26 dicembre 2013

Regalo di Natale (Pupi Avati, 1986)

Regalo di Natale
di Pupi Avati – Italia 1986
con Carlo Delle Piane, Diego Abatantuono
***1/2

Visto in TV, con Marisa.

A Bologna, nella notte di Natale, quattro amici di lunga data (Diego Abatantuono, Gianni Cavina, Alessandro Haber e George Eastman) si ritrovano dopo parecchi anni per giocare a poker in una lussuosa villa fuori città. L'intenzione è quella di spennare un "pollo" di passaggio, un bizzarro e ricco industriale dai modi eccentrici (lo straordinario Carlo Delle Piane, premiato a Venezia come miglior attore): ma non tutto è come sembra, e nel corso della nottata verranno alla luce vecchi rancori e nuovi retroscena. Uno dei film più celebri e belli di Avati, che innesta sul tema dell'amicizia – costante di gran parte del cinema italiano – una riflessione amara e malinconica sul fallimento, la solitudine e la discontinuità fra passato e presente, per non parlare dell'abile costruzione della suspense legata alla partita a poker: la posta si alza vertiginosamente man mano che il gioco procede, fino al punto di non ritorno, con tanto di colpo di scena finale. Se la sceneggiatura asciutta e precisa (dello stesso Avati) è efficace nello scavare a fondo nei personaggi (Franco è il proprietario di un cinema di Milano, l'unico del gruppo che ha fatto fortuna; Ugo è un conduttore di scalcinate televendite su una tv locale; Lele è un giornalista e critico cinematografico fallito, con una passione per John Ford; Stefano è il gestore di una palestra gay), attraverso l'unità di tempo e d'azione (a parte i brevi incipit che presentano i personaggi e alcuni flashback che illustrano le ragioni della rivalità tra Franco e Ugo – per colpa di una donna, ovviamente, interpretata da Kirstina Sevieri – quasi tutta la pellicola è ambientata al tavolo da gioco) riesce a mescolare abilmente commedia e dramma. Fu grazie a questo film che Abatantuono cominciò ad abbandonare lo stereotipo del "terrunciello" e a farsi apprezzare anche come attore drammatico. Musiche di Riz Ortolani. Con un seguito nel 2004, "La rivincita di Natale".

24 dicembre 2013

The family man (Brett Ratner, 2000)

The Family Man (id.)
di Brett Ratner – USA 2000
con Nicolas Cage, Téa Leoni
**

Visto in divx, con Sabrina.

Jack Campbell (Nicolas Cage), ricco broker finanziario con un lussuoso appartamento a Wall Street, il lavoro come unica priorità e una donna diversa ogni notte, è convinto di non aver null'altro da chiedere alla vita. Proprio alla vigilia di Natale, per dimostrargli che ha torto, una misteriosa entità (Don Cheadle) gli mostra cosa sarebbe accaduto se tredici anni prima avesse scelto di sposare la sua fidanzata dell'epoca, Kate (Téa Leoni), anziché volare a Londra per cogliere un'opportunità di carriera: sarebbe diventato un "padre di famiglia", con due bambine, un impiego modesto, una piccola casetta nei sobborghi, ma anche tanta felicità. Fra Dickens ("Canto di Natale") e Frank Capra ("La vita è meravigliosa"), una commedia romantica-natalizia-fantastica a sfondo morale. I temi sono quelli soliti: le scelte che facciamo ci cambiano, la famiglia è la cosa più importante e la ricchezza è incompatibile con la felicità (un concetto, quest'ultimo, ipocritamente onnipresente nel cinema americano mainstream, dove peraltro sembra che ogni cosa ruoti intorno al denaro). Bravo Cage (che all'inizio canta "La donna è mobile") e il resto del cast (che graziosa la bambina!), ma tutto è assai schematico e prevedibile, anche se il finale è quello giusto.

23 dicembre 2013

Frozen (C. Buck, J. Lee, 2013)

Frozen - Il regno di ghiaccio (Frozen)
di Chris Buck, Jennifer Lee – USA 2013
animazione digitale
**1/2

Visto al cinema Uci Bicocca, con Sabrina.

Elsa, principessa del regno di Arundell, ha il magico potere di generare e controllare ghiaccio e neve. Nel timore che possa fare involontariamente del male alla sorellina Anna o ad altre persone, i genitori le impongono di non uscire mai dalle sue stanze del castello. Quando è cresciuta, il giorno della sua incoronazione, perde però il controllo dei suoi poteri e ricopre l'intero reame di una coltre di neve, dando il via a un gelido e perenne inverno. Ritenuta una strega malvagia, fugge sulle montagne: spetterà alla sorella minore andarla a cercare e riportare tutto alla normalità. Ispirato alla fiaba "La regina delle nevi" di Andersen, un film che procede sulla strada segnata da "Rapunzel" ("Tangled" in originale: c'è continuità anche nei titoli, con l'uso di un participio passato): versioni moderne e "leggere" delle classiche favole, con protagoniste "super-simpatiche", numerose canzoni (non memorabili in verità, a parte "Let it go", in italiano "All'alba sorgerò"), spalle comiche come nel periodo d'oro dell'animazione disneyana, anche se con meno profondità (non siamo alla Pixar, nonostante John Lasseter figuri come produttore esecutivo) e un utilizzo spinto delle gag fisiche e visive (bisogna pur tenere il passo di DreamWorks, Fox e compagnia!). Non che manchino, dal punto di vista della sceneggiatura, alcune soluzioni di "rottura" rispetto al passato – su tutte, la "regina malvagia" che per una volta è in realtà buona, e la principessa che salva sé stessa (Anna, moribonda, può essere salvata solo da un "atto di puro amore": ma non si tratta del bacio del principe, come tutti credevano, bensì da un'azione che lei stessa deve compiere) – ma per il resto siamo nella routine e nel puro intrattenimento, con la consueta maestria tecnica per quanto riguarda l'animazione. Perfetto per i bambini (ma qualcuno si annoierà comunque), molto meno per gli adulti. Ciò nonostante, enorme il successo di pubblico, tanto che la pellicola ha fatto segnare il record di incassi per un film d'animazione. Non eccezionale il character design, che rende le due protagoniste delle bamboline. E a proposito delle spalle comiche, raramente se n'è vista una così inutile dal punto di vista narrativo come Olaf, il pupazzo di neve: molto meglio l'alce Sven, anche se non parla (o forse proprio per questo). Due premi Oscar (miglior film d'animazione, il primo per la Disney (!) da quando esiste la categoria, e miglior canzone). Un sequel nel 2019.

21 dicembre 2013

Burn after reading (Joel ed Ethan Coen, 2008)

Burn After Reading - A prova di spia (Burn After Reading)
di Joel ed Ethan Coen – USA 2008
con Frances McDormand, George Clooney
*

Visto in TV.

Un agente della CIA di terz'ordine (John Malkovich), licenziato per alcolismo, decide per vendetta di scrivere le proprie memorie. Ma il CD con le bozze, smarrito negli spogliatoi di una palestra, viene trovato da due impiegati della struttura (Brad Pitt e Frances McDormand), che provano a ricattare l'agente e poi, dopo il suo rifiuto, a vendere le presunte informazioni segrete ai russi. La storia si complica per una serie di tradimenti incrociati: la moglie di Malkovich (Tilda Swinton), per esempio, è amante di un poliziotto (George Clooney) che – fra le sue mille scappatelle – ha anche una relazione con la McDormand. Raccontata con i toni di una farsa che non fa mai ridere, questa presunta satira di costume non è altro che una delle tante scemenze a cui i Coen ci hanno purtroppo da tempo abituati. I due sopravvalutati fratelli si rifanno stavolta al modello di "Fargo", mettendo in scena una serie di personaggi stupidi, traditori ("Tutti vanno a letto con tutti", si commenta a un certo punto), egocentrici e fasulli, uno più deprecabile dell'altro. Nessuno si salva, fra adulteri, alcolizzati, ipocriti, nevrotici, incompetenti, triviali, ossessionati dalla cura del corpo (la McDormand pensa soltanto a procurarsi il denaro necessario ai suoi interventi di chirurgia estetica) o semplici cazzoni (Pitt): ne esce un ritratto di un'America decerebrata, amorale e senza speranza, dove a guidare la vicenda (che non può che finire male) non è nemmeno il caso o il destino ma la stupidità dei suoi stessi protagonisti. Peccato però che la sceneggiatura sia non meno superficiale dei personaggi, senza una direzione precisa e incapace di dar vita non dico a una satira tagliente ma semplicemente a una black comedy di discreto livello. Ogni volta che sembra che la storia stia per decollare (buoni i momenti che illustrano la paranoia di George Clooney, per esempio), la sequenza successiva fa immancabilmente cambiare idea. E il tutto sfocia in un finale tanto inconcludente quanto anticlimatico (come nel precedente "Non è un paese per vecchi", alcune scene clou vengono raccontate da altri personaggi anziché mostrate allo spettatore), al punto da far recriminare – nonostante il buon cast – per il tempo dedicato alla visione.

17 dicembre 2013

Lo Hobbit: La desolazione di Smaug (Peter Jackson, 2013)

Lo Hobbit: La desolazione di Smaug
(The Hobbit: The Desolation of Smaug)
di Peter Jackson – USA/Nuova Zelanda 2013
con Martin Freeman, Richard Armitage
**

Visto al cinema Orfeo (in 3D), con Sabrina.

L'hobbit Bilbo Baggins e i tredici nani guidati da Thorin Scudodiquercia proseguono il loro viaggio verso Erebor, la Montagna Solitaria, dove il drago Smaug riposa a guardia del tesoro rubato. Sempre braccati dagli orchi di Dol Guldur (capeggiati stavolta da Bolg, figlio di quell'Azog che ha un conto aperto con Thorin), i nostri eroi dovranno separarsi dallo stregone Gandalf, che preferirà dirigersi verso sud per indagare sulla reale natura del misterioso Negromante; attraversare l'inospitale Bosco Atro, dove combatteranno contro una nidiata di ragni giganti; fuggire dalle prigioni degli elfi di Thranduil, signore del Reame Boscoso (e padre di Legolas, che torna prepontentemente in azione); viaggiare lungo il fiume – nascosti in tredici barili – fino a raggiungere Esgaroth, cittadina sulle sponde del lago, dove faranno la conoscenza dell'arciere Bard, in rotta con il corrotto governatore della cittadina; arrampicarsi sui fianchi della Montagna Solitaria, dove si cela un ingresso segreto per i saloni al suo interno; e infine affrontare il possente Smaug, senza però riuscire a sconfiggerlo e anzi scatenando la sua ira. Il resto (Battaglia dei Cinque Eserciti compresa) è rimandato al terzo e conclusivo capitolo, in uscita nelle sale fra un anno. La decisione di dividere l'avventura in ben tre parti, ora si può cominciare a dirlo, non è stata delle più felici: se la Terra di Mezzo rimane senza dubbio un posto meraviglioso da visitare, la narrazione qui soffre per i ritmi dilatati, intervallati da lunghissime ed elaborate scene d'azione (la fuga nei barili, la lotta col drago) che tendono più ad annoiare che ad esaltare lo spettatore, mentre la sottotrama che coinvolge Gandalf (a proposito: la scoperta che il Negromante è in realtà Sauron non contraddice quanto si sapeva all'inizio de "Il Signore degli Anelli"?) è quasi una fonte di distrazione.

Anche stavolta non mancano diversi cambiamenti al testo originale, con una sceneggiatura che, ahimè, non sempre convince appieno: al ridimensionamento forse eccessivo di Beorn (manca purtroppo la divertentissima scena dell'introduzione dei nani – uno a uno – nella sua casa) fa da contraltare l'approfondimento di Bard, una scelta saggia visto la futura importanza del personaggio nella risoluzione del conflitto con Smaug. E sempre nell'ottica di aggiungere stratificazione e complessità alla vicenda va letta l'introduzione dell'elfa Tauriel, personaggio del tutto originale, e la sua "love story" (chiamiamola così) con il nano Kili, che riesce contemporaneamente a caratterizzare meglio uno dei compagni di Thorin (che nel libro di Tolkien, nomi e pochi dettagli a parte, erano quasi indistinguibili l'uno dall'altro) e ad aggiungere sottotrame ulteriori a una storia che per il resto – e giustamente, trattandosi di una fiaba – è molto più lineare di quella de "Il Signore degli Anelli". Non aggiunge invece moltissimo il ritorno di Legolas, che come quelli di Saruman e Galadriel nel film precedente è soprattutto una strizzatina d'occhio per i fan della prima trilogia, anche se non si tratta di una forzatura visto che in effetti l'elfo interpretato da Orlando Bloom è di casa proprio nel Reame Boscoso (divertente lo scambio di battute con Glóin a proposito del figlioletto di quest'ultimo, Gimli). Thorin inizia a mostrare il suo lato oscuro, che si focalizza nell'avidità e nel desiderio di impadronirsi dell'Archengemma (e dunque del potere) a qualunque costo, anche a quello di sacrificare le vite dei suoi compagni, così come l'Anello comincia lentamente a esercitare il suo influsso nefasto su Bilbo, anche se per ora è più un utile oggetto magico che una reale minaccia.

Se il secondo episodio de "Il Signore degli Anelli" brillava per l'introduzione di Gollum, il capitolo centrale de "Lo Hobbit" sarà ricordato per il drago Smaug, creatura digitale stupefacente, dinamica e carismatica. Si temeva che mostrare una tale belva che parla (la voce in originale è di Benedict Cumberbatch) potesse risultare ridicolo o "disneyano", ma così non è stato. Anzi, le sequenze di Bilbo alle prese con il mostro sono forse le più visivamente impressionanti e memorabili dell'intera pellicola, ravvivandola nel finale, giusto in tempo perché la storia si interrompa sul più bello (nessuno degli altri quattro film tolkieniani di Jackson aveva mai avuto un simile cliffhanger). Per il resto, sul versante degli attori sono da segnalare le new entry Luke Evans nei panni di Bard (il cui ruolo, come già detto, è stato considerevolmente aumentato rispetto al romanzo, dandogli un notevole background), Lee Pace in quelli di re Thranduil (già apparso brevemente nel film precedente) ed Evangeline Lilly in quelli dell'elfa Tauriel. Mikael Persbrandt è Beorn, Lawrence Makoare (già pluri-cattivo ne "Il Signore degli Anelli") è Bolg, Stephen Fry è il Governatore di Esgaroth. Quanto ai camei, Peter Jackson continua a mangiare carote per le strade di Brea, mentre le due figlie di Bard sono interpretate dalle figlie di James Nesbitt (Bofur). A proposito dei nani, oltre al già citato Kili e agli evidenti Thorin e Balin, c'è un po' più di spazio e di caratterizzazione per Bombur, Bofur, Glóin e Dwalin. Meno memorabile del solito la colonna sonora di Howard Shore, e niente canzoni stavolta, mentre l'unico flashback è all'inizio e mostra l'incontro a Brea fra Gandalf e Thorin (narrato da Tolkien nei "Racconti incompiuti").

16 dicembre 2013

La tragedia di un uomo ridicolo (B. Bertolucci, 1981)

La tragedia di un uomo ridicolo
di Bernardo Bertolucci – Italia 1981
con Ugo Tognazzi, Anouk Aimée
*1/2

Visto in divx, con Marisa.

Una misteriosa banda di rapitori sequestra Giovanni, unico figlio dell'industriale parmense Primo Spaggiari. Quando l'uomo si convince che il figlio sia stato ormai ucciso, progetta di utilizzare i soldi del riscatto (ottenuti attraverso prestiti particolarmente favorevoli) per salvare il proprio caseificio dal fallimento. Un film confuso e non troppo riuscito, che da un lato vorrebbe far riflettere sul rapporto fra padri e figli (tema cardine di tutto il cinema di Bertolucci) e dall'altro offrire un amaro ritratto dei piccoli imprenditori in un'Italia che aveva ormai passato il momento del boom economico ed era scossa dalle contestazioni giovanili e dal terrorismo (evidente il distacco fra le vecchie e le nuove generazioni, incapaci di capirsi o di parlarsi). Il tutto attraverso lo sguardo e la voce (spesso fuori campo, rivolgendosi direttamente agli spettatori) di un personaggio consapevole di essere inadeguato, o meglio – come recita il titolo – "ridicolo", e che cerca disperatamente di tenersi a galla pur trovandosi inviluppato in una ragnatela di misteri (portati avanti anche dagli evasivi personaggi interpretati da Laura Morante e Victor Cavallo, rispettivamente la ragazza di Giovanni e il "prete operaio" suo amico) la cui matassa viene lasciata da sbrogliare allo spettatore (il film si conclude con le parole "Il compito di svelare l'enigma lo lascio a voi": eh no, Bertolucci, così è troppo facile!). La pellicola, che punta le sue carte sull'ambiguità e su un'impalpabilità quasi metafisica, risulta al tempo stesso semplicistica e contraddittoria, e soffre – oltre che per il finale onirico e appicicaticcio – per una malriuscita e ondivaga fusione fra dramma e satira (si pensi alla presenza di macchiette sopra le righe, se non grottesche, come il commissario di polizia o gli usurai; per non parlare di scene del tutto fuori contesto, come Laura Morante che si denuda o l'inciampo del suddetto commissario). Non riescono purtroppo a salvarla né la buona interpretazione degli attori (Tognazzi vinse a Cannes) né la consueta ambientazione tanto cara al regista (la "Bassa", con i suoi argini e le sue fattorie, i formaggi, i prosciutti, la musica di Verdi). Volendo, il film potrebbe essere considerato "speculare" a "Strategia del ragno": a parte il setting simile, lì c'era un figlio che indagava i segreti del padre, qui è il contrario (Primo scopre per esempio che Giovanni frequentava e proteggeva estremisti di sinistra). Per una volta Bertolucci (autore anche del soggetto e della sceneggiatura) non si affida a Vittorio Storaro per la fotografia ma a Carlo Di Palma. Colonna sonora di Ennio Morricone. Giovanni è interpretato da Ricky Tognazzi, figlio di Ugo anche nella realtà.

14 dicembre 2013

Un uomo a nudo (Frank Perry, 1968)

Un uomo a nudo (The swimmer)
di Frank Perry – USA 1968
con Burt Lancaster, Janice Rule
***1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli.

Ospite di alcuni amici nella loro villa con piscina sulle colline del Connecticut, in un'assolata domenica di fine estate, Ned Merrill decide di tornare a casa a piedi, o meglio "a nuoto", bagnandosi, una dopo l'altra, in tutte le piscine delle ville della contea che lo separano dalla sua formando una sorta di catena (o un "fiume", come lo chiama lui). Quella che sembra soltanto una bizzarria da parte di un uomo di successo, che si distingue dai suoi amici di mezza età per essere rimasto ancora un sognatore e un ottimista come quando era giovane, un dongiovanni tuttora atletico e con una famiglia felice che lo aspetta (una moglie e due figlie, che cita continuamente e con orgoglio), si rivelerà una sorta di Odissea al contrario, una parabola dove il viaggio verso casa comporta l'amara e dolorosa presa di coscienza del proprio fallimento. Piscina dopo piscina, scopriremo infatti – e forse anche lui con noi, visto che sembrava averlo rimosso – che l'immagine idilliaca che ci era stata presentata poggiava su basi ormai crollate, fino al più completo sfacelo. Ogni tappa del viaggio rappresenta un aspetto della personalità del protagonista che viene alla luce, in maniera non sempre piacevole, cancellando il falso sorriso che sfoggiava all'inizio (l'incontro con il bambino è un tuffo nella propria infanzia solitaria, quello con l'amante mette in crisi il suo orgoglio di dongiovanni, la festa e la piscina pubblica rappresentano le fasi di un'umiliazione sociale, dapprima da parte dei membri della sua stessa classe alto-borghese e poi da quelli del proletariato). Frank Perry ("David e Lisa", "Brevi giorni selvaggi") è uno dei registi più interessanti – e purtroppo misconosciuti – del cinema americano degli anni sessanta: qui tratteggia magistralmente, con un linguaggio che a volte assume i tratti surreali dell'allegoria, un'epoca in cui i miti del successo, del benessere e dell'american dream cominciavano a incrinarsi e a venarsi di inquietudine e di dubbi. Lancaster (a petto nudo e in costume da bagno – o addirittura senza – per l'intera durata della pellicola) è il mattatore, mentre fra i comprimari si segnalano Janet Landgard (la giovane babysitter), Joan Rivers (la donna alla festa) e Janice Rule (l'ex amante). La sceneggiatura di Eleanor Perry (moglie e collaboratrice abituale del regista) è tratta da un racconto breve di John Cheever. Alcune scene sarebbero state rigirate da Sydney Pollack (non accreditato) su richiesta dei produttori, che ritenevano "troppo intellettuale" l'interpretazione di Perry.

12 dicembre 2013

Ferro 3 (Kim Ki-duk, 2004)

Ferro 3 - La casa vuota (Bin-jip)
di Kim Ki-duk – Corea del Sud 2004
con Jae Hee, Lee Seung-yeon
***

Rivisto in DVD, con Sabrina.

Un ragazzo taciturno si introduce nelle case lasciate temporaneamente vuote dai loro abitanti (ovvero quelle in cui nessuno ha tolto dalle porte i volantini pubblicitari che lui stesso aveva precedentemente piazzato) e le "abita" per un breve periodo di tempo. Non ruba nulla, ma si fa il bagno, mette in ordine, si lava i vestiti, dorme, mangia, ripara piccoli oggetti o elettrodomestici rotti, si scatta una "foto ricordo" e poi va via prima che i proprietari tornino. Un giorno, in una villa di lusso, incontra una ragazza triste e solitaria come lui, una modella maltrattata dal marito, e decide di "salvarla" portandola via con sé. Per un po' la ragazza lo seguirà nelle sue scorrerie, fino a quando la polizia li arresterà, chiudendo lui in prigione e rimandando lei dal marito. Ma il ragazzo imparerà a essere silenzioso e invisibile come un fantasma, e potrà così tornare da lei all'insaputa di tutti... Bizzarro, romantico e metafisico, fatto di silenzi e di poesia, insieme a "Primavera, estate..." è stato il film che ha aiutato Kim a far breccia nei cuori del grande pubblico occidentale. Presentato a sorpresa alla Mostra del cinema di Venezia, vinse il premio per la miglior regia. Le molte peculiarità (il fatto che i due protagonisti non si scambino mai nemmeno una parola; l'incredibile capacità del ragazzo di risultare "invisibile" nel finale, dando così vita a un ménage à trois segreto) lo rendono un film davvero memorabile, dove la vena visionaria e metaforica di Kim si sviluppa in più direzioni (oggetti, immagini, fotografie, specchi, per non parlare in inquadrature simboliche come quella che conclude la pellicola, con i due amanti in piedi sulla bilancia la cui lancetta segna lo zero). In colonna sonora, solo una canzone: l'arabeggiante "Gafsa" di Natacha Atlas. Il titolo occidentale ("Bin-jip" significa semplicemente "La casa vuota") fa riferimento alla mazza da golf con cui il marito si vendica del ragazzo, che a sua volte lo aveva colpito con le palline al momento di "rapire" la donna. Il "ferro 3" è una delle mazze meno usate durante il gioco; e proprio al golf sono legati i pochi momenti di violenza che Kim si porta dietro dalle pellicole precedenti (su tutte, la scena in cui la pallina scagliata dal protagonista colpisce una donna in macchina). Però, ci sono anche dei difetti: a tratti la trama sembra improvvisata, come se il regista avesse cominciato a dirigere il film avendo in mente solo lo spunto iniziale, e va un po' a casaccio, puntando sull'atmosfera e sull'impalpabilità dei personaggi: difetti che, amplificati nei lavori immediatamente successivi, condurrano a pellicole inguardabili come "Soffio".

11 dicembre 2013

Yattaman (Takashi Miike, 2009)

Yattaman - Il film (Yattaman)
di Takashi Miike – Giappone 2009
con Sho Sakurai, Kyoko Fukada
**1/2

Visto in divx.

Adattamento di un popolarissimo anime degli anni settanta (il più celebre della serie "Time Bokan" prodotta dalla Tatsunoko), presenta il talentuoso Takashi Miike nella sua vena più comica e meno violenta. Protagonisti sono due gruppi contrapposti che si battono, per mezzo di buffi e scalcinati robot, per la conquista della misteriosa Dokrostone, un antico cimelio a forma di teschio che è stato diviso in quattro parti e che, se riunito, permetterà di infrangere le barriere dello spazio-tempo. I buoni sono due ragazzini, Ganchan e Janet, che si trasformano nei paladini della giustizia Yatta 1 e Yatta 2; i cattivi sono invece i tre malfattori Miss Dronio, Boyakki e Tonzura, in arte il Trio Drombo, che organizzano complicate truffe per ottenere il denaro necessario alla costruzione dei loro robot. I tre sono al servizio del misterioso Dokrobei, "il re dei ladri", che impartisce ordini solo tramite la propria voce e li "punisce" dopo ogni fallimento. L'umorismo demenziale, surreale e infantile, le avventure in giro per il mondo (pur con una geografia comicamente distorta), le assurde e variopinte tecnologie (quasi tutti i robot hanno le sembianze di animali), le impagabili canzoncine sceme con tanto di scenografie e balletti, e soprattutto la personalità dei cattivi (il Trio Drombo è quasi il vero protagonista del film) si sposano con l'inventiva di Miike e con l'ottimo lavoro di adattamento: tanto i personaggi quanto gli scenari e le tecnologie sono stati trasposti con grande cura dal disegno allo schermo cinematografico, il che fa di "Yattaman" uno dei migliori e più fedeli live action tratti da un anime fra tutti quelli visti finora. Poche le modifiche rispetto al materiale di partenza, segnatamente la natura della Dokrostone e l'identità di Dokrobei (forse per lasciare qualche sorpresa agli spettatori che conoscevano già la serie animata), mentre l'accenno di una love story fra buono e cattiva era presente anche nel cartone. Fra gli attori, spiccano la bella Kyoko Fukada (ormai un mito, dopo "Dolls" e "Kamikaze girls") nei panni della seducente Miss Dronio, e Katsuhisa Namase in quelli di Boyakki, il suo buffo spasimante. Nella scena del ristorante c'è un cameo per i tre doppiatori del Trio Drombo della serie originale.

10 dicembre 2013

Indovina chi sposa mia figlia! (N. Vollmar, 2009)

Indovina chi sposa mia figlia! (Maria, ihm schmeckt’s nicht!)
di Neele Leana Vollmar – Germania/Italia 2009
con Christian Ulmen, Lino Banfi
*

Visto in TV.

Il tedesco Jan (Christian Ulmen) sta per sposare Sara (Mina Tander), figlia di un immigrato pugliese in Germania (Lino Banfi). Questi insiste affinché il matrimonio si celebri in Puglia, nella cittadina natale della famiglia, Campobello. Ma per Jan il soggiorno laggiù sarà un inferno, fra parenti invadenti, burocrazia assurda, faide di paese, incomprensioni di ogni tipo... Grande successo di pubblico in Germania, questo incrocio fra "Benvenuti al sud" e "Il mio grosso grasso matrimonio greco" è un film senza alcuna originalità, che sfrutta tutti i cliché e gli stereotipi culturali su tedeschi e italiani, senza nemmeno poter contare su una comicità disarmante (è pur sempre un film tedesco: avete mai visto un film tedesco divertente?). Unico punto di forza – e mi costa fatica dirlo – è Lino Banfi (che nella versione originale, non conoscendo il tedesco, recitava leggendo "cartelli" posizionati davanti a lui) e il suo personaggio, che dalla macchietta iniziale acquisisce via via spessore grazie ai flashback che mostrano il suo passato da immigrato in Germania come gastarbeiter ("lavoratore ospite"). Per il resto, tutto da dimenticare. Imbarazzante, in particolare, il protagonista. Colonna sonora a base di canzoni italiane pescate qui e lì a caso (ce ne fosse una pugliese!) e di musica che sembrerebbe più adatta a un film di Kusturica. Il titolo originale significa "Maria, non gli piace!" e fa riferimento alle scene a tavola in cui la nonna (e in generale tutti i presenti) si domandano se il tedesco non gradisce la loro cucina.

8 dicembre 2013

L'odio (Mathieu Kassovitz, 1995)

L'odio (La haine)
di Mathieu Kassovitz – Francia 1995
con Vincent Cassel, Saïd Taghmaoui, Hubert Koundé
***1/2

Rivisto in TV.

"Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all'altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: «Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene». Il problema non è la caduta, ma l'atterraggio". Potente ed espressivo, girato in tempi record a ridosso delle sommosse del 1995 nelle banlieue parigine (le immagini che si vedono sui titoli di testa sono reali riprese d'archivio), il film usa il meccanismo della metafora per mettere in guardia dal vortice di odio e violenza nel quale il disagio sociale stava facendo precipitare la Francia multirazziale (non mancano, fra l'altro, riferimenti polemici al modo in cui la destra di Le Pen "cavalcava" la situazione): il contrasto non è solo quello fra teppisti o emarginati (spesso immigrati di seconda generazione) e le forze dell'ordine, ma anche fra gli abitanti delle periferie e quelli del centro (esemplificativa la scena in cui i protagonisti provano ad "attaccar bottone", senza successo, con due ragazze parigine: fra mondi diversi pare esserci una totale incomunicabilità). Protagonisti della pellicola, che si svolge nell'arco di 24 ore, sono tre ragazzi (l'ebreo Vinz, l'arabo Saïd e il nero Hubert: i nomi sono gli stessi dei giovani attori) che, dopo una nottata di scontri con la polizia in seguito al pestaggio di un giovane immigrato da parte di un agente, sono entrati in possesso della pistola di un poliziotto. Vinz intende usarla "per pareggiare i conti" nel caso che l'amico picchiato, finito in coma, non dovesse sopravvivere. I tre trascorrono l'intera giornata vagabondando per il quartiere, per poi trasferirsi a Parigi e infine fare ritorno in periferia. Nel loro viaggio allucinato, senza prospettive e senza speranze, ci saranno avventure di vario tipo, momenti di tensione e altri persino umoristici, nonché incomprensioni e chiarimenti che sembrano portare uno spiraglio di luce nelle loro esistenze: ma il duro finale dimostra come è difficile uscire dalla spirale dell'odio. Capo d'opera di Kassovitz (che recita nella parte del naziskin "catturato" dai tre protagonisti), girato interamente in bianco e nero e vincitore del premio per la miglior regia al Festival di Cannes, il film ha lanciato l'attore Vincent Cassel (già apparso in precedenza nella pellicola d'esordio di Kassovitz, "Métisse") ed è da apprezzare per il modo assai naturale con cui mette in scena il disagio giovanile e la rabbia sempre pronta ad esplodere in violenza (almeno per quanto riguarda Vinz, mentre Hubert è più calmo e lucidamente fatalista, e Saïd sembra più deciso a "tirare a campare": i tre personaggi non sono uguali fra loro). L'uso del bianco e nero accentua la natura quasi documentaristica, soprattutto nella descrizione delle architetture urbane, dello sguardo di un regista che comunque non ha paura di prendere posizione. Peccato che nel prosieguo della sua carriera non sia più riuscito a sfornare film di pari livello. A livello di singole scene, da notare alcune piccole citazioni "cinefile", più o meno dichiarate ("Taxi Driver", "Il cacciatore", "Scarface").

7 dicembre 2013

Crank: High voltage (Neveldine, Taylor, 2009)

Crank: High Voltage (id.)
di Mark Neveldine, Brian Taylor – USA 2009
con Jason Statham, Amy Smart
**

Visto in TV.

Sopravvissuto per miracolo alla fine del film precedente (il "Crank" del 2006), l'indistruttibile killer Chev Chelios scopre che gli è stato espiantato il cuore, sostituito con un organo artificiale che deve essere mantenuto in funzione tramite l'elettricità. Per restare in vita e scoprire dove è finito il suo cuore originale (e contemporaneamente evitare la vendetta di un misterioso rivale che gli dà la caccia), deve dunque "ricaricare" a intervalli frequenti il proprio corpo con robuste dosi di energia elettrica. Tutto va bene: batterie d'automobile, taser della polizia, tralicci dell'alta tensione, persino lo "sfregamento" della pelle (il che condurrà a un'altra, esilarante, scena di sesso in pubblico con la sua fidanzata Eve, stavolta sulla pista dell'ippodromo). Frenetico e adrenalinico come il prototipo, questo sequel è – se possibile – ancora più assurdo ed esagerato, con un protagonista che più che un eroe d'azione diventa un incrocio fra un videogioco e un personaggio dei cartoni animati (c'è persino una sequenza, quella ambientata alla centrale elettrica, che lo paragona ai "mostri di gomma" tipo Godzilla). Colmo di sberleffi e di scene di cattivo gusto, alla resa dei conti è un (riuscito) divertissement tanto per chi lo ha realizzato (registi e attori) quanto per gli spettatori. Oltre a riportare in scena quasi tutti i personaggi del primo film (anche un paio che erano deceduti!), ne presenta anche di nuovi: Bai Ling è la cinesina Ria, David Carradine è l'anziano boss della Triade, Geri Halliwell è la madre di Chev, mentre nella sequenza della protesta in strada compaiono diversi celebri attori porno (da Ron Jeremy a Jenna Haze).

6 dicembre 2013

Fase 4: distruzione Terra (Saul Bass, 1974)

Fase 4: distruzione Terra (Phase IV)
di Saul Bass – USA/GB 1974
con Michael Murphy, Nigel Davenport
**1/2

Visto in divx.

Incuriosito dall'anomalo comportamento delle formiche in una regione desertica dell'Arizona (dove specie diverse di insetti, di solito antagoniste fra loro, si alleano e combattono insieme i loro naturali predatori, oltre ad erigere misteriose "torri" di sabbia), un ambizioso biologo (Davenport) si stabilisce sul posto per studiare il fenomeno, coadiuvato da un tecnico (Murphy) specializzato nel decifrare il linguaggio animale. Insieme assistono all'escalation di quella che è una vera e propria "guerra" delle formiche contro gli esseri umani, divisa in "fasi" (la pellicola mostra le prime tre fasi: il titolo lascia intendere che la fase successiva comporterà la conquista o addirittura la distruzione dell'intero pianeta). Tratto da una sceneggiatura originale di Mayo Simon (poi trasposta in un romanzo da Barry Malzberg), l'unico lungometraggio mai diretto da Saul Bass (più celebre come title designer che come regista, avendo curato le sequenze iniziali di tanti celebri film, in particolare per Otto Preminger e Alfred Hitchcock) è un thriller di fantascienza davvero insolito, con pochissimi personaggi (essenzialmente tre: oltre ai due scienziati c'è la ragazza interpretata da Lynne Frederick), dai toni inquietanti e catastrofici, sul tema della natura che si ribella all'uomo. Numerose le sequenze che vedono gli insetti come protagonisti (il film si apre con sette-otto minuti in cui si vedono solo formiche!), grazie a riprese ravvicinate e girate con maestria dall'entomologo Ken Middleham. L'atmosfera claustrofobica e paranoica è rinforzata dal ritmo lento con cui evolve la vicenda (e con cui monta la tensione), nonché dalle musiche spettrali ed elettroniche di Brian Gascoigne, David Vorhaus e Desmond Briscoe. Degna di nota la scena in cui i due protagonisti scoprono un "cerchio nel grano" realizzato dalle formiche super-intelligenti (in seguito proveranno a comunicare con loro utilizzando appunto forme geometriche): secondo alcuni esperti, proprio quella scena (che precede di due anni i primi avvistamenti di fenomeni simili) sarebbe stata la fonte di ispirazione per i burloni che disegnano strane forme nei campi. L'origine della mutazione delle formiche non è spiegata, ma si suggerisce che sia dovuta a qualche evento di natura "cosmica". Gran parte del film si svolge nel laboratorio isolato e computerizzato in cui i due scienziati si sono rinchiusi, assediati dalle colonie di insetti che li tengono sotto scacco dall'esterno. La conclusione giunge un po' improvvisa: i produttori avrebbero tagliato il finale "spettacolare e surreale", lungo quattro minuti, in cui Bass mostrava come sarebbe cambiata la vita sulla Terra una volta che le formiche avessero preso il sopravvento.

5 dicembre 2013

Quaranta pistole (Samuel Fuller, 1957)

Quaranta pistole (Forty guns)
di Samuel Fuller – USA 1957
con Barbara Stanwyck, Barry Sullivan
***

Rivisto in DVD.

Tre agenti governativi, i fratelli Bonell (Griff, Wes e Chico), giungono in una cittadina dell'Arizona con il compito di arrestare un rapinatore. Ma quest'ultimo è uno dei quaranta pistoleri (veri e propri "quaranta ladroni") al soldo di una potente proprietaria terriera, Jessica Drummond, che spadroneggia nella regione con metodi non sempre legali. L'escalation del conflitto fra la donna e i rangers causerà spargimenti di sangue, ma anche un'inattesa redenzione. Scritto, diretto e prodotto da Fuller, è un western atipico, energico e crepuscolare (si parla espressamente di un'epoca che sta finendo), che forma con "Rancho Notorious" (1952) di Fritz Lang e "Johnny Guitar" (1954) di Nicholas Ray un'ideale trilogia di pellicole con protagoniste donne forti, carismatiche e dominatrici, insolite per un genere dalla pesante caratterizzazione maschile: quasi delle dark lady, e infatti siamo più dalle parti del noir che dal western. Se all'inizio il plot sembra simile a quello di tanti altri film di frontiera (pare di essere in un fumetto di Tex, con il protagonista Griff nei panni del personaggio "duro" e invincibile, preceduto dalla sua fama: il paragone, fra l'altro, è curiosamente rinforzato dal cognome Bonell, quasi identico a quello del creatore del celebre fumetto), lo sviluppo della vicenda riserva parecchie sorprese e colpi di scena, fra momenti drammatici (il suicidio per amore dello sceriffo corrotto, l'uccisione improvvisa di Wes nel giorno delle sue nozze) e conflitti fra sentimenti e dovere (fra Griff e Jessica nasce un'intensa love story, ma dovranno perdonarsi reciprocamente la morte di un fratello), comprimari interessanti (i già citati fratelli di Griff e lo sceriffo, ma anche la giovane armaiola bionda e Morris, lo scapestrato fratello minore di Jessica), per non parlare della regia nervosa ed inventiva, che ricorre talvolta a soluzioni filmiche non convenzionali per l'epoca (tanto che la pellicola era amatissima da Godard e dai suoi sodali della nouvelle vague francese), come il montaggio rapido, i primi piani ravvicinati (il volto imperturbabile di Barry Sullivan mentre cammina verso il luogo del duello con Morris ricorda in modo impressionante il Charles Bronson del leoniano "C'era una volta il west"), lunghi carrelli e piani sequenza (che beneficiano del widescreen: si pensi alla sequenza del funerale di Wes). Nella scena del tornado, la Stanwyck girò personalmente (senza controfigure) la scena in cui le rimane il piede infilato nella staffa e viene trascinata dal cavallo. Il personaggio di Jessica è al centro di un aneddoto che sembra anticipare i "Chuck Norris facts": "Da bambina fui morsa da un serpente...", racconta infatti. E Griff conclude: "...che morì avvelenato".

2 dicembre 2013

Don Jon (J. Gordon-Levitt, 2013)

Don Jon (id.)
di Joseph Gordon-Levitt – USA 2013
con Joseph Gordon-Levitt, Scarlett Johansson
**1/2

Visto al cinema Apollo, con Sabrina.

L'italo-americano Jon Martello (Joseph Gordon-Levitt), soprannominato "Don" dagli amici perché – come un novello Don Giovanni – è in grado di conquistare una ragazza ogni notte, preferisce in realtà la pornografia su internet al sesso reale. Quando incontra la bellissima Barbara Sugarman (Scarlett Johansson), sembrerebbe mettere la testa a posto. Ma non durerà, visto che la ragazza tenterà di plasmarlo secondo la propria volontà. A fargli conoscere l'importanza di una relazione davvero basata sulla coppia, e non "a senso unico", sarà invece la più matura Esther (Julianne Moore), una vedova da lui conosciuta a una scuola serale. Scritto e diretto dallo stesso Gordon-Levitt (al debutto come regista), una vivace commedia con indubbie qualità e qualche difetto, soprattutto per come scivola verso un finale dalla morale scontata (se c'è l'amore, il sesso è migliore). Per il tema della pornodipendenza, peraltro affrontato con ironia e intelligenza, può sembrare una versione light di "Shame", mentre tutta la sezione dedicata al rapporto con Barbara (peccato non sia stata sviluppata maggiormente) lo rende una commedia romantica decisamente non tradizionale. Non convince del tutto invece il personaggio interpretato dalla Moore, così come si rimane con la sensazione che ci sia troppa carne al fuoco e che sarebbe stato meglio concentrarsi maggiormente su alcuni elementi che invece, alla resa dei conti, risultano solo propedeutici alla svolta finale. Impagabile comunque la scena in cui Jon, alla ragazza che lo attacca perché vede i porno, le rinfaccia gli sdolcinati film romantici (i cosiddetti "chick flick") per cui lei va matta, sottolineando non senza ragione come si tratti di prodotti analoghi, seppur diretti a pubblici diversi. Bello anche l'utilizzo che Gordon-Levitt fa, a livello registico e narrativo, del meccanismo della ripetitività: vediamo spesso il protagonista all'interno di sequenze sempre uguali (la confessione in chiesa, la palestra, il pranzo dai genitori, ecc.), e solo a un certo punto, quando acquisisce consapevolezza, riesce a "rompere" la routine (porge a sua volta domande al confessore, sceglie di giocare a basket con gli amici). In ogni caso, un promettente debutto dietro la macchina da presa.