29 gennaio 2017

La La Land (Damien Chazelle, 2016)

La La Land (id.)
di Damien Chazelle – USA 2016
con Emma Stone, Ryan Gosling
***1/2

Visto al cinema Colosseo, con Sabrina.

A Los Angeles, la "città delle stelle", l'aspirante attrice Mia (Stone) e il pianista di jazz Sebastian (Gosling) si incontrano, si innamorano e si aiutano a vicenda a realizzare i propri sogni (rispettivamente quelli di diventare una diva del cinema e di aprire un locale per ospitare il "vero jazz"), sostenendosi in particolare nei momenti in cui il sogno comincia a essere perso di vista. Anche se raggiungeranno i loro obiettivi, ne pagheranno il prezzo. Colorato, monumentale, romantico omaggio al mondo degli idealisti e ai sognatori, "La La Land" (il titolo fa riferimento sia alla città di Los Angeles, comunemente abbreviata in L.A., sia a un'espressione gergale che indica il paese dove vive chi ha la testa fra le nuvole) è una pellicola che sembra avere tutte le carte in regola per diventare un "classico" del cinema americano, come suggeriscono peraltro i tanti riconoscimenti – di pubblico e di critica – che sta raccogliendo in questi primi mesi di vita (in attesa degli Oscar, dove ha già stabilito il record di nomination, ben 14, a pari merito con "Eva contro Eva" e "Titanic": è vero che la concorrenza quest'anno non è particolarmente forte, ma è comunque un risultato notevole). A contribuire al successo, naturalmente, ci sono le ottime prove dei due protagonisti, le magnifiche coreografie, la regia dinamica e il grande uso dell'ambientazione (non si era mai vista una Los Angeles così romantica e viva, con un heritage e un fascino quasi parigino). Chazelle (di cui devo ancora vedere il precedente "Whiplash", anch'esso incentrato sul mondo della musica) compie un'operazione stupefacente, da un lato decisamente nostalgica (recuperando tutto l'aspetto ingenuo e idealistico dei musical degli anni cinquanta) ma dall'altro rivitalizzante e modernissima: a fianco della leggerezza e dei colori sgargianti (come nelle scene in cui i personaggi indossano abiti monocromatici) c'è spazio per le ombre, il vuoto e la solitudine, e a fianco del tema del sogno e dell'idealismo c'è anche una spruzzata di realistico cinismo (si pensi allo struggente finale). Da notare che il rimpianto vive attraverso un ultimo sogno ad occhi aperti, un'illusione condivisa che può ricordare certi film di Frank Capra (o anche "The family man"), ma che si esaurisce in pochi minuti. E dunque, più che ai musical di Fred Astaire o di Gene Kelly, andrebbe semmai affiancato a pellicole sul microcosmo di Hollywood e sul sacrificio da pagare per realizzare i propri sogni (da "A che prezzo Hollywood?" di George Cukor ai vari "È nata una stella").

Chi si aspettava un semplice sguardo rivolto al passato, attraverso il recupero di un genere (il musical, appunto) che spopolava negli anni cinquanta ma che ormai ha senso solo come rivisitazione od omaggio nostalgico (come era stato fatto con il cinema muto, per esempio, nel recente "The artist"), si deve ricredere: "La La Land" non è un'operazione fine a sé stessa ma vive di vita propria. La stessa nostalgia è funzionale alla storia narrata, alla caratterizzazione dei personaggi (si riflette per esempio in quella di Sebastian per la musica di una volta), oltre che per il coinvolgimento dello spettatore. I due protagonisti (di fatto, gli unici due personaggi del film: tutti gli altri sono solo elementi di contorno) vivono immersi in un mondo che cambia, o che è già cambiato attorno a loro: un mondo dove i cinema d'essai che proiettavano vecchi classici sono destinati alla chiusura, i locali storici cambiano nome e target, il jazz deve contaminarsi con il pop per poter raggiungere un pubblico giovane. E in un mondo del genere, è difficile restare a galla senza rinunciare a una parte di sé: che si tratti del sogno di tutta una vita, o anche solo dell'amore. In ogni caso, la pellicola fonde alla perfezione cinema popolare e d'autore, riuscendo a mandare in estasi tanto il pubblico generalista in cerca di un semplice intrattenimento disimpegnato quanto i cinefili che adorano il periodo d'oro delle major, con riferimenti espliciti, fra gli altri, a "Gioventù bruciata" (i protagonisti non solo vanno a vedere la pellicola ma visitano anche il celebre osservatorio Griffith dove si svolge una delle scene di quel film) e a "Casablanca" (in quest'ultimo caso l'omaggio è particolarmente significativo: certo, nei dialoghi si cita più volte la pellicola di Curtiz e Mia ha una gigantografia della Bergman nella propria camera, ma il vero parallelo è quello fra i protagonisti dei due film, che in entrambi i casi, pur amandosi perdutamente, in qualche modo alla fine non resteranno insieme, lanciandosi un ultimo sguardo d'addio). Il resto lo fanno la musica, le danze, il movimento e i sentimenti. Per essere un musical, comunque, le canzoni sono insolitamente poche: soltanto cinque, tutte peraltro molto belle. Si va dal brano di apertura, il fintamente programmatico "Another Day of Sun" (con una coreografia, quella dell'ingorgo in autostrada, che ricorda "Les demoiselles de Rochefort" di Demy), alla vivace "Someone in the crowd" intonata da Mia e dalle sue tre coinquiline; dalla romantica "A Lovely Night" che certifica l'innamoramento dei due protagonisti, alla memorabile "City of Stars" che torna in più occasioni (cantata da Sebastian prima da solo, e poi insieme a Mia), per finire con "The Fools Who Dream", il vero manifesto del film, nella scena dell'audizione della ragazza. Il resto della colonna sonora, opera di Justin Hurwitz, accompagna momenti leggeri e commoventi (come la scena nell'osservatorio, in cui i due personaggi fluttuano fra le stelle) mentre grandi e piccoli dettagli delle coreografie rimandano, in maniera sincera e non derivativa, a classici musical dell'età d'oro (da "Cantando sotto la pioggia" a "West Side Story" e "Un americano a Parigi").

28 gennaio 2017

Black sheep (Jonathan King, 2006)

Black sheep - Pecore assassine (Black sheep)
di Jonathan King – Nuova Zelanda 2006
con Nathan Meister, Danielle Mason
**

Visto in divx.

Pecore modificate geneticamente seminano il terrore in un allevamento in Nuova Zelanda. Commedia horror che ha il suo punto di forza nell'insita ridicolaggine dell'idea di base: quella di rendere minacciosi (e carnivori!) gli animali miti e innocui per eccellenza, le pecore "fluffose" di una fattoria. Con tutti i crismi di un film sugli zombie o sui vampiri (compresa la "malattia" che si trasmette con un morso, trasformando persino gli esseri umani in pecore cattive), la pellicola si lascia guardare con piacere e garantisce qualche ingenua risata da B-movie (anche la risoluzione finale è all'insegna dello sberleffo: i protagonisti danno fuoco alle... flatulenze degli animali). Peccato che il tutto, al di là del divertimento, abbia poco respiro, anche per via di protagonisti monodimensionali, caratterizzati ciascuno da un unico tratto (Henry ha la fobia delle pecore per via di un trauma infantile, Experience è una sciroccata animalista new age). Belli gli effetti speciali artigianali.

26 gennaio 2017

Arrival (Denis Villeneuve, 2016)

Arrival (id.)
di Denis Villeneuve – USA/Canada 2016
con Amy Adams, Jeremy Renner
**1/2

Visto al cinema Uci Bicocca.

Quando dodici astronavi aliene sbarcano sulla Terra, fermandosi in diversi punti del pianeta, l'esperta linguista Louise Banks (Adams) viene incaricata di decifrare il linguaggio dei loro occupanti – una misteriosa razza di creature eptapodi – per stabilire una comunicazione e scoprirne le intenzioni e i reali motivi della loro venuta. Mentre Louise compie lentamente progressi, la tensione fra la popolazione e le divisioni fra i principali governi del pianeta (non tutti convinti che si debba comunicare pacificamente con gli alieni) crescono inesorabilmente verso il punto di non ritorno... Il regista canadese Denis Villeneuve scalda i motori per l'imminente "Blade Runner 2049" cimentandosi per la prima volta con la fantascienza grazie a una sceneggiatura di Eric Heisserer (dal racconto "Storia della tua vita" di Ted Chiang). Se il modello letterario è "La voce del padrone" di Stanislaw Lem (come in quel romanzo, infatti, Louise fa parte di una task force di scienziati di varia estrazione – fra i quali il fisico teorico Ian Donnelly (Renner) – che devono collaborare per decifrare la lingua degli alieni), quelli cinematografici sono indubbiamente "Contact", "Incontri ravvicinati del terzo tipo" e "Interstellar". Pur implausibile in più punti sul piano logico o scientifico, la pellicola riesce a far riflettere in maniera intelligente sul tema della comunicazione (che implica necessariamente un qualche tipo di connessione o di condivisione) e su come il linguaggio influenzi il modo di percepire il mondo: quello degli alieni, così diverso del nostro, rispecchia la loro concezione "circolare" del tempo, che finisce col permeare anche la mente di Louise e portarla alla soluzione dell'enigma (con un emotivo colpo di scena finale per gli spettatori, "manipolati" fino a quel punto da un montaggio che li aveva portati a ritenere dei flashback quelli che in realtà erano dei momenti di precognizione). Certo, la scelta finale della protagonista, smaccatamente pro-life, getta un'ombra fastidiosa sull'intera pellicola e sui suoi reali intenti. Nella versione italiana, Ian e Louise battezzano i due alieni Tom e Jerry: in originale, invece, li chiamano Abbott e Costello (ovvero Gianni e Pinotto). Forest Whitaker è il colonnello americano, Tzi Ma è il generale cinese. La colonna sonora d'atmosfera (di Jóhann Jóhannsson) comprende il suggestivo "On the Nature of Daylight" di Max Richter. Da notare che vent'anni prima, nel 1996, era già uscito un film chiamato "The arrival" che parlava di contatti con gli alieni, ma si trattava di un thriller d'azione (di David Twohy) senza grandi qualità.

25 gennaio 2017

The host (Andrew Niccol, 2013)

The Host (id.)
di Andrew Niccol – USA 2013
con Saoirse Ronan, Diane Kruger
*1/2

Visto in TV.

Una razza di alieni, le Anime, ha invaso la Terra e si è impadronita dei corpi degli esseri umani, cancellandone la coscienza ma portando pace e prosperità sul pianeta. Soltanto piccoli gruppi di ribelli si oppongono ancora al loro completo dominio. Fra questi c'è Melanie (Ronan), che però viene catturata e il suo corpo occupato dall'aliena Viandante (poi "Wanda"). Per qualche misterioso motivo, la sua coscienza rifiuta di essere eliminata: le due, condividendo lo stesso corpo, finiscono con l'allearsi e unirsi ai ribelli nella loro base segreta nel deserto. Il punto di forza di Andrew Niccol, sceneggiatore prima che regista, sono sempre stati i soggetti: ma in questo caso si affida a un romanzo di Stephenie Meyer, l'autrice di "Twilight", anziché elaborare una delle proprie idee. C'è da dire che lo spunto di base della storia non è nemmeno troppo malvagio, anche se estremamente debitore alla fantascienza anni cinquanta ("L'invasione degli ultracorpi", per esempio). Dove il film deraglia è nello sviluppo a base di pulsioni romantiche adolescenziali da liceo, con la protagonista carina-ma-non-troppo (le giovani spettatrici devono potersi identificare in una ragazza "normale") circondata da due o tre bellocci tutti uguali (a distinguere i vari Jared, Ian e Kyle c'è solo la loro caratterizzazione monodimensionale: il ragazzo romantico, quello cattivo, quello ostile che poi si ravvede, ecc.). Nemmeno un istante viene speso ad approfondire i dilemmi morali ed etici che risultano dalla presenza degli alieni (il fatto che essi portino la pace, in contrasto con la bellicosità degli esseri umani, per esempio). E come i vampiri in "Twilight", anche qui la fantascienza è solo un pretesto per mettere in scena dinamiche da fan fiction, il che rende il film stucchevole e melenso, di poco o nessun interesse al di fuori del target cui si rivolge. Diane Kruger è la "cercatrice" che dà la caccia a Wanda/Melanie, William Hurt è lo zio a capo dei ribelli. Nota a margine: perché la pellicola ha mantenuto il titolo originale (uguale, fra l'altro, a quello di una pellicola di Bong Joon-ho), quando persino il romanzo della Meyer (al contrario di quelli della saga di "Twilight") era stato correttamente tradotto in Italia come "L'ospite"?

24 gennaio 2017

Non sparare, baciami! (David Butler, 1953)

Non sparare, baciami! (Calamity Jane)
di David Butler – USA 1953
con Doris Day, Howard Keel, Allyn McLerie
***

Rivisto in divx, con Sabrina.

La pistolera Calamity Jane, che si guadagna da vivere scortando le diligenze nei pericolosi territori del South Dakota infestati dagli indiani, è segretamente invaghita del tenente Danny Gilmartin (Philip Carey), che però – come tutti gli uomini del villaggio di Deadwood – non la considera come una donna per via dei suoi atteggiamenti ruvidi e del mascolino modo di vestire. Quando proprio Calamity porterà da Chicago la celebre attrice Adelaid Adams (in realtà la sua cameriera Katie Brown, che all'insaputa della stessa Jane si è sostituita a lei) affinché si esibisca nel saloon locale, il tenente perderà la testa per quest'ultima. E dopo aver smaltito la delusione, Calamity scoprirà invece di essere innamorata – e ricambiata – dal rude Wild Bill Hickok (“Bill il selvaggio” nel doppiaggio italiano), da sempre suo amico e compagno di avventure. Simpatico e vivace musical western, animato dalla verve di Doris Day e dal contrasto fra la femminilità di Katie e i modi bruschi di Jane (che, proprio grazie all'amica, saprà lentamente trasformarsi da maschiaccio in signora). Naturalmente siamo in pieno entertainment hollywoodiano: del personaggio storico di Calamity c'è ben poco in questa rappresentazione comica e romantica, così come ogni verosimiglianza storica è bandita nella descrizione di un west popolato da minatori e pistoleri ballerini e cantanti, che sbavano dietro alle attrici di città e si appassionano alle vicende sentimentali che si dipanano attorno a loro. Ma poco male: il divertimento disimpegnato, la contagiosa allegria e le belle canzoni – fra cui la più celebre (vinse il premio Oscar e fu rifatta, fra gli altri, da Sinead O'Connor) è sicuramente “Secret Love” – lo rendono uno dei film più gradevoli fra quelli di Doris Day, nonché un mio piccolo cult movie personale. È ispirato al precedente "Anna prendi il fucile" del 1950, anch'esso con Keel come protagonista maschile.

22 gennaio 2017

Silence (Martin Scorsese, 2016)

Silence (id.)
di Martin Scorsese – USA 2016
con Andrew Garfield, Adam Driver
**

Visto al cinema Colosseo.

Agli inizi del diciassettesimo secolo, i due preti gesuiti portoghesi Rodrigues e Garupe (Garfield e Driver) sbarcano segretamente nel Giappone feudale, dove lo shogunato Tokugawa ha cominciato a perseguitare i cristiani, la cui religione è stata bandita dal paese dopo un primo periodo in cui invece aveva potuto prosperare. I due sperano di rintracciare il loro maestro e mentore, padre Ferreira (Liam Neeson), di cui non hanno più notizie da anni e sul quale circolano voci che abbia abiurato la propria fede. Da un romanzo di Shusaku Endo che era già stato trasposto al cinema nel 1971 da Masahiro Shinoda, Scorsese (che aveva in mente il progetto da quasi 25 anni) trae un film lungo e pesante, che mette in scena il rapporto – e il conflitto – fra uomo, religione e natura sullo sfondo storico delle persecuzioni cristiane del 1600. Quello raccontato nel film è un Giappone cupo e ostile, dove le poche comunità di kakure kirishitan ("cristiani nascosti") vivono e pregano in segreto, fra rocce nere, terreni fangosi e un cielo plumbeo (l'uso del paesaggio è quasi kurosawiano), mentre gli "inquisitori" guidati dal subdolo Inoue (Issey Ogata) li torturano o più semplicemente li mettono continuamente alla prova per costringerli a venire allo scoperto o ad abiurare (per esempio, calpestando immagini sacre). Persino i preti, come Ferreira o Rodrigues, sono combattuti fra la scelta di mantenersi fedeli alla propria chiesa o diventare apostati per salvare delle vite (compresa la propria): scelta che invece non pare così difficile per Kichijiro (Yosuke Kubozuka), la guida giapponese "codarda" che ogni volta che viene catturato rinnega subito e facilmente la propria religione, salvo poi chiedere perdono attraverso la confessione. Girato a Taiwan, il film è da apprezzare per la ricostruzione storica e per il modo diretto di affrontare un particolare momento storico (quello in cui le relazioni fra il Giappone e il resto del mondo erano ai minimi termini), ma la tensione e il coinvolgimento scattano solo a tratti, per via di vicende troppo dilatate e situazioni in fondo ripetitive. La parte migliore è quella conclusiva, con il confronto fra Rodrigues e il suo vecchio maestro Ferreira, e con le considerazioni sulle differenze fra il Giappone e il resto del mondo cristiano. Nel cast, anche Tadanobu Asano (l'interprete) e Shinya Tsukamoto (Mokichi, uno dei "kirishitan" del villaggio uccisi da Inoue). Padre Ferreira e l'inquisitore Inoue sono figure storiche realmente esisitite. Il titolo si riferisce al silenzio da parte di Dio che Rodrigues lamenta durante le proprie sofferenze e quelle dei cristiani perseguitati, identificando sé stesso con il Cristo nell'orto del Getsemani.

20 gennaio 2017

Ex machina (Alex Garland, 2015)

Ex machina (id.)
di Alex Garland – GB 2015
con Domhnall Gleeson, Alicia Vikander, Oscar Isaac
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Il giovane programmatore Caleb Smith (Gleeson) è invitato a trascorrere una settimana nella residenza isolata (nonché laboratorio di ricerca) del geniale Nathan Bateman (Isaac), guru dell'informatica e della robotica, che lo invita a mettere alla prova la sua ultima invenzione: Ava (Vikander), un androide dalle fattezze femminili dotato di Intelligenza Artificiale. Il ragazzo dovrà valutare se l'A.I. di Ava è in grado di superare il "test di Turing", ovvero imitare in tutto e per tutto un essere umano. Nel corso dei suoi incontri con lei, Caleb finisce con l'innamorarsene. Ma non tutto è come sembra: il ragazzo inizia a sospettare che l'enigmatico Nathan non gli ha detto tutta la verità, e che ad essere sotto esame forse è proprio lui... Un piccolo film indipendente di fantascienza speculativa, acclamato (e forse un pochino sopravvalutato) dalla critica, che segna l'esordio alla regia per lo scrittore e sceneggiatore Alex Garland. I temi trattati non sono originalissimi, e anche lo sviluppo lascia un po' delusi sulla loro reale portata, ma la pellicola è girata con stile ed eleganza, in un'atmosfera sospesa e carica di tensione e di curiosità intellettuale e filosofica: aiuta, naturalmente, l'ambientazione isolata e il cast "ristretto" (praticamente solo quattro attori: la quarta è Sonoya Mizuno, che interpreta Kyoko, il robot-cameriera di Nathan). Nella finzione, l'inventore è un misto di Mark Zuckerberg, Steve Jobs e Bill Gates (è diventato ricco da giovane per aver inventato BlueBook, il motore di ricerca più usato al mondo). Premio Oscar (esagerato?) per gli effetti speciali, tutti aggiunti in post produzione.

18 gennaio 2017

La donna che canta (D. Villeneuve, 2010)

La donna che canta (Incendies)
di Denis Villeneuve – Canada 2010
con Lubna Azabal, Mélissa Désormeaux-Poulin
***1/2

Visto in divx, con Sabrina.

All'improvvisa morte della madre Nawal Marwan, immigrata in Canada da un paese del medio oriente (anche se non è mai citato, si tratta del Libano sconvolto dalla guerra civile), i gemelli Jeanne e Simon scoprono dalle sue ultime volontà che sia loro padre (che credevano morto) sia un altro fratello (di cui ignoravano l'esistenza) sono ancora in vita. Non senza riluttanza, partiranno alla loro ricerca per consegnargli un ultimo messaggio da parte della madre. E durante il viaggio, ripercorrendo all'indietro le tracce di Nawal e ricostruendone la turbolenta storia, scopriranno terribili verità su di lei e su loro stessi. Da una pièce teatrale di Wajdi Mouawad, ispirata alla vita dell'attivista libanese Souha Bechara, un intenso dramma familiare che ha lanciato definitivamente la carriera di Denis Villeneuve: costruito come un puzzle i cui vari elementi si incastrano lentamente (attraverso il continuo passaggio dal presente al passato, grazie a vari flashback ambientati in epoche diverse), il film è un'acclamata riflessione sul caso e il destino, sulla maternità e sulle proprie radici, in un paese scosso da continui conflitti, guerre civili, ribellioni e faide fra gruppi di etnie e religioni differenti, e su come tutti questi elementi possano influenzarsi reciprocamente. La sceneggiatura trasforma quella che sarebbe una vicenda del tutto paradossale e improbabile (ma con evidenti "elementi da tragedia greca", come ha commentato lo stesso regista) in un messaggio simbolico sull'assurdità della guerra e sulla necessità di spezzare la catena dell'odio e delle rappresaglie, oltre che sul sofferto contrasto fra il perdono e la vendetta. La scelta di non specificare chiaramente l'ambientazione (il setting, come detto, è quello della guerra civile in Libano: ma le riprese sono state effettuate in Giordania, e tutti i luoghi citati durante il film sono stati inventati), amplifica tale messaggio e lo rende ancora più universale. E nonostante i tragici eventi narrati, il finale è ammantato di speranza: quando tutti i nodi saranno venuti alla luce, i gemelli avranno imparato a conoscere e amare finalmente quella madre che per loro era sempre rimasta un mistero distante e impenetrabile. Da notare che Jeanne lavora come assistente universitaria nel dipartimento di matematica pura: e proprio la matematica si pone come una chiave di lettura della complessa realtà che la circonda (“Uno più uno può fare uno?”, le chiede il gemello, mentre la soluzione dell'enigma risiede nell'intersezione fra l'amore e l'odio). Altro tema conduttore è l'acqua (le piscine, il fiume), salvifica in contrasto con il fuoco dell'odio e della guerra. Un film intenso, complesso, stratificato e stimolante sotto più punti di vista, dove la potenza della sceneggiatura è ben servita dalle ottime interpretazioni e da una regia attenta, rigorosa ma anche ricca di stile. Nella colonna sonora spicca "You and whose army?" dei Radiohead.

16 gennaio 2017

La montagna (Edward Dmytryk, 1956)

La montagna (The mountain)
di Edward Dmytryk – USA 1956
con Spencer Tracy, Robert Wagner
**1/2

Visto in divx, con Sabrina.

Zaccaria Teller, veterana guida alpina, ha dato l'addio alle scalate dopo la morte di un suo compagno di cordata, dieci anni prima, di cui si sente responsabile. Da allora vive come pastore nella casa di famiglia, ai piedi delle montagne. Ma quando un aereo di linea, proveniente dall'India, precipita in una zona praticamente impossibile da raggiungere a piedi, l'uomo viene convinto dall'avido fratello minore Cristoforo a tentare una scalata per raggiungere e saccheggiare il relitto. Dopo un'arrampicata piena di rischi e di difficoltà, tuttavia, fra i rottami del velivolo i due fratelli rinvengono una sopravvissuta... Ispirata a un fatto reale (lo schianto di un aereo indiano di linea sul Monte Bianco nel 1950), un'ingenua ma avvincente pellicola ambientata fra le vette delle Alpi francesi che mette in scena le fatiche e le insidie dell'alpinismo, fra pareti di roccia senza appigli, ghiacciai e crepacci, in un'epoca dove il turismo di massa e le odierne attrezzature erano ancora da venire. Un Tracy canuto dà vita a un personaggio stanco e indurito dalle tante esperienze, disilluso ma in cerca di riscatto (la vita che avrà occasione di salvare, ai suoi occhi, compenserà quella di cui si sente responsabile), che ama, teme e rispetta la montagna, al quale si contrappone un fratello minore – ma praticamente un figlio, avendolo cresciuto lui dopo la morte della madre – ribelle ed arrogante, che farebbe qualsiasi cosa per fuggire dalla vita umile e misera alla quale il maggiore (per espiazione?) si è rassegnato. L'avidità di Cristoforo si oppone all'integrità morale di Zaccaria, mentre le riprese di Dmytryk, durante tutta la scalata, sono spettacolari e cariche di tensione nel mostrare la sfida dell'uomo alla natura. Claire Trevor è la contadina innamorata di Zaccaria, Anna Kashfi è la ragazza indiana.

15 gennaio 2017

L'uomo che ride (Paul Leni, 1928)

L'uomo che ride (The man who laughs)
di Paul Leni – USA 1928
con Conrad Veidt, Mary Philbin
***

Visto in divx.

Dall'omonimo romanzo di Victor Hugo (che la sceneggiatura snellisce e orna di un lieto fine), un film muto d'avventura dai toni gotici e horror, ambientato nell'Inghilterra del XVII secolo. Sfregiato quando era bambino da uno zingaro che gli ha stampato sul volto un ghigno perenne, lo sfortunato Gwynplaine (Veidt) – allevato dal filosofo e saltimbanco Ursus (Cesare Gravina) – si guadagna da vivere esibendosi come buffone nelle fiere di paese con il nome di “L'uomo che ride” (un collega clown gli dice: “Sei fortunato, non devi struccarti via il sorriso quando hai finito di lavorare”). Innamorato della bella Dea (Philbin), l'attrice che recita al suo fianco e l'unica che – essendo cieca – non ride o non rabbrividisce di fronte al suo volto, Gwynplaine ignora di essere figlio di un nobile, Lord Clancharlie, che era caduto in disgrazia presso re Giacomo e le cui proprietà sono state confiscate e riassegnate alla duchessa Josiana (Olga Baklanova). Costei, capricciosa e voluttuosa, rischia di perdere tutto se un legittimo erede del clan dovesse ritornare: con l'avallo della regina Anna (che nomina Gwynplaine membro della camera dei Lord) progetta dunque di sposarlo per mantenere il proprio stato. Ma l'uomo rinuncerà alla nobiltà per rimanere in compagnia di Dea e della compagnia di saltimbanchi con cui è cresciuto. Feuilleton d'ambientazione storica, avvincente e barocco, costruito sulla figura del freak e sul contrasto fra le classi nobili e quelle basse, popolato da personaggi stereotipati o sopra le righe ma ricco di colore e di azione. Il tema delle risate è declinato in più modi: al sorriso forzato e obbligato del protagonista si contrappongono quelli di divertimento degli spettatori della fiera e quelli di scherno dei lord, mentre un buffone – sia pure di corte, ruffiano e ambizioso – è anche l'antagonista, il crudele e intrigante Barkilfedro (Brandon Hurst). Notevole il ruolo di Homo, il cane di Ursus: è lui che nel finale, eroicamente, salva il nostro eroe e lo riunisce con l'amata Dea. Assai celebrata, all'epoca, la performance di Veidt, capace di veicolare ogni sorta di emozione (rabbia, timore, tristezza, orgoglio) con un largo ghigno perennemente stampato sul volto, dando vita a un personaggio pietoso, grottesco ed eroico al tempo stesso (da notare come, visivamente, il personaggio abbia ispirato il Joker, l'arcinemico di Batman). L'attore tedesco aveva sostituito la prima scelta Lon Chaney, già protagonista di altri due fortunati adattamenti delle opere di Hugo ("Il gobbo di Notre Dame" nel 1923 e "Il fantasma dell'opera" nel 1925). Prima di approdare a Hollywood su invito del produttore Carl Laemmle, il regista Paul Leni aveva girato in Germania importanti pellicole espressioniste, come "Il gabinetto delle figure di cera": morirà prematuramente nel 1929.

14 gennaio 2017

Pericolo in agguato (John Carpenter, 1978)

Pericolo in agguato, aka Procedura ossessiva (Someone's watching me!)
di John Carpenter – USA 1978
con Lauren Hutton, David Birney
**

Visto in divx.

Tv movie girato da Carpenter a inizio carriera: si tratta di un thriller non troppo originale, che come in “Halloween” – uscito lo stesso anno – presenta una ragazza in lotta contro un misterioso maniaco (siamo però lontani dal puro horror). Leigh, giovane giornalista, si trasferisce da New York a Los Angeles dopo una delusione sentimentale. Qui trova casa (in un modernissimo grattacielo con appartamenti "domotici") e lavoro (come regista in un network televisivo). Ma comincia a ricevere misteriosi regali e inquietanti telefonate da uno stalker sconosciuto, che intende portarla verso l'esaurimento nervoso e istigarne il suicidio... Il personaggio è ben costruito, l'antagonista rimane invisibile e impalbabile fino alla fine (proprio come in un altro celebre tv movie di quegli anni, “Duel” di Spielberg), ma la tensione non raggiunge mai il livello di guardia, anche perché la sceneggiatura – che si ispira in parte al voyeurismo de “La finestra sul cortile” o “La conversazione” – non osa più di tanto. La regia di Carpenter è solida e funzionale al racconto, ma la matrice televisiva impedisce anche esteticamente ogni salto di qualità. Piccola parte per Adrienne Barbeau (futura moglie del regista, nonché attrice in vari suoi film) nel ruolo dell'amica lesbica.

11 gennaio 2017

La croce di ferro (Sam Peckinpah, 1977)

La croce di ferro (Cross of Iron)
di Sam Peckinpah – GB/Germania 1977
con James Coburn, Maximilian Schell
***1/2

Rivisto in divx.

Sui titoli di testa, le note di una canzone per bambini ("Hänschen klein") – che ritornerà nel finale – accompagnano un montaggio di immagini di guerra e di propaganda nazista. Siamo nel 1943, in Crimea, sul fronte orientale della Seconda Guerra Mondiale. Fra i soldati tedeschi che a fatica tengono le posizioni contro i russi giunge il capitano Stransky (Schell), aristocratico prussiano che si è arruolato volontario perché intende guadagnarsi la "croce di ferro", importante onorificenza militare che darebbe lustro alla sua famiglia. Il suo atteggiamento ambizioso e arrogante si scontra subito con quello più cinico e pragmatico del caporale Steiner (Coburn), veterano indisciplinato ma benvoluto dai superiori e rispettato da tutti gli uomini del suo plotone, capace di compiere imprese eroiche pur detestando la guerra in ogni suo aspetto ("Odio tutti gli ufficiali... Odio questa uniforme e quello che rappresenta"). Dopo un sanguinoso assalto nemico, Stransky si attribuisce il merito di aver guidato il contrattacco che ha respinto i russi, ma la testimonianza di Steiner potrebbe smascherarlo: ecco perché, durante la ritirata tedesca dalla penisola di Taman, il capitano ordina ai propri uomini di sparare su Steiner e la sua pattuglia che, rimasta dietro le linee nemiche, tenta disperatamente di riunirsi al resto dell'esercito. Uno dei piu grandi film di guerra di tutti i tempi, e uno dei rari (fra quelli diretti da un regista americano) a mostrare il conflitto dal punto di vista dei tedeschi. Anche se non sono propriamente nazisti (non tutti i soldati della Wermacht condividevano le idee di Hitler), i protagonisti fanno comunque parte di un esercito "nemico", ed è dunque apprezzabile il tentativo di Peckinpah e dello sceneggiatore Julius J. Epstein (che ha adattato un romanzo di Willi Heinrich) di mostrarli come esseri umani in tutto e per tutto, con le loro paure, i pregi e i difetti. Inoltre, nonostante la violenza e il realismo delle scene di battaglia (girate in Croazia, dove erano disponibili armi e uniformi originali di tedeschi e sovietici, compresi autentici carri dell'Armata Rossa!), più che contro i russi il vero conflitto è quello interno, il che fa della pellicola una tragedia umana ben più universale rispetto al semplice contesto storico. Pur essendo l'unico film di guerra del regista, non è dunque così lontano dai lavori girati in precedenza (e in particolare da "Il mucchio selvaggio", del quale ripropone parecchi temi, dal cameratismo virile all'inevitabile pulsione verso la morte).

Come al solito Peckinpah venne accusato di compiacersi troppo nel mostrare la violenza della guerra: in realtà il suo è un film decisamente antibellico, che non abbellisce il conflitto né lo ammanta di eroismo. E mostrarne gli orrori in maniera così estesa e realistica era necessario per veicolare le emozioni e le passioni umane di fronte a una tale esperienza: si pensi anche ai personaggi del colonnello Brandt e del capitano Kiesel (magistralmente interpretati da James Mason e David Warner), tutt'altro che ufficiali assetati di sangue, con il primo che salva la vita al secondo, intellettuale a disagio in un mondo tanto violento, affinché sia in grado di "ricostruire" una nuova Germania. Il clima di disillusione, di consapevolezza della sconfitta imminente, della perdita degli ideali di un tempo e di accettazione dell'inevitabile violenza insita nella natura umana è testimoniato da diversi scambi di battute ("Cosa faremo quando avremo perso la guerra?" "Ci prepareremo per la prossima"), per non parlare di scene allucinate come quella della breve permanenza di Steiner nell'ospedale militare, che mostra tutti i traumi della guerra, quelli psicologici e quelli fisici (memorabile la scena in cui il soldato cui sono stati amputati gli arti deve "salutare" l'alto ufficiale in visita). L'uso del montaggio frammentato, dei ralenti e dei fermo immagine, da sempre marchio di fabbrica del regista, rende la pellicola estremamente efficace nel mettere in scena il dinamismo delle battaglie e, al tempo stesso, il lato umano dei personaggi. Eroe duro e pronto al sacrificio, Steiner mostra una forte sensibilità anche verso il nemico (come dimostrano gli episodi del ragazzino preso prigioniero o dell'incontro con il plotone di soldatesse russe), mentre Stransky è fondamentalmente un codardo più interessato al proprio tornaconto che a quello dell'esercito o del proprio paese. Entrambi però vanno collocati in un contesto talmente alienante in cui, se si vuole sopravvivere, è necessario mantenere un obiettivo e una parvenza di individualità. Il magnifico e sardonico finale aperto (curiosamente imposto a Peckinpah dalla produzione, che gli aveva tagliato i fondi e spingeva affinché concludesse al più presto le riprese), in cui Steiner e Stransky si lanciano fianco a fianco contro i nemici (con la prolungata risata del primo sui titoli di coda), dimostra se non altro che i due sono indissolubilmente legati dallo stesso destino. Peccato che sia stato in parte vanificato dall'esistenza di un sequel, "Specchio per le allodole" (Breakthrough), uscito due anni più tardi, dove Richard Burton ed Helmut Griem vestono rispettivamente i ruoli di Steiner e Stransky (non l'ho visto, ma pare che non sia all'altezza del prototipo). Nel cast anche Igor Galo (Meyer), Roger Fritz (Triebig, il tenente gay) e Senta Berger (l'infermiera). Curiosità: qualche anno dopo la sua uscita in Italia, Andrea Pazienza ne disegnò una locandina.

9 gennaio 2017

Love exposure (Sion Sono, 2008)

Love exposure (Ai no mukidashi)
di Sion Sono – Giappone 2008
con Takahiro Nishijima, Hikari Mitsushima, Sakura Ando
***1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Vero amore e religione, perversione e spiritualità, alienazione e famiglie disfunzionali in un film-monstre di ben quattro ore: ma la lunghezza è in realtà uno dei suoi pregi, visto che sembra di assistere a un serial televisivo che, episodio dopo episodio, approfondisce sempre più i personaggi principali, consentendo al pubblico di affezionarsi e "vivere" al loro fianco. E paradossalmente, nonostante la durata mastodontica (ma il ritmo e l'attenzione non calano mai) e la vastità dei temi trattati, è forse uno dei film di Sono più accessibili e meno "estremi" (relativamente parlando), almeno fra quelli che ho visto finora. Forse addirittura il suo capolavoro. Anche se il regista giapponese – come sempre – non sembra porre limiti o freni inibitori alla propria visione, gli eccessi e le esagerazioni risultano funzionali ai contenuti e l'immenso senso di libertà (dai generi e dalle convenzioni, ma non solo) che si respira a pieni polmoni contagia progressivamente anche lo spettatore. La trama è ovviamente assai lunga, e anche riassumendone solo i punti essenziali le si fa un torto (è un film che deve essere visto, non raccontato!). Comunque: il giovane Yu (Takahiro Nishijima), cresciuto in una famiglia cattolica, si scopre trascurato dal padre (che dopo la morte della moglie è stato ordinato prete), e per riconquistare il suo affetto comincia a commettere "peccati" di ogni genere in modo da poterglieli confessare. In particolare, diventa esperto nell'arte del tosatsu, ovvero la fotografia voyeuristica delle mutandine sotto le gonne delle ragazze. Nel frattempo, è alla ricerca della sua "Maria", ovvero l'unica ragazza di cui potrà innamorarsi. La troverà in Yoko (Hikari Mitsushima), teenager ribelle che odia tutti gli uomini ("tranne Gesù Cristo e Kurt Cobain"). Avendola salvata da un agguato mentre, per una scommessa, vestiva i panni della vendicatrice mascherata Sasori (mantello nero, occhialoni e cappello a falde larghe: un personaggio reso celebre dell'attrice Meiko Kaji in una serie di film degli anni settanta), Yu si rende conto di poterla corteggiare soltanto sotto quella falsa identità. Anche perché sta per diventare suo fratello, visto che suo padre intende lasciare la tonaca per sposare Kaori, la madre adottiva di Yoko. E qui si inserisce la terza protagonista, la misteriosa Aya Koike (Sakura Ando), manipolatrice biancovestita con un violento passato, che si occupa di reclutare nuovi membri per conto di una setta religiosa, la Chiesa Zero. Aya si interessa a Yu e alla sua famiglia non solo perché, in quanto cristiani, sono "prede" particolarmente allettanti: la ragazza vede in Yu una copia di sé stessa, essendo lui ossessionato, proprio come lei, dal "peccato originale". Con questo, credeteci o meno, arriviamo giusto ai titoli di testa, che giungono dopo la prima ora di pellicola!

Ondeggiando fra la commedia romantica e il coming of age esistenziale, il melodramma religioso e il cartoon demenziale, "Love exposure" è un film che spiazza in continuazione. Come tutti i lavori di Sono ha tanti pregi quanti difetti, che però sono perdonabili vista la genialità del regista e il suo bisogno di andare oltre i limiti pur di raccontare i temi che gli stanno a cuore: il legame fra l'individuo e la società, la rottura del cordone ombelicale con la famiglia – spesso descritta in termini negativi – e la conquista di un proprio posto nel mondo, che sia attraverso l'amore, il lavoro o la religione. E a proposito di quest'ultima, che nella pellicola gioca un ruolo fondamentale, ne vediamo sia gli aspetti più puri e spirituali (significativo che sia stato scelto il cristianesimo, che in Giappone è in fondo professato da una minoranza; ma il tema del peccato era strettamente necessario) che quelli socialmente patologici o distorti (la setta di Aya, che fa il lavaggio del cervello ai suoi adepti). I temi "alti" (l'amore, la purezza, la redenzione) vengono affiancati da quelli "bassi" (la perversione, la pornografia, la violenza), affrontati però non con intenti moralistici ma anzi con un approccio liberatorio e lontano da ogni ipocrisia, accompagnato da un'ironia da cinema trash o di exploitation (si pensi alle imprese "acrobatiche" di Yu per scattare foto sotto le gonne delle ragazze: sembra di vedere in azione Ataru Moroboshi!). E la nonchalance con cui si passa da sequenze esageratamente violente o gore (il flashback sulla gioventù di Aya, l'irruzione di Yu nella sede della setta) ad altre demenzialmente erotiche – le erezioni di Yu – o comiche (che sembrano uscire da un manga hentai), da situazioni intensamente romantiche o tragicamente liriche ad altre assolutamente improbabili e irreali, rivela tutto il talento cinematografico di un regista che, anche quando cerca di contenere alcuni dei suoi eccessi, è semplicemente incapace di fare film "normali" e che passino inosservati. Magistrale come sempre l'uso della colonna sonora: oltre ai brani composti appositamente da Tomohide Harada e alle canzoni del gruppo Yura Yura Teikoku, Sono ricorre con grande efficacia alla musica classica, in particolare al Bolero di Ravel (che accompagna la decisione di Yu di diventare esperto di tosatsu e tutto il suo "addestramento"), all'Allegretto della settima sinfonia di Beethoven (nella scena sulla spiaggia in cui Yoko recita il capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi) e all'Adagio della terza sinfonia di Saint-Saens (nella sequenza dell'incontro fra Yoko e Yu/Sasori all'ospedale psichiatrico). Ottimi i tre giovani protagonisti. Nel cast anche Makiko Watanabe (Kaori) e Atsuro Watabe (il padre di Yu). Il musicista Hiroshi Oguchi è Lloyd, il maestro di tosatsu.

8 gennaio 2017

Il viaggio a Niklashausen (Fassbinder, Fengler, 1970)

Il viaggio a Niklashausen (Niklashauser Fart)
di Rainer Werner Fassbinder, Michael Fengler – Germania 1970
con Michael König, Hanna Schygulla
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Un pastore (König), che afferma di aver ricevuto la visita della vergine Maria, predica idee marxiste e rivoluzionarie presso la città di Niklashausen, in Franconia, sobillando i contadini a ribellarsi alle autorità costituite per dar vita a un nuovo ordine sociale basato sull'uguaglianza e la ridistribuzione del lavoro e delle risorse. Una ricca nobildonna (Margit Carstensen), invaghita di lui, lo ospiterà nella sua casa. Ma insieme ai suoi compagni (fra i quali Fassbinder stesso, la Schygulla, Michael Gordon e Günther Kaufmann), finirà sul rogo. Ambientato in un'epoca indefinita, un misto fra il medioevo (la pellicola è ispirata alla storia vera di Hans Böhm, rivoluzionario del 1400) e i giorni nostri, un film per la tv – codiretto da Fassbinder e Fengler, che già avevano lavorato insieme in "Perché il signor R. è diventato matto?", e interpretato dal gruppo dell'Antiteater – che si propone di raccontare "come e perché fallisce una rivoluzione". I dialoghi parlano di politica, economia e giustizia sociale in chiave moderna, mentre i personaggi e le ambientazioni sembrano provenire da epoche differenti: l'insieme pare anticipare la versione filmata di "Jesus Christ Superstar" (si pensi anche alla dimora del vescovo lascivo, interpretato da Kurt Raab, che ricorda l'Erode del musical) e al tempo stesso ricorda certe cose di Godard (come "Week-end"), anche per l'approccio astratto e simbolico. La regia alterna sequenze statiche e di impostazione teatrale (come tutte quelle in cui, nella prima parte, si discetta delle teorie rivoluzionarie: un dibattito figlio degli anni in cui il film è uscito) ad altre ben più ariose e con ampi movimenti di macchina (come quella, nel finale, che mostra la guerriglia e lo scontro armato fra i ribelli e l'esercito). Nel collage di stili e ambientazioni (Hans e i suoi compagni sono crocifissi e bruciati in un cimitero di auto; a metà film, una lunga jam session musicale ha quasi un effetto ipnotico), freddo e non sempre convincente, risalta il parallelo fra arte e rivoluzione: quest'ultima, nelle parole dello stesso Fassbinder, va "messa in scena" per "ottenere un effetto teatrale". E se RWF ne è il regista, Hanna Schygulla ne è l'interprete (prova la sua parte davanti allo specchio, prima di recitare nei panni della Madonna).

7 gennaio 2017

Buckaroo Banzai (W. D. Richter, 1984)

Le avventure di Buckaroo Banzai nella quarta dimensione
(The adventures of Buckaroo Banzai across the 8th dimension)
di W. D. Richter – USA 1984
con Peter Weller, John Lithgow
*1/2

Visto in divx.

Buckaroo Banzai, di padre americano e madre giapponese, è un brillante neurochirurgo, fisico nucleare, musicista rock ed eroe a tempo perso, che con i suoi compagni ("i Cavalieri di Hong Kong") salva il mondo da minacce aliene. Durante una prova di velocità nel deserto con un veicolo dotato di un "propulsore di oscillazione", scopre l'esistenza di un universo extradimensionale all'interno della materia, dove gli abitanti del Pianeta 10 (i "Lettroidi") rinchiudono i loro criminali. E dovrà impegnarsi per porre fine alla minaccia di un gruppo di questi. Il primo dei due soli film diretti da Richter, più noto come sceneggiatore che come regista (suoi gli script di "Terrore dallo spazio profondo" e "Grosso guaio a Chinatown"), è uno scalcinato guazzabuglio che guarda ai fumetti e alla letteratura pulp degli anni trenta (Doc Savage), alla fantascienza degli anni cinquanta ("L'invasione degli ultracorpi", appunto), e al mix di musica e azione degli anni ottanta, anticipando temi di "Men in Black" e di "Essi vivono" (senza però i sottotesti politici o sociali di quest'ultimo). Fra personaggi con caratterizzazione basilare e superficiale – a partire dal protagonista – e tanta technobabble fine a sé stessa, è difficile lasciarsi coinvolgere più di tanto da un film che sembra aver divertito soprattutto i suoi realizzatori (ed è comunque indispensabile stare al gioco e non prendere nulla sul serio). Banzai è un eroe perfetto e dai mille talenti, una celebrità nel suo mondo (protagonista anche di una serie a fumetti), con amici e alleati ovunque, meglio se bizzarri e variopinti (scienziati musicisti o che vestono da cowboy), mentre i suoi nemici sono mostri mutaforma pazzi e criminali. La trama tira in ballo (alla rinfusa) i "marziani" di Orson Welles, scienziati italiani degli anni trenta (con venature fasciste), extraterrestri buoni ("negri") e cattivi ("rossi") che si chiamano tutti John, e misteriose donzelle con tendenze suicide. Nonostante il buon cast (Ellen Barkin, Jeff Goldblum, Christopher Lloyd fra gli altri), complessivamente però sprecato, e alcune indovinate gag nonsense (l'anguria, la dichiarazione di guerra in forma breve), rimane un B-movie per nostalgici del cinema fantastico a basso budget degli anni ottanta. Il titolo italiano, chissà perché, parla di "quarta dimensione" anziché di "ottava" (come recita correttamente il doppiaggio: non che tale numero venga poi spiegato o motivato in qualche modo).

5 gennaio 2017

Pietà per i giusti (William Wyler, 1951)

Pietà per i giusti (Detective story)
di William Wyler – USA 1951
con Kirk Douglas, Eleanor Parker
***1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Una sera, in una stazione di polizia a New York, diversi casi umani si intrecciano in modo drammatico. Una ladruncola (Lee Grant), arrestata per aver rubato una borsa, e un giovane (William Reynolds) che ha derubato il proprio datore di lavoro sono in attesa di essere schedati, così come una coppia di rapinatori incalliti (Joseph Wiseman e Michael Strong) che si accusano a vicenda: ma il caso più scottante è quello di un medico, il dottor Karl Schneider (George Macready), accusato di praticare aborti clandestini, che il detective Jim McLeod (Kirk Douglas) cerca di incastrare da diverso tempo. Schneider si costituisce, accompagnato dal suo avvocato (Warner Anderson), certo che McLeod non abbia prove contro di lui (e in effetti, i testimoni che il detective aveva rintracciato si tirano indietro). Peggio ancora, l'avvocato insinua che l'uomo abbia motivi personali per perseguitare il dottore: e infatti verrà fuori che la moglie di McLeod, Mary (Eleanor Parker), in passato si era rivolta proprio al medico... Tratto da un dramma teatrale di Sidney Kingsley (ma la sceneggiatura di Robert Wyler – fratello del regista – e di Philip Yordan è abile a spogliare il film di ogni "teatralità", se si eccettua il fatto che è praticamente ambientato tutto fra quattro mura), un noir stratificato e complesso sui temi della giustizia, della vendetta, dell'odio e del perdono, con un gruppo di personaggi indimenticabili, tratteggiati magnificamente dal ricco cast. La struttura è corale ma c'è comunque un protagonista, anche se per nulla simpatetico, pieno di difetti e di ombre (è il tipico "poliziotto cattivo", mentre quello "buono" è il suo collega Lou Brody, interpretato da William Bendix), inflessibile e dai modi spicci, ossessionato da una cieca intransigenza (motivata in realtà dall'odio per il padre, più che da un innato senso di giustizia). Intensissima, in particolare, la scena del confronto con la moglie. La pellicola ebbe qualche problema con la censura: all'epoca il codice Hays proibiva di mostrare sullo schermo l'omicidio di un poliziotto (e proprio questo film contribuì a modificare la regola, consentendo di mostrare scene di questo tipo "se necessarie per la trama"), nonché di fare riferimento all'aborto (ed ecco perché, nei dialoghi, sembra che il dottor Schneider si occupi "semplicemente" di parti clandestini). Il cast è completato da Horace McMahon (il capo del distretto), Cathy O'Donnell (la ragazza innamorata del giovane ladro), e ancora Gladys George, James Maloney, Gerald Mohr, Frank Faylen. Tanto Lee Grant che Joseph Wiseman erano al loro debutto sullo schermo: la Grant, nel ruolo della ladra, vinse addirittura il premio come miglior attrice non protagonista al Festival di Cannes, ma finì sulla lista nera del maccartismo (per aver rifiutato di testimoniare davanti alle commissioni) e non trovò più parti di rilievo per i successivi dodici anni.

4 gennaio 2017

Carne (Gaspar Noé, 1991)

Carne (id.)
di Gaspar Noé – Francia 1991
con Philippe Nahon, Blandine Lenoir
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Nella Parigi degli anni settanta, un macellaio equino si ritrova ad allevare da solo la figlia Cynthia (la moglie è fuggita di casa poco dopo la sua nascita). Quando la bambina compie quattordici anni, viene violentata da un operaio: per vendicarla, il padre aggredisce l'uomo sbagliato e finisce in prigione. Uscito di galera, sarà costretto (controvoglia) a rifarsi una vita... Il primo mediometraggio di Noé (dopo due corti) è uno spaccato esistenzialista più interessante per lo stile con cui è girato – in particolare per la fotografia e l'utilizzo del montaggio (anche sonoro) – che non per il soggetto, anche se i personaggi sono ben caratterizzati con pochissimi tocchi (la barista grassona, la figlia muta, e soprattutto il protagonista, che comunica i suoi pensieri allo spettatore tramite il voice-over). Non mancano alcune immagini provocatoriamente "scioccanti", come l'uccisione di un cavallo nel mattatoio e la nascita di Cynthia mostrata in diretta. Il personaggio del macellaio, sempre interpretato da Philippe Nahon, tornerà come protagonista nel primo lungometraggio di Noè, "Seul contre tous", oltre a fare un cameo nel secondo, "Irreversible".