Visualizzazione post con etichetta Lee Chang-dong. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Lee Chang-dong. Mostra tutti i post

19 luglio 2021

Secret sunshine (Lee Chang-dong, 2007)

Secret sunshine (Miryang)
di Lee Chang-dong – Corea del Sud 2007
con Jeon Do-yeon, Song Kang-ho
***

Visto in divx alla Fogona, con Marisa, in originale con sottotitoli.

Lee Shin-ae (Jeon), giovane vedova con un figlio piccolo, si trasferisce da Seul nella cittadina natale del marito defunto, Miryang (nome che significa “raggio di sole segreto”, “secret sunshine” appunto), con l'intenzione di aprire una scuola di pianoforte e iniziare una nuova vita. Ma la tragedia incombe: il piccolo Jun viene rapito e ucciso, e la donna cercherà conforto dapprima nella religione e poi in una sorta di ribellione personale contro Dio, che ha “osato” perdonare il colpevole prima che l'abbia potuto fare lei. Lineare e al tempo stesso complesso, il film è essenzialmente diviso in quattro parti che seguono l'altalenante percorso di Shin-ae (il tentativo di stabilirsi a Miryang; il rapimento e la scomparsa di Jun; la ricerca di conforto nella religione; la rabbia e la ribellione), durante il quale la donna è sempre affiancata da Kim (Song), meccanico e vicino di casa che l'ha presa in simpatia, anche se il suo affetto non è ricambiato. Degna di nota la performance di Jeon Do-yeon, che riesce a esprimere le diverse fasi attraversate dalla protagonista di fronte alla tragedia della perdita di un figlio, alle avversità della vita e al rapporto con la religione, un cristianesimo che in Corea si traveste da “setta”, con riti e preghiere che sembrano scollegate dalla realtà se non nella mente dei suoi praticanti. In quello che in fondo è (per quanto originale) un thriller psicologico che scava nei temi del lutto e dei rapporti sociali in un contesto estraneo (in quanto “venuta da fuori”, Shin-ae è sempre guardata con sospetto dagli abitanti della cittadina) a mancare è forse l'ottimismo, il lieto fine; eppure la pellicola è colma di umanità e di sentimenti, spesso contrastanti ma con cui è facile empatizzare: guardandolo, si ha quasi l'impressione che l'essere umano, nella sua complessità, e nonostante ambiguità e contraddizioni, sia in fondo semplice da comprendere nelle sue reazioni più basiche di fronte alla morte e alla sofferenza.

24 febbraio 2021

Oasis (Lee Chang-dong, 2002)

Oasis (Oasiseu)
di Lee Chang-dong – Corea del Sud 2002
con Sol Kyung-gu, Moon So-ri
***

Rivisto in DVD.

Appena uscito di prigione, dove era stato rinchiuso per aver provocato una vittima in un incidente d'auto, Jong-du (Sol Kyung-gu) è riaccolto malvolentieri dal resto della famiglia. Anche perché, immaturo, scapestrato e leggermente ritardato, pare vivere in un mondo tutto suo ed è difficile capire cosa gli passi per la testa. Al tempo stesso Gong-ju (Moon So-ri), figlia dell'uomo rimasto ucciso nell'incidente, è emarginata dai propri parenti perché soffre di paralisi cerebrale infantile. Disprezzati e tenuti in disparte, considerati pesi morti o individui che non hanno diritto a una propria sensibilità da congiunti che pure non esitano ipocritamente a sfruttarne la situazione (la famiglia di Gong-ju approfitta della sua disabilità per poter vivere in un condominio speciale, da cui la ragazza è però esclusa; e scopriremo che l'incidente di cui Jong-du si era assunto la colpa era stato causato in realtà dal fratello maggiore), i due ragazzi trovano lentamente la felicità insieme: dapprima si attaccano l'uno all'altra per solitudine e disperazione, ma poi danno vita pian piano a un rapporto d'amore e d'amicizia che il mondo esterno non riesce o non vuole comprendere, ritenendo impossibile per loro provare sentimenti "normali" (lei è vista come vittima e lui come aggressore). Pluripremiato in molti festival internazionali (compresi due riconoscimenti a Venezia: il Leone d'argento per la miglior regia e il premio Mastroianni per la miglior attrice emergente), il terzo film di Lee Chang-dong è una delle pellicole più impressionanti sul tema della malattia mentale e del mondo affettivo di chi ne è colpito, spesso del tutto ignorato o trascurato da chi sta loro attorno. Il tema e il tipo di personaggi sono sempre a rischio di retorica, ma per fortuna il regista – anche sceneggiatore – li affronta con realismo e schiettezza, evitando ogni forma di buonismo, anche quando descrive gioie e paure dei personaggi (le ombre dei rami dell'albero che, da fuori, invadono la stanza di Gong-ju, coprendo il quadro dell'oasi – da cui il titolo del film – sulla sua parete) o l'ipocrisia dei familiari nei loro confronti, in un duro contesto caratterizzato da mancanza d'attenzione, vergogna e disgusto. Ottime le prove dei due protagonisti, che avevano recitato insieme nel precedente film di Lee, "Peppermint candy". Sorprendente in particolare la prova di Moon So-ri, che in alcune scene (simboliche) torna di colpo "normale".

19 dicembre 2020

Green fish (Lee Chang-dong, 1997)

Green fish (Chorok mulkogi)
di Lee Chang-dong – Corea del Sud 1997
con Han Suk-kyu, Shim Hye-jin, Moon Sung-keun
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Tornato a casa dopo il servizio militare, il ventiseienne Mak-dong (Han) trova la propria famiglia e l'intero mondo intorno a sé nel caos più completo. I fratelli si sono allontanati l'uno dall'altro e vivono allo sbando e in difficoltà economica, il quartiere si sta trasformando in peggio, e dove c'erano vasti campi stanno per sorgere moderni palazzoni. L'incontro con la misteriosa Mi-ae (Shim), cantante in un cabaret e "pupa" del boss locale Bae Tae-gon (Moon), porta Mak-dong in contatto col sottobosco della malavita: preso in simpatia dal boss per via del suo coraggio e del suo carattere schietto, ne diventa presto uno degli uomini più fidati, occupandosi dei lavori più pericolosi nella speranza di guadagnare il denaro necessario a riunire i propri parenti e aprire un ristorante a gestione familiare... L'opera prima di Lee Chang-dong, il futuro regista di "Peppermint candy" e "Poetry", è un film intenso e ricco di ingredienti, forse fin troppi: la famiglia di Mak-dong, le faide fra bande di gangster, il rapporto con Mi-ae, la società coreana che cambia, il desiderio di rivalsa e quello, parallelo, del ritorno alla felicità dell'infanzia (il titolo fa riferimento a un pesce preso da Mak-dong da ragazzo, simbolo – come la slitta di "Quarto potere" – della spensieratezza di gioventù e di un momento in cui la famiglia era unita). Il tutto si colloca in una società corrotta (poliziotti e politici prendono le mazzette) e un mondo violento, dove c'è poco scampo per i puri, per chi agisce solo in base ai propri istinti o sentimenti, e per chi insegue un sogno: quello del protagonista verrà infatti realizzato solo dopo la sua morte, e a rendersi conto del suo sacrificio sarà chi gli è sopravvissuto, come Mi-ae (incinta forse di lui): la scena in cui viene uccisa la gallina per preparare la zuppa per lei richiama in un certo senso proprio il sacrificio di Mak-dong. Bella e già matura la regia (Lee, anche sceneggiatore, aveva lavorato come assistente in un paio di pellicole, prima di decidere di fare il gran salto dietro la macchina da presa), bravi gli attori e interessante la colonna sonora melodica (che richiama a tratti il Morricone di "C'era una volta in America" e il Bernard Herrmann di "Taxi driver"). Alcune sequenze (quella nei bagni pubblici e quella nella cabina telefonica, improvvisata da Han) sono entrate nella memoria collettiva dei cinefili coreani.

1 aprile 2019

Burning (Lee Chang-dong, 2018)

Burning - L'amore brucia (Beoning)
di Lee Chang-dong – Corea del Sud 2018
con Yoo Ah-in, Jeon Jong-seo, Steven Yeun
**1/2

Visto all'Auditorium San Fedele, con Marisa, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

Jong-soo (Yoo), giovane aspirante scrittore, ritrova dopo alcuni anni Hae-mi (Jeon), sua ex compagna delle elementari, e se ne innamora. Fra i due si inserisce però il ricco e affascinante Ben (Yuen). E quando la ragazza sparisce nel nulla, Jong-soo inizia a convincersi che Ben sia in realtà un serial killer... Da un racconto di Haruki Murakami ("Granai incendiati"), un thriller psicologico low tone e basato tutto sull'ambiguità: quella dei tre personaggi e quella del rapporto fra immaginazione e realtà. Jong-soo è timido e ha problemi di socializzazione, ha un difficile background familiare, ma è anche in cerca di storie: possibile che quanto gli accada ("Il mondo per me è un mistero", dice) sia soltanto frutto della sua fantasia? Hae-mi è più spigliata, ma anche lei gioca con la finzione: prende lezioni di mimo, "inventa" oggetti che non esistono, racconta storie che potrebbero essere vere o meno (ha davvero un gatto, che nessuno ha mai visto? da piccola è davvero caduta in un pozzo, evento che nessuno ricorda?). E Ben, con la sua natura affascinante e misteriosa è il più ambiguo di tutti: la sua confessione a Jong-soo, quella di avere lo strano hobby (o impulso) di "bruciare una serra" ogni due mesi, viene dapprima presa sul serio dal ragazzo e poi trasfigurata nella prova che il rivale è un assassino seriale: ma nessuna conferma giungerà mai a noi spettatori, lasciati sospesi in un limbo dove tutto è possibile. E questo, che avrebbe potuto esserne il pregio, è probabilmente anche uno dei difetti del film, con cui si fatica a connettersi e a partecipare fino in fondo alla confusione emotiva del suo protagonista, nonostante non manchino scene e momenti interessanti, punteggiati dalle tante piccole "bizzarrie del quotidiano" così care a Murakami. Ottima la regia.

10 aprile 2011

Poetry (Lee Chang-dong, 2010)

Poetry (Shi)
di Lee Chang-dong – Corea del Sud 2010
con Yun Jeong-hie, Lee Da-wit
***

Visto al cinema Eliseo.

La vita quotidiana della sessantacinquenne Mija, domestica svampita e badante part-time in una cittadina di provincia, si incrina irrimediabilmente quando scopre che l'irresponsabile nipote Wook (che lei accudisce in quanto la madre, divorziata, vive in un'altra città) ha partecipato al ripetuto stupro di gruppo di una compagna di scuola, Agnes, la quale si è poi suicidata. Se nessuno dei ragazzi sembra provare rimorso per l'accaduto, e se i loro genitori (con la complicità delle autorità scolastiche) si preoccupano soltanto di mettere a tacere lo scandalo e di indennizzare la madre della vittima con una somma di denaro, Mija ne rimane invece profondamente scossa. Incapace di rispecchiarsi nella società arida e indolente che la circonda, e afflitta dalle prime fasi di un morbo di Alzheimer che fa riaffiorare i ricordi dell'infanzia senza riuscire a cancellare i dolori e i turbamenti del presente, la donna trova un antidoto e un conforto nell'amore per la poesia: decide d'impulso di frequentare un corso tenuto da un celebre poeta, comincia ad annotare su un taccuino i pensieri e le sensazioni che le nascono osservando la natura, si introduce in un circolo di appassionati lettori, il tutto nel tentativo di recuperare la bellezza e quell'armonia con il mondo che chi vive attorno a lei sembra invece aver smarrito ("la poesia è agonizzante", lamenta un giovane poeta; ed è emblematica la scena, all'inizio, in cui Mija cerca di raccontare quello che ha visto all'ospedale e nessuno pare interessato ad ascoltarla). Dopo aver donato l'amore a un vecchio avido e paralizzato, aver sistemato le pendenze economiche e aver chiuso i conti con la giustizia (è evidente che sia proprio lei a denunciare il nipote alla polizia), sceglie a sua volta il suicidio, come suggeriscono le belle inquadrature finali e la voce fuori campo che legge la sua poesia e che si trasforma in quella di Agnes (non è solo la regressione infantile dovuta alla malattia, ma un vero e proprio processo di identificazione e di espiazione). Con il suo ritmo lento, come lo scorrere placido del fiume che trasporta il cadavere della ragazza, e un approccio minimalista che scava in profondità nelle ipocrisie e negli egoismi sociali e culturali della Corea moderna, il film racconta il sofferente e consapevole percorso della protagonista e affronta temi e sentimenti come il rimorso, la vergogna e il contrasto fra il desiderio di giustizia per Agnes e la protezione della propria famiglia. Straordinaria la prova di Yoon Jeong-hee, star del cinema coreano degli anni settanta (tornata a recitare dopo quindici anni appositamente su richiesta di Lee) che dà vita a un personaggio sfaccettato e vitale, e ben bilanciate regia e sceneggiatura (quest'ultima premiata a Cannes). È il tipo di film che nelle mani sbagliate poteva naufragare nella retorica e nel sentimentalismo, ma che si tiene miracolosamente in equilibrio fino alla fine. Alcuni spunti ricordano i film precedenti di Lee: il suicidio dal cavalcavia sul fiume (come in "Peppermint Candy") e la crisi di una donna dopo la morte di un adolescente (come in "Secret Sunshine").

19 marzo 2008

Peppermint candy (Lee Chang-dong, 1999)

Peppermint candy (Bakha satang)
di Lee Chang-dong – Corea del Sud 1999
con Sol Kyung-gu, Moon So-ri
***1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Il quarantenne Kim Yong-ho si suicida su un ponte della ferrovia (gridando "Voglio tornare indietro!") mentre sulle sponde rocciose del fiume sottostante i suoi compagni di un tempo stanno festeggiando il loro ritrovo con un picnic. Da questo punto di partenza, il film prosegue raccontando a ritroso la sua amara storia, fatta di rimpianti, di occasioni perdute e di eventi traumatici che hanno cancellato la sua innocenza e le sue passioni giovanili fino a portarlo al punto di non ritorno. Con una serie di flashback che scavano sempre più lontani nel tempo (proprio come "Memento", "CinquePerDue" e "Irreversible", tutti film peraltro usciti successivamente), il regista dell'acclamato "Oasis" realizza una pellicola commovente nella sua tragicità, che mi ha sorpreso davvero in positivo (avevo cominciato a guardarla senza molte aspettative, visto che ultimamente i miei incroci con il cinema coreano non erano stati troppo felici). Lo stratagemma di invertire il flusso temporale mi è sembrato più efficace e coinvolgente che in alcuni dei titoli sopra citati, e in ogni caso assolutamente non fine a sé stesso. I segmenti dei vari flashback sono intervallati dall'immagine di binari che scorrono – come ben presto capiremo – a ritroso anch'essi: e proprio l'onnipresente ferrovia, oltre ad altri temi e oggetti ricorrenti (come le caramelle alla menta del titolo), costituisce il filo conduttore di una pellicola che documenta un'esistenza in parallelo con i tragici eventi di vent'anni di storia della Corea, dalle contestazioni studentesche – represse con metodi fascisti dalla polizia e dall'esercito – alla crisi dei mercati finanziari asiatici di metà anni novanta. Il bellissimo finale chiude un cerchio (l'ultima inquadratura del film è praticamente identica alla prima) e dona all'insieme un senso di eterna e onirica ciclicità ("Che strano... non ho mai visitato questo posto prima d'ora, eppure mi sembra di esserci già stato", commenta Kim ventenne quando si ritrova nello stesso luogo dove in futuro porrà fine alla propria vita). Mostrando prima le conseguenze e poi le cause che le hanno provocate, il regista lavora come uno psicanalista che indaga nel passato alla ricerca degli eventi in grado di cambiare irrimediabilmente un uomo mentre procede lungo il percorso della propria vita: l'abbandono dei sogni di gioventù, un'esperienza traumatica sotto le armi, la perdita del primo amore, un matrimonio infelice, la consuetudine alla violenza, il rifiuto dei sentimenti, il viaggio verso la follia: tutti snodi cruciali che l'ottima sceneggiatura prima preannuncia e poi svela, sorprendendo lo spettatore per crudeltà e profondità.