31 marzo 2021

Captain Marvel (A. Boden, R. Fleck, 2019)

Captain Marvel (id.)
di Anna Boden, Ryan Fleck – USA 2019
con Brie Larson, Samuel L. Jackson
*1/2

Visto in divx.

Addestrata come guerriera dai Kree, razza di alieni avanzatissimi tecnologicamente, la bionda Carol Danvers (Brie Larson) è in realtà un'aviatrice terrestre che sei anni prima aveva perso la memoria dopo aver assorbito l'energia di un reattore sperimentale che le ha donato incredibili superpoteri. Inviata da Hala, capitale dell'impero Kree, in missione sulla Terra, Carol scoprirà la verità su sé stessa e che tutto ciò che il suo istruttore, Yon-Rogg (Jude Law), le ha sempre fatto credere è falso. Il primo film dell'Universo Cinematico Marvel con una protagonista femminile (ma non il primo film Marvel in assoluto con questa caratteristica, basti ricordare "Elektra") utilizza un personaggio minore della Casa delle Idee, per di più non l'unico con questo nome (il primo Capitan Marvel, Mar-Vell, appare nel film in versione femminile, mentre la seconda, Monica Rambeau, è introdotta da bambina: lo stesso nome Capitan Marvel, peraltro, era già stato usato dall'eroe Fawcett/DC oggi noto come Shazam, prima che la Marvel se ne impossessasse per ovvi motivi). In effetti nei fumetti Carol Danvers ha una storia molto lunga e travagliata alle spalle, essendo nata come semplice comprimaria nella serie del suddetto Mar-Vell, attraversando poi varie fasi e diverse incarnazioni come Miss Marvel, Binary, Warbird. Ambientato nel 1995 (cosa sottolineata allo sfinimento dalle tante citazioni pop e "culturali": Blockbuster, Altavista, i videogiochi arcade), il film si svolge prima di tutte le altre pellicole del MCU, consentendo dunque di raccontare le "origini" di Nick Fury (un Samuel L. Jackson ringiovanito digitalmente di 25 anni e qui comprimario di lusso) quando non era ancora a capo dello S.H.I.E.L.D. Introduce inoltre temi fantascientifici come la guerra fra i Kree e gli Skrull, razza aliena di mutaforma che, a sorpresa, si scoprono non essere cattivi come nei comics, in un twist a metà pellicola che gioca con le aspettative dello spettatore che conosce già i fumetti (in maniera non dissimile da quanto fatto col Mandarino in "Iron Man 3"). Peccato che la trama sia in gran parte piatta, le scene d'azione generiche e noiose, la gag autoreferenziali o forzate (vedi la ragione per la quale Fury ha perso l'occhio), gli aspetti tecnico-fantascientifici incoerenti (i poteri energetici di CM si basano sui fotoni?) e i temi triti e ritriti (l'ingiustizia della guerra, il contrasto fra l'affidarsi alle proprie emozioni – che ci rendono "umani" – e il seguire ciecamente gli ordini o l'addestramento, e naturalmente il velato messaggio femminista sulla donna che non si arrende di fronte alle difficoltà e si rialza sempre). Nel cast anche Ben Mendelsohn (lo Skrull Talos), Annette Bening (il dottor Lawson, scienziata che lavora al Progetto Pegasus), Lashana Lynch (Maria Rambeau, amica di Carol e madre della suddetta Monica) e Gemma Chan (Minn-Erva, membro della Starforce dei Kree). Clark Gregg (anche lui ringiovanito digitalmente), Lee Pace e Djimon Hounsou tornano rispettivamente nei ruoli dell'agente Phil Coulson, di Ronan l'Accusatore e di Korath (questi ultimi due si erano già visti in "Guardiani della Galassia"). Cameo nella metropolitana di Stan Lee (morto prima dell'uscita del film, e al quale è dedicata la title card). Fra i meta-rimandi ad altri film del MCU c'è la spiegazione di come Fury è entrato in possesso del Tesseract (il cubo cosmico visto in "Thor" e "Avengers") e ovviamente la scena nei titoli di coda, che si colloca fra "Avengers: Infinity War" ed "Endgame" e mostra il ritorno di Carol sulla Terra. Come già accaduto per i film di Captain America, il titolo mantiene la grafia inglese anche nel nostro paese ("Captain" anziché "Capitan") per motivi di marketing. Mediocre il doppiaggio italiano.

30 marzo 2021

Non sono più qui (Fernando Frías, 2019)

Non sono più qui (Ya no estoy aquí)
di Fernando Frías de la Parra – Messico 2019
con Juan Daniel Garcia Treviño, Angelina Chen
***

Visto in TV (Netflix), in originale con sottotitoli.

Il diciassettenne Ulises (Garcia) è il leader dei "Terkos" di Monterrey, banda di ragazzi di strada appassionati di cumbia, danza tipica latinoamericana su ritmi e musiche che vengono ascoltate e ballate in versione appositamente "rallentata". Coinvolto casualmente in una faida fra trafficanti rivali di droga, è costretto a fuggire dal Messico per emigrare clandestinamente negli Stati Uniti, a New York. Qui però, nonostante l'amicizia con la giovane cinese Lin (Chen), faticherà ad adattarsi a un nuovo stile di vita. Anche perché, nonostante le molte difficoltà, non intende rinunciare alla propria cultura. Raccontato in maniera non lineare (le scene a New York si alternano con quelle, presentate in flashback, della vita precedente di Ulises in Messico), un film che si dipana lento ma caldo e immergente, gettando uno sguardo su una particolare controcultura, chiamata "Kolombia", quella appunto della cumbia rebajada, vero e proprio simbolo di identità e di gruppo (i ragazzi, oltre a ballare, hanno gesti, segni e simboli che li identificano, per non parlare dell'abbigliamento e delle acconciature eccentriche come quelle che Ulises sfoggia con orgoglio anche a New York). Siamo di fronte a una sorta di (neo)realismo di strada, dove il contesto è quasi più importante della storia e dei personaggi, e dove l'autodeterminazione e l'identità sono messe a dura prova dalle difficoltà sociali ed economiche, tanto in patria (i cartelli della droga, la violenza e le rivolte contro la polizia) quanto in esilio (i problemi di integrazione, l'indifferenza o l'ostilità verso gli immigrati). In poche parole, è uno di quei film immersivi che "apre un mondo". Molto bello anche il rapporto fra il giovane messicano e la sedicenne cinese, che parlano lingue diverse senza capirsi ma che in qualche modo entrano in contatto fra loro attraverso gli sguardi, la musica e il ballo. Gli attori sono quasi tutti non professionisti, scelti fra veri ragazzi messicani dediti alla cumbia.

29 marzo 2021

Marlowe, il poliziotto privato (D. Richards, 1975)

Marlowe, il poliziotto privato (Farewell, My Lovely)
di Dick Richards – USA 1975
con Robert Mitchum, Charlotte Rampling
**1/2

Visto in TV (Prime Video).

Il detective privato Philip Marlowe (Robert Mitchum) viene incaricato dall'energumeno Moose Malloy (Jack O'Halloran), appena uscito di prigione, di rintracciare la sua ragazza di un tempo, Velma Valento, misteriosamente scomparsa. E nel corso delle indagini scoprirà che lo stesso Moose è oggetto di una caccia all'uomo... Secondo adattamento cinematografico (dopo "L'ombra del passato" di Edward Dmytryk) del romanzo "Addio, mia amata" di Raymond Chandler. L'ottimo cast (con Charlotte Rampling, Sylvia Miles, John Ireland, John O'Leary, Harry Dean Stanton, Anthony Zerbe, Walter McGinn e persino un giovane Sylvester Stallone) e una regia anonima ma professionale sono al servizio di una storia apparentemente ingarbugliata, ma in cui alla fine tutti i nodi vengono sciolti. Il valore aggiunto comunque è Mitchum, che dona al personaggio notevoli sfumature (il senso dell'umorismo, con la battuta sempre pronta, ma anche una dose di fatalità e di cinismo amplificata dall'età). La bella atmosfera (la Los Angeles degli anni Quaranta, mentre Joe DiMaggio batte ogni record nel baseball e dall'Europa giungono venti di guerra), i costumi e la musica fanno il resto. Mitchum tornerà nei panni del personaggio anche nel successivo "Marlowe indaga" del 1978, il che lo rende l'unico attore ad aver interpretato il ruolo due volte.

28 marzo 2021

RocknRolla (Guy Ritchie, 2008)

RocknRolla (id.)
di Guy Ritchie – GB 2008
con Gerard Butler, Tom Wilkinson
**1/2

Visto in TV (Netflix), con Sabrina.

One-Two (Gerard Butler), Mumbles (Idris Elba) e Bob il bello (Tom Hardy), piccola banda di criminali londinesi, rubano a più riprese – grazie alla complicità della contabile Stella (Thandie Newton) – il denaro che il mafioso russo Yuri (Karel Roden) dovrebbe consegnare al gangster Lenny (Tom Wilkinson) per "ungere" i politici locali e ottenere così i permessi per una grande speculazione edilizia (i riferimenti sono a oligarchi come Roman Abramovich, da qualche anno proprietario del Chelsea: non a caso le riunioni d'affari di Yuri avvengono nei salottini di uno stadio di calcio). Questo complica la vita a Lenny, che Yuri sospetta di essere implicato nei furti, già nei guai perché il russo gli ha prestato un prezioso dipinto "portafortuna" che a sua volta gli è stato sottratto dal figliastro Johnny (Toby Kebbell), rocker ribelle e tossicodipendente... L'intera vicenda ci viene narrata da Archy (Mark Strong), braccio destro tuttofare di Lenny. Con una miriade di personaggi, sottotrame intrecciate e fazioni di vario genere in contrasto fra di loro, Guy Ritchie torna ai canovacci che lo hanno reso celebre (come in "Lock & Stock" e "Snatch"), ovvero storie improbabili e semi-comiche di criminali di diversa estrazione, da delinquenti di piccolo calibro a gangster inseriti nella società, da sicari armati a sbandati improvvisati, fornendo un concitato ritratto di un sottobosco di malviventi dominato da amicizie e tradimenti, regole non scritte e relazioni che corrono sul filo. Nonostante la densità di eventi (o forse proprio per questo), a tratti si ha la sensazione che si improvvisi man mano che si va avanti. Non mancano comunque bei momenti (il rapporto fra i tre ladri, in particolare dopo la rivelazione che uno di loro è gay; quello fra Johnny e il padre; la sottotrama sul misterioso "informatore" che si annida nella malavita) e alcune indovinate scene d'azione (tutta la sequenza della rapina ai danni dei due sicari russi), ma anche svolte forzate e improbabili. Curiosità: il dipinto ambito da tutti non si vede mai (è un MacGuffin, come il contenuto della valigetta di "Pulp Fiction"). Piccoli ruoli per Jeremy Piven e Gemma Arterton. Prima dei titoli di coda, una scritta annuncia che i personaggi sopravvissuti torneranno in un seguito che non è mai stato realizzato (l'intenzione di Ritchie era quella di filmare una trilogia, con Jason Statham pronto a subentrare come nuovo antagonista).

27 marzo 2021

L’orologiaio di Saint-Paul (B. Tavernier, 1974)

L’orologiaio di Saint-Paul (L'horloger de Saint-Paul)
di Bertrand Tavernier – Francia 1974
con Philippe Noiret, Jean Rochefort
***

Visto in divx, per ricordare Bertrand Tavernier.

Michel Descombes (Noiret), orologiaio nel quartiere Saint-Paul di Lione e vedovo con un figlio adolescente, è un tranquillo e onesto lavoratore. Ma la sua vita viene scossa quando il commissario di polizia Guilboud (Rochefort) gli comunica che il figlio Bernard ha ucciso un uomo. All'oscuro completamente dei motivi e dei retroscena del delitto (di stampo politico, visto che la vittima era un picchiatore fascista? per vendetta? o per una questione amorosa, dato che è coinvolta anche una ragazza?), l'uomo si rende conto della distanza che lo ha sempre tenuto lontano dal ragazzo: ma proprio questa disgrazia contribuirà a farli riavvicinare. Il primo lungometraggio di Tavernier (che in precedenza aveva diretto due brevi segmenti all'interno di altrettanti film a episodi) è tratto da un romanzo di Georges Simenon, "L'orologiaio di Everton", di cui il regista sposta l'ambientazione nella propria città natale e, insieme ai co-sceneggiatori Jean Aurenche e Pierre Bost, fonde i temi esistenziali con riferimenti all'attualità socio-politica della Francia (le elezioni, gli scioperi, i media, la contestazione giovanile, gli scontri fra destra e sinistra). La grande qualità della pellicola, magistralmente interpretata, risiede nel naturalismo ("Non è come in un film", dice più volte il commissario) e nell'umanità con cui si ritraggono personaggi che appaiono vivi e reali anche di fronte a un mistero insolubile (non verremo mai a conoscenza delle reali motivazioni del delitto di Bernard: come in un orologio, i meccanismi in moto all'interno non sono visibili). Si parte da uno scarto generazionale ("Che cosa gli avremmo fatto a questi ragazzi?" commenta ancora il commissario, anche lui padre di un figlio che non comprende) per terminare con un relativo lieto fine, quello di una nuova intesa fra padre e figlio all'insegna del reciproco rispetto e della fiducia. La pellicola ebbe una lunga gestazione, e Tavernier trovò infine i finanziamenti necessari grazie anche all'interessamento dello stesso Noiret, ma riscosse poi un ottimo successo di pubblico e di critica (vinse l'Orso d'argento a Berlino). Musiche di Philippe Sarde. Curiosità: in una scena i personaggi parlano del film "La grande abbuffata", interpretato l'anno prima proprio da Noiret.

26 marzo 2021

Squadra omicidi, sparate a vista! (D. Siegel, 1968)

Squadra omicidi, sparate a vista! (Madigan)
di Don Siegel – USA 1968
con Richard Widmark, Henry Fonda
**

Visto in TV (Now Tv).

Le storie di alcuni agenti di un distretto investigativo di New York si intrecciano nell'arco di tre giorni (dal venerdì alla domenica). I detective Madigan (Richard Widmark) e Bonaro (Harry Guardino) si lasciano sfuggire un sospetto accusato di omicidio (Steve Ihnat), che sottrae loro anche le pistole, e si danno da fare per rintracciarlo. Il capo della polizia Tony Russell (Henry Fonda) è amareggiato perché un'intercettazione telefonica mette in dubbio l'onestà del suo braccio destro e amico di sempre (James Whitmore). Il caso di un giovane di colore incriminato ingiustamente, figlio di un medico (Raymond St. Jacques), getta un'ombra di razzismo sugli uomini del distretto. In più, la sceneggiatura (di Abraham Polonsky e Howard Rodman, tratta da un romanzo di Richard Dougherty) segue i vari agenti non solo durante il lavoro ma anche nella vita privata (più o meno virtuosa), mostrandone gli amori, le amicizie, le difficoltà coniugali, i rapporti con il sottobosco criminale e i vari informatori, la costante tensione fra lo stare dalla parte giusta e il piegare le regole quando conviene. Buona l'idea (che darà vita anche a una breve serie televisiva nel 1972, sempre con Widmark) e apprezzabile il tentativo di uscire dai cliché dei generi polizieschi e noir, ma le troppe divagazioni fanno calare a tratti l'interesse di uno spettatore che, "catturato" all'inizio con la sequenza della fuga del criminale, avrebbe forse preferito che il film si concentrasse solo su quello. Nel cast anche Inger Stevens (la moglie di Madigan), Susan Clark, Don Stroud. Pare che sul set il produttore Frank Rosenberg si scontrò a più riprese con il regista Don Siegel.

25 marzo 2021

Ma Rainey's Black Bottom (G. C. Wolfe, 2020)

Ma Rainey's Black Bottom (id.)
di George C. Wolfe – USA 2020
con Chadwick Boseman, Viola Davis
**1/2

Visto in TV (Netflix).

Nella Chicago del 1927, quattro musicisti di colore attendono l'arrivo della cantante Ma Rainey (Viola Davis), detta la "madre del blues", per una sessione di registrazione prima di una tournée. Fra di loro c'è il giovane e ambizioso trombettista Levee (Chadwick Boseman), che sogna di scrivere le proprie canzoni e di mettere in piedi una band. Ma dovrà scontrarsi non solo con i colleghi più veterani e realisti e con la personalità strabordante di Ma, primadonna che intende sfruttare fino in fondo i privilegi ottenuti col proprio successo (ben consapevole che i produttori sono interessati solo ai profitti che la sua voce garantisce), ma soprattutto con un mondo ancora in preda a ingiustizie e iniquità legate al colore della pelle, fonte in lui di traumi, rabbia e frustrazione. Anche se si parla en passant di arte, lavoro o religione, infatti, il vero tema è quello razziale, trend topic di particolare peso in tempi di movimento BLM (Black Lives Matter). Di evidente origine teatrale (il dramma di August Wilson si svolge praticamente in tempo reale, in due soli ambienti – la sala di registrazione e lo scantinato sottostante – e con una manciata di attori), ma col valore aggiunto della bella e calda fotografia, un film dove tutto collima verso un tragico (ma non inaspettato) finale. Bravi gli attori: Glynn Turman, Colman Domingo e Michael Potts sono gli altri tre musicisti, più anziani di Levee; Dusan Brown (il nipote balbuziente Sylvester) e Taylour Paige (la "ragazza") sono l'entourage di Ma Rainey; i bianchi Jeremy Shamos e Jonny Coyne sono rispettivamente il manager e il produttore discografico. Ma a sorprendere è soprattutto Boseman, al suo ultimo film (è morto di tumore durante la post-produzione) e decisamente più convincente qui, in un film su piccola scala ma intenso, che nello spettacolone "Black Panther". Cinque nomination agli Oscar: per Boseman (probabilmente il favorito per la statuetta, visti anche i precedenti di Peter Finch e Heath Ledger), Davis, la scenografia, i costumi e il trucco. Il titolo è quello di una delle canzoni del repertorio di Ma Rainey, alcune vere foto della quale (con la sua band) scorrono sui titoli di coda.

24 marzo 2021

Face/Off (John Woo, 1997)

Face/Off - Due facce di un assassino (Face/Off)
di John Woo – USA 1997
con John Travolta, Nicolas Cage
***

Rivisto in DVD.

L'agente speciale dell'FBI Sean Archer (John Travolta) ha un conto in sospeso con il terrorista mercenario Castor Troy (Nicolas Cage), maniaco psicopatico al quale dà la caccia incessantemente sin da quando questi, sei anni prima, ha ucciso il suo figlioletto Tommy. Dopo averlo finalmente catturato, Sean è costretto ad assumere in segreto le fattezze del suo nemico grazie a un'innovativa procedura che sostituisce chirurgicamente al suo volto quello di Troy: l'obiettivo è introdursi nel carcere criminale dove è rinchiuso il fratello di Castor, Pollux (Alessandro Nivola), e scoprire da lui dove si trova la bomba che i due avevano collocato nel centro di Los Angeles. Ma nel frattempo Castor si risveglia dal coma, costringe i chirurgi a impiantargli il volto di Archer e uccide tutti coloro che sono a conoscenza dello scambio. I due rivali si troveranno così ad affrontarsi l'uno dei panni dell'altro, all'insaputa di avversari e alleati (compresi moglie e figlia di Sean, nella cui casa Troy si è intrufolato)... Di gran lunga il miglior film di John Woo a Hollywood, anche perché può contare finalmente su una storia originale e interessante (lo script è di Mike Werb e Micheal Colleary), per quanto piena di risvolti improbabili. In effetti la sceneggiatura era stata inizialmente pensata per un film di fantascienza: Woo volle invece ambientare la storia ai giorni nostri per focalizzarsi di più su scene d'azione adrenaliniche ed esagerate sì, ma "realistiche" (non ci sono effetti speciali digitali), il che va a discapito della plausibilità della vicenda. Bisogna infatti fare ricorso a una robusta dose di sospensione dell'incredulità per accettare che possa esistere una tecnica chirurgica in grado di scambiare in maniera rapida e reversibile non solo i volti ma anche le fattezze (dalla corporatura alla voce) di due persone in modo tale da ingannare tutti coloro che le conoscono: ma se si riesce a non pensarci troppo, ci si può godere un action movie tesissimo e stratificato, basato sul classico tema della battaglia fra bene e male (impersonati qui da due personaggi agli antipodi sotto ogni punto di vista, ma che proprio per questo finiscono col fondersi e confondersi fra loro: simbolica la scena in cui si sparano a vicenda dai due lati di uno specchio).

La regia di Woo mette in mostra tutti i suoi punti di forza – l'eleganza e l'enfasi, con ralenti e coreografie esemplari non solo nelle sequenze d'azione ma anche nei momenti minori (vedi l'istante in cui Cage esce dall'auto all'aeroporto, con il vento che gli solleva lo spolverino: un'entrata in scena davvero cool!), la capacità di mediare fra melodramma ed heroic bloodshed – e i suoi marchi di fabbrica (le immancabili colombe che volano in chiesa, una citazione da "The killer", così come le sparatorie con due pistole, i mexican standoff, gli abiti eleganti di eroi e criminali, l'inseguimento in motoscafo). L'origine fantascientifica della storia è evidente anche nella sequenza ambientata in carcere (con gli stivali magnetici per "bloccare" i prigionieri violenti). L'idea del criminale che sotto false fattezze si introduce nella vita di una famiglia infelice, risultando quasi un marito e un padre migliore di quello vero, ricorda una sottotrama della quarta serie de "Le bizzarre avventure di JoJo" (quella di Kira/Kawajiri). E il lieto fine, forse imposto dalla produzione, è talmente assurdo e forzato che Woo lo sottolinea ironicamente con l'illuminazione diffusa sul retro della scena. Buono il cast, con Travolta e Cage che devono alternarsi nel ruolo del "buono" e del "cattivo" (e provare a recitare l'uno nella parte dell'altro, imitandone le caratteristiche). Da notare che Travolta era già stato l'antagonista nel precedente film americano di Woo, "Nome in codice: Broken Arrow". Cage sembra prenderlo in giro quando ironizza su "questi capelli, questo naso e questo mento ridicolo". Nel cast anche Joan Allen (la moglie di Sean), Dominique Swain (la figlia ribelle), Gina Gershon (l'amante di Castor), Harve Presnell, Nick Cassavetes, Margaret Cho, CCH Pounder e Thomas Jane. La colonna sonora è di John Powell, con occasionali brani di Händel, Mozart, Chopin, e "Somewhere over the rainbow" abbinata a una violenta sparatoria!

22 marzo 2021

Quindici anni

Cari amici e lettori, oggi questo blog compie la bellezza di quindici anni! Sono il primo a essere sorpreso per la mia costanza nel portare avanti da così tanto tempo un progetto così impegnativo.



Purtroppo un anniversario così importante giunge mentre ci troviamo ancora in piena pandemia di Covid-19, evento funesto che, fra le altre cose, ha costretto alla chiusura le sale cinematografiche. Di fatto il 2020/21 è stato un anno senza cinema, inteso come luogo fisico per la visione e la condivisione delle pellicole. "Guardare un film è come fare insieme lo stesso sogno", recita una frase che a lungo ho meditato se inserire come sottotitolo nel mio blog: questa pandemia ci ha impedito di sognare insieme, costringendoci a ripiegare sulle visioni casalinghe. Anch'io ho incrementato queste ultime, ricorrendo sempre più spesso alle piattaforme on demand come Netflix, Prime, Now Tv e RaiPlay, che hanno sostituito in gran parte le visioni in sala e su DVD (a questo proposito, ho cominciato a indicare su quale servizio è avvenuta la visione dei film, anziché il generico "Visto in TV" che usavo in precedenza). Anche per questo motivo, il numero di titoli recensiti sul blog negli ultimi dodici mesi è stato il più alto di sempre: ben 371, oltre uno al giorno!



Di questi 371 (che portano il totale dei film nel blog a 3820), nessuno pertanto è stato visto in sala: per la prima volta in vita mia da quando ho memoria, non sono andato al cinema in un intero anno! Altre statistiche: 286 titoli erano il frutto di una prima visione, mentre 85 sono stati i film rivisti (almeno) per la seconda volta. I registi più frequentati nell'arco degli ultimi dodici mesi sono stati David Cronenberg con 8 film, Otar Iosselliani con 7, Woody Allen con 6 e Ivan Reitman con 5, seguiti da Jean-Luc Godard, Eric Rohmer, Winsor McCay, Isao Takahata e W.S. Van Dyke con 4.



Nel corso dell'anno ho completato le filmografie, fra gli altri, di Stanley Kubrick, Sergio Leone e Michael Cimino: ricordo che uno degli obiettivi del blog è quello di fare lo stesso per tutti i registi più importanti. Inoltre, con la pubblicazione di "Sangue bleu" a ottobre, ho raggiunto un piccolo traguardo: sono presenti almeno tre recensioni per ogni anno di produzione dal 1894 a oggi!
In questo post vi propongo alcuni grafici che illustrano la tipologia di film recensiti sul blog, divisi per nazione (considerando anche le varie co-produzioni) e per anno. Ricordo che gli elenchi di tutti i film si trovano in alto nella colonna di sinistra, per chi accede al blog da desktop e non da mobile.

21 marzo 2021

Sound of metal (Darius Marder, 2020)

Sound of metal (id.)
di Darius Marder – USA 2020
con Riz Ahmed, Olivia Cooke
**1/2

Visto in TV (Prime Video), con Sabrina.

Il batterista Ruben (Riz Ahmed) perde improvvisamente l'udito. Non rassegnandosi alla sua condizione, cerca di mettere insieme il denaro necessario a una difficile operazione chirurgica per l'impianto di una protesi acustica (anche se potrà restituirgli soltanto un suono artificiale e metallico). E nel frattempo, su suggerimento della fidanzata Lou (Olivia Cooke), trova accoglienza in una comunità di recupero dove potrà apprendere il linguaggio dei segni e soprattutto imparare ad accettare la sua nuova realtà. Sarà l'occasione per cambiare vita e ripulirsi dalle scorie di quella precedente (Ruben ha un passato di tossicodipendenza)? E riuscirà a giungere finalmente ad apprezzare anche il silenzio? Primo lungometraggio di finzione diretto da Darius Marder, in precedenza sceneggiatore per Derek Cianfrance ("Come un tuono"), il quale ha ricambiato il favore all'amico cedendogli quello che era un suo progetto originale, basato su esperienze personali di batterista affetto da acufene. Il tema del musicista (dunque di qualcuno la cui vita ruota intorno al suono) che perde l'udito, magari proprio per l'eccessiva esposizione alla musica alta, è ovviamente un classico, con sottotesti karmici e ironici, da Beethoven in poi. Sfidando le trappole della retorica, il film vi aggiunge quello del personaggio tormentato e ribelle che deve imparare a trovare la pace e un proprio equilibrio interiore. Gli attori che interpretano i membri della comunità di non udenti sono quasi tutti non professionisti affetti veramente da sordità, mentre Paul Raci (Joe, il fondatore della comunità) è figlio di genitori sordi e dunque conosce a menadito la lingua dei segni. Nel cast anche Mathieu Amalric, il padre francese di Lou. Grande successo di critica, con sei nomination agli Oscar per il miglior film, la sceneggiatura, il montaggio, gli attori (Ahmed e Raci) e quello che forse è il valore aggiunto della pellicola, ovvero il sonoro, che "simula" le sensazioni acustiche del protagonista lasciando che anche gli spettatori sperimentino cosa si prova a vivere all'improvviso in un mondo dove le voci e i suoni che ci circondano giungono ridotti o ovattati.

20 marzo 2021

Black Mask (Daniel Lee, 1996)

La vendetta della maschera nera, aka Black Mask (Hak hap)
di Daniel Lee – Hong Kong 1996
con Jet Li, Lau Ching Wan
*1/2

Rivisto in TV (Prime Video).

Sotto l'identità di Maschera Nera, il timido bibliotecario Tsui Chik (Jet Li) si batte contro i membri della Squadra 701, plotone di soldati di cui lui stesso un tempo faceva parte e ai quali sono stati rimossi chirurgicamente i centri del dolore e ogni emozione umana. Da un fumetto cinese, una pellicola d'azione con una trama risibile, personaggi stereotipati e scene di combattimenti lunghe ed estenuanti. Il setting vagamente fantascientifico (che in certe cose ricorda "Heroic Trio") è subito perso per strada, le motivazioni dei cattivi sono generiche (impadronirsi del traffico di droga a Hong Kong), e la regia è piuttosto grezza. Si salvano invece la fotografia (è quella tipica di molti prodotti della Film Workshop di Tsui Hark), le interpretazioni (oltre a Li, Lau Ching Wan nei panni del poliziotto e Karen Mok in quelli della buffa collega di Tsui Chik, per motivi diversi, sono una garanzia) e soprattutto le coreografie d'azione di Yuen Woo-ping. I personaggi vanno in giro vestiti di nero, con occhialini, maschere e spolverini, e per molti versi abiti, atmosfere e scenografie sembrano anticipare "Matrix" (cui collaborerà lo stesso Yuen). Ma il "costume" del protagonista, con cappellino da chauffeur, è anche una citazione del personaggio di Kato, interpretato da Bruce Lee nel serial tv "The Green Hornet". Nel cast anche Anthony Wong, Patrick Lung e Françoise Yip. Sei anni dopo uscirà un seguito, diretto in prima persona da Tsui Hark, ma senza Jet Li.

19 marzo 2021

No blood relation (Mikio Naruse, 1932)

No blood relation (Nasanu naka)
di Mikio Naruse – Giappone 1932
con Yoshiko Okada, Yukiko Tsukuba
**

Visto su YouTube, con cartelli in inglese.

L'attrice Tamae (Yoshiko Okada), che sei anni prima aveva abbandonato il Giappone, il marito Atsumi (Shunyo Nara) e la figlia appena nata per andare a lavorare a Hollywood, torna in patria arricchita e col desiderio di riprendersi la bambina. Ma la piccola Shigeko, nel frattempo, si è affezionata a Masako (Yukiko Tsukuba), la seconda moglie di Atsumi nonché la donna che l'ha cresciuta. Con l'aiuto dell'avida suocera (Fumiko Katsuragi), e approfittando dell'assenza di Atsumi (incarcerato per bancarotta!), Tamae "rapisce" Shigeko. Ma dovrà fare i conti col fatto che a rendere veramente madre una donna non è l'aver dato alla luce un figlio, ma averlo allevato... Da un racconto di Shunyo Yanagawa, un melodramma muto nobilitato dalla regia dinamica di un giovane Naruse (si tratta del suo più antico lungometraggio tuttora esistente) con un montaggio rapido e numerosi zoom. Per il resto siamo dalle parti del classico racconto a tema sul conflitto fra povertà e ricchezza ma soprattutto fra tradizione e modernità, con la Okada nei panni della "cattiva" moga (la modern girl legata ai valori e allo stile di vita occidentale), anche se lo sguardo della macchina da presa riesce a mostrarcene anche il lato simpatetico. Curiosi i personaggi maschili di contorno: da Kusakabe (Joji Oka), reduce della Manciuria, alla coppia di ladri (Ichiro Yuki e Shozaburo Abe) che bazzicano intorno a Tamae, uno dei quali è suo fratello, protagonisti di occasionali sketch. La bambina è interpretata da Toshiko Kojima, il suo compagno di giochi (sempre intento a pescare, con scarsi risultati) è Tomio Aoki, il "Tokkan Kozo" di tanti film di Ozu.

18 marzo 2021

The deep (Baltasar Kormákur, 2012)

The Deep (Djúpið)
di Baltasar Kormákur – Islanda 2012
con Ólafur Darri Ólafsson, Jóhann G. Jóhannsson
***

Visto in TV (Prime Video).

La storia vera di Guðlaugur "Gulli" Friðþórsson, marinaio su un peschereccio islandese che naufragò al largo delle isole Vestmann, nell'inverno del 1984. Sfidando ogni logica, il giovane riuscì a nuotare fino a riva, resistendo per sei ore e senza sintomi di ipotermia in acque gelide dove è difficile sopravvivere per più di venti minuti. La sua storia attrasse l'interesse dei media e degli scienziati, che cercarono di comprendere per quali motivi l'uomo fosse riuscito nella sua impresa. Il bel film la racconta con attenzione ai dettagli (la quotidianità di Gulli, la vita di bordo, il confronto con i parenti degli altri pescatori morti nel naufragio) e senza enfasi retorica o catastrofista, concentrandosi sul vissuto umano del protagonista, sul suo interrogarsi sulla natura del "miracolo" che lo ha visto coinvolto e lasciando che la bellezza delle immagini del mare islandese (con una fotografia oscura e gelida) faciliti la partecipazione dello spettatore. Un film in fondo semplice ma diretto, che senza dare risposte intende comunque stimolare riflessioni sul senso della vita e sull'incredibile forza e spirito di sopravvivenza che si nasconde nell'individuo più inaspettato, alle prese con la crudeltà della natura (il villaggio stesso di Gulli era già sopravvissuto alla grande eruzione vulcanica del 1973). Alla fine il protagonista non può far altro che tornare alla propria vita, imbarcandosi di nuovo. Sui titoli di coda, alcuni filmati di repertorio con interviste al "vero" Gulli.

17 marzo 2021

Xiaoshan going home (Jia Zhangke, 1995)

Xiaoshan going home (Xiaoshan hui jia)
di Jia Zhangke – Cina 1995
con Wang Hongwei, Dong Shuzhe
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Mediometraggio giovanile (dura un'ora scarsa) realizzato da Jia Zhangke quando frequentava l'accademia del cinema di Pechino insieme a un gruppo di amici e collaboratori (come l'attore Wang Hongwei, con il quale lavorerà poi in diverse pellicole). La storia, semi-documentaristica ed episodica, segue le peripezie di un cuoco che da Pechino, quando il suo impiego giunge al termine, progetta di tornare al proprio paese di origine in occasione del capodanno cinese: ma prima di partire si incontra con vari amici e conoscenti, chiedendo loro di accompagnarlo e cercando di procurarsi il biglietto per il viaggio. L'anno precedente Jia aveva girato in soli due giorni un documentario di dieci minuti sui turisti in piazza Tienanmen ("One day in Beijing"), ma è con questo lavoro, filmato direttamente per le strade e i locali della città, che mette compiutamente in mostra per la prima volta il suo stile e l'attenzione alle vicende delle persone comuni, come i lavoratori e gli abitanti delle periferie cinesi. Proiettato anche all'estero in alcuni festival internazionali, il mediometraggio riscosse un buon successo e consentì al regista di incontrare il produttore Li Kit Ming e iniziare la lavorazione del suo primo vero lungometraggio, "Xiao Wu".

16 marzo 2021

Manhunter (Michael Mann, 1986)

Manhunter - Frammenti di un omicidio (Manhunter)
di Michael Mann – USA 1986
con William Petersen, Tom Noonan
**

Rivisto in divx.

Per catturare "Dente di fata" (Tooth Fairy, "fatina dei denti", nella versione originale), sfuggente serial killer che colpisce ogni plenilunio uccidendo intere famiglie, l'investigatore Will Graham (Petersen) viene incaricato di tracciare il profilo psicologico del criminale. La questione si fa personale quando l'assassino (Tom Noonan), imbeccato dal "collega" Hannibal Lecktor (Brian Cox), psichiatra pazzo che fu arrestato tre anni prima proprio da Graham, prende di mira la famiglia stessa del detective... Dal romanzo "Il delitto della terza luna" di Thomas Harris, primo volume del ciclo di Hannibal Lecter (che qui però è solo una figura minore: e la sceneggiatura, oltre a cambiarne il cognome, "glissa" sul suo cannibalismo), un thriller dall'andamento monotono e con atmosfere quasi da giallo all'italiana, compreso un protagonista inespressivo. Ma a metà strada, quando l'attenzione si sposta dal buono al cattivo, alle prese con una ragazza cieca (Joan Allen), sembra quasi diventare un altro film (non migliore del precedente, ma comunque più intrigante e originale). Più che cinematografico, il linguaggio sembra quello delle serie tv (e non è affatto un complimento!), tanto che alcuni critici citano la pellicola come modello per successivi serial polizieschi procedurali o forensi come "CSI" (con lo stesso Petersen). La regia del sopravvalutato Mann (anche sceneggiatore) è a lunghi tratti piuttosto dozzinale e non riesce a rendere nessuna scena memorabile: in effetti avevo già visto il film anni fa, ma non mi aveva lasciato nulla nella memoria, tanto che è stato come vederlo per la prima volta. Fotografia di Dante Spinotti. Nella (discutibile) colonna sonora elettronica, anche alcuni brani di Kitaro. Dopo che il personaggio di Lecter diventerà popolare grazie all'interpretazione di Anthony Hopkins nell'adattamento del successivo libro, "Il silenzio degli innocenti", di questo sarà realizzato un remake nel 2002 ("Red dragon", come il titolo originale del romanzo) proprio con Hopkins (ed Edward Norton).

15 marzo 2021

C'era una volta un merlo canterino (O. Iosseliani, 1970)

C'era una volta un merlo canterino (Iko shashvi mgalobeli)
di Otar Iosseliani – URSS 1970
con Gela Kandelaki, Jansug Kakhidze
***

Visto in divx.

Il musicista Gia (Gela Kandelaki), percussionista in un'orchestra sinfonica di Tbilisi, non riesce a combinare o a portare a termine mai niente, pur essendo impegnato in mille attività. Pieno di amici (e di amiche!) e di interessi, è uno spirito libero, curioso e irrequieto, che vive alla giornata e si distrae facilmente, che contempla la natura e osserva le professioni di coloro che gli stanno intorno, che giunge sempre in ritardo alle prove dell'orchestra (ma comunque al momento giusto per suonare la propria parte, facendo infuriare il direttore), che dà appuntamenti agli amici o alle ragazze per poi dimenticarsene, e che è letteralmente un ingranaggio fuori posto all'interno di un meccanismo ben oliato (qualche critico ci ha letto una velata critica al sistema sociale e produttivo dell'Unione Sovietica), del tutto inaffidabile e non allineato, anche se "non per dogmatismo o per volontà ma per carattere". Il secondo lungometraggio di Iosseliani è un film leggero e svagato come il suo protagonista, che la macchina da presa segue nei suoi spostamenti, nelle sue attività e nelle sue osservazioni, cogliendo l'attimo per mostrarci la vita quotidiana e lavorativa degli abitanti della città (fra gli amici e i conoscenti di Gia figurano musicisti, artigiani, medici, biologi...), quasi in una versione attualizzata (e non più spersonalizzata) de "L'uomo con la macchina da presa" di Vertov. La leggerezza di fondo fa pensare al cinema francese, ad alcune cose di Truffaut (anticipa per certi versi "L'uomo che amava le donne") o addirittura di Tati: ma il finale tragico è preannunciato a più riprese, con Gia che "sfiora" numerosi incidenti (il vaso di fiori che cade, la botola che si apre sul palcoscenico), prima di essere investito da un'automobile nel finale. Morto lui, l'ingranaggio (come suggerisce la scena finale dell'orologiaio) potrà essere rimesso in moto, e il tempo e le scadenze verranno finalmente rispettate. Potrebbe sembrare che la sua vita sia trascorsa senza lasciare traccia, ma non è così: di lui rimangono cose piccole ma importanti, come il chiodo piantato alla parete per permettere all'amico di appendere il cappello. La sceneggiatura potrebbe essere in parte autobiografica, visto che Iosseliani, prima di dedicarsi al cinema, ha studiato musica proprio al conservatorio di Tbilisi, diplomandosi in pianoforte, in composizione e in direzione d'orchestra.

Antichi canti georgiani (O. Iosseliani, 1969)

Antichi canti georgiani (Dzveli qartuli simgera)
di Otar Iosseliani – URSS 1969
**1/2

Visto su YouTube.

Documentario (di venti minuti) sui canti popolari dell'antica tradizione musicale georgiana. Accompagnati da immagini di paesaggi e di contadini al lavoro, possiamo udire esempi corali e polifonici appartenenti a vari "dialetti" musicali (quelli della Svanezia, della Mingrelia, della Guria e della Cachezia, tutte regioni storiche della Georgia). Il pregio maggiore del film è quello di non avere una voce narrante né di voler imporre un commento informativo: si limita a lasciar fluire i canti sullo sfondo a scene di vita quotidiane delle zone più rurali del paese, tuffandoci in un mondo arcaico, semplice e genuino, che sembra distare anni luce dalla frenesia della modernità.

14 marzo 2021

Il peccato (Andrei Konchalovsky, 2019)

Il peccato - Il furore di Michelangelo
di Andrei Konchalovsky – Italia/Russia 2019
con Alberto Testone, Jakob Diehl
**1/2

Visto in TV (Now Tv).

Alcuni episodi della vita di Michelangelo Buonarroti (interpretato da un Alberto Testone somigliantissimo al ritratto di Daniele da Volterra), negli anni in cui il papato passa dalla famiglia dei Della Rovere (Giulio II, che gli commissiona l'affresco della volta della Cappella Sistina e il proprio monumento funebre) a quella dei Medici (Leone X, che gli impone di abbandonare gli impegni presi con i rivali in favore di nuovi incarichi). Konchalovsky non ci mostra però mai il grande artista direttamente al lavoro, bensì lo ritrae impegnato a destreggiarsi in tutte le questioni e le difficoltà tangenziali: i problemi economici, i tempi di consegna perennemente "sforati", i rapporti con la famiglia o con i propri giovani assistenti (Jakob Diehl e Francesco Gaudiello), la rivalità con Raffaello, i litigi e i rancori, le relazioni sociali e politiche, la personalità scostante e solitaria, a volte ai limiti della pazzia (con tanto di visioni mistiche e di un costante dialogo interno con Dante Alighieri, sua sorta di guida spirituale)... Ne esce il ritratto di un artista tormentato e solitario, che si barcamena fra la bellezza del Rinascimento e la brutalità di un contesto dominato da miseria, violenza e volgarità (mai edulcorate). L'impronta "russa" della pellicola si vede: a tratti si ritrovano echi dell'"Andrej Rublev" di Tarkovskij (film che fu co-sceneggiato proprio da Konchalovsky), specialmente nelle scene che mostrano il lavoro e la fatica (anche fisica) dietro l'opera d'arte (in particolare nelle lunghe sequenze dell'estrazione e del trasporto dell'enorme blocco di marmo, detto "il mostro", che Michelangelo va a scegliersi personalmente nelle cave di Carrara). Suggestiva la ricostruzione storica (con costumi essenziali e una fotografia desaturata che ammanta di austerità Roma, Firenze e le Alpi Apuane) e in generale un approccio che vuole più scavare nell'anima di un personaggio contraddittorio (a proposito del denaro, delle amicizie, della religione), perennemente irascibile e intrattabile ma al tempo stesso sensibile e portatore di un intero mondo dentro di sé, che non indugiare sugli aneddoti della sua biografia (non ci sono riferimenti, per esempio, alla sua presunta omosessualità). Nel cast, in ruoli minori, anche Orso Maria Guerrini (il marchese Malaspina) e Antonio Gargiulo (Francesco Maria della Rovere).

13 marzo 2021

Il favoloso mondo di Amélie (J.P. Jeunet, 2001)

Il favoloso mondo di Amélie (Le fabuleux destin d'Amélie Poulain)
di Jean-Pierre Jeunet – Francia 2001
con Audrey Tautou, Mathieu Kassovitz
***

Rivisto in TV (Prime Video), con Sabrina.

Sognatrice e introversa, Amélie (Audrey Tautou) lavora come cameriera in un bar di Montmartre (il Café des 2 moulins) e ama viaggiare con la fantasia. Un giorno, dopo aver rinvenuto per caso la "scatola dei ricordi" che un bambino aveva nascosto nel suo appartamento quarant'anni prima, decide di restituirla anonimamente all'uomo ormai cresciuto. E la sua stupefacente reazione la spinge a dedicarsi a migliorare la vita delle persone che la circondano (compresi i colleghi di lavoro e gli abitanti del quartiere), riempiendoli di meraviglie e bizzarrie come una sorta di angelo custode. Ma nel contempo trascura la propria sfera sentimentale, scoprendosi incapace per timidezza di farsi avanti con il ragazzo di cui è innamorata, Nino (Mathieu Kassovitz), sognatore ed eccentrico quasi quanto lei... Il quarto (e più famoso) film di Jeunet, sceneggiato insieme a Guillaume Laurant, è stato uno straordinario successo di pubblico e di critica (anche se inizialmente fu rifiutato dal festival di Cannes), tanto da diventare una pellicola citatissima e memorabile anche per chi non l'ha mai vista (non da ultimo perché ha fatto incredibilmente presa sui "creativi" della pubblicità, che ne hanno saccheggiato a più riprese, quasi fino alla nausea, le idee, i temi, le atmosfere, le immagini, e ovviamente la musica). Non posso non riconoscere che si tratta di un bel film, ricco e con parecchi punti di forza, nonostante di fondo sia parecchio melenso, privo di una vera tensione, dai toni fiabeschi e irrealistici, con personaggi macchiettistici e una filosofia banalotta e superficiale (il "gusto particolare per i piccoli piaceri"). Il vero fattore che però gli impedisce di conquistarmi fino in fondo (a differenza della maggior parte del pubblico, che l'ha amato incondizionatamente) è connaturato allo stile di Jeunet. Nel film c'è dentro tanto, troppo: io amo più il cinema di sottrazione, dove ogni elemento ha la sua specifica ragion d'essere, mentre qui siamo nel campo dell'abbondanza (di storie, di personaggi, di immagini), tanto che se si togliesse qualcosa o lo si sostituisse con qualcos'altro, in fondo non cambierebbe nulla.

Detto questo, veniamo ai (numerosi) pregi. Dal punto di vista formale, il film è sinceramente iconico: la fotografia ipersatura e coloratissima di Bruno Delbonnel, che trasfigura Montmartre e l'intera Parigi in un libro di fiabe illustrato (coadiuvata da occasionali effetti speciali che animano oggetti o aggiungono elementi fantastici, ad amplificare l'idea delle "bizzarrie del quotidiano" che ci circondano in continuazione, come in fondo faceva anche "Magnolia"); la recitazione della Tautou, che dà vita a un personaggio tenero e curioso, che sguazza nel suo mondo fantastico con simpatia e (sporadiche) rotture della quarta parete, mentre le sue avventure ci sono commentate da una voce narrante che ogni tanto si premura di citarci strani aneddoti e, soprattutto, di elencarci i piccoli piaceri e le idiosincrasie private di lei e degli altri personaggi (un parallelo con la canzone "My favorite things" del musical "Tutti insieme appassionatamente", altro cavallo di battaglia recente dei pubblicitari); e naturalmente la musica di Yann Tiersen, autore di una colonna sonora molto bella e anzi direi fondamentale per l'atmosfera generale della pellicola, con le sue sonorità a base di piano e fisarmonica (ma non solo). Fra le "imprese" di Amélie spiccano: il giro per il mondo del nano da giardino del padre (Rufus), con tanto di fotografie spedite da ogni angolo del pianeta, che stimoleranno l'anziano genitore a uscire dal proprio guscio e a viaggiare a sua volta; lo spingere due dei frequentatori del caffé (Dominique Pinon, habitué del regista, e Isabelle Nanty) l'uno nelle braccia dell'altra; il penetrare di nascosto nella casa di uno sgarbato fruttivendolo per modificarne impercettibilmente il contenuto (una vera e propria tecnica di gaslighting, simile a quanto faceva Faye Wong in "Hong Kong Express"); e l'aiutare Nino, che colleziona fototessera scartate, a svelare l'enigma del misterioso uomo che scatta e getta via le proprie presso ogni macchinetta della città. Nel cast anche Serge Merlin (il vecchio pittore che riproduce sempre lo stesso quadro), Jamel Debbouze (l'aiutante del fruttivendolo), Clotilde Mollet, Claire Maurier. Curiosità: la prima scelta per il ruolo della protagonista era Emily Watson.

12 marzo 2021

Avventura malgascia (A. Hitchcock, 1944)

Avventura in Madagascar (Aventure malgache)
di Alfred Hitchcock – GB 1944
con Paul Clarus, Paul Bonifas
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Mentre si prepara per entrare in scena, un attore francese espatriato a Londra (Paul Clarus) racconta ai colleghi di come quattro anni prima, quando lavorava come avvocato in Madagascar (ai tempi colonia francese), si sia scontrato a più riprese con il corrotto capo della polizia locale (Paul Bonifas). Dopo l'occupazione della Francia a opera dei tedeschi, la loro battaglia si spostò sul piano politico: il poliziotto schierato con i collaborazionisti di Vichy, l'avvocato sostenitore clandestino della resistenza e a favore della liberazione del Madagascar da parte degli alleati. L'intera vicenda aiuterà uno degli attori, sosia del poliziotto, a calarsi meglio nella parte di un farabutto. Come "Bon voyage", questo cortometraggio fu girato da Hitchcock a scopo di propaganda in tempo di guerra per conto del ministero dell'informazione britannico, con attori francesi (il gruppo denominato The Molière Players). Nei limiti del possibile, la storia e la struttura drammatica sono più interessanti rispetto al film gemello: non mancano vivacità e una punta di ironia, e soprattutto i due personaggi rivali a modo loro divertenti nelle loro diatribe verbali. La scena in cui una bottiglia di acqua minerale di Vichy viene gettata nel cestino ricorda ovviamente quella analoga in "Casablanca".

11 marzo 2021

Bon voyage (Alfred Hitchcock, 1944)

Bon voyage (id.)
di Alfred Hitchcock – GB 1944
con John Blythe, Janique Joelle
*1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Pur essendo ormai trapiantato a Hollywood da qualche anno, nel 1944 Hitchcock girò due cortometraggi di propaganda in lingua francese (il secondo è "Avventura malgascia") per conto del ministero dell'informazione britannico. L'intenzione era quella di diffonderli nel Regno Unito e in Francia per sostenere la lotta contro gli invasori nazisti nelle ultime fasi della seconda guerra mondiale. Ma a quanto pare, nessuno dei due brevi film fu effettivamente proiettato in pubblico: soltanto negli anni Novanta le pellicole vennero restaurate dal BFI e rese disponibili in home video. Di questo "Bon voyage", l'unico aspetto interessante è dato dalla struttura narrativa: la storia è infatti narrata inizialmente in flashback dal protagonista John Dougall, un ufficiale scozzese della RAF (John Blythe) fuggito da un campo di prigionia tedesco insieme a un complice, che racconta ai servizi segreti le modalità dei suoi spostamenti attraverso la Francia occupata, con l'aiuto della resistenza, fino al ritorno in Inghilterra. Ma nella seconda metà del film le stesse vicende vengono rilette in maniera del tutto diversa, per mezzo di nuove informazioni offerte dal servizio di controspionaggio che rivelano come il compagno di fuga di Dougall fosse in realtà una spia della Gestapo. A parte Blythe, il resto del cast e della troupe è composto da attori e cineasti francesi rifugiati in Gran Bretagna dopo l'occupazione tedesca (i cui nomi non sono citati nei titoli del film per evitare rappresaglie contro i loro parenti rimasti in patria).

10 marzo 2021

Time to hunt (Yoon Sung-hyun, 2020)

Time to hunt (Sanyangui sigan)
di Yoon Sung-hyun – Corea del Sud 2020
con Lee Je-hoon, Choi Woo-shik
**1/2

Visto in TV (Netflix).

In una Corea economicamente in bancarotta, in preda al caos sociale e funestata da povertà e criminalità, il giovane ladruncolo Jun-seok (Lee Je-hoon), appena uscito di prigione, sogna di fuggire verso un paradiso tropicale e a questo scopo organizza una rapina a una casa da gioco clandestina insieme agli amici Ki-hoon (Choi Woo-shik), Jang-ho (Ahn Jae-hong) e Sang-soo (Park Jung-min). Ma i gangster che gestivano il locale scatenano sulle loro tracce un killer solitario e implacabile, l'ex poliziotto Han (Park Hae-soo), che darà la caccia ai ragazzi giocando con loro come il gatto con i topi... Solido crime movie che ha nelle scene di tensione e nell'umanità dei personaggi il suo punto di forza. Senza velleità autoriali (anche se il contesto sociale semi-distopico è un ingrediente inatteso e che arricchisce la vicenda) ma comunque ben diretto e interpretato, il film si lascia seguire con interesse fino a un finale, a dire il vero, un po' deludente nella sua incapacità di essere del tutto risolutivo. Nonostante alcune svolte improbabili (come i due mercanti d'armi gemelli interpretati da Jo Sung-ha), il tono di fondo è piuttosto realistico: i personaggi commettono errori o cedono all'emozione, tutti ovviamente tranne l'inarrestabile e misterioso killer, una sorta di "uomo nero" o di Babau, sempre pronto a uscire dall'ombra (o dai sogni) per avventarsi sui protagonisti, la cui fuga diventa una vera e propria lotta per la sopravvivenza.

9 marzo 2021

Permanent vacation (Jim Jarmusch, 1980)

Permanent vacation (id.)
di Jim Jarmusch – USA 1980
con Chris Parker, Leila Gastil
**

Visto in TV (Prime Video), in originale con sottotitoli.

Il giovane e irrequieto Aloysious "Allie" Parker (Chris Parker) vaga per le periferie di New York, torna a vedere le macerie della casa dove è nato, fa visita alla madre ricoverata in un istituto psichiatrico, incontra diversi personaggi bizzarri, e infine ruba un'automobile e la rivende per procurarsi il denaro con cui lasciare la città. L'opera prima di Jim Jarmusch racconta un vagabondaggio che testimonia l'incapacità del suo protagonista di adattarsi al proprio ambiente ("mi sento come un tipo particolare di turista, un turista che è perennemente in vacanza") e mette subito in luce le caratteristiche del suo cinema: sperimentale, personale, indipendente ed esistenzialista, semplice e all'apparenza semi-improvvisato ma con un indubbio fascino, qui ben servito anche dalla fotografia "povera" di Tom DiCillo e dalla colonna sonora minimalista e post-industriale firmata dallo stesso Jarmusch insieme a John Lurie (che suona il sax). Lurie, che compare anche in una scena della pellicola, rimarrà un collaboratore frequente del regista e apparirà in diversi suoi film, a partire dai successivi "Stranger than paradise" e "Daunbailò". Da sottolineare gli ambienti del film, scenari di periferia disagiata, palazzi distrutti o in rovina, muri coperti da graffiti, che Jarmusch e il suo personaggio esplorano tra lentezza e silenzi. Fra le citazioni culturali, Lautréamont ("I canti di Maldoror"), Nicholas Ray (Allie va al cinema a vedere "Ombre bianche") e "Somewhere over the rainbow" (in una versione distorta per sax).

8 marzo 2021

Come le foglie al vento (Douglas Sirk, 1956)

Come le foglie al vento (Written on the wind)
di Douglas Sirk – USA 1956
con Rock Hudson, Lauren Bacall
**1/2

Visto in divx.

Innamorato di Lucy (Lauren Bacall), moglie del ricco amico Kyle Hadley (Robert Stack), il fedele Mitch Wayne (Rock Hudson) mette a tacere i propri sentimenti e per lo stesso motivo rifiuta le avances di Marylee (Dorothy Malone), sorella ninfomane e ossessiva di Kyle. Ma questa, per vendetta, convincerà il fratello che i due lo tradiscono alle sue spalle... Forse il film più celebre di Sirk, un melodramma dai toni romantici ed esasperati, in cui i tormenti e i sentimenti più negativi dell'animo umano (come rancori e gelosie, ma anche angoscia e depressione) si frappongono alla felicità dei personaggi. Rispetto ai precedenti "Magnifica ossessione" e "Secondo amore" (tutti con Hudson come protagonista), però, manca quella qualità poetica e forse persino autoironica che traslava la vicenda in un mondo di sublime irrealtà: qui siamo in un universo più concreto dove i toni melodrammatici appaiono esagerati (come la ricchezza e l'aridità degli Hadley, famiglia di petrolieri talmente potente da aver dato il nome alla cittadina in cui abitano). Di fatto Mitch e Lucy sono quasi "costretti" dagli eventi a concedersi un personale lieto fine, mentre le svolte narrative sono preannunciate con largo anticipo (non solo perché il film comincia dal tragico climax finale, tornando poi indietro nel tempo – con una fortunata scelta registica che mostra il vento girare i fogli di un calendario – per narrarne gli antefatti; ma soprattutto perché più volte i dialoghi e le immagini introducono temi e oggetti che avranno importanza successivamente, a partire dalla più classica e letterale delle "pistole di Čechov"). In ogni caso, la regia di Sirk, la fotografia di Russell Metty (con i suoi colori accesi e crepuscolari) e le scenografie di Robert Clatworthy e Alexander Golitzen sono di alto livello. Buone anche le interpretazioni, con i due comprimari Stack e Malone che svettano persino sopra i due protagonisti (non a caso furono entrambi nominati all'Oscar, e Malone vinse la statuetta). La figura dello scapestrato Kyle, in particolare, è assai sfaccettata, con un forte senso di inferiorità nei confronti dell'amico che, a differenza sua, è sempre andato incontro ai desideri e alle aspettative del padre, tanto che questi (Robert Keith) lo accoglie come un figlio e lo immagina come il vero erede della sua industria petrolifera. Sensazione che cresce quando Kyle, per una diagnosi medica errata, si convince di essere impotente, e che dunque il bambino che Lucy aspetta sia in realtà di Mitch. La sceneggiatura di George Zuckerman è tratta da un romanzo di Robert Wilder che a sua volta si ispirava a fatti reali, legati alla morte di Zachary Smith Reynolds, rampollo del tabacco. Candidatura agli Oscar anche per la canzone "Written on the wind".

7 marzo 2021

Domenica alle 6 (Lucian Pintilie, 1966)

Domenica alle 6 (Duminică la ora 6)
di Lucian Pintilie – Romania 1966
con Dan Nuțu, Irina Petrescu
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

I giovani Radu (Nuțu) e Anca (Petrescu) si incontrano per caso a un ballo e si innamorano, prima di scoprire che fanno entrambi parte della stessa organizzazione clandestina e che proprio lei era la ragazza che lui doveva incontrare "domenica alle 6". La loro storia d'amore si dipana in parallelo alle vicende della resistenza che si oppone all'oppressione fascista in Romania (siamo negli anni della seconda guerra mondiale), anzi spesso ha il sopravvento... Pellicola che segna l'esordio dietro la macchina da presa per il regista teatrale Lucian Pintilie, che con i suoi film successivi (su tutti "La ricostituzione", "La bilancia" e "Terminus Paradis") racconterà la storia della Romania da inediti e intelligenti punti di vista. In questo primo film è già evidente una certa sofisticazione del linguaggio cinematografico, con notevoli influenze del cinema francese della Nouvelle Vague (Godard e Truffaut), ma anche con una sua cifra personale e originale: la regia dinamica con i primi piani ravvicinati, l'uso della camera a mano, il montaggio non lineare (numerose sequenze ripetute, come la carrellata lungo il palazzo di ringhiera, la soggettiva nel corridoio buio di un edificio diroccato o le scene alla stazione ferroviaria, anticipano momenti successivi), per non parlare dell'ottimo uso del sonoro o della direzione degli attori. L'attenzione è tutta sui personaggi e sui loro sentimenti, mentre il contesto storico non è approfondito più di tanto (la storia potrebbe benissimo svolgersi ai giorni nostri, anzi simbolicamente è proprio così: la società repressiva in cui i protagonisti si muovono riecheggia quella contemporanea del regime comunista e della Securitate; non a caso prima di ottenere l'autorizzazione a girare Pintilie dovette lottare a lungo con la censura). Nonostante la tragicità della vicenda, si respira un'aria fresca e leggera, tipica degli amori giovanili, con personaggi che riescono ad abbinare la lotta politica clandestina (anche a costo della vita) con giochi ed esplorazioni, segno del loro anelito di libertà. Graziela Albini interpreta Maria, la donna che fa da "collegamento" fra i due innamorati all'interno della resistenza.

6 marzo 2021

Moonwalkers (Antoine Bardou-Jacquet, 2015)

Moonwalkers (id.)
di Antoine Bardou-Jacquet – Francia 2015
con Ron Perlman, Rupert Grint
**

Visto in TV (Prime Video).

Per realizzare il video di un finto allunaggio, da utilizzare nel caso in cui la missione dell'Apollo 11 andasse storta, l'agente della CIA Kidman (Ron Perlman) viene inviato a Londra per assoldare il regista Stanley Kubrick. Ma a causa di un disguido, l'uomo – che soffre di disturbi traumatici in seguito alle sue esperienze in Vietnam – si ritrova a lavorare con Johnny (Rupert Grint), manager fallito di una rock band amatoriale, e tutto il suo entourage di artisti scapestrati e underground, dediti alle droghe e alla psichedelia... Di produzione francese (è l'opera prima del regista Antoine Bardou-Jacquet) ma in lingua inglese, una commedia che fonde le ipotesi di complotto sugli sbarchi lunari con l'atmosfera hippie e la controcultura degli anni sessanta. Nonostante il curioso soggetto (di Dean Craig) e i bravi attori (mi ha sorpreso soprattutto Grint, decisamente maturato dai tempi dei primi "Harry Potter"), però, gli sviluppi sono un po' fiacchi: la scena più divertente è quella in cui Kidman, ruvido e tutto d'un pezzo, assume per errore l'LSD. Robert Sheehan è Leon, l'amico sciroccato di Johnny che si fa passare per Kubrick, Tom Audenaert è il regista alternativo. Qua e là sono sparse citazioni kubrickiane (da "2001" e soprattutto da "Arancia meccanica").

5 marzo 2021

Non ti presento i miei (Clea DuVall, 2020)

Non ti presento i miei (Happiest season)
di Clea DuVall – USA 2020
con Kristen Stewart, Mackenzie Davis
**1/2

Visto in TV (Now Tv), con Sabrina.

Durante le festività natalizie, Harper (Mackenzie Davis) porta la sua fidanzata Abby (Kristen Stewart) a conoscere la propria famiglia. Piccolo particolare: non ha mai detto ai genitori (Victor Garber e Mary Steenburgen) di essere lesbica, e dunque fa passare Abby come la sua "coinquilina orfana"... Il secondo film come regista dell'ex attrice Clea DuVall (che ricordiamo, fra gli altri, in "The Faculty", "Fantasmi da Marte" e "Identità"), anche sceneggiatrice insieme a Mary Holland, è una divertente commedia sul tema del coming out. Dietro le apparenze da famiglia "perfetta" (importanti anche perché il padre punta a candidarsi come sindaco della cittadina in cui vive), si nascondono segreti e vite represse, non solo da parte di Harper ma anche delle due sorelle (Alison Brie e Mary Holland). La visione è piacevole, con classiche situazioni da sitcom natalizia o romantica (il titolo italiano, ovviamente, scimmiotta "Ti presento i miei"), fra personaggi eccentrici, momenti vivaci e un inevitabile (e zuccheroso) lieto fine riconciliante, il tutto virato però in chiave LGBT. Dan Levy è l'amico gay e consigliere di Abby, Aubrey Plaza è l'ex ragazza di Harper.

4 marzo 2021

The italian machine (D. Cronenberg, 1976)

The italian machine
di David Cronenberg – Canada 1976
con Gary McKeehan, Louis Negin
**1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli.

Quando viene a sapere che un eccentrico collezionista d'arte (Louis Negin) ha comprato una rara e preziosa moto italiana, una Ducati 900 Supersport, per tenerla inutilizzata al centro del proprio soggiorno a mo' di scultura moderna, il meccanico e appassionato biker Lionel (Gary McKeehan) decide che è suo compito "salvarla" e restituirla alla strada. Insieme agli amici Fred (Frank Moore) e Bug (Hardee Lineham), si introduce così in casa del collezionista Mouette fingendosi un giornalista di una rivista d'arte, per convincerlo a vendergliela... Girato per la serie antologica canadese "Teleplay", questo breve tv movie di 24 minuti rappresenta una rara incursione di David Cronenberg nel campo della commedia. Poco più che uno sketch comico, può contare su personaggi bizzarri, situazioni divertenti e un'accesa satira del mondo dell'arte contemporanea (dove "collezionare arte è in sé una forma d'arte", e "collezionisti e critici contano più degli artisti stessi"), con Mouette che "colleziona" persino esseri umani, pagando il bel Ricardo (Géza Kovács) per stare in casa sua e non fare niente. Chuck Shamata è il proprietario del negozio di moto, Toby Tarnow la moglie del collezionista. In una linea di dialogo, Cronenberg sembra fare ironia anche su sé stesso ("Quando parli non so mai se mi racconti storie vere, o la trama di un film dell'orrore").

La sedia della menzogna (D. Cronenberg, 1976)

La sedia della menzogna (The lie chair)
di David Cronenberg – Canada 1976
con Amelia Hall, Susan Gogan
**

Visto su YouTube, in originale.

Rimasti con l'auto in panne in una notte di pioggia, i coniugi Carol (Susan Hogan) e Neil (Richard Monette) trovano ospitalità nella casa dove abitano la vecchia signora Rogers (Doris Petrie) e la sua cameriera Mildred (Amelia Hall). Ciascuna delle due anziane donne, però, rivela alla coppia che l'altra è pazza: secondo Mildred, la signora Rogers è convinta che i due siano i suoi nipoti (morti anni prima) giunti a farle visita, mentre secondo la padrona di casa è la cameriera a immaginare la stessa cosa (e ciascuna "recita" per non provocare all'altra uno shock). La vicenda si complica, assumendo toni sovrannaturali, quando lentamente Carol e Neil cominciano a immedesimarsi sempre di più, e senza volerlo, nei panni dei due nipoti... Scritto da David Cole e andato in onda nel febbraio del 1976, questo cortometraggio di 26 minuti è uno dei due episodi che David Cronenberg diresse per la serie televisiva canadese "Peep Show" (l'altro, "The victim", trasmesso qualche settimana prima, per qualche motivo è di più difficile reperibilità). Le atmosfere sono quelle degli episodi di "The Twilight Zone" (o di "Alfred Hitchcock presenta"), con tanto di colpo di scena finale. La regia di Cronenberg è professionale ma piuttosto anonima, e la storia si appoggia quasi esclusivamente sulla sceneggiatura e sulle (buone) prove del quartetto di interpreti.

3 marzo 2021

Fuga dal mondo dei sogni (R. Bakshi, 1992)

Fuga dal mondo dei sogni (Cool World)
di Ralph Bakshi – USA 1992
con Brad Pitt, Gabriel Byrne, Kim Basinger
**

Rivisto in TV (Prime Video).

Il disegnatore di fumetti Jack Deebs (Gabriel Byrne) è convinto di aver inventato "Mondo Furbo" (Cool World) e i suoi bizzarri personaggi, ma si tratta in realtà di una dimensione "animata" onirica e a sé stante, alla quale – in particolari condizioni – anche i "carnosi" possono accedere. È quello che era capitato anni prima a Frank Harris (Brad Pitt), soldato reduce dalla seconda guerra mondiale, che da allora vive nel mondo animato dove lavora come poliziotto per impedire altre "contaminazioni". E in particolare deve tenere a bada la femme fatale Holli Would, che sogna di diventare "reale", e che per raggiungere i propri scopi cerca di sedurre Jack: facendo sesso con un uomo in carne e ossa, infatti, anche un disegno può diventare tale... Curiosa pellicola che segna il ritorno di Bakshi alla regia dopo nove anni, una sorta di risposta (più adulta e underground) a "Chi ha incastrato Roger Rabbit", con la sua commistione fra cartoni animati e riprese dal vivo: ma anziché all'animazione classica e mainstream (Disney o Looney Tunes), si rifà a quella alternativa dello stesso Bakshi e di autori come Robert Crumb, Tex Avery e George Herriman (cui è dedicato un graffito nel finale). Peccato però che la sceneggiatura originale di Michael Grais e Mark Victor, cupa e horror, sia stata in parte edulcorata dalla produzione per raggiungere un pubblico più giovane. A parte gli ammiccamenti erotici (il personaggio di Holli, ispirato a Marilyn Monroe e interpretato da Kim Basinger quando diventa "reale", ha un notevole sex appeal) e il fascino surreale di Mondo Furbo, caotico e colorato, non c'è molto da salvare: la trama è sconclusionata e incoerente, molti elementi interessanti non vengono sviluppati (a cominciare dalle backstory di Frank e di Jack), e la fusione fra cartoni animati e live action non è buona come nel film di Zemeckis. Anche se qua e là ci si diverte, la sensazione è quella di un'occasione sprecata, che solo a tratti mette in luce il potenziale eversivo dei comics underground e dell'animazione per adulti. La colonna sonora di Mark Isham comprende la canzone "Real Cool World" di David Bowie.

2 marzo 2021

Fantasma d'amore (Dino Risi, 1981)

Fantasma d'amore
di Dino Risi – Italia/Francia/Germania 1981
con Marcello Mastroianni, Romy Schneider
**1/2

Visto in TV (RaiPlay).

Il commercialista Nino Monti (Mastroianni), sposato e senza figli, conduce una vita tranquilla e ordinaria. Quando si imbatte per caso in Anna (Romy Schneider), suo antico amore di gioventù, in lui si risvegliano ricordi e passioni. Ma la vicenda si complica in più direzioni: dapprima scopre che di Anna ce ne sono due, una ancora bella e fresca, sposata con un ricco nobile, e un'altra vecchia e malata, quasi irriconoscibile e persino ripugnante. E poi un amico medico gli rivela che la donna in realtà è morta tre anni prima: che dunque si tratti del frutto della sua immaginazione, o addirittura di un fantasma tornato per vendicarsi di antichi torti? Da un romanzo di Mino Milani, ambientato in una Pavia brumosa e invernale (la fotografia è di Tonino Delli Colli), una pellicola d'atmosfera e malinconica, che si dipana sul filo dei ricordi e del mistero (inizialmente sembra voler intavolare una riflessione sul "tempo che ci fa invecchiare, che ci consuma", poi subentra una trama da giallo parapsicologico). Il fascino non manca, grazie ai temi, all'ambientazione, alla regia composta e a una grande coppia di interpreti. Ma qualche svolta non del tutto imprevedibile e un finale ambiguo e forse superfluo (che ricorda "Il gabinetto del dottor Caligari") fanno abbassare un po' il giudizio. Eva Maria Meineke è Teresa, la moglie di Nino. Michael Kroecher è Don Gaspare, inquietante figura mistica di prete/mago che cita Nostradamus e Coleridge. L'immagine del volto di Anna che fissa Nino da sotto l'acqua ricorda l'Ofelia di Millais o le tante figure acquatiche e semi-divine della mitologia. Nella colonna sonora di Riz Ortolani spicca il clarinetto di Benny Goodman.

1 marzo 2021

Land of the lost (Brad Silberling, 2009)

Land of the Lost (id.)
di Brad Silberling – USA 2009
con Will Ferrell, Anna Friel
*1/2

Visto in TV (Netflix).

Grazie a un "amplificatore di tachioni" da lui inventato, lo scienziato-paleontologo Rick Marshall (Will Ferrell) viaggia non tanto nel tempo quanto in una confusa dimensione parallela dove coesistono passato, presente e futuro. E in compagnia della bella assistente Holly (Anna Friel), del buzzurro Will (Danny McBride) e dell'uomo-scimmia Chaka (Jorma Taccone), dovrà vedersela con dinosauri ed extraterrestri. Ispirato all'omonima serie televisiva del 1974 (in italiano "La valle dei dinosauri"), di cui finisce però per essere la parodia, un film d'avventura demenziale, infantile e sconclusionato. Credo che Ferrell, con il suo umorismo adolescenziale e deadpan, sia uno dei comici meno divertenti che esistano al mondo: insiste sempre sullo stesso tipo di battuta (spesso a sfondo volgare, sessuale o scatologico) e non fa mai ridere. Qui si salvano la curiosa e surreale ambientazione, a metà fra un videogioco (Holly sembra Lara Croft!), "King Kong", "Il pianeta delle scimmie" e "Il mondo perduto" di Conan Doyle (hanno un loro fascino, per esempio, le scene girate nel deserto del Mojave da dove spuntano rottami di auto e frammenti di resort di lusso) e tutto sommato il recupero dell'ingenuità tipica dei film e dei fumetti d'avventura di un tempo, col merito di non prendersi mai sul serio. Ma la trama in sé è quanto di più scontato ci sia, e soprattutto le gag, appunto, sono stupide, ripetitive e poco divertenti (a meno, forse, di guardarle in compagnia di amici alla ricerca di una comicità "so bad it's good": sotto questo aspetto in effetti ha i suoi fan). Nella prima e nell'ultima scena, il giornalista televisivo Matt Lauer interpreta sé stesso.