e su uno stile che – attraverso una fotografia sgranata e le immagini fuori fuoco – dona alla pellicola un realismo quasi documentaristico. "Il film è un’analisi spietata dell’errore in cui si incorre credendo che felicità e successo possano essere ottenuti imitando e sostituendo la propria cultura con un’altra. Nel caso specifico si tratta di una cultura alimentata da un potente strumento di comunicazione di massa, il cinema, ed imposta, in un modo o nell’altro, dagli Stati Uniti ai paesi del terzo mondo", ha spiegato lo stesso Larraín. "Raúl simbolizza l’aspirazione irrefrenabile alla modernità malgrado la povertà nella quale sprofonda. La sua è la storia di un tentativo impossibile di affrancarsi dall’emarginazione". Il successivo lavoro del regista, "Post mortem", approfondirà ancora di più il tema dell'uomo prigioniero delle proprie ossessioni e anestetizzato agli orrori della dittatura cilena.

16 febbraio 2011

Paris, je t'aime (aavv, 2006)

Paris, je t'aime
di registi vari – Francia 2006
film a episodi
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Ideato dal produttore e regista Emmanuel Benbihy, che ha girato le sequenze di raccordo insieme a Frédéric Auburtin, "Paris, je t'aime" è un film a episodi sul tema dell'amore, in cui ogni segmento (ciascuno della durata di cinque minuti) è dedicato a uno dei venti arrondissements (i quartieri municipali) di Parigi. In realtà i cortometraggi sono solo diciotto: mancano quelli dedicati all'undicesimo e al quindicesimo arrondissement, girati rispettivamente da Raphaël Nadjari e da Christoffer Boe ma eliminati dal montaggio finale per questioni di equilibrio (i due registi sono comunque citati fra i ringraziamenti nei titoli di coda). Realizzato da un'ottima rosa di cineasti internazionali, il film è più piacevole del previsto: la visione non è mai noiosa, grazie anche alla brevità degli episodi che si succedono senza soluzione di continuità e che restituiscono un'immagine ideale di una città complessa, multietnica e romantica come la capitale francese. Certo, come tutte le pellicole di questo tipo soffre un po' per la qualità altalenante dei diversi episodi (i migliori mi sono parsi quelli di Cuarón, Coixet e Schmitz, i peggiori quelli dei Coen e della Chadha), ma il livello medio è piuttosto buono e c'è anche una sostanziale omogeneità stilistica, visto che la troupe tecnica è spesso la stessa (fanno eccezione alcuni registi che hanno voluto al proprio fianco i loro collaboratori abituali). Non mancano comunque episodi che si distaccano nettamente dagli altri per temi, fotografia e atmosfere (su tutti quello di Vincenzo Natali). Da sottolineare i gustosi "camei" di alcuni cineasti all'interno degli episodi dei colleghi, come Wes Craven che interpreta la vittima del vampiro nel segmento di Natali, o Alexander Payne che veste i panni di Oscar Wilde nell'episodio diretto dallo stesso Craven. Il film si conclude con una breve sequenza nella quale rivediamo tutti i personaggi dei vari episodi mentre interagiscono fra loro. Visto il successo dell'operazione, sono stati messi in cantiere film simili ambientati in altre città (il primo a essere uscito, nel 2009, è "New York, I love you").

"Montmartre", di Bruno Podalydès, con Bruno Podalydès e Florence Muller (**)
Dopo aver trovato a fatica un parcheggio, un uomo rimane in auto a rammaricarsi della propria solitudine; poi nota una donna svenuta sul marciapiede e corre in suo soccorso. Un incipit non troppo significativo, ma l'espressività del protagonista rimane impressa.

"Quais de Seine", di Gurinder Chadha, con Cyril Descours e Leïla Bekhti (*1/2)
Seduto al fianco di due amici che si divertono a fare commenti volgari su tutte le donne che passano per strada, un ragazzo si innamora di una giovane musulmana e scopre che il padre di lei è più tollerante del previsto. Troppo buonista per convincere appieno.

"Le Marais", di Gus Van Sant, con Gaspard Ulliel ed Elias McConnell (**1/2)
Un giovane artista, recatosi in una tipografia, si sente attratto da un ragazzo che lavora lì e cerca di spiegargli di aver trovato l'anima gemella: ma i due non si capiscono perché parlano lingue diverse. Interessante, ma forse meritava un maggiore sviluppo. Cameo di Marianne Faithfull.

"Tuileries", di Joel ed Ethan Coen, con Steve Buscemi e Julie Bataille (*1/2)
Un turista americano ossessionato dalla Gioconda, seduto in attesa della metropolitana, commette l'errore dal quale la sua guida turistica lo aveva messo in guardia: incrociare lo sguardo di altre persone, nella fattispecie quello di una coppia di innamorati litigiosi. La solita scemenza dei Coen, che vorrebbero far ridere senza riuscirci.

"Loin du 16e", di Walter Salles e Daniela Thomas, con Catalina Sandino Moreno (**)
Un'immigrata brasiliana canta una ninna nanna al suo bambino prima di lasciarlo in una nursery per recarsi al lavoro. Come donna di servizio, canta la stessa ninna nanna al figlio della sua datrice di lavoro. Esile.

"Porte de Choisy", di Christopher Doyle, con Barbet Schroeder e Li Xin (**1/2)
Un rappresentante di articoli per parrucchiere arriva in un bizzarro salone di bellezza gestito da una ragazza cinese che pratica le arti marziali. Un episodio variopinto, grottesco e surreale, nel quale il direttore della fotografia di Wong Kar-wai si dimostra ancora legato a temi e personaggi hongkonghesi (nella colonna sonora c'è anche una canzone di Faye Wong).

"Bastille", di Isabel Coixet, con Sergio Castellitto e Miranda Richardson (***)
Un uomo progetta di lasciare la moglie per una donna più giovane. Ma quando scopre che la coniuge è malata di leucemia, sceglie di restare al suo fianco e finisce con l'innamorarsi nuovamente di lei. Commentato dalla voce off di un narratore, è uno degli episodi più suggestivi e malinconici, quasi un noir. Non mancano momenti di sottile ironia, come quando il marito si "sacrifica" accompagnando la moglie a vedere un film di Bela Tarr.

"Place des Victoires", di Nobuhiro Suwa, con Juliette Binoche e Willem Dafoe (**)
Una madre, sconvolta e ossessionata dalla recente morte del figlioletto, ha l'occasione di dirgli addio per l'ultima volta grazie all'intercessione dello spirito di un cowboy. All'inizio poco accattivante, ma poi si rivela un'originale variazione sul tema dell'elaborazione del lutto.

"Tour Eiffel", di Sylvain Chomet, con Paul Putner e Yolande Moreau (**1/2)
Un buffo bambino racconta come i suoi genitori, entrambi mimi, si sono incontrati e innamorati. Comicità infantile, visionaria e surreale: per una volta Chomet non usa l'animazione e si affida ad attori in carne e ossa, anche se non rinuncia al suo stile cartoonistico e caricaturale.

"Parc Monceau", di Alfonso Cuarón, con Nick Nolte e Ludivine Sagnier (***)
Un uomo anziano si incontra per strada con una donna più giovane: dai loro discorsi sembrerebbe che i due siano amanti, ma alla fine si scoprirà che si tratta di un padre e di una figlia, la quale lo ha chiamato perché faccia da babysitter al nipotino mentre lei va al cinema con un'amica. Girato magistralmente in un unico piano sequenza e con un'ottima sceneggiatura (in due lingue).

"Quartier des Enfants Rouges", di Olivier Assayas, con Maggie Gyllenhaal e Lionel Dray (**1/2)
Un'attrice americana, a Parigi per recitare in un film in costume, chiede a uno spacciatore di procurarle dell'hashish e si illude di stringere amicizia con lui. Ma quando gli chiederà di rivederlo, lui non si presenterà. Bello e in linea con il cinema struggente di Assayas (che, in mancanza dell'amata Maggie Cheung, ha reclutato un'altra Maggie).

"Place des fêtes", di Oliver Schmitz, con Seydou Boro e Aïssa Maïga (***)
Un immigrato nigeriano, ferito a morte con una coltellata da un gruppo di teppisti, domanda un caffé alla giovane volontaria che lo ha soccorso e che, come rivela un rapido flashback, aveva già incontrato in passato. Incisivo e commovente: un vero e proprio film, nonostante la breve durata.

"Pigalle", di Richard LaGravenese, con Bob Hoskins e Fanny Ardant (**)
Una coppia di mezza età litiga in un locale a luci rosse: o meglio finge di farlo per ravvivare il proprio rapporto, visto che si tratta di due attori teatrali. Colpi di scena, atmosfera torbida e due ottimi interpreti, ma lascia un po' il tempo che trova.

"Quartier de la Madeleine", di Vincenzo Natali, con Elijah Wood e Olga Kurylenko (**1/2)
Un ragazzo si innamora di una bellissima vampira dopo averla sorpresa di notte mentre azzannava una vittima per la strada. Atmosfere retrò da cinema muto ed espressionista (con citazioni da Murnau e Feuillade) per un cortometraggio che gioca con il colore e il sonoro, stilisticamente affascinante.

"Père-Lachaise", di Wes Craven, con Emily Mortimer e Rufus Sewell (**1/2)
Una coppia di fidanzati in "luna di miele anticipata" visita il cimitero di Père-Lachaise. Dopo un litigio, il fantasma di Oscar Wilde aiuta il ragazzo a riconciliarsi con l'innamorata. Non un horror, come ci si aspetterebbe da Craven, ma una riflessione romantica sull'importanza del sense of humour.

"Faubourg Saint-Denis", di Tom Tykwer, con Melchior Beslon e Natalie Portman (**1/2)
Credendo che la sua fidanzata lo abbia lasciato, uno studente cieco richiama alla memoria i momenti più importanti della sua storia con lei. Ma la ragazza, un'aspirante attrice americana, stava soltanto recitando un copione. Come in "Lola corre", Tykwer sfrutta un montaggio rapido e sequenze ripetute e accelerate per dare vigore a uno degli episodi più romantici del lotto.

"Quartier Latin", di Gérard Depardieu, con Ben Gazzara e Gena Rowlands (*1/2)
Un'anziana coppia, separata da tempo, si incontra in un bar per mettere a punto le pratiche del divorzio. Depardieu veste i panni del barista, ma la storia (sceneggiata dalla stessa Rowlands) annoia e non dice poi molto.

"14e arrondissement", di Alexander Payne, con Margo Martindale (**)
Una turista americana, sempliciotta e sovrappeso, racconta con candore e ingenuità una vacanza trascorsa da sola a Parigi, e spiega il motivo per cui ama questa città. Una conclusione bonaria e un po' ingenua, proprio come la sua protagonista.

15 febbraio 2011

Hana (Hirokazu Koreeda, 2006)

Hana (Hana yori mo naho)
di Hirokazu Koreeda – Giappone 2006
con Junichi Okada, Rie Miyazawa
***

Visto in divx, con Hiromi, in originale con sottotitoli.

Koreeda, regista realista e umanista, che gira un film di samurai? Dopo un primo attimo di smarrimento ci si rende conto che si tratta di una pellicola assai atipica all'interno del genere, più intenzionata a smitizzare la figura e i valori tradizionali del guerriero che a proporre violente scene di battaglia. Siamo all'inizio del diciottesimo secolo: Soza è un giovane samurai la cui famiglia gli ha affidato il compito di vendicare la morte del padre. La ricerca del colpevole lo conduce fino a Edo (l'attuale Tokyo), dove si stabilisce in un piccolo appartamento presso una discarica, stringe amicizia con i variopinti e derelitti abitanti del vicolo e si innamora di Osae, giovane vedova che vive da sola con un figlio di otto anni. Di animo sensibile, amante della cultura e poco a suo agio con spade e combattimenti, Soza trova la propria dimensione nell'insegnare ai bambini del quartiere a leggere e a scrivere: e quando finalmente rintraccia l'uomo che sta cercando, scoprendo che è a sua volta accasato e con prole, si chiede se sia davvero il caso di portare a termine la vendetta. La sua decisione finale di perdonare l'assassino è anche motivata dalla scoperta che il marito di Osae è stato ucciso a sua volta da un samurai in cerca di vendetta. La storia di Soza (e quelle degli altri abitanti del quartiere: siamo quasi di fronte a un film corale) si intreccia con la vicenda dei ronin che progettano l'assalto alla residenza del funzionario imperiale Kira per vendicare il proprio signore Asano (un episodio storico reso celebre da drammi teatrali, romanzi e film, come "La vendetta dei 47 ronin" di Kenji Mizoguchi: ma anche questo evento viene smitizzato, come dimostra il personaggio interpretato da Susumu Terajima – il quarantasettesimo ronin, l'unico sopravvissuto – che si ritira dall'impresa all'ultimo momento per poi fingere che gli fosse stato affidato l'incarico di portare in giro la notizia dell'attacco). Ambientato in un periodo in cui il Giappone era in pace, quando in molti si chiedevano a cosa servissero ancora i samurai, "parassiti della società" che – a differenza dei contadini o dei mercanti – non producevano o vendevano niente, la pellicola offre anche una visione affascinante e inedita del contesto sociale e della vita di quell'epoca (da sottolineare l'importanza del teatro e della recitazione). Il ricco cast comprende, fra gli altri, anche Tadanobu Asano, Yoshio Harada e Renji Ishibashi.

14 febbraio 2011

Il mondo di Apu (Satyajit Ray, 1959)

Il mondo di Apu (Apur sansar)
di Satyajit Ray – India 1959
con Soumitra Chatterjee, Sharmila Tagore
***1/2

Visto in divx, con Marisa, in originale con sottotitoli.

Nella terza parte della "Trilogia di Apu", tratta come le precedenti ("Il lamento sul sentiero" e "L'invitto") da un romanzo autobiografico dello scrittore bengalese Bibhutibhushan Bandopadhyay, ritroviamo Apu Ray – ormai rimasto solo al mondo – in un piccolo appartamento di Calcutta, dove si guadagna da vivere come insegnante e scrittore. Nonostante la povertà, il ragazzo è soddisfatto della propria vita libera e indipendente: ma tutto cambia quando l'amico Pulu lo invita fuori città al matrimonio di una sua cugina. Partito per trascorrere pochi giorni di svago e portandosi dietro solo il suo flauto ("Assomiglia a Krishna", commenta la madre della sposa), tornerà a casa con una moglie, la bella Aparna. Per lei cambierà la propria vita, accetterà un lavoro da impiegato (che in precedenza aveva sempre rifiutato) e vivrà giorni felici fino a quando la donna morirà improvvisamente di parto. Impazzito dal dolore, Apu lascerà casa e impiego, getterà al vento le pagine del romanzo cui stava lavorando e girovagherà per l'India per cinque anni, fino a quando l'incontro con il proprio figlio Kajal gli restituirà interesse per la vita. Il film si conclude con padre e figlio che si apprestano a tornare a Calcutta, ed è lecito immaginare che Apu, una volta in città, ricomincerà a lavorare e probabilmente riscriverà il suo romanzo da capo, ora che ha conosciuto meglio la vita, l'amore e la morte (nella parte iniziale del film, l'amico lo rimproverava di voler scrivere di amore senza aver mai nemmeno conosciuto una ragazza): il suo percorso di formazione è finalmente completo. Degna conclusione di un magnifico trittico cinematografico, particolarmente amato da registi come Martin Scorsese e Jean-Luc Godard, "Il mondo di Apu" mantiene elementi e caratteristiche dei due film precedenti (la grande umanità dei personaggi; le improvvise tragedie che funestano la vita di Apu: dopo la morte dei genitori e della sorella, qui è la volta della moglie; la suggestiva colonna sonora di Ravi Shankar; la bella fotografia in bianco e nero che illustra squarci di un'India povera ma ricca di fascino, dalle città ai villaggi di campagna) ed è ricco di memorabili episodi, a partire da quello del matrimonio (che sembra destinato ad andare all'aria per la scoperta che "il marito è pazzo" e che, nel giro di pochi minuti, vede Apu prendere la decisione di sostituire lo sposo e di cambiare il proprio destino). Nelle sequenze che illustrano la vita della giovane coppia a Calcutta, il regista dovette fare i conti con i dettami dell'epoca che proibivano di mostrare sullo schermo baci e abbracci. Intensa l'interpretazione del protagonista Soumitra Chatterjee, notevole quella della quattordicenne Sharmila Tagore (entrambi al loro esordio), e splendido anche il piccolo Alok Chakravarty, che interpreta il figlio di Apu.

12 febbraio 2011

Biutiful (Alejandro G. Iñárritu, 2010)

Biutiful (id.)
di Alejandro González Iñárritu – Messico/Spagna 2010
con Javier Bardem, Maricel Álvarez
**

Visto al cinema Apollo, con Marisa.

Uxbal è un uomo dal presente difficile e dal futuro inesistente, visto che ha appena scoperto di avere un tumore che gli lascerà pochi mesi di vita. Separato da una moglie fragile e disturbata, abita in uno squallido appartamento con i suoi due bambini e si guadagna da vivere con il traffico di merci contraffatte, agendo da intermediario fra gli immigrati cinesi che le fabbricano e quelli africani che le vendono per le strade. In più, è anche un sensitivo: come Matt Damon in "Hereafter", è in grado di entrare in contatto con i morti e sfrutta questa capacità per arrotondare le proprie entrate. La sua sofferenza fisica va di pari passo con quella psicologica, i tormenti concreti con quelli spirituali: scosso dai sensi di colpa e consapevole di una fine imminente, cercherà di saldare i propri conti e di sistemare ogni cosa prima della dipartita, ma causerà senza volerlo altri gravi lutti e non riuscirà a riconciliarsi con la moglie. Ambientato in una Barcellona livida e crudele, crogiolo di razze e di degradazione, così diversa dalle rappresentazioni "solari" che di solito si vedono in altre pellicole, il film accatasta temi su temi (il rapporto fra genitori e figli – il padre di Uxbal e di suo fratello Tito è morto in Messico prima che loro potessero conoscerlo – e quello con la famiglia; le condizioni disumane in cui vivono gli immigrati clandestini, di cui viene mostrata la vita segreta e sotterranea, e che portano il protagonista a empatizzare con loro; gli elementi soprannaturali, come le farfalle sul soffitto della stanza di Uxbal – che simboleggiano gli spiriti dei morti con cui ha avuto a che fare – o le pietre che fungono da legame con i figli, come già avveniva nel giapponese "Departures") e forse esagera nel porre continuamente ostacoli sulla strada del personaggio. Iñárritu gira con uno stile sporco e disordinato come la vita del suo protagonista: è il suo primo lungometraggio dopo la tumultuosa separazione dallo sceneggiatore Guillermo Arriaga che ne aveva scritto i tre precedenti film ("Amores perros", "21 grammi" e "Babel") e aveva rivendicato per sé un ruolo di "autore" alla pari del regista, forse non del tutto a torto; di conseguenza l'impianto della pellicola è diverso: non più un film corale, si concentra prevalentemente su un unico personaggio (anche se qua e là riaffiora la vecchia e brutta abitudine di allargare troppo il discorso, finendo col sfilacciarlo: la sottotrama con i due cinesi gay, per esempio, ce la poteva risparmiare). Cupo e disperato, il film si appoggia tutto sull'intensa e sofferta interpretazione di Bardem, giustamente premiata a Cannes.

11 febbraio 2011

Danny the dog (L. Leterrier, 2005)

Danny the dog (id., aka Unleashed)
di Louis Leterrier – Francia/USA/GB 2005
con Jet Li, Morgan Freeman, Bob Hoskins
**1/2

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Allevato (letteralmente) come un cane sin da quando aveva quattro anni, Danny è diventato una macchina da combattimento che il suo padrone, un gangster, porta con sé quando si reca a riscuotere denaro dai suoi creditori: basta togliergli il collare e Danny si scatena contro gli avversari aggredendoli con furia animalesca. Quando, dopo un incidente, si ritrova per la prima volta libero, viene accolto da un accordatore di pianoforti cieco e dalla sua figlioccia, che gli restituiscono l'umanità perduta anche attraverso l'amore per la musica. Siamo di fronte probabilmente al miglior film "occidentale" di Jet Li, quello in cui l'attore cinese può mettere in mostra per una volta anche le sue capacità recitative e non solo quelle di campione di arti marziali. Non che i combattimenti non siano numerosi e spettacolari: oltre a quelli nell'arena dove si pratica la lotta clandestina, rimane impresso in particolare lo scontro con un avversario all'interno di una stanza minuscola, il cui spazio chiuso e ristretto impedisce ogni movimento. La sceneggiatura è scritta da Luc Besson (che con Leterrier aveva già collaborato ai due "Transporter"), ma per una volta non si tratta della solita bessonata tutta azione e niente cuore. Notevole l'interpretazione di Bob Hoskins (il "padrone" di Danny), senza sbavature quelle di Morgan Freeman e di Kerry Condon.

10 febbraio 2011

Il gusto degli altri (Agnès Jaoui, 2000)

Il gusto degli altri (Le goût des autres)
di Agnès Jaoui – Francia 2000
con Jean-Pierre Bacri, Anne Alvaro
***1/2

Rivisto in DVD, con Ilaria e Costanza.

Il rozzo industriale Jean-Jacques Castella (Jean-Pierre Bacri), costretto a prendere lezioni di inglese per poter concludere un affare importante, si innamora della sua insegnante Clara Delvaux (Anne Alvaro), attrice teatrale che però lo disprezza per i suoi modi grezzi e la mancanza di cultura. Ma alla fine entrambi, partiti da un atteggiamento di chiusura verso il mondo dell'altro, impareranno a mettersi in discussione. Splendida commedia sull'importanza di accettare il prossimo, scoprire il valore del confronto e superare i pregiudizi (Clara non ritiene verosimile che a Castella possano piacere il teatro d'avanguardia o i quadri dei suoi amici, ed è convinta che faccia finta di apprezzarli solo per ruffianeria; d'altronde lei stessa, parlando del proprio mestiere di attrice, afferma: "La cosa che mi da più fastidio è dipendere dal gusto degli altri"). La pellicola, dall'impianto corale, segue da vicino non solo i due protagonisti ma anche i molti personaggi che circolano attorno a loro: la moglie di Castella, Angélique (Christiane Millet), svampita arredatrice d'interni, innamorata del suo cagnolino e refrattaria alle opinioni altrui; la barista Manie (Agnès Jaoui), spacciatrice di droga a tempo perso e con una disinvolta vita sentimentale; il metodico autista di Castella, Bruno (Alain Chabat), che si fida troppo del mondo e delle persone intorno a lui; la guardia del corpo Franck (Gérard Lanvin), ex poliziotto che – al contrario – sfoggia un carattere cinico e sempre pronto a pensare il peggio di tutti; e ancora l'entourage di artisti snob che circonda Clara, la sorella di Castella, il suo assistente... Il punto di forza del film è senza dubbio la sceneggiatura, ricca di momenti esilaranti, dialoghi imprevedibili ma anche profonde caratterizzazioni psicologiche: è opera della coppia (anche nella vita) Jaoui/Bacri, già sceneggiatori per Resnais ("Parole, parole, parole...") e Klapisch ("Aria di famiglia"): per lei è anche l'esordio come regista, mentre lui si conferma un attore di primordine, in grado di spaziare con disinvoltura dal comico al tragico. L'ottimo Alain Chabat, come sempre, è un valore aggiunto.

8 febbraio 2011

Ro.Go.Pa.G. (Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti, 1963)

Ro.Go.Pa.G. - Laviamoci il cervello
di Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini, Ugo Gregoretti – Italia/Francia 1963
**1/2

Visto in divx.

Film diviso in quattro episodi: il titolo è formato dalle prime lettere dei nomi dei registi. Fra i segmenti spicca soprattutto quello di Pasolini, alla sua terza fatica cinematografica dopo "Accattone" e "Mamma Roma". Alla sua uscita venne condannato per vilipendio alla religione, e il regista fu costretto a modificarne alcuni passaggi.

"Illibatezza", di Roberto Rossellini, con Rosanna Schiaffino e Bruce Balaban (*1/2)
Una hostess dell'Alitalia (che al geloso fidanzato invia pellicole da lei filmate anziché lettere d'amore) viene corteggiata a Bangkok da un invadente uomo d'affari americano. Per sbarazzarsene, visto che lui è attratto dal suo aspetto perbene, comincia a comportarsi in maniera più trasgressiva. Episodio insignificante, decisamente il meno interessante del lotto. Come colonna sonora c'è la melodia di "Casta diva".

"Il nuovo mondo", di Jean-Luc Godard, con Jean-Marc Bory e Alexandra Stewart (**)
In seguito a un'esplosione atomica sui cieli di Parigi, gli abitanti della città cominciano a perdere la propria umanità e a comportarsi in maniera apatica e meccanica. Il protagonista se ne rende conto osservando il cambiamento sfuggente e imprevedibile della donna di cui è innamorato (e che gli dice frasi come "io ti ex-amo") . Un approccio intellettualistico e filosofico ai pericoli di "un futuro atomico forse già cominciato".

"La ricotta", di Pier Paolo Pasolini, con Orson Welles e Mario Cipriani (***1/2)
Una troupe cinematografica sta girando sulle colline intorno a Roma un film in costume sulla passione di Cristo. Il poveraccio Stracci, che interpreta la parte del ladrone buono, consegna il suo cestino del pranzo alla propria famiglia e poi, per non morire di fame, vende il cagnolino della prima attrice (Laura Betti) in cambio di pane e ricotta. Dopo essersi abbuffato, morirà sulla croce prima ancora di recitare la sua unica battuta. Straordinario affresco con il quale Pasolini attualizza la rappresentazione sacra, fondendo realismo e visionarietà, dramma e umorismo, spirito religioso (l'empatia verso l'umile protagonista, un "morto di fame" schernito da tutti) e invettiva sociale (l'ira del regista contro l'uomo medio, definito come "un mostro, un pericoloso delinquente... conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista..."). Vivace, ironico e grottesco, il cortometraggio sorprende a ogni scena (dallo spogliarello improvvisato da una comparsa al cane parlante che ripete le parole che i tecnici si passano di bocca in bocca): Pasolini gioca con il movimento (la corsa accelerata), la fotografia (le staticissime scene in costume – tableaux vivants che ricordano le opere dei pittori manieristi – sono a colori, mentre il resto del film è in bianco e nero), il sonoro (la banda musicale che esegue "Sempre libera degg'io" dalla Traviata; i dischi di twist che sostituiscono Scarlatti nella colonna sonora durante le riprese) e contemporaneamente non perde di vista i contenuti. Nella parte del regista marxista che con questa opera afferma di voler esprimere il suo "intimo, profondo, arcaico cattolicesimo" c'è uno straordinario Orson Welles, autentico alter ego di un Pasolini che gli mette in bocca le proprie parole sia quando risponde svogliatamente alle domande di un giornalista (al quale ricorda che "il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale") sia quando legge una sua poesia ("Io sono una forza del Passato"). In parti minori compaiono anche Tomas Milian, Ettore Garofalo e Lamberto Maggiorani.

"Il pollo ruspante", di Ugo Gregoretti, con Ugo Tognazzi e Lisa Gastoni (**1/2)
Mentre un economista dalla voce meccanica espone in un congresso di sociologia le sue teorie sul marketing e sull'induzione di "falsi bisogni" nei consumatori, una famiglia ne dimostra inconsapevolmente l'efficacia: bombardati dalla televisione (c'è anche un cameo di Topo Gigio), i bambini si esprimono attraverso slogan pubblicitari, mentre gli adulti si illudono di essere liberi e di pensare con la propria testa senza accorgersi di desiderare quello che altri hanno deciso per loro. Troveranno la forza di ribellarsi, ma faranno una brutta fine. Una satira contro la società dei consumi, forse un po' scontata e didascalica (la metafora del pollo ruspante, più libero rispetto al pollo di allevamento, è fin troppo esplicita) ma comunque ancora attuale e per nulla datata. Il figlio del protagonista è interpretato da Ricky Tognazzi, che all'epoca aveva sette anni.

7 febbraio 2011

Charlot (Richard Attenborough, 1992)

Charlot (Chaplin)
di Richard Attenborough – USA 1992
con Robert Downey jr., Geraldine Chaplin
**

Rivisto in TV, con Hiromi.

Dopo i film su Churchill e su Gandhi, Attenborough – ormai specializzato in biopic – ha voluto portare sul grande schermo anche la vita dell'immenso Charles Chaplin, uno dei più grandi artisti cinematografici di tutti i tempi. La pellicola è tratta dall'autobiografia dello stesso Chaplin (nel film si immagina l'attore, ormai anziano, mentre risponde alle domande di un giornalista – interpretato da Anthony Hopkins – che gli chiede di approfondirne alcuni passaggi) e ne ripercorre l'intera carriera: dall'infanzia di stenti in Gran Bretagna (la madre era una povera attrice del vaudeville) ai primi successi nel cinema muto a Hollywood, con la nascita del personaggio del "vagabondo" (ovvero Charlot: curiosamente nella versione italiana è proprio il nome del personaggio, e non quello dell'attore, a dare il titolo al film); dalle controverse vicende sentimentali (si sposò più volte, spesso con attrici giovanissime se non addirittura minorenni) ai rapporti con altri celebri membri della mecca del cinema (viene dato particolare risalto alla sua amicizia con Douglas Fairbanks, con il quale ha fondato la United Artists); dalle accuse di comunismo e di attività anti-americane nel periodo del maccartismo (il capo dell'FBI, Edgar J. Hoover, lo aveva personalmente preso di mira) all'esilio forzato in Svizzera negli ultimi anni della sua vita. Il film si conclude con la consegna dell'Oscar alla carriera nel 1972 e con la proiezione sullo schermo dell'Academy di alcuni spezzoni dei film del "vero" Chaplin: come dice Mereghetti, è "l'unico momento di autentico divertimento e commozione" di un film "frammentario e abbastanza freddo (nonostante la ricchezza produttiva)". Anche se non mancano alcuni buoni momenti (ma il merito, oltre che dell'eccellente Robert Downey jr., perfettamente credibile nella parte principale, è soprattutto della buona ricostruzione storica della Hollywood degli anni venti e trenta), nel complesso il film si snoda fiaccamente, accatastando gli eventi uno dopo l'altro e con personaggi secondari poco caratterizzati che entrano ed escono dalla vita del protagonista senza lasciare traccia. Il cinema e la vita reale si mescolano in continuazione: non sono rari i casi in cui episodi della vita di Chaplin riecheggiano, anticipano o ispirano scene delle sue pellicole più celebri, come se l'attore e il suo personaggio fossero inscindibili l'uno dall'altro. Particolarmente discutibile è la sequenza in cui Chaplin e il suo entourage si nascondono in un albergo per terminare il montaggio de "Il monello": Attenborough la gira come se si trattasse una vecchia comica muta, con tanto di capitomboli, travestimenti, pianoforte in sottofondo e proiezione accelerata, ma il risultato è modesto. Il ricco cast comprende Geraldine Chaplin (la vera figlia di Charles, che qui interpreta sua madre), Dan Aykroyd (Mack Sennett), Kevin Kline (Douglas Fairbanks), Penelope Ann Miller (Edna Purviance), Marisa Tomei (Mabel Normand), una sedicenne Milla Jovovich (Mildred Harris, la prima moglie di Chaplin), Diane Lane (Paulette Goddard), Maria Pitilo (Mary Pickford), Paul Rhys (Sydney, il fratello di Charles), Moira Kelly (nel doppio ruolo di Hetty, il primo amore di Chaplin, e di Oona O'Neill, la sua ultima moglie) e altri ancora (fra cui James Woods, David Duchovny, John Thaw, Kevin Dunn).

4 febbraio 2011

Querelle (R. W. Fassbinder, 1982)

Querelle (id.)
di Rainer Werner Fassbinder – Germania/Francia 1982
con Brad Davis, Franco Nero
***1/2

Visto in DVD.

L'ultimo film di Fassbinder, uscito postumo (il regista morì qualche mese prima della sua distribuzione, a soli 37 anni), è un passionale adattamento del radicale e controverso romanzo di Jean Genet "Querelle de Brest", reso vivido dalla messinscena surreale e teatrale (l'irrealtà dell'ambientazione va di pari passo con le riflessioni filosofiche dei personaggi e le citazioni letterarie a tutto schermo) e dalla fotografia astratta e colorata (le immagini sono ammantate di rosso e di giallo, come se ci si trovasse immersi in un tramonto perenne: "i colori del fuoco e della passione"). Presentato al Festival di Venezia, non vinse alcun premio ma spinse il direttore della giuria Marcel Carné a rilasciare una celebre dichiarazione nella quale si rammaricava di essere stato "l'unico a difendere un film" che, per quanto controverso, un giorno avrebbe avuto "un suo posto nella storia del cinema". La trama segue da vicino quella del romanzo originale: il marinaio Querelle (Brad Davis) sbarca al porto di Brest, dove ritrova il fratello Robert (con il quale ha una relazione d'amore e d'odio) presso la Feria, locale-postribolo gestito dall'ambiguo Nono (Günther Kaufmann), la cui moglie Lysiane (Jeanne Moreau) è l'amante proprio di Robert. Oggetto delle attenzioni morbose del complessato tenente Seblon (Franco Nero), comandante della nave su cui è imbarcato, Querelle si concede invece al sodomizzatore Nono, al quale vende anche una partita di oppio (dopo aver assassinato un altro marinaio che lo aveva aiutato a contrabbandarla). Per sfuggire alle indagini della polizia, fa cadere la responsabilità dell'omicidio su Gil (Hanno Pöschl, che interpreta anche la parte di Robert), un operaio che si è nascosto in un edificio abbandonato presso il porto dopo aver ucciso un collega di lavoro. Nella storia, condita da dialoghi espliciti e da meditazioni esistenziali, vengono coinvolti diversi altri personaggi, legati fra loro da rapporti di amicizia, di complicità e di sesso, come il timido Roger (amico di Gil) o il poliziotto corrotto Mario. Da notare come il look di molti personaggi rimandi a icone dell'immaginario omosessuale, le stesse rese celebri da gruppi musicali come i Village People: il marinaio (in divisa), l'operaio (in canottiera e casco), il poliziotto (con giubbotto di pelle), e così via. Bollato da alcuni come osceno e pornografico e da altri come un caposaldo della cultura gay, caratterizzato da uno stile classicheggiante e quasi artificioso nel suo acceso intellettualismo, il film è essenzialmente un melodramma a sfondo erotico che fonde in un unico personaggio (ossia nel protagonista) l'eroe e il cattivo, il vincente e lo sconfitto, una figura fragile e inerme e un subdolo manipolatore.

2 febbraio 2011

Mamma Roma (P. P. Pasolini, 1962)

Mamma Roma
di Pier Paolo Pasolini – Italia 1962
con Anna Magnani, Ettore Garofolo
***1/2

Rivisto in DVD, con Luca, Ilaria e Paola.

Il secondo, toccante lungometraggio di Pasolini è ancora ambientato nel mondo del proletariato romano, proprio come il precedente "Accattone" e come i suoi romanzi sui "ragazzi di vita"; stavolta però il regista fa ricorso a un'interprete professionista e già affermata come Anna Magnani (anche se la collaborazione si rivelò conflittuale e in seguito entrambi ebbero a lamentarsi, forse a torto, del risultato) e non solo ad attori dilettanti (come l'esordiente Ettore Garofolo, che interpreta il figlio della protagonista e che ha lo stesso nome e cognome del suo personaggio). Mamma Roma è una prostituta di mezza età che ha finalmente l'occasione di cambiare vita dopo che il suo protettore Carmine (Franco Citti) si è sposato, lasciandola libera di trasferirsi in un altro quartiere e di trovare un nuovo lavoro (vendere frutta e verdura al mercato rionale). La donna chiama a vivere con sé il figlio sedicenne Ettore – fino ad allora cresciuto in provincia, ignaro della professione della madre – e si dà da fare in tutti i modi per garantirgli un futuro migliore, giungendo persino a mettere in scena un elaborato inganno (con la complicità di una ex "collega") ai danni del proprietario di un ristorante per costringerlo ad assumere Ettore come cameriere. Ma i suoi sogni verranno infranti quando il figlio, rinchiuso in prigione per un furtarello, morirà in preda ai deliri della febbre. Realistico e struggente, il film è perfettamente bilanciato fra momenti drammatici e altri più leggeri, fra quadri di convivenza familiare e scorci di vita di strada, fra scene dedicate alla madre e altre riservate al figlio.

I personaggi, ritratti in maniera intensa e vitale (l'uso della parlata romanesca è essenziale per la loro caratterizzazione), lottano contro un destino che impedisce ogni speranza di riscatto sociale ("Dal niente non si costruisce niente", spiega con pragmatica crudeltà un parroco alla protagonista). Nonostante Mamma Roma cerchi di atteggiarsi a donna borghese, andando a messa e frequentando nuove compagnie, il suo passato ritorna in continuazione, e Carmine rispunta nel momento meno indicato per costringerla a tornare sulla strada. Quello interpretato dalla Magnani è un personaggio indimenticabile, vivace e di grande temperamento, spontaneo e ostinato: qua e là si lascia sfuggire dettagli di un tumultuoso passato, non si sa quanto veritieri, mentre l'unica cosa certa è il suo amore senza limiti per il figlio, con cui balla il tango sulle note della vecchia canzone "Violino tzigano" e del quale cerca di indirizzare non solo la vita lavorativa ma anche quella sentimentale ("All'età tua, l'unica donna che devi avere è tua madre!", gli grida quando scopre che corteggia Bruna, giovane dai facili costumi; e subito dopo chiede alla giovane prostituta Biancofiore di andare a letto con lui per fargli dimenticare quella cotta). Dal suo canto Ettore, con la sua ingenuità e la sua innocenza di fondo, è l'altra anima della pellicola: e le lunghe scene in cui girovaga per la città in compagnia degli amici portano lo spettatore ad affezionarsi a lui e a partecipare ai sentimenti di Mamma Roma, rendendo ancora più straziante la scena finale in cui gli occhi sbarrati della Magnani, mentre guarda la città fuori dalla finestra, sembrano prendere atto di quanto c'era di vero nella frase che lei stessa aveva detto al figlio all'inizio del film: "Te ancora n'ha sai tutta la cattiveria der monno".

Se si pensa che Pasolini era praticamente un autodidatta per quanto riguardava la tecnica cinematografica, il livello estetico e qualitativo del film fa impressione: la magnifica fotografia in bianco e nero è merito di Tonino Delli Colli, è vero, ma PPP ci mette del suo nelle splendide inquadrature di una Roma periferica e in via di sviluppo, nei lunghi piani sequenza che accompagnano le camminate notturne della Magnani mentre parla a uomini sempre diversi che si materializzano al suo fianco per poi sparire nel buio, nell'utilizzo del panorama e degli scenari (memorabile lo spiazzo degli acquedotti dove Ettore incontra gli amici o Bruna, fra rovine antiche che si ergono quasi come testimoni indifferenti della vicende moderne che si svolgono sotto di loro). La commistione fra arte colta e vita popolare, tanto cara al regista, risalta anche nell'ampio ricorso che Pasolini fa all'iconografia religiosa (i due esempi più evidenti sono la scena iniziale del banchetto di nozze, che ricorda l'ultima cena, e l'inquadratura ripetuta di Ettore sdraiato sul tavolo della prigione, mostrato in prospettiva come il "Cristo morto" del Mantegna), oltre che – come detto – nella coesistenza di antiche rovine e nuove costruzioni popolari; e poi, naturalmente, nella colonna sonora costituita da brani di Vivaldi che fanno da sfondo intenso e quasi religioso alle vicende di personaggi che probabilmente Vivaldi non l'hanno mai sentito nominare e che semmai ascoltano canzonette e cantano volgari strofe da osteria (come quelle intonate da Mamma Roma e da altri commensali al matrimonio di Carmine).