30 novembre 2022

Nuvole in viaggio (Aki Kaurismäki, 1996)

Nuvole in viaggio (Kauas pilvet karkaavat)
di Aki Kaurismäki – Finlandia 1996
con Kati Outinen, Kari Väänänen
***1/2

Rivisto in divx.

Ilona (Outinen), capocameriera in un ristorante, e il marito Lauri (Väänänen), autista di tram, perdono il lavoro quasi contemporaneamente. E trovarne uno nuovo non è facile, in un mondo e una città che cambia rapidamente e che offre poche garanzie. Dopo aver esaurito ogni possibilità, riusciranno a risollevarsi aprendo un ristorante tutto loro. Dopo "Ombre nel paradiso" e "La fiammiferaia", Kaurismäki firma un altro affresco sui problemi socio-economici delle classi medie e povere, nonché uno dei suoi film migliori, con i suoi attori preferiti e il suo consueto stile asciutto, laconico e bordato di humour (humour finlandese, si badi bene, con personaggi apparentemente inespressivi e sempre silenziosi, in ogni circostanza). I toni malinconici (il rimpianto per il passato e per un mondo "con più stile"), la colonna sonora (dove abbondano canzoni nostalgiche ma anche brani della sesta sinfonia "Patetica" di Ciajkovskij), le scenografie colorate e la fotografia in chiaroscuro fanno da sfondo a una vicenda quotidiana di due personaggi pieni di dignità anche quando sono alle prese con problemi pressanti come quelli legati al lavoro e alla disoccupazione. Problemi dai quali, a volte, non basta la buona volontà per uscire, anche perché chi è onesto è comunque circondato da imbroglioni grandi e piccoli. Attorno ai due protagonisti ruota un bel cast di caratteristi (Elina Salo, Markku Peltola, Sakari Kuosmanen, Matti Onnismaa), mentre le "nuvole in viaggio" del titolo, quelle verso cui i due coniugi volgono lo sguardo nel finale, rappresentano i momenti buoni o brutti della vita, che vanno e vengono a loro piacimento o portati da un vento imprevedibile. Scene cult: l'uscita dal cinema ("Abbi pazienza, è tua sorella") e quella della riappacificazione fra i coniugi ("Tra noi è finita" - "Torniamo a casa" - "Va bene"). Da notare anche le due brevi sequenze mute che adombrano la tragica perdita di un figlioletto. Come in quasi ogni film del regista finlandese, i protagonisti hanno un cane. Premio speciale al festival di Cannes.

28 novembre 2022

You and me (Fritz Lang, 1938)

You and me
di Fritz Lang – USA 1938
con George Raft, Sylvia Sidney
**1/2

Visto su YouTube, in originale.

L'ex rapinatore Joe Dennis (George Raft) sta cercando di rifarsi una vita onesta, lavorando come commesso nei grandi magazzini di proprietà del signor Morris (Harry Carey), filantropo che ama dare una seconda possibilità agli ex galeotti. Qui si innamora della collega Helen (Sylvia Sidney) e finisce per sposarla, ignorando che anche la ragazza ha trascorsi criminali: quando lo scopre, per la delusione accetta la proposta dei suoi ex complici di rapinare proprio il negozio in cui lavora. Sarà Helen a insegnare a lui e agli altri ladri perché "il crimine non paga" (e non con un pistolotto morale, ma con un ragionato calcolo... economico!). Il terzo film americano di Fritz Lang è forse uno dei suoi lavori più incompresi e di minor successo (tanto da non essere mai stato importato nel nostro paese, e per questo motivo manca di un titolo italiano), dai toni insoliti che mescolano tanti generi e tipologie di pellicola: si va dalla commedia romantica a quella a sfondo sociale post-Depressione, dal dramma morale al noir gangsteristico, il tutto condito con un'insolita leggerezza (per alcuni critici si tratta dell'unica commedia mai diretta da Lang). Le sequenze notturne e alcune belle scene (quella in cui gli ex galeotti ricordano e rimpiangono i "bei tempi" in cui erano in cella, o quella della "lezione" che Helen elargisce ai rapinatori) e un buon cast di contorno (con tanti attori "secondari" ma brillanti, come Warren Hymer, Barton MacLane, Robert Cummings) forniscono un interessante substrato per un film che però appare decisamente legato al suo tempo e debitore al cosiddetto Lehrstűck, il "teatro didattico" alla Bertolt Brecht: non a caso le musiche sono accreditate a Kurt Weill, sodale di Brecht, che però abbandonò il progetto prima della conclusione, lasciando solo una canzone (quella introduttiva, che ironizza sul consumismo e recita "Non puoi avere niente per niente, devi pagare") e alcuni spezzoni di colonna sonora. Anche la lavorazione fu travagliata, per via di contrasti fra Lang e la sceneggiatrice Virginia Van Hupp (che lavorò su un soggetto di Norman Krasna), nonché fra i due attori protagonisti. Il risultato fu un sonoro flop di pubblico e di critica ("meritato", disse lo stesso Lang), rivalutato solo in tempi recenti.

26 novembre 2022

La figlia dell'inganno (Luis Buñuel, 1951)

La figlia dell'inganno (La hija del engaño)
di Luis Buñuel – Messico 1951
con Fernando Soler, Alicia Caro
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Tradito dalla moglie, e in dubbio sulla paternità della loro figlia, un uomo (Fernando Soler) ripudia la donna e affida la bambina a una coppia di contadini. Vent'anni dopo, diventato ricco (anche se misantropo) e proprietario di un locale notturno, decide di rintracciare la ragazza (Alicia Caro)... Altro film del periodo "alimentare" di Buñuel in Messico, tratto da una commedia teatrale spagnola ("Don Quintín, el amargao") di cui aveva già curato una precedente versione cinematografica, nel 1935, in Spagna (come sceneggiatore, ma non accreditato): di conseguenza, è l'unico soggetto di cui Don Luis ha lavorato a due versioni. Nonostante la trama chiaramente melodrammatica, i toni sono quelli della commedia, se non della farsa, soprattutto nella seconda parte, grazie ad alcuni personaggi secondari – come i due "sgherri" di Don Quintín (Fernando Soto e Nacho Contla), protagonisti di svariati siparietti – e alla parodia degli ambienti gangsteristici. Il finale, però, è decisamente affrettato, con l'improvvisa riconciliazione fra padre e figlia che sembra cadere un po' dal nulla. Niente dunque di memorabile o di "buñueliano", anche se il film si iscrive a buon diritto nel periodo d'oro del cinema messicano di quegli anni. Nel cast Rubén Rojo e Amparo Garrido.

24 novembre 2022

La casa sulla scogliera (Lewis Allen, 1944)

La casa sulla scogliera (The uninvited)
di Lewis Allen – USA 1944
con Ray Milland, Gail Russell
**1/2

Visto in divx.

Il musicista londinese Roderick Fitzgerald (Ray Milland) si trasferisce con la sorella Pamela (Ruth Hussey) in una villa appena acquistata, situata sulla scogliera in Cornovaglia. La casa, rimasta disabitata da vent'anni, ha la fama di essere stregata, dopo la morte della precedente proprietaria Mary Meredith, la cui giovane figlia Stella (Gail Russell), che vi aveva vissuto fino all'età di tre anni e che sembra incapace di staccarsi dai ricordi del passato, ne è attratta in maniera misteriosa e morbosa... In effetti, di notte nelle stanze soffiano strani spifferi, si ode un profumo di mimose e, a volte, persino il pianto di una donna. E quando una forza inspiegabile sembra trascinare Stella verso il baratro della scogliera, Roderick (che nel frattempo se ne è innamorato), decide di indagare, ricorrendo a una seduta spiritica... Da un romanzo dell'irlandese Dorothy Macardle, una ghost story delicata e sospesa, con un finale a sorpresa. Anche se il protagonista sembra Roderick, tutto ruota intorno a Stella, ai suoi traumi passati e alla necessità di superarli per entrare nell'età adulta. I ritmi compassati non sono certo quelli di un horror moderno, così come la tensione e la suspence, spesso sotto il livello di guardia: a renderlo un film interessante sono le atmosfere e l'intricato background della dimora, i cui precedenti abitanti (Mary, la madre di Stella, descritta da tutti come pura e virtuosa; suo marito, pittore fedifrago; e Carmela, la sua "rivale", una zingara spagnola infida e passionale), pur defunti, continuano ad "agire" all'interno del misterioso ambiente e a smuovere la psiche di Stella. Nel cast anche Donald Crisp (il nonno di Stella), Alan Napier (il medico) e Cornelia Otis Skinner (l'inquietante signorina Holloway, ex infermiera e amica di Mary). La canzone "Stella by Starlight", composta nel film da Roderick, diventerà un classico del repertorio jazzistico. Nomination agli Oscar per la fotografia di Charles Lang (che comprende anche un "effetto speciale" nell'apparizione del fantasma). Il regista Lewis Allen era all'esordio nel lungometraggio (aveva diretto soltanto un corto di propaganda in tempo di guerra).

22 novembre 2022

Comeuppance (Derek Chiu, 2000)

Comeuppance (Tin yau ngan)
di Derek Chiu – Hong Kong 2000
con Jordan Chan, Patrick Tam, Sunny Chan
**1/2

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Il sottobosco criminale di Hong Kong è scosso da una serie di omicidi, non riconducibili a una resa di conti fra gang. Vari boss della triade, infatti, vengono misteriosamente avvelenati: chi al night club, chi al ristorante, chi nella sauna... A indagare è il poliziotto Michael (Sunny Chan), che sospetta del giornalista Hak (Jordan Chan), dato che questi scrive una rubrica gialla nella quale si raccontano delitti molto simili a quelli reali. Ma il vero colpevole è il giovane e insospettabile Sung (Patrick Tam), una "persona qualunque" che lavora in un laboratorio fotografico e uccide i criminali per semplice spirito di giustizia, traendo ispirazione talvolta proprio alla rubrica di Hak... Prodotto dalla Milkyway di Johnnie To, un thriller poliziesco dai toni leggeri e con tre protagonisti alla pari, ben diretto e recitato anche se forse si perde un po' nel finale. La sceneggiatura si concentra soprattutto sulla messinscena e sui modi bizzarri in cui il killer riesce ad avvelenare le sue vittime, diventando poi il protagonista di una sorta di feuilleton sui quotidiani (che tutti seguono con curiosità e attenzione), tanto da apparire in brevi sequenze, nell'immaginario popolare, al fianco di altri "anti-eroi" del cinema o della letteratura hongkonghese. Interessante anche il mutuo rapporto fra i fatti reali e quelli di finzione (Sung, con le sue azioni, ispira Hak, che con le sue idee ispira a sua volta Sung). Dei tre personaggi, il poliziotto resta il meno memorabile.

20 novembre 2022

Mio cugino Vincenzo (Jonathan Lynn, 1992)

Mio cugino Vincenzo (My cousin Vinny)
di Jonathan Lynn – USA 1992
con Joe Pesci, Marisa Tomei
***

Rivisto in TV (Disney+).

Quando i giovani newyorkesi Billy (Ralph Macchio) e Stan (Mitchell Whitfield), di passaggio per l'Alabama, vengono arrestati dalla polizia locale con l'accusa di aver ucciso il commesso di una stazione di servizio (confessando fra l'altro il delitto, sia pure senza volerlo, visto che credevano di essere stati incriminati per non aver pagato una scatoletta di tonno), i due decidono di ricorrere all'aiuto legale del cugino di Billy, Vincenzo Gambini (Joe Pesci), avvocato appena iscritto all'albo e senza alcuna esperienza in aula. "Con dieci euro mio cugino lo faceva meglio": chi non ha mai pensato di risparmiare qualcosa rivolgendosi ad un aiuto in famiglia? Ma forse, se c'è di mezzo la propria vita (i due ragazzi rischiano la sedia elettrica), la questione è un pelo più delicata. Eppure, nonostante l'apparente inettitudine, e pur scontrandosi a più riprese con un giudice inflessibile e puntiglioso (Fred Gwynne) che non sopporta il suo andare sopra le righe (per non parlare dei suoi modi da italo-americano, decisamente fuori posto nel profondo Sud), il buon Vincenzo riuscirà a smontare le testimonianze e a fare chiarezza nella vicenda, anche con l'aiuto della vistosa ed eccentrica fidanzata Mona Lisa (Marisa Tomei) e delle sue conoscenze in campo automobilistico. Courtroom drama, anzi comedy, che gioca sugli equivoci (nella prima parte i fraintendimenti si sprecano) e sullo scontro fra personalità e ambienti opposti (Vincenzo e gli altri personaggi provenienti da Brooklyn si ritrovano immersi in uno stato, l'Alabama, che viaggia su... binari differenti), con buoni momenti comici e personaggi ben caratterizzati. L'inizio è un po' lento, ma poi la pellicola decolla e, come ogni film ambientato in tribunale che si rispetti, si fa via via più avvincente fino alla risoluzione finale. Divertenti, in particolare, i continui siparietti fra Vincenzo e il giudice. Molti i dialoghi e le scene (si pensi alla lite con il giocatore di biliardo, o allo scambio sul rubinetto rotto) che ironizzano sulla litigiosità e l'ossessione ai dettagli di un paese, gli Stati Uniti, dove pare che esista un avvocato ogni 300 abitanti. Premio Oscar (a sorpresa) per Marisa Tomei come attrice non protagonista: così a sorpresa che nacque presto una leggenda urbana, priva di fondamento, secondo la quale l'annunciatore aveva sbagliato a leggere il nome nella busta.

18 novembre 2022

Titane (Julia Ducournau, 2021)

Titane (id.)
di Julia Ducournau – Francia/Belgio 2021
con Agathe Rousselle, Vincent Lindon
***

Visto in TV (Now Tv).

Dopo aver fatto sesso con un'automobile (una Cadillac, per la precisione!), la taciturna e psicopatica ballerina Alexia (Agathe Rousselle) – che ha una placca di titanio nel cranio, in seguito a un'incidente in macchina quando era piccola – fugge di casa lasciandosi dietro una scia di sangue, e assume l'identità di Adrien, un ragazzo scomparso da dieci anni. Il padre di questi (Vincent Lindon), folle e carismatico comandante di una caserma di pompieri, la accoglie nella propria casa (e nella propria squadra), riconoscendola come suo figlio: o forse sa benissimo che non lo è, ma nel suo delirio la considera tale. Quello che Vincent ignora, però, è che Alexia è incinta di un ibrido uomo/macchina al titanio, appunto. Il secondo lungometraggio (dopo "Raw") di Julia Ducournau, vincitore a sorpresa al festival di Cannes (è la seconda Palma d'Oro assegnata a una regista donna, dopo quella a Jane Campion per "Lezioni di piano" che però aveva vinto ex aequo), è un film bizzarro, sorprendente, estremo, in certe cose disturbante, ma di sicuro originalissimo (anche se debitore, per certi versi, al cinema di David Cronenberg, Shinya Tsukamoto e Takashi Miike). La protagonista psicopatica e serial killer, l'assurdità della contaminazione uomo/macchina (con tanto di... perdite d'olio anziché di sangue o liquido amniotico), le atmosfere trasgressive, stranianti e surreali sono comunque al servizio della psicologia e dei sentimenti dei personaggi, evidenti in particolare nel rapporto "fra padre e figlio" che si instaura fra Vincent e Alexia/Adrien, ciascuno dei quali alla disperata ricerca di una "ricucitura" delle ferite di un passato tragico (solo accennato, ma non difficile da ricostruire). Affascinante e inquietante l'atmosfera, ottima la recitazione, ardita la regia (ben servita dalla colorata fotografia di Ruben Impens): è un film che difficilmente lascia indifferenti, nel bene e nel male, ma che merita di essere premiato per il tentativo di andare oltre i luoghi comuni del cinema preconfezionato. La bella colonna sonora di Jim Williams è condita da alcune canzoni fra cui anche una in italiano, "Nessuno mi può giudicare" di Caterina Caselli.

16 novembre 2022

Il tesoro (G. W. Pabst, 1923)

Il tesoro (Der Schatz)
di Georg Wilhelm Pabst – Germania 1923
con Hans Brausewetter, Lucie Mannheim
**

Visto su YouTube, con cartelli in inglese.

Svetelenz (Werner Krauss), lavorante al servizio di un fabbricante di campane (Albert Steinrück), si convince che nella casa del suo padrone è nascosto un tesoro, sepolto prima dell'occupazione dei turchi. A trovarlo sarà Arno (Hans Brausewetter), giovane orafo e scultore, ma Svetelenz se ne impossesserà con l'inganno, con l'intenzione di cederlo al padrone in cambio della mano di sua figlia Beate (Lucie Mannheim), che invece è innamorata proprio di Arno... Il primo film diretto dall'austriaco G. W. Pabst, uno dei più influenti registi di lingua tedesca durante la repubblica di Weimar, è una parabola sull'avidità umana, di ambientazione quasi medievale, che mette a confronto tre personaggi accecati dalla brama di oro – il mastro campanaro, sua moglie (Ilka Grüning) e Svetelenz – con due che invece scelgono l'amore e la povertà (Arno e Beate). La storia è semplice ma girata con mestiere. Oltre ai personaggi, ben caratterizzati, spiccano i set e le scenografie, in particolari gli interni della casa e della fonderia delle campane, costruiti da un team di architetti influenzati dalla corrente dell'espressionismo. Eppure, già in questo film d'esordio si nota la tendenza di Pabst ad allontanarsi dall'astrazione dei contemporanei tedeschi per muoversi in direzione di un maggiore naturalismo e di un certo realismo, come dimostreranno i suoi lavori successivi. Esiste una colonna sonora originale, appositamente composta da Max Deutsch.

15 novembre 2022

Swiss Army Man (Daniels, 2016)

Swiss Army Man - Un amico multiuso (Swiss Army Man)
di Daniel Kwan, Daniel Scheinert – USA 2016
con Paul Dano, Daniel Radcliffe
**

Visto su Rakuten Tv.

Naufragato su un'isola deserta, Hank (Paul Dano) viene salvato grazie al provvidenziale arrivo di Manny (Daniel Radcliffe), "cadavere vivente" le cui funzioni corporee, misteriosamente ancora attive, gli permettono di sopravvivere nella foresta e di tornare alla civiltà. Fra i due nasce anche una profonda amicizia: ma non tutto è come sembra... Bizzarrissima black comedy, opera prima del duo di registi Daniel Kwan e Daniel Scheinert (noti collettivamente come i "Daniels" e in precedenza autori di video musicali), un film carico di una comicità assurda e demenziale che sconfina a tratti nell'esistenzialismo. Certo, le gag su scorregge ed erezioni sono alquanto infantili, e la pellicola rischia più volte, sin dall'inizio, di indisporre uno spettatore che potrebbe persino annoiarsi per le lunghe sequenze in cui sono in scena soltanto i due personaggi (uno dei quali, appunto, "cadaverico"), isolati in mezzo alla natura, con il primo che cerca di spiegare al secondo come funzionano le cose della vita (a cominciare dall'amore): ma nel finale la stupidità lascia spazio a una sorta di visione filosofica del mondo e dei rapporti sociali che eleva l'insieme oltre il semplice cartoon o una delle tante varianti di titoli come "Weekend con il morto". Bravo Dano, mentre Radcliffe recita sempre immobile e inespressivo (e la cosa non gli riesce difficile): eppure, al di là degli scherzi, questa è forse una delle sue migliori interpretazioni. Nel cast, nelle scene finali, anche Mary Elizabeth Winstead (Sarah, la ragazza "amata" da Hank). Il titolo originale si riferisce al coltellino svizzero (Swiss Army knife), giustamente tradotto con "multiuso" nel doppiaggio italiano.

13 novembre 2022

Il matrimonio dei benedetti (M. Makhmalbaf, 1989)

Il matrimonio dei benedetti (Arusi-ye khuban)
di Mohsen Makhmalbaf – Iran 1989
con Mahmud Bigham, Roya Nonahali
**1/2

Visto su YouTube, con sottotitoli inglesi.

Haji (Mahmud Bigham), fotografo di guerra, soffre di disturbo da stress post-traumatico (PTSD) in seguito agli orrori e alle atrocità di cui è stato testimone (il conflitto fra Iran e Iraq, cui ha partecipato come soldato; la guerra civile in Libano; le carestie nei paesi africani). Tornato alla vita civile, fa fatica a riadattarsi ed è costantemente turbato da immagini, pensieri e visioni. La fidanzata Mehri (Roya Nonahali) vorrebbe sposarlo, nella speranza che il matrimonio lo aiuti a recuperare felicità e serenità, nonostante l'opposizione del padre. Ma proprio durante la cerimonia, Haji avrà una ricaduta... Uno dei film più "forti" ed espressionisti di Makhmalbaf, una discesa nella follia e nell'incubo di un uomo che ha vissuto l'orrore e non riesce più a dimenticarlo. Punteggiato da una serie di visioni e di flashback, che la regia moderna (con ardite soggettive), il montaggio, la fotografia, l'uso del sonoro e la musica sottolineano con veemenza, il percorso di Haji sembra una strada senza uscita che si ripiega su sé stessa, come testimonia il suo "reportage" notturno per la città, dopo aver ricominciato a lavorare al giornale, nel quale scatta istantanee clandestine ai disagiati, i disperati e i poveri che affollano le strade (all'interno di questa sequenza, il film "rompe" suo malgrado la quarta parete – cosa peraltro non certo insolita per il cinema iraniano – quando una pattuglia di poliziotti chiede a Makhmalbaf e alla sua troupe se hanno il permesso per girare). Nel frattempo Mehri, proveniente da una famiglia ricca e privilegiata (a sua volta è un'artista), cerca di risvegliare in lui i ricordi del loro passato felice (i due si conoscevano sin da piccoli) e di convincerlo a non sentirsi responsabile o farsi carico di tutti i problemi del mondo. Curiosità: il film era citato in "Close up" di Abbas Kiarostami, nel quale Makhmalbaf recitava nel ruolo di sé stesso.

12 novembre 2022

Dolce inganno (George Stevens, 1937)

Dolce inganno (Quality Street)
di George Stevens – USA 1937
con Katharine Hepburn, Franchot Tone
**1/2

Rivisto in DVD.

Nell'Inghilterra di inizio Ottocento, la giovane Phoebe (Katharine Hepburn) soffre una delusione d'amore quando il dottor Brown (Franchot Tone), il gentiluomo di cui era invaghita e dal quale si aspettava una proposta di matrimonio, sceglie invece di abbandonarla per arruolarsi e partire per le guerre napoleoniche. Quando l'uomo tornerà, dieci anni dopo, Phoebe gli farà credere di essere la propria nipote Livy, più giovane e sbarazzina, e cercherà di sedurlo per vendicarsi di lui, non immaginando che invece Brown nel frattempo ha messo chiarezza nei propri sentimenti e ha deciso di sposare proprio la "vecchia" Phoebe... Da un'opera teatrale di J. M. Barrie (l'autore di "Peter Pan"), già portata al cinema in versione muta nel 1927, una commedia degli equivoci romantica e delicata, tutta ambientata in un quartiere, anzi in una strada (Quality Street, appunto), popolata da giovani e vecchie zitelle che sognano avventure sentimentali e spettegolano su ogni cosa. Attorno alla splendida Hepburn, che veicola tante emozioni allo stesso tempo, si aggirano infatti parenti e amiche impertinenti e curiose, mentre la trovata del travestimento, per quanto inverosimile (come può Phoebe sembrare una versione più giovane di sé stessa con tanta facilità? Risposta: è la magia del teatro!), fornisce il necessario spunto per movimentare la vicenda. Non manca poi una robusta dose di comicità, offerta soprattutto dai personaggi del sergente reclutatore (Eric Blore) e della cuoca di casa (Cora Witherspoon). Nel buon cast anche Fay Bainter (Susan, la sorella maggiore di Phoebe) ed Estelle Winwood (Mary, una delle vicine impiccione). Ottima la regia di Stevens.

10 novembre 2022

Triangle of sadness (Ruben Östlund, 2022)

Triangle of sadness (id.)
di Ruben Östlund – Svezia/Ger/Fra 2022
con Harris Dickinson, Charlbi Dean
***

Visto al cinema Colosseo, con Marisa.

Carl (Harris Dickinson) e Yaya (Charlbi Dean), giovani modelli e "influencer", partecipano a una crociera di lusso a bordo di uno yacht ricolmo di folli oligarchi russi, imprenditori superficiali e mercanti d'armi insensibili. Fra un episodio e l'altro, la crociera si rivela più movimentata del previsto. E dopo un naufragio, alcuni dei superstiti finiranno su un'isola deserta, dove i rapporti sociali si rovesceranno (l'addetta alle pulizie sulla nave, essendo l'unica in grado di procurare il cibo agli altri, diventa il capo della nuova comunità). Dopo aver vinto la Palma d'Oro a Cannes con un quadrato ("The square" nel 2017), Östlund la rivince con un triangolo (il "triangle of sadness", viene spiegato nella scena iniziale, è la zona delle rughe fra le sopracciglia). E ancora una volta prende di mira, attraverso il linguaggio della satira e del grottesco, i paradossi e le storture di una società dominata dalla vacuità, dalle apparenze e dal denaro, focalizzandosi in particolare sulla moda (dove la bellezza è una "valuta di scambio") e sul mondo dei super-ricchi. Come hanno fatto illustri precedenti prima di lui (vengono in mente il Buñuel de "Il fantasma della libertà" e il Ferreri de "La grande abbuffata", ma anche certe cose di Pasolini o, in tempi recenti, il Bong Joon-ho di "Parasite"), il regista svedese punta sul surreale contrasto fra gli opposti: dai ruoli di genere del maschio e della femmina a livello di regole sociali (vedi il litigio fra Carl e Yaya su chi debba pagare il conto al ristorante) o di rapporti di forza (il matriarcato instaurato sull'isola da Abigail (Dolly De Leon), con Carl nel ruolo del "concubino"); al dibattito "ideologico" fra l'americano comunista (il capitano della nave, interpretato dall'unica star della pellicola, Woody Harrelson) e il russo capitalista (Zlatko Burić); al contrasto fra la raffinatezza della ricchezza (i piatti di alta cucina alla cena sullo yacht) e l'oscenità e il lerciume corporale causato dal mal di mare (vomito e merda! A proposito, sul grande schermo non si vedeva una scena di vomito così dai tempi di "Stand by me", o forse da "Il senso della vita" dei Monty Python). Per non parlare del conflitto fra la civiltà e il "ritorno alle origini", basato sulla necessità di sopravvivere, dei naufraghi che, isolati dal mondo, ribaltano tutte le loro priorità e le regole cui obbedivano in precedenza. Il risultato è un film provocatorio, proprio come era "The square" (ricordiamo tutti la scena dello scimmione sui tavoli), capace di scuotere e far pensare lo spettatore come poche altre pellicole recenti. Fosse uscito negli anni sessanta o settanta, magari firmato da uno dei registi sopra citati, non ci sarebbe stato da stupirsi: ma oggi, in un'epoca di cinema sempre più commerciale, adolescenziale e preconfezionato, Östlund è certamente una mosca bianca. Se dunque il film – a tratti forzato, esagerato e ridondante (soprattutto nella seconda delle tre parti in cui è diviso, intitolate rispettivamente "Carl e Yaya", "Lo yacht" e "L'isola") – non è forse all'altezza dei lavori precedenti del regista (si pensi anche a "Forza maggiore"), riesce comunque a spiccare nel piattume generale che lo circonda. Nell'ottimo cast corale anche Vicki Berlin (Paula, l'addetta alla sicurezza sullo yacht), Iris Berben (la turista tedesca che si esprime con un'unica frase, "In den Wolken!"), Henrik Dorsin e Jean-Christophe Folly.

8 novembre 2022

Wendell & Wild (Henry Selick, 2022)

Wendell & Wild (id.)
di Henry Selick – USA 2022
animazione a passo uno
**

Visto in TV (Netflix).

Per riportare in vita i genitori defunti, l'orfana ribelle Kat Elliot stringe un patto con i suoi "demoni personali", Wendell e Wild, accettando di "evocarli" sulla Terra, dove i due demoni intendono costruire un parco dei divertimenti (!). Seguirà caos. A tredici anni di distanza da "Coraline", Henry Selick torna alla regia con un altro film animato in stop motion, sceneggiato insieme a Jordan Peele (che, in coppia col comico Keegan-Michael Key, suo sodale di vecchia data, fornisce le voci dei due demoni in questione), sempre all'insegna della commedia horror e macabra. I personaggi sono tantissimi: dalla protagonista punk e trasgressiva, all'amico Raul e le altre compagne della scuola cattolica in cui viene rinchiusa, dal diavolo "capo" Buffalo Belzer (Ving Rhames) alla suora esorcista Sorella Helley (Angela Basset), dal prete zombie Padre Best ai loschi imprenditori Lane e Irmgard Klaxon che intendono arricchirsi costruendo "prigioni private", più molti altri ancora: in effetti soggetto e sceneggiatura sono così densi di eventi e di personaggi da lasciare poco respiro all'insieme, dando luogo a una narrazione confusa, con tanti cambi di direzione e spunti accennati senza il necessario approfondimento. Fra momenti bizzarri e surreali, altri di pura black comedy in stile Grand Guignol, inconsueti messaggi sociali e politici e numerose sequenze slapstick, si rischia di perdere la trebisonda. Ma la pellicola si tiene a galla per il suo aspetto visivo, sempre interessante a livello grafico (ai pupazzi 3D si affiancano sezioni in cutout animation), e per quello che è forse l'unico filo conduttore della storia svolto con coerenza, ovvero le riflessioni sul rapporto fra genitori e figli (non solo Kat con i suoi, ma anche i due demoni con il padre satanico e la compagna di classe Siobhan con i due imprenditori). Visti i progressi della tecnica, l'animazione a passo uno è ormai quasi indistinguibile da quella al computer (e in un certo senso è un peccato).

6 novembre 2022

Cars 3 (Brian Fee, 2017)

Cars 3 (id.)
di Brian Fee – USA 2017
animazione digitale
**1/2

Visto in TV (Disney+).

Il campione delle corse automobilistiche Saetta McQueen deve vedersela con un nuovo rivale, il giovane Jackson Storm, e in generale con una nuova generazione di piloti che minacciano di spodestare le vecchie glorie come lui. Sull'orlo del pensionamento, è costretto dal suo nuovo sponsor Sterling ad affidarsi ai consigli della "coach motivazionale" Cruz Ramirez. Ma sarà invece McQueen a ispirare Cruz a diventare a sua volta una pilota e a scendere in pista per vincere la gara contro Storm. Il terzo capitolo di "Cars", il primo non diretto dal veterano e creativo John Lasseter ma dall'esordiente Brian Fee (in un insolito parallelo con la trama del film stesso!), è decisamente migliore del secondo (forse perché, come il primo, torna a essere un lungometraggio sportivo a tutti gli effetti e a concentrarsi quasi esclusivamente sul protagonista) e affronta un tema interessante e, a suo modo, pregnante: quando giunge il momento di "appendere le gomme al chiodo"? L'arrivo di nuovi e sempre più aggressivi rivali, che fanno ricorso a metodi di allenamento ultramoderni e contro i quali gli anziani campioni non possono più competere, rappresenta un momento di crisi che va affrontato nel migliore dei modi: c'è chi abbandona la lotta, chi non rinuncia a gareggiare e chi, più saggiamente, riesce a riciclarsi in una nuova forma, come quella del mentore nei confronti di una nuova generazione. Nonostante la semplicità estetica (i personaggi di "Cars", per evidenti ragioni di design, non sono certo i più ispirati a livello grafico fra tutte le franchise della Pixar) e una generale limitatezza di scenari per quello che sembrava in tutto un film minore, ancora una volta si resta colpiti di come la sceneggiatura sappia affrontare questioni mature senza banalizzarle, coinvolgendo al tempo stesso gli spettatori di ogni età in una vicenda sportiva intrigante, condita da personaggi simpatici e buone caratterizzazioni (comprese le new entry). Non so se ci saranno ulteriori episodi ma, se così non fosse, per Saetta questa è un'ottima uscita di scena.

5 novembre 2022

Making a splash (Peter Greenaway, 1984)

Making a splash
di Peter Greenaway – GB 1984
con attori non professionisti
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Visto su YouTube.

Uno dei più affascinanti fra i lavori meno noti di Peter Greenaway, questo "piccolo" documentario senza parole (ad accompagnare le immagini c'è solo l'incessante e indispensabile musica di Michael Nyman), sul rapporto fra l'uomo e l'acqua, è il degno erede – vista l'ambientazione prevalente in piscina e il focus, nella seconda parte, sugli allenamenti di una squadra di nuoto sincronizzato – del "Taris" di Jean Vigo. Il rapido succedersi di immagini, movimenti, colori, luci, suoni e musica dà vita a un'armonia che cattura immediatamente lo spettatore, anche perché celebra qualcosa che è di natura ancestrale, un legame con le nostre origini, in tutti i sensi. Si comincia con piccole gocce che cadono dalle foglie, che formano poi rigagnoli, cascatelle e infine fiumi, popolati da pesci. Giungiamo infine alle piscine, dove i neonati muovono i primi passi, lasciando poi il posto a bambini e adolescenti che giocano o si lanciano in acqua dagli scivoli, ad adulti che si tuffano, a sportivi che nuotano o competono, fino a mostrare, nella lunga parte conclusive, le evoluzioni coreografate e caleidoscopiche delle danzatrici del nuoto sincronizzato, il tutto inframmentato occasionalmente da superfici marine o increspature sull'acqua (dai riflessi scintillanti o illuminate dal rosso del sole al tramonto o dal biancore della luna) e incorniciato da un montaggio rapido e ritmico, che va di pari passo con la colonna sonora di Nyman (il brano è "Water dances").

4 novembre 2022

Total Balalaika Show (Aki Kaurismäki, 1994)

Total Balalaika Show (id.)
di Aki Kaurismäki – Finlandia 1994
con i Leningrad Cowboys
**1/2

Rivisto su YouTube.

Registrazione del concerto tenuto a Helsinki nel 1993 dai Leningrad Cowboys (rock band di cui Kaurismäki aveva già diretto due film di finzione), accompagnati dall'orchestra e dal coro dell'armata russa Alexandrov: il programma è un mix fra classici del rock occidentale (da "Happy Together" a "Knockin' on Heaven's Door") e popolari brani della tradizione russa (da "Kalinka" a "Oci ciornie"), fino al gran finale con "Those Were the Days". I musicisti si esibiscono nella piazza del Senato della capitale finlandese, davanti a un'enorme folla. E la commistione colorata fra i bizzarri rocker finlandesi (con i loro ciuffi spropositati, gli occhiali scuri e le scarpe appuntite) e gli impettiti militari russi (in uniforme) è quantomeno straniante, ma le reciproche interazioni sono gioiose e contagiose: un vero inno all'universalità della musica, che unisce le culture e promuove le amicizie. La regia di Kaurismäki, pur non rinunciando a sottolineare alcuni aspetti autoironici, si mette modestamente al servizio del concerto e della musica, senza vezzi autoriali (giusto l'incipit, in cui si vedono i rispettivi gruppi firmare il contratto di collaborazione a Mosca, e i cartelli muti con i titoli delle varie canzoni, che richiamano i capitoletti dei due precedenti lungometraggi).

2 novembre 2022

Midsommar (Ari Aster, 2019)

Midsommar - Il villaggio dei dannati (Midsommar)
di Ari Aster – USA/Svezia 2019
con Florence Pugh, Jack Reynor
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Visto in TV (Prime Video).

La studentessa americana Dani (Florence Pugh), insieme al fidanzato Christian (Jack Reynor) ed altri amici interessati ai riti e all'antropologia, si reca in un remoto villaggio nel nord della Svezia per assistere a un antico e misterioso festival pagano che celebra la "mezza estate". Ma ben presto i ragazzi – fra i quali già serpeggia una certa tensione, e che non esitano nel far uso di droghe – si accorgono che, dietro l'atmosfera quasi hippy e idilliaca e all'accoglienza apparentemente cordiale degli abitanti del villaggio, si nascondono usanze e cerimonie macabre e ancestrali, legate alla natura e al ciclo della vita e della morte. Il secondo film di Aster dopo "Hereditary" del 2018 è un horror decisamente particolare, dalle atmosfere sospese e inquietanti, che non punta su mostri o jump scare bensì su un senso crescente di straniamento, cui la protagonista, peraltro, non è affatto insensibile: proprio lei, fra tutti, si scoprirà sempre più assorbita dagli strani riti e dalle usanze del villaggio, al punto da entrare lentamente a far parte di quella che è un'unica grande "famiglia", comprendendo e accettando il significato delle cerimonie meglio degli altri, mentre gli amici, perché rifiutano o trasgrediscono le regole (come in una fiaba), faranno una brutta fine, in un crescendo terrificante. A livello di contenuti non mancano elementi disturbanti, come il suicidio, la disabilità, l'endogamia. A livello di stile, invece, la bella regia sa come creare una sensazione di sospensione angosciante senza dover ricorrere a particolari effetti speciali (solo scenografie e costumi, ma anch'essi molto semplici: quasi tutto il film è girato in esterni e in un grande campo verde, con una fotografia luminosa – d'altronde siamo sotto il sole di mezzanotte – mentre gran parte degli abiti degli abitanti del villaggio sono tuniche bianche). Anche in questo caso, brutto e del tutto inappropriato il sottotitolo italiano (che c'entrano i dannati?), che richiama il classico di Wolf Rilla del 1960 (o il suo remake di John Carpenter), con cui non ha invece nessun legame.