25 luglio 2011

Il trono di sangue (A. Kurosawa, 1957)

Il trono di sangue (Kumonosu-jō)
di Akira Kurosawa – Giappone 1957
con Toshiro Mifune, Isuzu Yamada
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Rivisto in DVD.

Nel trasportare la vicenda del “Macbeth” dalla Scozia al Giappone feudale dei samurai, Kurosawa compie un’operazione apparentemente rischiosa ma che porta ottimi frutti. Complice anche l’universalità dei testi di Shakespeare (che, non a caso, continuano a essere rappresentatissimi in tutto il mondo a distanza di oltre cinque secoli; e non sono pochi gli allestimenti che si prendono libertà nel setting o nella collocazione temporale: vedi anche, per restare al cinema, i film di Kenneth Branagh), il lungometraggio che ne risulta è senza dubbio uno dei migliori, più fedeli e più “potenti” adattamenti cinematografici di un dramma del grande bardo e ne veicola alla perfezione il tema dell’ambizione e della sete di potere che porta un guerriero coraggioso e leale al delitto, al tradimento e all’autodistruzione. Kurosawa, che tornava ad ambientare un film nell’impetuoso Giappone delle guerre civili dopo il grande successo de “I sette samurai”, ripeterà l’operazione quasi trent’anni dopo, sempre con risultati eccellenti, quando trasformerà il “Re Lear” nello spettacolare “Ran”. Il critico Richard Marienstras ha lodato il regista nipponico, “che riesce a naturalizzare Macbeth in modo da permettere a un occidentale di riconoscere Shakespeare e a un orientale di ritrovarvi un film giapponese storicamente documentato”. E Kurosawa stesso, nel spiegare la genesi di un film così sperimentale (agli stilemi del dramma occidentale ha sostituito quelli del teatro Nō), ha spiegato: “Il mondo descritto da Shakespeare nelle sue grandi tragedie a sfondo storico somiglia talmente al nostro medioevo e al nostro Cinquecento che a noi giapponesi pare di leggere un autore giapponese. [...] Ambíentare questa tragedia dell'ambizione nel Giappone dell'epoca delle guerre civili è stata quindi per me la cosa più naturale del mondo”.

Toshiro Mifune è il generale Washizu/Macbeth: mentre ritorna vittorioso da una dura battaglia, attraversando la foresta che circonda il maniero del suo signore Tsuzuki/Duncan (il Kumosonu-jō, ossia “il castello della ragnatela”, che è poi il titolo originale della pellicola), incontra un misterioso spirito che gli prevede un futuro apparentemente radioso: proprio lui, infatti, succederà al suo padrone come signore del castello; ma la sua stirpe sarà di breve durata, e il regno passerà al figlio del suo miglior amico, il generale Miki/Banquo (Minoru Chiaki). Washizu è un suddito fedele e non certo ambizioso, o almeno così vorrebbe mostrarsi: sarà sua moglie Asaji/Lady Macbeth (la mizoguchiana Isuzu Yamada), una donna senza scrupoli, a risvegliare i suoi peggiori impulsi e a spingerlo affinché faccia avverare la profezia, uccidendo a tradimento il suo signore mentre si trova ospite da lui. Non sarà l’unico delitto: anche l’amico Miki verrà decapitato, nel timore che si possa avverare la seconda parte della profezia. Divenuto un tiranno sanguinario, e con la sua fortezza sotto assedio da parte dell’esercito guidato dagli eredi di coloro che ha ucciso, Washizu si sente sicuro di uscirne comunque trionfatore, visto che lo spirito gli ha anche predetto che non perderà una battaglia fino a quando gli alberi della foresta non marceranno contro di lui: cosa che avverrà puntualmente quando gli assedianti useranno tronchi e frasche per mimetizzarsi mentre circondano il castello.

Anche se rispetto al testo di Shakespeare non mancano i cambiamenti (al posto delle tre streghe c'è uno solo spirito, inquietantemente bianco e luminoso, intento a tessere all'arcolaio come le Parche), il ruolo di alcuni personaggi di contorno viene ridotto (come quello di Noriyasu/Macduff) e numerosi dialoghi sono eliminati o rappresentati solamente attraverso soluzioni visive, tutte le scene più importanti e significative del dramma originale sono presenti, a partire dalla follia che assale Washizu e Asaji (il primo vede il fantasma dell’amico ucciso, la seconda impazzisce e tenta inutilmente di lavarsi via il sangue dalle mani). Ma è soprattutto la grandiosa ambientazione – con le brughiere spoglie e invase dalla nebbia, la labirintica foresta, i castelli feudali (ricostruiti sul monte Fuji), la stanza insanguinata, le armi e le armature medievali – a giocare un ruolo chiave nella riuscita del film, così come risultano incredibilmente efficaci le suggestioni formali del teatro Nō (riscontrabili in particolare nella figura di Asaji, il cui volto è sempre una maschera impassibile, ma anche nell'espressione irosa dello stesso Mifune e in generale nello stile dei dialoghi e dei monologhi, secchi e semplici ma espressivi). Memorabile, nel finale, la scena in cui gli stessi soldati di Washizu, spaventati dall’incedere degli alberi, si ribellano contro di lui e lo sommergono di frecce: la sequenza è stata girata senza effetti speciali, con arcieri professionisti che scagliavano i dardi verso Mifune mentre l'attore, agitando le braccia, comunicava loro in quale direzione stava per muoversi!

22 luglio 2011

L'angelo sterminatore (Luis Buñuel, 1962)

L'angelo sterminatore (El ángel exterminador)
di Luis Buñuel – Messico 1962
con Silvia Pinal, Enrique Rambal
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Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele e Paola.

Dopo una serata trascorsa al teatro dell’opera, Edmundo e sua moglie Lucia invitano a cena nella loro sontuosa dimora un gruppo di amici dell’alta borghesia. Ma qualcosa di strano sta per accadere: con l’eccezione del capocameriere, tutta la servitù si allontana da casa prima ancora che le pietanze vengano servite. Di contro gli ospiti, riunitisi nel salone per ascoltare una delle invitate che si esibisce al pianoforte, non sembrano avere alcuna intenzione di accommiatarsi. Dopo aver inspiegabilmente trascorso l’intera nottata nel soggiorno dei loro anfitrioni, in spregio alle più elementari regole di cortesia, tutti si rendono conto di essere impossibilitati a uscire dalla stanza, anche se apparentemente non c’è alcun ostacolo che lo impedisce e la porta è aperta. L’assurda situazione si protrae per giorni e giorni: accampati in pochi metri quadrati, in preda alla sete, alla fame e ai bisogni primari, quelli che erano signori eleganti e altolocati si trasformano sempre di più in selvaggi. La convivenza forzata fa scoppiare liti, insofferenze, gelosie, e non mancheranno nemmeno morti e suicidi. Il misterioso incantesimo si romperà solo quando una delle signore, l’altera “Valchiria” (la cui verginità era stata definita da un’altra invitata come “una perversione”), avrà l’idea di rimettere ciascuno dei presenti nella stessa posizione in cui si trovava nel momento in cui lo strano fenomeno aveva avuto inizio… Girato in Messico, dove era tornato dopo essere fuggito dalla Spagna franchista, e ispirato a un’opera teatrale di José Bergamin, il film è uno dei lavori più bizzarri e affascinanti di Luis Buñuel. Il grande regista spalma di tocchi surrealisti (l’orso e le pecore che si aggirano per casa, i discorsi stralunati del medico – “Fra un’ora sarà completamente calvo” – e le azioni incomprensibili di alcuni invitati) una vicenda che si snoda in un’atmosfera onirica e in un crescendo grottesco, raccontata però come se si trattasse della cosa più normale del mondo. La pellicola non fornisce spiegazioni su quanto accade né suggerisce interpretazioni, che possono comunque essere molteplici: la punizione dell’umanità borghese, paralizzata dalle proprie paure, impotente a soddisfare i propri desideri (tema che tornerà nel magnifico "Il fascino discreto della borghesia") e costretta a riflettere sulla fragilità e sulla vacuità dei propri valori, come suggerisce il titolo apocalittico? Un'allegoria sulla prigionia dell’uomo (la villa rappresenta il mondo intero) in quanto schiavo dell’ordine costituito, vittima dei riti, delle consuetudini e delle divisioni in classi (fra i convitati spiccano anche i confratelli di una loggia massonica), impossibilitato a fuggire dalle gabbie che lui stesso si costruisce? O semplicemente una satira sull’assurdità e l’imprevedibilità della vita, che si diverte a mandare all’aria progetti e sogni (vedi i due amanti che vorrebbero appartarsi)? Girato quasi esclusivamente in una sola stanza, il film brilla per regia, tecnica (la fotografia è di Gabriel Figueroa) e direzione degli attori.

20 luglio 2011

La via lattea (Luis Buñuel, 1969)

La via lattea (La voie lactee)
di Luis Buñuel – Francia 1969
con Paul Frankeur, Laurent Terzieff
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Rivisto in divx alla Fogona, con Giovanni e Rachele.

In pellegrinaggio dalla Francia verso la Spagna per raggiungere Santiago de Compostela (il termine “via lattea” è uno dei nomi tradizionalmente attribuiti al Camino de Santiago, visto che Compostela significa “campo di stelle”), due barboni chiamati Pierre e Jean – che non sembrano particolarmente devoti, a dire il vero – fanno una serie di strani incontri: il loro viaggio si intreccia con la ricostruzione di eventi storici, attraverso l’intervento di personaggi in costume (compreso il marchese de Sade, interpretato da Michel Piccoli) o con sequenze della vita dello stesso Gesù (per l’occasione, Buñuel ha selezionato alcuni dei passi evangelici più controversi e meno noti). La trama del film è un pretesto per mettere in scena una serie di episodi dove si elencano i concetti di numerose eresie (dal giansenismo al priscillianismo) o si discute della dottrina cattolica (l’eucarestia, la natura della trinità, i dogmi mariani, e così via) e di come questa sia cambiata nel corso dei secoli. La commistione fra un’ambientazione moderna (automobili, armi da fuoco) e scene ambientate nel passato, e quella fra realismo e misticismo (vedi le varie figure soprannaturali – angeliche o diaboliche – che Pierre e Jean incontrano lungo la strada), con un'immancabile spruzzata di surrealismo (memorabile, nel finale, la prostituta – Delphine Seyrig – che vuole un figlio da ciascuno dei due protagonisti, per chiamarli “Tu non sei il mio popolo” e “Non più misericordia”), lo rendono un road movie del tutto sui generis, bizzarro e stravagante, pieno di fascino e di misteri irrisolti. Anche se non mancano gli sberleffi (il curato pazzo, Jean che si immagina la fucilazione del papa, il duello fra il giansenista e il gesuita), l’anticlericale Buñuel non vuole prendersi gioco del cristianesimo in sé ma mettere in luce tutta l’assurdità di uomini che discutono, si battono o si uccidono per questioni teologiche – spesso di lana caprina – sulle quali è impossibile giungere a una conclusione certa. In ogni caso, a rassicurare gli spettatori che non si è inventato nulla, il regista conclude la pellicola con un cartello che recita “Tutto ciò che, in questo film, riguarda la religione cattolica e le eresie che essa ha suscitato, particolarmente dal punto di vista dogmatico, è rigorosamente esatto. I testi e le citazioni sono conformi sia alle sacre scritture, sia a delle opere di teologia e di storia ecclesiastica antiche e moderne”.

18 luglio 2011

Wodaabe, i pastori del sole (W. Herzog, 1989)

Wodaabe, i pastori del sole (Wodaabe - Die Hirten der Sonne, aka Wodaabe – Herdsmen of the Sun)
di Werner Herzog – Francia/Germania 1989
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Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

I Wodaabe (chiamati anche Bororo da altri gruppi etnici) sono una tribù di pastori nomadi del Sahel, che si spostano con le loro mandrie (soprattutto zebù, bovini di grande taglia) fra i confini meridionali del Sahara, la Nigeria e il Niger. Questo interessante documentario ne indaga le difficoltà, gli usi e i costumi, rivolgendo una particolare attenzione ai festeggiamenti rituali del Gerewol, che si svolgono in occasione della fine della stagione delle pioggie, quando i giovani uomini si truccano in maniera elaborata e poi competono, fra canti e danze, in una sorta di concorso di bellezza per conquistare l'attenzione delle ragazze: queste ultime, infatti, hanno la facoltà di scegliere i più belli (fra le caratteristiche maggiormente ricercate ci sono la statura alta, gli occhi e i denti bianchi) per poi passare la notte con loro. Herzog e i suoi collaboratori sono i soli testimoni di questo insolito rituale, che non viene eseguito per i turisti ma fa parte della cultura stessa dei Woodabe. Alle immagini, il regista tedesco abbina curiosamente vecchie registrazioni di canti religiosi (come l’Ave Maria di Gounod) eseguite da un castrato.

14 luglio 2011

Testimonianza di un essere vivente (A. Kurosawa, 1955)

Testimonianza di un essere vivente, aka Vivo nella paura (Ikimono no kiroku)
di Akira Kurosawa – Giappone 1955
con Toshiro Mifune, Takashi Shimura
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Visto in divx.

A metà degli anni cinquanta, in piena Guerra Fredda, con americani e russi che sperimentavano ordigni nucleari sempre più minacciosi e potenti (è del 1952 la prima detonazione di una Bomba H), la psicosi di un conflitto atomico si era ormai fatta strada in molte fasce della popolazione, ed era particolarmente forte soprattutto in Giappone, l’unico paese ad avere subito sulla propria pelle un bombardamento di questo tipo. Non pochi, potendoselo permettere, si facevano costruire un rifugio antiatomico privato dove rifugiarsi in caso di necessità. Il protagonista di questo film, l’arcigno e ostinato anziano Kiichi Nakajima (interpretato da un Toshiro Mifune invecchiato ad arte, con tanto di capelli bianchi, rughe ed occhiali spessi: ma risulta un po’ grottesco e non sempre credibile), proprietario di una fonderia, è talmente terrorizzato dall’ipotesi di un’imminente esplosione atomica e della contaminazione radioattiva da progettare di emigrare in Brasile con la sua numerosa famiglia (non solo quella “regolare”, ma anche i figli illegittimi avuti da tre differenti amanti). Per impedirgli di vendere l’industria di famiglia e di dissipare il proprio denaro in questo progetto, la moglie e i suoi stessi figli ricorrono al tribunale per le controversie familiari, chiedendo la sua interdizione e che venga giudicato infermo di mente. A decidere sulla spinosa questione è chiamato il dottor Harada (Takashi Shimura), un semplice dentista che di solito lavora come consulente nei casi di divorzio. Come “Il duello silenzioso” del 1949, il film fa parte della produzione ‘minore’ di Kurosawa: storie contemporanee e un po’ troppo melodrammatiche su personaggi eccentrici, ossessionati da paure più o meno irrazionali e da un generico male di vivere, ai quali il regista – con il suo consueto umanismo – guarda con una certa simpatia. Se alla resa dei conti la pellicola risulta poco appassionante e un po’ datata, il personaggio di Nakajima resta comunque impresso, con la sua complessa situazione familiare, il suo desiderio di sopravvivere a ogni costo, il suo carattere scontroso e la sua paura senza limiti che – benché condivisa anche da altri personaggi (nel finale un medico commenta: “È strano lui, o siamo strani noi che ce ne stiamo così tranquilli?”) – lo condurrà fino alla pazzia. Il tema dell’incubo nucleare farà nuovamente capolino nel cinema di Kurosawa molti anni dopo, in un paio di episodi del film “Sogni”, e naturalmente in "Rapsodia in agosto".

12 luglio 2011

Blitz (Elliott Lester, 2011)

Blitz (id.)
di Elliott Lester – Gran Bretagna 2011
con Jason Statham, Paddy Considine
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Visto al cinema Zubiarte di Bilbao, in spagnolo.

Il duro e violento ispettore irlandese Tom Brant, in compagnia di un collega solo apparentemente più posato di lui, indaga su un "serial killer" di poliziotti che ha preso di mira gli agenti di Londra per un'oscura vendetta personale. Il colpevole viene rapidamente individuato e arrestato, ma è subito rimesso in libertà per mancanza di prove. I due detective si faranno allora giustizia da soli. Tanti luoghi comuni e poca originalità per un poliziesco comunque gradevole da vedere: per una volta i fan di Statham non si trovano di fronte a un adrenalinico film d'azione ma a una pellicola che guarda all'ispettore Callaghan e ai vari "Il braccio violento della legge" o "Il giustiziere della notte", recuperando atmosfere anni settanta ma aggiornandole ai ritmi moderni. Per chi ama il genere (o, come nel mio caso, l'attore), non è comunque tempo perso, purché non ci si aspetti nulla di particolarmente sofisticato. Buona anche la prova di Aidan Gillen nei panni dello sciroccato serial killer.

10 luglio 2011

Flash of genius (M. Abraham, 2008)

Flash of genius (id.)
di Marc Abraham – USA 2008
con Greg Kinnear, Lauren Graham
*1/2

Visto in originale, con sottotitoli spagnoli, in bus da Bilbao a Santiago.

La storia vera di Robert Kearns, inventore negli anni sessanta del tergicristalli automatico per automobili, e della sua lunga battaglia legale contro la Ford e altre compagnie automobilistiche che avevano sfruttato il suo brevetto senza riconoscergliene i diritti. Il soggetto è di scarso interesse e tutt'altro che entusiasmante, è vero, ma il tema dell'uomo che si batte da solo contro il sistema, e che sfida le grandi compagnie riuscendo infine ad avere la meglio, è tipico del cinema e della cultura americana. Il titolo si riferisce alla definizione con cui, negli anni cinquanta, il sistema legale statunitense dei brevetti definiva l'atto dell'invenzione: come un improvviso "lampo di genio", appunto, e non come il risultato di un lungo processo di elaborazione. E proprio questo è ciò che sta a cuore al protagonista, che più che al denaro (rinuncia infatti a diverse offerte di accordo da parte della Ford per chiudere anzitempo il processo) è interessato a vedersi pubblicamente riconosciuto come l'inventore di quello straordinario meccanismo che oggi è di serie su tutte le automobili. Il film però è piatto e prevedibile dall'inizio alla fine, e segue un percorso ben tracciato senza mai deviare e senza offrire sorprese o scossoni allo spettatore. Anche a livello di regia o di interpretazioni non offre nulla di memorabile, pur se Kinnear è bravo nel dare vita a un personaggio ingenuo e idealista ma anche ostinato e risoluto, probabilmente edulcorando alcuni dei tratti del Kearns originale.

9 luglio 2011

Una notte al museo 2 (S. Levy, 2009)

Una notte al museo 2 - La fuga (Night at the Museum: Battle of the Smithsonian)
di Shawn Levy – USA 2009
con Ben Stiller, Amy Adams
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Visto in originale, con sottotitoli spagnoli, in bus da Bilbao a Santiago.

Il sequel del fortunato "Una notte al museo" ne ripropone lo stesso schema con pochissime variazioni. Lo scenario, questa volta, si sposta dal Museo di Storia Naturale di New York allo Smithsonian di Washington (che in realtà è un complesso di vari musei), nei cui archivi sotterranei sono stati trasferiti gran parte dei reperti esposti nel precedente istituto, compresa la magica tavoletta di Akhmenrah che ha il potere di donare nottetempo la vita a tutti gli oggetti custoditi nell'edificio. A volersene impossessare questa volta è il malvagio faraone Kahmunrah, che intende usarla per conquistare il mondo con un esercito di demoni. E a contrastare lui e i suoi alleati (Napoleone Bonaparte, Ivan il Terribile e Al Capone) è ancora una volta il guardiano notturno Larry Daley, coadiuvato – fra gli altri – dall'aviatrice Amelia Eckhart. Se gran parte dei personaggi del precedente film fanno ritorno, sia pure con un ruolo minore (e rivediamo dunque brevemente Robin Williams e Owen Wilson), ci sono anche molte new entry: oltre a vari personaggi storici (il generale Custer, la statua di marmo di Abraham Lincoln), ad animali (un octopus gigante) e a tutta la sezione aerospaziale (dal prototipo dei fratelli Wright ai moduli lunari), si animano anche sculture come il Pensatore di Rodin (che flirta con una Venere del Canova!), quadri come "American Gothic" di Grant Wood, "Nighthawks" di Edward Hopper o la "ragazza che piange" di Roy Lichtenstein, celebri fotografie come "V-J day in Times Square" di Alfred Eisenstaedt, e molte altre opere. Da segnalare la prova di Hank Azaria nei panni del cattivo di turno (memorabile la scena in cui valuta se Oscar di "Sesame Street" e Darth Vader di "Star Wars" sono abbastanza malvagi per poter essere suoi alleati); ma anche Alain Chabat (che interpreta Napoleone) è come sempre irresistibile. Nel complesso, un film di puro intrattenimento senza pretese di originalità, con caratterizzazioni semplici e monodimensionali, ed effetti speciali forse anche troppo invadenti... Eppure, come nel primo capitolo, ci si diverte e si ritorna un po' bambini. Se poi viene voglia di fare una visita a un vero museo, tanto di guadagnato. Visto il successo al botteghino, non è da escludere la messa in cantiere di un ulteriore seguito.