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2 marzo 2023

Paura in palcoscenico (A. Hitchcock, 1950)

Paura in palcoscenico (Stage Fright)
di Alfred Hitchcock – GB 1950
con Jane Wyman, Marlene Dietrich
**1/2

Visto in divx.

Sospettato dalla polizia di avere ucciso il marito di Charlotte Inwood (Marlene Dietrich), la diva teatrale di cui è l'amante, Jonathan Cooper (Richard Todd) si rivolge all'amica Eve Gill (Jane Wyman) affinché lo aiuti a nascondersi. La ragazza, innamorata di lui, decide di fare anche di più: convinta che Charlotte abbia organizzato tutto per far ricadere la colpa su Jonathan, e sfruttando le proprie doti di aspirante attrice (frequenta infatti l'accademia di arte drammatica), Eve avvicina sia la donna (fingendosi la sua nuova cameriera) sia l'ispettore che conduce le indagini sull'omicidio, Wilfred Smith (Michael Wilding). Ma scoprirà che non tutto è come credeva... Girato a Londra (durante una breve "pausa" di Hitchcock da Hollywood) con attori inglesi (le uniche eccezioni sono le due protagoniste femminili, Wyman e Dietrich), un giallo-noir ispirato a un romanzo di Selwyn Jepson, di cui cambia però il finale: è degno di nota soprattutto per il colpo di scena conclusivo, che rivela come alcune delle informazioni mostrate sullo schermo in precedenza fossero un inganno dovuto a un "testimone inattendibile" (anticipando in parte, su scala minore, la trovata de "I soliti sospetti"). Per il resto, il ritmo è compassato e la suspence latita, e anche la caratterizzazione dei personaggi spinge soprattutto sul versante umoristico, in particolare per quanto riguarda i genitori di Eve, il "commodoro" Gill (Alastair Sim) e sua moglie (Sybil Thorndike). Il valore aggiunto è la Dietrich, nel consueto ruolo di femme fatale, che canta anche una canzone originale di Cole Porter ("The Laziest Gal in Town"), oltre a "La vie en rose". Sir Alfred le concesse grande libertà sul set, lasciandole addirittura l'ultima parola sull'illuminazione e le inquadrature. La traduzione italiana del titolo si perde il doppio senso dell'originale, che significa piuttosto "Paura da palcoscenico".

18 aprile 2013

L'infernale Quinlan (Orson Welles, 1958)

L'infernale Quinlan (Touch of Evil)
di Orson Welles – USA 1958
con Charlton Heston, Orson Welles
****

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli, con Giovanni, Rachele, Paola, Marco, Eleonora, Ginevra, Florian e Sabine.

Una bomba fa esplodere l'auto di un ricco industriale, proprio sul confine fra Messico e Stati Uniti. A indagare è il detective americano Hank Quinlan (Orson Welles), con il collega messicano Mike Vargas (Charlton Heston) a fare da osservatore. I due non potrebbero essere più diversi: al primo interessa soltanto mandare in galera l'assassino, anche a costo di falsificare le prove, mentre per il secondo è fondamentale soprattutto rispettare la legge. Lo scontro fra i due poliziotti finisce per coinvolgere anche la moglie di Vargas, Susan (Janet Leigh), che viene sequestrata da Joe Grandi (Akim Tamiroff), capo della banda che Vargas sta mandando sotto processo in Messico... Da un mediocre romanzo giallo di Whit Masterson ("Badge of Evil": pare che Welles avesse chiesto ai produttori lo script peggiore che avessero a disposizione, in modo da dimostrare di essere in grado di trarre un bel film da qualsiasi materiale) un capolavoro del cinema noir, considerato da molti critici come il canto del cigno del genere ("l'epoca d'oro" del noir classico, in effetti, va dai primi anni quaranta ai tardi anni cinquanta). Ai tempi Welles era caduto in disgrazia presso i produttori hollywoodiani e da una decina di anni lavorava per lo più in Europa (sfornando, fra l'altro, capolavori come "Othello"): la possibilità di tornare alla regia (e alla sceneggiatura) gli venne data per insistenza dello stesso Charlton Heston (che qui interpreta il protagonista messicano, con un pesante trucco che sarà oggetto di ironia anche a distanza di anni, come in un celebre scambio di battute in "Ed Wood"). Welles ne approfittò per riunire molti tecnici (dall'operatore Russell Metty al truccatore Maurice Siederman) e attori (Akim Tamiroff, Joseph Cotten) con cui aveva collaborato in passato. Alcuni ruoli furono dati ad amici che venivano a trovarlo sul set (ed ecco spiegati i camei di Zsa Zsa Gabor e soprattutto di Marlene Dietrich, la cui parte – quella della chiromante Tanya – fu girata in un solo giorno ma crebbe a tal punto che è proprio lei a pronunciare la frase finale della pellicola, una sorta di epitaffio per Quinlan: "Era uno sporco poliziotto, ma a suo modo era un grand'uomo"). Joseph Calleia, amico di lunga data di Welles, interpreta Menzies, il fedele collega di Quinlan, mentre Dennis Weaver è il guardiano notturno, mentalmente disturbato, del motel in cui viene rinchiusa Susie (tutta la sequenza dell'albergo sembra anticipare "Psycho", che Alfred Hitchcock avrebbe girato solo due anni dopo, guarda caso sempre con Janet Leigh come protagonista femminile). A riprese terminate, però, i produttori rimontarono il materiale già girato da Welles, eliminarono alcune scene o le sostituirono con altre fatte dirigere da Harry Keller, nell'intento di rendere più chiari alcuni passaggi della trama. Quando vide il risultato, il regista scrisse un celebre "appunto" di 58 pagine su come migliorare il montaggio finale. Non tutti i suoi suggerimenti vennero accolti, e il film uscì (pubblicizzato come un B-movie) nella versione voluta dallo studio. Nel 1978 la pellicola venne rieditata in una versione più lunga, ma solo nel 1998 uscì finalmente la cosiddetta "director's cut" che accoglieva gran parte dei suggerimenti di Welles (non tutte le scene da lui girate poterono però essere recuperate): fra questi, l'eliminazione dei titoli di testa, la presenza dei rumori ambientali nella sequenza iniziale e il montaggio parallelo delle vicende di Vargas e Susie.

Il film si apre con quello che è probabilmente il piano sequenza più celebre e citato di tutta la storia del cinema. Comincia con la ripresa ravvicinata di una bomba, tenuta in mano da un misterioso individuo che la innesca e poi la colloca in un'automobile, appena prima che un uomo e una giovane donna bionda salgano a bordo (da notare anche la corsa del misterioso attentatore, di cui si vede solo l'ombra proiettata su un muro). L'auto con la bomba si dirige verso la barriera doganale, per entrare negli Stati Uniti: lungo il suo tragitto si ferma più volte, per far passare il traffico o i pedoni, fra i quali ci sono anche Vargas e Susie, freschi sposini. La macchina da presa sale in cielo per oltrepassare un palazzo, si aggira rasoterra fra la folla e il traffico, si muove in orizzontale e in verticale con grande maestria. E nel frattempo la tensione sale, perché noi spettatori sappiamo che l'esplosione avverrà da un momento all'altro: anche la bionda sull'auto ne avverte l'imminenza ("Ho un ticchettio nella testa"), ma lo scoppio si verificherà solo quando la vettura avrà passato la frontiera, e in corrispondenza con il bacio fra Vargas e Susie. Menzionato e omaggiato in numerose pellicole (da "I protagonisti" di Robert Altman a "Boogie Nights" di Paul T. Anderson, da "Il fantasma del palcoscenico" di Brian De Palma a "Breaking News" di Johnnie To), questo sfoggio di abilità registica non è affatto fine a sé stesso, visto che mette in moto la vicenda e contemporaneamente presenta i personaggi principali, ed è graziato dalla colonna sonora di Henry Mancini, il cui ritmo richiama proprio il ticchettio della bomba. Ma il resto del film non è da meno, e alterna momenti sublimi (i duetti con la Dietrich, sempre ripresa in primissimo piano) ad altri forse imperfetti (la sottotrama di Susie nel motel si trascina francamente un po' a lungo). Il suo cuore, naturalmente, più che il protagonista Vargas è il personaggio di Hank Quinlan (d'altronde, da sempre nei noir i veri protagonisti sono i cattivi e i perdenti): laido e corrotto capitano di polizia, grasso a dismisura, provato nel fisico e nell'animo, ossessionato dal passato (la moglie fu assassinata e lui non riuscì a far condannare l'omicida), ex alcolizzato e ora goloso di dolci, razzista (non si contano le frecciate contro i messicani), costretto dalla zoppia a camminare con un bastone, interpretato da un Welles che anche nella vita reale cominciava a essere fortemente sovrappeso e a soffrire problemi di salute (qui, comunque, è spesso inquadrato dal basso per accentuare il girovita, o da vicino per metterne in risalto il sudore e lo sporco). Al contrario di Vargas, Quinlan non ha alcun rispetto per la legge; e anziché alla deduzione, nelle indagini si affida solo alle sue "intuizioni", che si rivelano peraltro infallibili: anche se le prove che utilizza per incastrare gli assassini sono false, riesce sempre e comunque a individuare il vero colpevole. In questo modo la lotta fra i due si innalza rispetto al "semplice" scontro fra una canaglia e un idealista: diventa una battaglia fra giustizia e legalità, dove in fondo ciascuno dei due contendenti ha le sue ragioni, e il male si confonde con il bene. Anche lo scenario di frontiera in cui Vargas e Quinlan si aggirano è altrettanto confuso e ambiguo: si tratta di un mondo caotico e abitato da criminali, spogliarelliste, chiromanti, bande di drogati, che vivono fra topaie, discariche di rifiuti e alberghi equivoci, mirabilmente reso dalla fotografia in bianco e nero che accentua le ombre e le ruvidità, e da una regia barocca, stilizzata ed espressionista che ricorre spesso a inquadrature sghembe o dal basso, a sottolineare come anche l'azione non sia mai lineare. Proprio l'ambientazione "di confine" si rispecchia nei rapporti fra i personaggi: siamo in una sorta di "terra di nessuno" fra due paesi così vicini e legati fra loro, eppure così diversi e ostili l'uno con l'altro, che a volte riescono ad amarsi (Vargas e Susie) e a volte si scontrano irrimediabilmente (Vargas e Quinlan).

10 novembre 2010

Angelo (Ernst Lubitsch, 1937)

Angelo (Angel)
di Ernst Lubitsch – USA 1937
con Marlene Dietrich, Herbert Marshall
***

Visto in DVD, con Marisa.

La moglie di un brillante diplomatico inglese, trascurata dal marito, vive un'avventura di una sola sera a Parigi con un affascinante gentiluomo, al quale non rivela il proprio nome (lui la chiama "Angelo") e che non intende rivedere mai più. Ma pochi giorni dopo se lo ritroverà in casa a Londra, invitato dal marito, che naturalmente non è al corrente della loro fugace relazione. Come in molti altri lavori di Lubitsch, i temi sono quelli del desiderio e dei rapporti coniugali, e non manca il solito triangolo amoroso: ma stavolta non si tratta di una commedia, o almeno non soltanto (non mancano comunque infatti dialoghi e situazioni assai comiche, in particolare quelle legate alla servitù che commenta puntigliosamente il comportamento dei padroni, per non parlare dell'understatement britannico: "Com'è il tempo?" "Discreto", mentre diluvia). La pellicola è permeata da un retrogusto malinconico e struggente, quasi disperato, che non si dissipa nemmeno nel finale, anzi si rafforza con l'inquadratura dei coniugi che si prendono sottobraccia, allontanandosi di spalle, senza neanche guardarsi in volto: è il trionfo dell'amore ritrovato o piuttosto quello della rassegnazione? Marlene Dietrich è bellissima, misteriosa ed enigmatica: il suo personaggio ha molte ombre nel proprio passato (è stata un'escort di lusso?), eppure prova più volte a confessare tutto al marito (come nella scena in cui, durante la colazione, gli rivela di avere un amante, anche se sembra solo una provocazione fatta per gioco); Marshall e Douglas (entrambi già attori lubitschiani) sono soltanto satelliti che ruotano attorno a lei, perfetti nelle parti del flemmatico marito inglese che nemmeno si accorge di trascurare la consorte e dell'appassionato amante pronto a tutto pur di rivedere la sua adorata. Per queste caratteristiche ambigue, il film fu un flop ed è considerato uno dei meno popolari di Lubitsch: eppure non mancano i consueti "tocchi" di genio del regista, come nella scena in cui Marlene parla del brano che ha appena suonato al pianoforte alludendo invece alla sua avventura sentimentale ("Quando l'inizio di una cosa è molto bello, mi domando se è bene portarla a termine...") e naturalmente in quella – citatissima, anche da Truffaut nel saggio "I film della mia vita" – in cui la tensione durante la cena viene risolta senza inquadrare la sala da pranzo ma mostrando invece la cucina, attraverso i commenti dei camerieri che osservano i piatti man mano che ritornano: la signora non ha toccato cibo, l'invitato ha tagliato la bistecca in cento pezzettini senza mangiare nulla, e invece il marito – che sollievo! – ha fatto piazza pulita! A parte questi picchi, la pellicola (di cui è evidente l'origine teatrale) ha una consistenza strana e impalpabile, quasi come un sogno a occhi aperti. E il regista si adegua, mostrando personaggi che svaniscono nel nulla (Marlene nel parco di Parigi, quando lascia la fioraia e le violette sole sullo schermo) o risparmiandoci momenti chiave della storia (l'amante che, osservando il ritratto, capisce che "Angelo" è la moglie del suo anfitrione). Pessimo l'audio (non restaurato) del DVD italiano.

11 maggio 2010

Testimone d'accusa (B. Wilder, 1957)

Testimone d'accusa (Witness for the prosecution)
di Billy Wilder – USA 1957
con Charles Laughton, Marlene Dietrich
****

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele e Ilaria.

Tratto da un testo teatrale di Agatha Christie, stupendamente sceneggiato da Billy Wilder con due collaboratori, questo film è uno dei massimi capolavori di quel particolare genere – così popolare nei paesi anglosassoni – chiamato courtroom drama e incentrato su processi e tribunali. Un brillante avvocato che di recente ha avuto problemi di salute (Charles Laughton) deve difendere un uomo (Tyrone Power) dall'accusa di aver assassinato una ricca vedova: il fatto che la donna avesse appena cambiato il proprio testamento per renderlo suo erede universale non depone certo a suo favore. L'unico alibi gli potrebbe essere fornito dalla moglie Christine (Marlene Dietrich), profuga tedesca che aveva conosciuto fra le rovine della Germania dopo la guerra: ma questa non solo sembra reticente a volerlo scagionare, ma viene addirittura chiamata a testimoniare per l'accusa! Colpi di scena a ripetizione, schermaglie verbali ed emotive, una caratterizzazione sopraffina di tutti i personaggi e una messa in scena precisa e coinvolgente fanno di questa pellicola una delle gemme più brillanti della produzione wilderiana non strettamente comica: il regista non rinuncia comunque ad alcuni tocchi di commedia, soprattutto quando sono di scena il formidabile Charles Laughton (che dà vita a un avvocato intelligente, bizzoso e simpatico) e la sua fin troppo premurosa infermiera (Elsa Lanchester), che lo tiranneggia in continuazione proibendogli (senza troppo successo) alcol, sigari ed emozioni forti. A loro – marito e moglie nella vita reale, ed entrambi nominati per l'Oscar – fanno da contraltare due vecchi "mostri sacri" come Tyrone Power (qui in una delle sue ultime e migliori interpretazioni) e Marlene Dietrich, che dimostrano di avere ancora cartucce da sparare dopo i fasti degli anni trenta e quaranta. Al termine del film, una voce fuori campo sui titoli di coda invitava gli spettatori a non rivelare agli amici il finale della pellicola, in maniera simile a come aveva fatto Clouzot – con un cartello – due anni prima per "I diabolici". La frase di lancio del film, invece, era "Una suspense come questa si incontra una volta ogni cinquant'anni!". Forse per una volta i pubblicitari non avevano tutti i torti.

25 novembre 2009

Scandalo internazionale (B. Wilder, 1948)

Scandalo internazionale (A foreign affair)
di Billy Wilder – USA 1948
con Jean Arthur, John Lund, Marlene Dietrich
***

Rivisto in DVD, con Martin.

Una delegazione di politici degli Stati Uniti giunge nella Berlino dell'imminente dopoguerra per far visita alle truppe d'occupazione alleate. Nel gruppo c'è anche una parlamentare repubblicana, integerrima e moralista, che non vede di buon occhio le relazioni sentimentali fra i soldati americani e le ragazze del posto: per distrarla ed evitarle di indagare sulla sua compagna tedesca (una cantante di cabaret che durante il regime si era compromessa con importanti gerarchi), un capitano maneggione e trafficone comincia a corteggiarla e conquista rapidamente il suo cuore... Girando direttamente a Berlino (nella prima parte del film c'è anche una sorta di "gita turistica" fra le macerie della città, all'epoca tagliata dalla versione italiana) e senza risparmiare riflessioni – nemmeno tanto fra le righe – su questioni del momento come i problemi pratici della ricostruzione, i delicati compiti delle forze alleate o le responsabilità morali dei civili coinvolti con il regime nazista, Wilder sviluppa una spumeggiante e originale commedia romantica che fonde il classico "triangolo" con il giallo a sfondo spionistico. Se il personaggio interpretato da Jean Arthur – l'inflessibile e rigida conservatrice che si dimostra vulnerabile e si lascia contagiare pian piano dalle gioie dell'amore – può ricordare la "Ninotchka" di Lubitsch, a farle da contraltare c'è una Marlene Dietrich come al solito seducente e altera, disinvolta e amoralmente cinica, che passa da un uomo all'altro a seconda delle convenienze. Ottimo cinema: d'altronde Wilder è uno di quei registi capaci di brillare anche nei lavori apparentemente minori.

Una curiosità: il motivo che John Lund fischietta la prima volta che si reca da Marlene è "Isn't it romantic?", canzone di Richard Rodgers e Lorenz Hart tratta dal bellissimo film "Amami stanotte" di Rouben Mamoulian, che Wilder evidentemente amava molto: la melodia si sentiva anche in una delle prime scene di "Frutto proibito" e la canzone verrà riutilizzata in "Sabrina".

24 aprile 2009

L'imperatrice Caterina (J. von Sternberg, 1934)

L'imperatrice Caterina (The scarlet empress)
di Josef von Sternberg – USA 1934
con Marlene Dietrich, John Lodge
***

Visto in divx, con Marisa.

All'interno della vasta filmografia dedicata a sovrane e imperatrici (da "La regina Cristina" con Greta Garbo alle recenti pellicole su Elisabetta I con Cate Blanchett), questo film è uno dei più celebrati, e a ragione. La storia comincia quando la giovane principessa prussiana Sofia Federica viene inviata dai genitori in Russia, dove sposerà il futuro zar Pietro III e assumerà il nuovo nome di Caterina II. L'autoritarismo dell'imperatrice madre Elisabetta, la pazzia del marito e gli intrighi della corte russa la trasformeranno da fanciulla ingenua, semplice e innocente, piena di sogni romantici, in una cinica manipolatrice che lotta per la propria sopravvivenza e contemporaneamente per conquistare il potere, portando dalla propria parte l'esercito (fra le cui file si procura numerosi amanti, come il conte Alexei e il capitano Orlov), il clero e il popolo. La pellicola si conclude con la deposizione del folle e crudele Pietro e l'ascesa al trono di Caterina la Grande, destinata a regnare a lungo e a trasformare la Russia in una delle maggiori potenze europee. Liberamente adattato dai diari dell'imperatrice stessa, è un film strabordante, stilizzato e monumentale, dove le vere protagoniste sono le scenografie deliranti ed espressioniste: la reggia di Mosca è infatti sontuosa e barocca, dominata da statue lignee grottesche e inquietanti, da immagini di torture e di scheletri appesi alle pareti, da candele accese che proiettano ombre guizzanti, da porte così pesanti da richiedere una decina di persone per essere aperte, e da saloni cupi e angoscianti come quelli di un castello di vampiri in un film horror. In mezzo a tutto questo, i personaggi sembrano come schiacciati da un destino che pare già scritto e che li plasma secondo la propria volontà (solo così si può spiegare la repentina metamorfosi della protagonista). La colonna sonora prende in prestito numerosi temi da Tchaikovsky (soprattutto dall'ouverture "1812" e dalla Danza slava) ma anche da Mendelssohn e da Wagner; la fotografia, cupa e luminosa al tempo stesso, è perfetta nel rendere l'atmosfera di un paese dove regnano "l'ignoranza, la violenza, la paura e l'oppressione" (come recita una didascalia introduttiva); la produzione è imponente (nei titoli di testa si cita la presenza di oltre "mille comparse"); la Dietrich brilla di luce propria e von Sternberg non nasconde la propria venerazione per la sua attrice, alla bellezza della quale rende giustizia in ogni possibile inquadratura. In un film del genere, naturalmente, la fedeltà alla ricostruzione storica ha poco spazio e ancor meno importanza. La scena in cui Pietro schiaffeggia il prete che chiede la carità, il quale risponde "Questo era per me. E per i poveri?", fa riferimento a un episodio che sarebbe accaduto a San Filippo Neri.

4 giugno 2008

Marocco (Josef von Sternberg, 1930)

Marocco (Morocco)
di Josef von Sternberg – USA 1930
con Marlene Dietrich, Gary Cooper
***

Visto in DVD.

Il primo film americano di Marlene Dietrich (e il secondo, dopo “L'angelo azzurro”, dei sette che reciterà per la regia di von Sternberg) è una pellicola romantica che a tratti sembra quasi un “Casablanca” ante litteram ma che a conti fatti poggia su una trama piuttosto lineare. Marlene è una disillusa cantante di cabaret che si rifugia in una cittadina del Marocco, dove si innamora a prima vista di un giovane soldato della legione straniera (Cooper), nonostante la corte che le viene fatta da un ricco pittore (Adoplhe Menjou). Inizialmente priva di fiducia verso il genere maschile (ma anche Cooper è discretamente misogino, pur essendo ritratto come un Don Giovanni), finirà con l'abbandonare ogni cosa per seguire il soldato, incamminandosi nel finale a piedi nudi nel deserto del Sahara. Se qualcuno si chiedesse perché certi personaggi diventano icone del cinema, per capirlo gli basterebbe guardare il primo numero musicale del film, quello in cui la Dietrich si esibisce in marsina e cilindro (con sottotesti lesbici nemmeno poi tanto nascosti, visto che riceve un fiore da una spettatrice e la bacia sulla bocca). Sternberg, come di consueto, fa un ottimo lavoro con luci, scenografie e movimenti di macchina (i bei carrelli all'arrivo dei soldati in città e al momento della loro partenza), mentre restano memorabili alcuni frammenti di dialogo: “C'è una legione straniera anche per le donne. Ma noi non abbiamo uniformi, né bandiere, né medaglie quando siamo coraggiose, né bende quando ci feriamo”.

19 aprile 2008

Rancho Notorious (Fritz Lang, 1952)

Rancho Notorious (id.)
di Fritz Lang – USA 1952
con Marlene Dietrich, Arthur Kennedy
***

Visto in DVD.

Alla disperata ricerca di un bandito che ha ucciso la sua promessa sposa pochi giorni prima delle nozze, un cowboy giunge in un ranch la cui proprietaria Ambra Altair, ex ballerina e cantante di saloon, offre ospitalità e un nascondiglio a rapinatori e ricercati in cambio di una percentuale del loro bottino. Forse l'omicida si nasconde fra loro?
Un western insolito e di grande atmosfera, lirico e crepuscolare, magistralmente diretto da Lang con toni barocchi e claustrofobici (cui contribuisce la bella fotografia a colori) e interpretato da una Dietrich carismatica e autoritaria come non mai, unica donna in un mondo di uomini tormentati dall'odio e dalla sete di vendetta, splendida sia in abiti sfarzosi sia in pantaloni da lavoro. Numorose le sequenze degne di nota, dalla "corsa dei cavalli" nel saloon alla giornata delle elezioni nel villaggio in cui Kennedy incontra Mel Ferrer, la "simpatica canaglia" innamorata di Ambra; dalla canzone intonata dalla donna durante la quale il protagonista scruta con odio i volti dei presenti, fino al duello finale. Il ranch della Dietrich, che in italiano si chiama Mulino d'Oro, prende il nome dal Chuck-a-Luck, una sorta di gioco d'azzardo simile alla ruota della fortuna: il titolo del film avrebbe dovuto essere proprio "The legend of Chuck-a-Luck", come quello della canzone che sin dai titoli di testa accompagna il cammino dei personaggi, ma venne cambiato in "Rancho Notorious" per volontà del produttore Howard Hughes.