31 marzo 2023

Cabiria (Giovanni Pastrone, 1914)

Cabiria
di Giovanni Pastrone – Italia 1914
con Umberto Mozzato, Bartolomeo Pagano
***

Visto su YouTube.

Nel terzo secolo avanti Cristo, la piccola Cabiria (Lidia Quaranta) – figlia di un ricco nobile catanese – è rapita dai pirati fenici e venduta a Cartagine come schiava. Il sacerdote Karthalo progetta di sacrificarla al dio Moloch, ma sarà salvata dal romano Fulvio Axilla (Umberto Mozzato) e dal suo fedele servo Maciste (Bartolomeo Pagano). La sua storia si intreccia con le vicende della guerra fra romani e cartaginesi, e coinvolge molte importanti figure storiche: da Asdrubale ad Annibale, da Archimede a Scipione, da Massinissa (Vitale De Stefano) a Sofonisba (Italia Almirante Manzini). Il più importante film muto italiano è anche il primo vero grande kolossal della storia del cinema, una pellicola influente che ha ispirato cineasti come David Wark Griffith (per il suo "Intolerance") e ha di fatto canonizzato le due ore (abbondanti) di durata come lungometraggio cinematografico. A dire il vero, l'anno precedente c'era stato già il "Quo vadis?" di Enrico Guazzoni, al quale "Cabiria" è debitore in molte cose (compreso il personaggio di Maciste, ispirato all'Ursus del romanzo di Sienkiewicz). Ma Pastrone – e la torinese Itala Film, che produsse la pellicola – alzano notevolmente la posta: il film è sontuoso sotto ogni aspetto, dai curatissimi costumi alle sofisticate scenografie teatrali di Luigi Romano Borgnetto e Camillo Innocenti (da ricordare soprattutto l'esterno e l'interno del tempio di Moloch, con l'enorme faccione e la statua che divora i ragazzi da sacrificare: Fritz Lang se ne ricorderà nel suo "Metropolis"; ma anche i palazzi di Asdrubale e Siface, nonché le scene di battaglia e quelle in esterni, girate per esempio sulle Alpi o nel deserto algerino), dagli effetti visivi e fotografici (opera dello spagnolo Segundo de Chomón, che iniziò proprio allora una collaborazione con le case di produzione italiane) all'uso pionieristico del carrello nelle inquadrature (per la prima volta si fa un utilizzo estensivo di movimenti – pur lenti – di macchina in avanti e in indietro, e non solo lateralmente o verticalmente). Tutto questo compensa una trama piuttosto episodica (siamo ancora in una fase di passaggio dal cinema delle attrazioni – la locandina parla di "visione storica" – a quello più prettamente narrativo) e non troppo originale, per la quale Pastrone si ispirò non solo al citato "Quo vadis?" ma anche e soprattutto ai romanzi "Cartagine in fiamme" di Emilio Salgari e "Salammbô" di Gustave Flaubert.

L'enorme successo (anche internazionale: divenne il primo film proiettato alla Casa Bianca!) fu dovuto inoltre all'intuizione di fondere l'intrattenimento "basso" e popolare – come quello cinematografico era ancora percepito – con velleità artistiche di più alto livello: venne infatti coinvolto il poeta Gabriele d'Annunzio (che nei cartelli e nei materiali promozionali è talvolta indicato come il principale autore della pellicola!), che collaborò alla scrittura degli intertitoli, con uno stile estremamente "aulico", e alla scelta dei nomi dei personaggi (compresi Cabiria e Maciste, due nomi che resteranno nella storia del cinema e della cultura italiana). Proprio il forzuto Maciste diventerà un beniamino del pubblico: interpretato da uno scaricatore del porto di Genova, sarà riproposto per tutti gli anni dieci e venti in una serie di pellicole di grande successo e di ambientazione contemporanea, mentre negli anni sessanta, invece, si riavvicinerà alle sue origini con una serie di peplum a tema mitologico. Costata ben un milione di lire dell'epoca (venti volte il costo di un normale film), la versione originale di "Cabiria" durava oltre tre ore, anche se ne circolavano versioni più corte, e poteva contare (pur trattandosi di un film muto) su una colonna sonora per coro e orchestra, composta per l'occasione e da eseguirsi in maniera "sincronizzata" con la proiezione. Commissionata al compositore Ildebrando Pizzetti, fu in realtà realizzata quasi interamente (a parte la "Sinfonia del fuoco" che doveva accompagnare la scena del sacrificio a Moloch) dal suo allievo Manlio Mazza. Oggi "Cabiria" può apparire un film datato sotto molti aspetti (dopotutto, già l'anno seguente "Nascita di una nazione" di Griffith cambiava radicalmente il linguaggio del cinema attraverso il montaggio), ma se lo si guarda nella giusta prospettiva rappresenta ancora un'esperienza estremamente appagante. Curiosità: il museo del cinema di Torino, all'interno della Mole Antonelliana, ospita tuttora numerosi documenti e oggetti di scena della pellicola, compresa la gigantesca statua del dio Moloch usata nella scena del sacrificio.

29 marzo 2023

Mouchette (Robert Bresson, 1967)

Mouchette - Tutta la vita in una notte (Mouchette)
di Robert Bresson – Francia 1967
con Nadine Nortier, Jean-Claude Guilbert
***

Rivisto in divx.

La quattordicenne Mouchette (Nadine Nortier) vive con la madre malata e il padre ubriacone e violento in un villaggio nella campagna francese. Qui è ostracizzata dalle compagne, sfruttata dalla famiglia, incompresa da tutti. Dopo la morte della madre, e dopo essere stata violentata da un cacciatore in una notte di tempesta, prenderà la decisione più drastica. Tratto dal romanzo "Nouvelle histoire de Mouchette" (1937) di Georges Bernanos, un altro ottimo esempio del cinema esistenzialista e minimalista di Bresson: nonostante la sua breve durata, è estremamente intenso dal punto di vista emotivo e, soprattutto, non sfiora mai la retorica o il patetismo. Anzi, Mouchette, pur umiliata e maltrattata (tanto dagli uomini quanto dal destino), mostra sempre uno sguardo orgoglioso e non nasconde la propria rabbia, il proprio odio e disprezzo verso il mondo e le persone che la circondano. Lo si nota da mille piccoli gesti, evidenti (il lancio di fango verso le compagne di scuola) o meno (la "stonatura" dell'ultima nota durante il coro in classe: più tardi, quando canterà la stessa canzone per Arsène, sarà perfettamente intonata), spesso anche in risposta a gesti apparentemente gentili ma ipocritamente convenzionali (la rottura della tazza della negoziante, lo sporcare il tappeto dell'anziana che le regala il lenzuolo funebre per la madre). E per essere un personaggio che parla pochissimo, quando lo fa non esita a lasciarsi andare a invettive anch'esse esplicite (come quel "Merda" di ribellione verso il padre, o il "Mi fate solo schifo!", nel finale, rivolto idealmente all'intero villaggio). Curiosamente, l'unica persona verso la quale mostra una certa tenerezza ed empatia (a parte il giovane che le sorride durante il breve momento di svago al luna park, quando grazie alla gentilezza di una sconosciuta può permettersi uno giro sugli autoscontri) è proprio Arsène, l'uomo che si approfitta di lei. E la sua ribellione non può sfociare in una vera fuga se non sotto forma del suicidio che Bresson rappresenta sullo schermo in maniera originale ed esemplare, in una scena finale memorabile, quella in cui la ragazzina, avvolta nel lenzuolo, si lascia rotolare lungo la collina più volte, fino a finire dentro lo stagno. Personaggio indimenticabile, Mouchette attraversa tutta la pellicola con forza e intensità, mentre l'ambiente crudele in cui vive è descritto tramite tanti piccoli dettagli (si pensi alla "faida" fra il cacciatore di frodo Arsène e il guardiacaccia Mathieu: e i vari animaletti catturati o uccisi, uccellini e leprotti, simboleggiano l'innocenza e la gioventù). Sui titoli di testa e di coda si ode il "Magnificat" di Claudio Monteverdi. Jean-Claude Guilbert, che interpreta Arsène, aveva già recitato per Bresson nel precedente "Au hasard Balthazar": cosa rara per il regista, che quasi mai lavorava più volte con gli stessi attori.

27 marzo 2023

Au hasard Balthazar (R. Bresson, 1966)

Au hasard Balthazar (id.)
di Robert Bresson – Francia/Svezia 1966
con Anne Wiazemsky, François Lafarge
***1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

L'asinello Balthazar, nel corso della sua vita (il film lo segue dalla nascita alla morte) passa di mano in mano, da un padrone all'altro, da chi lo accudisce con cura a chi lo maltratta o lo sfrutta per duri lavori; e nel frattempo è testimone silenzioso e osservatore delle vicende umane, delle peripezie e delle crudeltà che si dipanano intorno a lui. Ispirato (pare) da un passaggio ne "L'idiota" di Dostoevskij, e ambientato nella campagna sui Pirenei francesi, uno dei capolavori di Bresson, sicuramente uno degli esempi migliori del suo cinema puro, minimalista, trasparente ed essenziale, anche se la forma corale e circolare (spesso Balthazar torna a incrociare gli stessi personaggi) può ricordare certe cose di Max Ophüls ("La ronde", "I gioielli di Madame de..."). I protagonisti dei film del regista francese sono spesso silenziosi (si pensi a Mouchette o al Fontaine de "Un condannato a morte è fuggito"), ma mai come in questo caso il mutismo si applica così alla lettera, visto che l'asino, a parte qualche raglio occasionale, si limita a osservare con i suoi occhi profondi le tragedie che si dipanano attorno a lui, quasi cercando di indagare la natura umana, e passando dai giochi con i piccoli Marie e Jacques (lei figlia del fattore che ha in gestione le terre del padre di lui), al duro lavoro nei campi, al servizio come cavalcatura per turisti sulle montagne, alle esibizioni in un circo, al girare la ruota di un mulino, al trasporto di merce di contrabbando. Un'intera vita, quella dell'animale, che ne racchiude mille: quella di Marie (Anne Wiazemsky) che, cresciuta, rifiuta la proposta di matrimonio di Jacques (Walter Green) per mettersi invece con Gérard (François Lafarge), giovane delinquente locale; quella di Arnold (Jean-Claude Guilbert), l'ubriacone del villaggio, che passa da momenti di grande fortuna a inaspettate tragedie; quella del vecchio mugnaio (Pierre Klossowski), cinico e avaro; o del padre di Marie (Philippe Asselin), orgoglioso e ostinato. Il tutto sullo sfondo di una campagna e di una provincia arcaica e arretrata, dove i pochi aspetti di modernità sono collegati alla ribellione adolescenziale dei giovani delinquenti (Gérard e i suoi amici, che indossano giubbotti di pelle e vanno in giro in moto), mentre proprio l'asino è percepito come qualcosa di antiquato e socialmente dequalificante. Ognuno degli episodi in cui si può dividere la storia è associato a uno dei sette peccati capitali (orgoglio, avidità, ira, invidia, lussuria, gola e accidia): Bresson dichiarerà in seguito che Balthazar simboleggia la fede cristiana (in una delle scene iniziali, viene "battezzato" dai due bambini; e più avanti la madre di Marie lo definisce "un santo"), che accetta con passività ogni maltrattamento e martirio, e nel finale muore da solo ma finalmente libero, su una montagna, circondato da un gregge di pecore. Come colonna sonora, per l'intera vicenda, c'è la sonata n. 20 per pianoforte di Schubert.

26 marzo 2023

Il treno (John Frankenheimer, 1964)

Il treno (The train)
di John Frankenheimer – USA/Francia 1964
con Burt Lancaster, Paul Scofield
**1/2

Visto in divx.

Nella Parigi occupata dai nazisti, pochi giorni prima che gli alleati giungano a liberare la città, il colonnello tedesco Franz von Waldheim (Scofield) organizza un treno speciale per portare in Germania un gran numero di quadri d'arte moderna sottratti dai musei e dalle collezioni francesi. A cercare di impedirglielo, sabotando in ogni modo il convoglio e ritardandone il viaggio, sarà il ferroviere Paul Labiche (Lancaster), membro in segreto della resistenza. Ispirato a una storia vera, quella narrata da Rose Valland nel libro “Le front de l'art”, un film fortemente voluto da Lancaster, che fece sostituire dopo solo tre giorni di riprese il regista inizialmente designato, Arthur Penn, perché questi immaginava un film più minimalistico e non intendeva dare lo spazio sufficiente alle scene d'azione. In effetti, lo sforzo produttivo è notevole, con numerose sequenze ad alto impatto, quali esplosioni, scontri fra treni o stazioni ferroviarie bombardate da incursioni aeree: Frankenheimer stesso lo definirà “l'ultima grande pellicola d'azione mai realizzata in bianco e nero”. Le riprese furono effettuate in Francia, con numerosi attori francesi in ruoli minori – Jeanne Moreau (l'albergatrice), Michel Simon (il vecchio macchinista Papa Boule), Albert Rémy (il fuochista Didont), Suzanne Flon (la curatrice del museo) – per lo più addetti alle ferrovie o membri della resistenza che aiutano Labiche nel suo “duello” con Waldheim. Ma il filo conduttore è il contrasto fra il valore dell'arte (i quadri sono definiti “un tesoro nazionale” e “la gloria della Francia”) e quello della vita umana: il primo è tenuto in massima considerazione dal colonnello Waldheim, che ama la pittura (anche quella “degenerata”, ossia l'arte moderna, che gli altri nazisti vorrebbero invece distruggere) e però si ritiene uno dei “pochi eletti” in grado di apprezzarla, motivo per il quale vorrebbe sottrarla al nemico (Labiche stesso non comprende il motivo per cui recuperare i dipinti sia così importante); il secondo è invece esemplificato dal sacrificio coraggioso dei tanti partigiani o simpatizzanti che muoiono per fermare il treno. L'ultima inquadratura del film mostra significativamente le casse con i dipinti abbandonate a fianco del convoglio e circondate dai cadaveri. Nel complesso, una pellicola avvincente e realizzata con competenza, che offre uno sguardo originale e diverso sulla seconda guerra mondiale: lo stesso spunto darà vita in tempi più recenti ad altri film (come “Monuments men” di George Clooney).

24 marzo 2023

Gang (Robert Altman, 1974)

Gang (Thieves like us)
di Robert Altman – USA 1974
con Keith Carradine, Shelley Duvall
***

Visto in divx.

Tre ergastolani – i gangster veterani ed esperti Chicamaw (John Schuck) e T-Dub (Bert Remsen) e il pivello Bowie (Keith Carradine), condannato per un omicidio commesso quando aveva sedici anni – evadono dai lavori forzati e decidono di mettersi insieme a rapinare banche nel Mississippi alla fine degli anni trenta. Tra un colpo e l'altro si rifugiano presso parenti o amici che li ospitano di malavoglia. Bowie si innamora della giovane Keechie (Shelley Duvall) e sogna di mettere su famiglia con lei. Ma la polizia è sulle loro tracce... Tratto dal romanzo "Ladri come noi" (1937) di Edward Anderson, lo stesso che aveva ispirato il classico "La donna del bandito" di Nicholas Ray (di cui pertanto è di fatto un remake), il film è girato da Altman focalizzandosi più sui momenti di quiete e di quotidianità dei banditi in fuga fra un colpo e l'altro che non sulle rapine vere e proprie (quasi mai rappresentate in diretta), e in questo guarda – senza nasconderlo – al "Gangster story" di Arthur Penn del 1967, che aveva portato sullo schermo la vera storia di Bonnie & Clyde. La ricostruzione d'epoca, sia pure realizzata con pochi mezzi (essenzialmente le automobili e l'ampio ricorso ai programmi radiofonici) è eccellente: gli aspetti sociali di un paese da poco uscito dalla Grande Depressione si riflettono nei discorsi di T-Dub ("Avrei dovuto fare il commercialista, e rapinare la gente con il cervello, non con la pistola"), che ricorda ai complici come alle banche, essendo assicurate, quasi conviene essere rapinate. Interessante anche l'uso diegetico della colonna sonora e delle trasmissioni radiofoniche, come nella scena in cui Bowie e Keechie amoreggiano mentre la radio trasmette un adattamento del "Romeo e Giulietta", o in quelle in cui, durante una rapina, si ode un discorso del presidente Franklin Delano Roosevelt. La narrazione appare a tratti un po' disgiunta, dando quasi la sensazione di essere improvvisata scena per scena: ma è una caratteristica del cinema di Altman. Notevole la quantità di product placement della Coca-Cola. Il cast di contorno comprende Louise Fletcher (Mattie), Ann Latham (Lula) e Tom Skerritt (Dee).

22 marzo 2023

Diciassette anni

Oggi, 22 marzo, questo blog compie diciassette anni. Ancora un anno e diventerà finalmente maggiorenne! Negli ultimi dodici mesi sono stati qui recensiti 201 film, che portano il totale complessivo dall'inizio del blog a 4258. Di questi 201, soltanto tre ("Triangle of sadness", "Everything everywhere all at once" e "Gli spiriti dell'isola") sono stati visti direttamente in sala: ormai da tre anni, dalla pandemia di Covid in poi, ho perso l'abitudine (e il desiderio) di andare a vedere film al cinema, preferendo le visioni casalinghe (anche perché mi sono scoperto sempre più interessato al recupero del cinema del passato e meno all'esplorazione di quello del presente, che ritengo ormai una forma d'arte in fase decadente). Sempre nell'ultimo anno, le prime visioni sono state 151 e i film rivisti 50. Il regista più frequentato è stato Luis Buñuel, di cui ho ripreso in mano il periodo surrealista e quello messicano, con 8 titoli. Seguono Abbas Kiarostami con 7 (fra cui diversi cortometraggi), Alfred Hitchcock con 4, e Comencini, Godard, Scorsese e Tsukamoto con 3.

20 marzo 2023

Il romanzo di Thelma Jordon (R. Siodmak, 1950)

Il romanzo di Thelma Jordon (The file on Thelma Jordon)
di Robert Siodmak – USA 1950
con Wendell Corey, Barbara Stanwyck
**1/2

Visto in divx.

L'assistente procuratore distrettuale – maldestramente tradotto come "giudice istruttore" nella versione italiana – Cleve Marshall (Corey), insoddisfatto del suo matrimonio, viene sedotto dalla femme fatale Thelma Jordon (Stanwyck), che lo convince di essere innocente dell'accusa di aver ucciso la vecchia zia per ereditarne il patrimonio, lasciando intendere che si sia trattato invece di un furto di gioielli. E così l'uomo, incaricato di rappresentare la pubblica accusa al processo contro di lei, farà di tutto per farla assolvere. Noir giudiziario con tutte le carte in regola, a partire da una protagonista ambigua e malvagia che però, man mano che procede la vicenda, finisce per innamorarsi davvero dell'uomo che avrebbe dovuto soltanto circuire. Lei stessa esplicita questa ambiguità nel finale, quando durante la sua confessione dichiara "Forse io sono due persone". Il personaggio maschile, dal suo canto, è la tipica vittima dei raggiri della donna, un po' come il Walter Neff de "La fiamma del peccato" (altro seminale noir con la Stanwyck), anche se è decisamente più integro (resta convinto fino in fondo che Thelma sia davvero innocente). Peccato però che tutto sia molto prevedibile: anche se non è mostrata esplicitamente sullo schermo, per lo spettatore non c'è mai il minimo dubbio sulla colpevolezza di Thelma. Inadeguato il titolo italiano (che c'entra un "romanzo"?). Paul Kelly è il capo procuratore, Stanley Ridges l'avvocato difensore, Joan Tetzel la moglie di Marshall (chiamata Pamela in originale e Patrizia nella versione italiana).

19 marzo 2023

Butterflies have no memories (Lav Diaz, 2009)

Butterflies have no memories (Walang alaala ang mga paru-paro)
di Lav Diaz – Filippine 2009
con Dante Perez, Willy Fernandez, Lois Goff
**1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Il villaggio dove abita Mang Ferding (Perez), che dipendeva dalle estrazioni minerarie, si è svuotato e impoverito dopo la chiusura della miniera. L'uomo, un tempo direttore della sicurezza e ora rimasto senza lavoro, trascorre le giornate a ubriacarsi con l'amico Santos ed è fra quelli che rimpiangono il passato (nonostante la terra sia stata devastata, inquinata, e infine abbandonata al proprio destino). Quando la bella Martha (Goff), un'abitante che aveva lasciato le Filippine per trasferirsi in Canada all'età di nove anni, torna in vacanza nel paese, attira rapidamente le attenzioni di tutti, compreso il suo amico d'infanzia Willy (Fernandez). Ferding propone a quest'ultimo e a Santos di rapire la ragazza per chiedere un riscatto, ma gli scrupoli di coscienza sono troppo forti... Mediometraggio (40 minuti la versione ufficiale, 60 la director's cut) realizzato per il Jeonju Digital Project (brevi film finanziati dal festival del cinema di Jeonju, in Corea del Sud) con cui Diaz affronta temi a lui cari, quelli della memoria, del passato del proprio paese, della continua trasformazione del mondo rurale (che per alcuni è in meglio, per altri in peggio), e del difficile confronto fra l'uomo e l'ambiente circostante, che può sfociare nella depressione o nella diaspora. La breve durata (almeno rispetto alle abitudini del regista) non impedisce di caratterizzare i personaggi attraverso lunghe sequenze lente e mute, immersi in un bianco e nero che sembra riflettere le ansie e le angosce dell'animo stesso dei protagonisti. Interessante il personaggio di Martha, ormai scollegata dalla sua realtà natale (parla soltanto inglese, gira come una turista con una macchina fotografica per catturare nuovi ricordi, non si rende conto dell'effetto che il suo aspetto esercita su chi è rimasto). Il finale brusco lascia quasi l'impressione che si tratti solo della bozza di un film che avrebbe potuto essere più lungo e svilupparsi ulteriormente, ma in ogni caso la pellicola è compiuta e soddisfacente anche così com'è. "Il senso è sospeso su un battito d’ali", ha detto il regista, quello delle farfalle che portano via i ricordi e si librano al di sopra della vegetazione, circondando i tre uomini camuffati con i loro mascheroni da Moriones.

17 marzo 2023

Serafin Geronimo (Lav Diaz, 1998)

Serafin Geronimo: The criminal of Barrio Concepcion
(Serafin Geronimo: Ang kriminal ng Baryo Concepcion)
di Lav Diaz – Filippine 1998
con Raymond Bagatsing, Angel Aquino
**1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Il contadino Serafin Geronimo (Bagatsing) si reca a Manila in cerca di una giornalista (Aquino) alla quale raccontare la sua storia: tre anni prima, spinto dalla necessità di guadagnare denaro per curare la giovane moglie malata di tumore (Ana Capri), aveva fatto parte di una banda di rapitori che aveva sequestrato la moglie e la figlia neonata di un importante uomo d'affari cinese, rapimento poi finito in maniera cruenta... Il film d'esordio del filippino Lav Diaz è forse ancora un po' grezzo nello stile e presenta alcune caratteristiche mainstream che in seguito il regista abbandonerà, come una durata tutto sommato "normale" (poco più di due ore) e la fotografia a colori, ma già mette in mostra molti dei suoi punti di forza: una storia intensa, che si dipana con lentezza ma catturando lo spettatore nei suoi rivoli e meandri, e uno studio dei personaggi attraverso il loro vissuto e il rapporto con la realtà circostante. La sceneggiatura fa ampio ricorso all'uso dei flashback, mediante il lungo racconto di Serafin alla giornalista e anche i suoi continui ricordi, in diversi casi anche sfasati temporalmente (ma alla fine tutto sarà chiaro, compresi sentimenti e motivazioni). Alla fine della visione, si scopre di essere rimasti catturati e scossi, come la giornalista, dal racconto di Serafin. E quella che poteva sembrare una convenzionale storia di gangster e criminalità si colora di toni umanistici e sfiora a tratti anche la denuncia sociale.

15 marzo 2023

Fucking Åmål (Lukas Moodysson, 1998)

Fucking Åmål - Il coraggio di amare (Fucking Åmål)
di Lukas Moodysson – Svezia 1998
con Alexandra Dahlström, Rebecka Liljeberg
***1/2

Rivisto in divx.

La sedicenne Agnes (Liljeberg), intelligente e introversa, è segretamente innamorata della compagna di classe Elin (Dahlström), bella e popolare ma annoiata e insoddisfatta della propria vita. All'apparenza le due non potrebbero essere più diverse: ma in qualche modo faranno amicizia, e proprio il loro coraggioso "coming out" lesbico le aiuterà a rivendicare orgogliosamente la propria identità. Ambientata nella piccola cittadina di Åmål, che ingiuriano in continuazione e da cui sognano di fuggire (e i cui abitanti, inizialmente, se la presero con il titolo dissacrante), l'opera prima del regista svedese Lukas Moodysson è un credibile e realistico ritratto dei tormenti dell'adolescenza alla scoperta di sé e dei propri sentimenti, in un contesto caratterizzato dalla crudeltà e dai pregiudizi dei coetanei, dall'angoscia del non sentirsi (ri)amati, dalla vergogna per le proprie emozioni, dalle esigenze di rispondere alle aspettative degli altri (la famiglia in primis, ma anche gli amici e i compagni di scuola). Pur guardando stilisticamente a Lars von Trier (estetica povera, camera a mano, immagini sgranate, quasi come un film Dogma), Moodysson gira in maniera più leggera e sincera, focalizzandosi sui suoi personaggi e sul loro microcosmo sociale-scolastico senza inutili sovrastrutture, aiutato dall'ottima prova dei giovani interpreti (solo le due protagoniste erano attrici professioniste). E il lieto fine, in cui le due ragazze si incamminano orgogliosamente mano nella mano per i corridoi della scuola, sfidando ogni giudizio, scalda il cuore. Il film è noto anche con il titolo "Show me love", dalla canzone di Robyn sui titoli di coda.

13 marzo 2023

Black Panther: Wakanda Forever (R. Coogler, 2022)

Black Panther: Wakanda Forever (id.)
di Ryan Coogler – USA 2022
con Letitia Wright, Tenoch Huerta
*1/2

Visto in TV (Disney+).

Dopo l'improvvisa morte del re T'Challa in seguito a una misteriosa malattia, il Wakanda – ora governato dalla regina madre Ramonda (Angela Bassett) – deve difendere le proprie riserve di vibranio, prezioso minerale di origine meteoritica che fa gola a numerose nazioni straniere. A proporre al paese africano un'insolita alleanza è Namor (Tenoch Huerta Mejía), sovrano mutante di Talokan, un regno sottomarino segreto, che progetta di attaccare il mondo di superficie per vendicarsi dell'imperialismo e del colonialismo del passato. Ma quando Shuri (Letitia Wright), sorella minore di T'Challa e principessa del Wakanda, impedirà a Namor di uccidere la giovane scienziata Riri Williams (Dominique Thorne) che aveva messo a punto un innovativo rivelatore di vibranio, proprio una guerra fra Talokan e il Wakanda diventerà inevitabile... Sequel del "Black Panther" del 2018, sostanzialmente modificato rispetto ai piani originari in seguito all'inattesa scomparsa, per un tumore, del protagonista Chadwick Boseman (al quale il film è dedicato: la pellicola si apre con il funerale di T'Challa e si conclude con alcune sue immagini ricordate da Shuri, due sequenze che fungono da evidente omaggio all'attore prima ancora che al personaggio). Il costume e il titolo di Pantera Nera passano qui sulle spalle di Shuri (come, a un certo punto, avveniva anche nei fumetti), benché la ragazza ci metta il suo tempo: passano quasi due ore di pellicola prima che decida di elaborare il lutto e di assumere il ruolo, e comunque non senza aver ceduto prima al desiderio di vendetta. Per gran parte del film, dunque, l'impronta è quasi corale, con un nutrito gruppo di personaggi – quasi esclusivamente donne di colore – che guidano la vicenda a rotazione: Shuri, Ramonda, Riri, ma anche il capitano delle guardie Okoye (Danai Gurira) e l'ex spia – e amante di T'Challa – Nakia (Lupita Nyong'o), oltre ad altre guerriere minori. In (inutili) ruoli di contorno ci sono Martin Freeman (l'agente della CIA Ross) e Julia Louis-Dreyfus (la contessa De Fontaine, il suo capo). Namor e gli "atlantidei" (fra i quali Attuma e Namora, figurine prive di caratterizzazione e di ruolo nella storia) sono immaginati come discendenti degli antichi maya. E viene svelata una (improbabilissima) origine del nome stesso "Namor" (mentre "Sub-Mariner" non viene mai usato). Detto ciò, il film è troppo lungo, noioso, con una regia insipiente, soprattutto nelle scene d'azione, un ritmo diseguale e pieno di tempi morti, un pessimo montaggio che gestisce goffamente i raccordi e una sceneggiatura retorica e infantile, che riempie il tutto di conflitti artificiali e fasulli. Male anche il doppiaggio italiano. Nel controfinale si scopre che T'Challa aveva un figlio segreto con il suo stesso nome: un escamotage per poter tornare ad avere in futuro una Pantera Nera di sesso maschile, ovviamente. Assai generose le cinque nomination agli Oscar (ma l'unica statuetta vinta è stata quella per i costumi).

11 marzo 2023

Chung Kuo, Cina (Michelangelo Antonioni, 1972)

Chung Kuo, Cina
di Michelangelo Antonioni – Italia 1972
***

Visto in TV (RaiPlay).

Documentario sulla Cina popolare, "appunti filmati" che formano un taccuino di viaggio che cerca di ritrarre la vita quotidiana degli abitanti ed esplorare l'organizzazione sociale e statale di un paese a quel tempo ancora del tutto impenetrabile ed elusivo per gli occidentali, colto nel bel mezzo della "rivoluzione culturale" voluta da Mao Tse-tung. Realizzato da Antonioni insieme al giornalista Andrea Barbati, e trasmesso dalla Rai in tre puntate, fu uno dei rari casi di quegli anni in cui a un cineasta straniero fu concesso di girare per il paese. In effetti Antonioni fu invitato espressamente dal governo cinese, sotto gli auspici del primo ministro del consiglio di stato Zhou Enlai, favorevole a una timida apertura all'occidente, anche se in seguito il film venne duramente criticato da altri membri dell'establishment (a cominciare dalla moglie di Mao e dalla "banda dei quattro"), che erano invece ostili a questi segnali (e anche in Italia venne male accolto da chi, da sinistra, sperava che il regista cogliesse l'occasione per celebrare retoricamente la rivoluzione comunista, anziché catturare la banalità del quotidiano). Accompagnato da una voce narrante mai invadente, il film documenta come può la realtà cinese di quegli anni, operosa nelle aree urbane e relativamente povera e arretrata soprattutto nelle zone rurali, ma molto ben organizzata a livello sociale (e naturalmente monolitica politicamente e culturalmente, almeno all'apparenza). Un paese vasto, misterioso, affascinante, che sotto la superficie mostrata dalle immagini (spesso catturate in segreto, nascondendo la macchina da presa per cogliere meglio la realtà quotidiana) lascia l'impressione che molto rimanga ancora nascosto, sommerso e impenetrabile. Antonioni e l'operatore Luciano Tovoli cominciano il loro viaggio da Pechino (dove visitano anche la Città Proibita e la Grande Muraglia), si spostano poi in zone più rurali o montuose (l'Honan, la valle dello Yangtze), passano per Suzhou, Nanchino e infine Shanghai (all'epoca, con dieci milioni di abitanti, la maggiore metropoli cinese). Osservano i lavoratori, gli operai, i contadini, i mercanti, gli studenti. Visitano città (il film si apre a piazza Tienanmen, "il grande spazio silenzioso che rappresenta il centro del mondo per i cinesi": il titolo del documentario, "Chung Kuo", significa appunto "il paese del centro"), campagne, scuole, ospedali, fabbriche, mercati, villaggi, comuni agricole, industrie, grandi porti fluviali... e infine la pellicola (che si apriva sui titoli di testa con i canti patriottici dei bambini di un asilo) si conclude con una lunga rappresentazione circense-acrobatica. L'unico filo conduttore, narrativamente parlando, è quello dell'osservazione: non si intende "spiegare" la Cina, ma ritrarne gli abitanti, i volti, le attività, lo scorrere di una vita altamente organizzata ma che sembra dipanarsi senza l'ansia o la fretta che in quegli anni connotava invece l'occidente. Il ritmo è perciò assai rilassato, le sequenze si prendono il loro tempo (la durata complessiva del film sfiora le quattro ore) e a volte si soffermano a lungo su persone che praticano tai chi, bambini che giocano o cantano inni di propaganda, contadini che lavorano o passanti in bicicletta. Il montaggio è di Franco Arcalli, la consulenza musicale di Luciano Berio.

9 marzo 2023

Il coltello di ghiaccio (Umberto Lenzi, 1972)

Il coltello di ghiaccio
di Umberto Lenzi – Italia/Spagna 1972
con Carroll Baker, Alan Scott
**1/2

Visto in TV (RaiPlay).

La giovane inglese Martha Caldwell (Carroll Baker), diventata muta a tredici anni per un trauma in seguito all'incidente ferroviario in cui sono morti i suoi genitori, è ospite nella villa fra i Pirenei dello zio Ralph (George Rigaud), anziano professore esperto di occultismo. Quando nella zona cominciano a verificarsi strani omicidi, apparentemente opera di una setta satanica e le cui vittime sono ragazze come lei, il suo medico curante Laurent (Alan Scott) inizia a preoccuparsi della sua incolumità... Giallo-thriller con evidente ispirazione a "La scala a chiocciola" di Siodmak (vedi l'handicap della protagonista). Ma l'ambientazione, un villaggio nella Spagna settentrionale avvolto nella nebbia, e il nutrito numero di personaggi da sospettare – in primis proprio il medico, il dottor Laurent, ma anche l'autista dello zio, l'ambiguo Marcos (Eduardo Fajardo), per non parlare dell'ispettore Duran (Franco Fantasia), del sindaco, del prete del villaggio, e naturalmente dello stesso zio – fanno sì che la pellicola, nonostante alcuni difetti (l'abuso di zoom, o la recitazione sopra le righe, per esempio), funzioni bene proprio come giallo. Lo sviluppo lascia infatti lo spettatore sulle spine riguardo l'identità del colpevole fino alla fine, fra evidenti red herring (il giovane hippie satanista che si accampa nel cimitero) e indizi più sottili, rendendo impossibile fissarsi su un solo sospetto. E la risoluzione finale coglie in effetti di sorpresa, ricontestualizzando comunque immagini e flashback visti in precedenza (a partire dal ricordo ricorrente di una cruenta corrida). Si tratta della quarta e ultima collaborazione fra Lenzi e la Baker. Nel cast anche Evelyn Stewart (la cugina di Martha, prima vittima dell'assassino), Mario Pardo (il giovane drogato), Lorenzo Robledo (il vice ispettore), Silvia Monelli (la governante), Rosa Marìa Rodriguez (Christina, la nipote del prete). Il titolo proviene da una frase attribuita ad Edgar Allan Poe (ma in realtà apocrifa): "La paura è un coltello di ghiaccio che lacera i sensi fino al fondo della coscienza".

8 marzo 2023

Una pistola per cento bare (U. Lenzi, 1968)

Una pistola per cento bare
di Umberto Lenzi – Italia/Spagna 1968
con Peter Lee Lawrence, John Ireland
*1/2

Visto in TV (RaiPlay).

Il giovane Jim (Peter Lee Lawrence), testimone di Geova refrattario per fede all'uso della violenza, si trasforma in pistolero per vendicare la morte dei suoi genitori, uccisi nel loro ranch da un gruppo di quattro assassini. Dopo aver rintracciato ed eliminato i primi tre, scopre che il quarto, il texano Corbett (Piero Lulli), è a capo di una banda che progetta di rapinare la banca di un villaggio. Si trasferisce dunque lì, in attesa dei banditi, e viene incaricato di difendere la città insieme a un misterioso predicatore itinerante (John Ireland). Spaghetti western (il secondo di Lenzi, dopo "Tutto per tutto") piuttosto convenzionale, nonostante le premesse particolari che però non hanno grande rilevanza nel resto della storia. Nei primi minuti gli eventi si succedono molto in fretta (persino sui titoli di testa), per poi rallentare nella parte centrale. I personaggi sono stereotipati e senza una grande personalità, e molti elementi sembrano introdotti tanto per far numero (il gruppo di pazzi incarcerati, per esempio). Franco Pesce è il vecchietto cassamortaro. Inutile la figura femminile (Gloria Osuna). Qualche (non certo imprevedibile) colpo di scena nel finale.

6 marzo 2023

The nice guys (Shane Black, 2016)

The nice guys (id.)
di Shane Black – USA 2016
con Russell Crowe, Ryan Gosling
**

Visto in TV (Prime Video).

Nella Los Angeles del 1977, un picchiatore prezzolato ma dal cuore d'oro (Russell Crowe) e un investigatore privato abbastanza inetto (Ryan Gosling) uniscono le forze per ritrovare una ragazza scomparsa, scoprendo che dietro la sua sparizione si cela un complotto che, partendo dal mondo del cinema pornografico e clandestino di Hollywood, si estende ai "poteri forti" legati all'industria automobilistica americana. La struttura è quella del giallo-noir, l'ambientazione è accuratamente ricercata e non casuale, l'intreccio è complicato come in un romanzo di Raymond Chandler... ma il tutto è affogato in un humour pieno di sarcasmo, sberleffi e battutine, molte delle quali faticano ad andare a segno e comunque giocano spesso sulla stessa falsariga (in particolare sull'incapacità dei due protagonisti e sui cliché di questo tipo di pellicola). Non si tratta di una parodia, sia chiaro: è lo stile di Shane Black, da sempre abituato a condire l'azione con la comicità. Se però ci aggiungiamo qualche passaggio meccanico o forzato, alcune ingenuità di scrittura, e almeno un personaggio (la figlia perfetta e saputella di Ryan Gosling, interpretata da Angourie Rice) francamente insopportabile, ecco che il risultato è decisamente inferiore alle aspettative e tutt'altro che memorabile. Nel cast, in ruoli minori, Kim Basinger, Matt Bomer, Beau Knapp, Margaret Qualley.

4 marzo 2023

Il mostro dei mari (Chris Williams, 2022)

Il mostro dei mari (The sea beast)
di Chris Williams – USA/Canada 2022
animazione digitale
**1/2

Visto in TV (Netflix).

Da secoli i cacciatori di mostri solcano il mare a bordo dei loro velieri per dare la caccia alle gigantesche creature che infestano le acque, venendo ricompensati dalla famiglia reale per ogni preda uccisa, visto che la loro attività consente al commercio (e dunque al regno) di prosperare. La piccola orfana Maisie Brumble, che li ammira incondizionatamente, sogna da sempre di diventare anche lei una cacciatrice come furono i suoi genitori, spinta dalla brama di avventura e incurante dei rischi ("Vivi una grande vita e muori di una grande morte", è il loro motto). Per questo motivo si imbarca clandestinamente sull'Inevitabile, la nave del leggendario capitano Crow, da sempre ossessionato dal desiderio di catturare il mostro più grande di tutti, la crudele Furia Rossa. Accolta nell'equipaggio, la bambina finisce sotto la riluttante protezione del figlio adottivo di questi, il lanciere Jacob. Insieme, Jacob e Maisie scopriranno però che la verità sui mostri non è quella che da sempre si tramanda... Enorme successo per questo film di animazione al computer, a metà strada fra "Dragon Trainer" e "I pirati dei Caraibi", con evidenti ispirazioni da "Moby Dick" e "L'isola del tesoro". L'animazione è davvero eccellente, e la cosa non stupisce più: ma i personaggi sono alquanto stereotipati (a cominciare dalla bambina), e la storia si muove su binari prevedibili, compreso il moderno revisionismo sui temi dell'eroismo e il messaggio contro l'imperialismo (il re e la regina sono ovviamente modellati sui reali di Spagna). L'afflato avventuroso, le scene di caccia in mare e quelle dei combattimenti con i mostri (e fra i mostri stessi: lo scontro fra la Furia Rossa e il granchio gigante sembra provenire da "King Kong" o da uno dei film di Ray Harryhausen) valgono comunque la visione. Pessimo il doppiaggio italiano (inascoltabile, in particolare, Diego Abatantuono che dà la voce al capitano Crow). Un sequel, neanche a dirlo, è già in cantiere.

2 marzo 2023

Paura in palcoscenico (A. Hitchcock, 1950)

Paura in palcoscenico (Stage Fright)
di Alfred Hitchcock – GB 1950
con Jane Wyman, Marlene Dietrich
**1/2

Visto in divx.

Sospettato dalla polizia di avere ucciso il marito di Charlotte Inwood (Marlene Dietrich), la diva teatrale di cui è l'amante, Jonathan Cooper (Richard Todd) si rivolge all'amica Eve Gill (Jane Wyman) affinché lo aiuti a nascondersi. La ragazza, innamorata di lui, decide di fare anche di più: convinta che Charlotte abbia organizzato tutto per far ricadere la colpa su Jonathan, e sfruttando le proprie doti di aspirante attrice (frequenta infatti l'accademia di arte drammatica), Eve avvicina sia la donna (fingendosi la sua nuova cameriera) sia l'ispettore che conduce le indagini sull'omicidio, Wilfred Smith (Michael Wilding). Ma scoprirà che non tutto è come credeva... Girato a Londra (durante una breve "pausa" di Hitchcock da Hollywood) con attori inglesi (le uniche eccezioni sono le due protagoniste femminili, Wyman e Dietrich), un giallo-noir ispirato a un romanzo di Selwyn Jepson, di cui cambia però il finale: è degno di nota soprattutto per il colpo di scena conclusivo, che rivela come alcune delle informazioni mostrate sullo schermo in precedenza fossero un inganno dovuto a un "testimone inattendibile" (anticipando in parte, su scala minore, la trovata de "I soliti sospetti"). Per il resto, il ritmo è compassato e la suspence latita, e anche la caratterizzazione dei personaggi spinge soprattutto sul versante umoristico, in particolare per quanto riguarda i genitori di Eve, il "commodoro" Gill (Alastair Sim) e sua moglie (Sybil Thorndike). Il valore aggiunto è la Dietrich, nel consueto ruolo di femme fatale, che canta anche una canzone originale di Cole Porter ("The Laziest Gal in Town"), oltre a "La vie en rose". Sir Alfred le concesse grande libertà sul set, lasciandole addirittura l'ultima parola sull'illuminazione e le inquadrature. La traduzione italiana del titolo si perde il doppio senso dell'originale, che significa piuttosto "Paura da palcoscenico".