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19 febbraio 2023

Il sale della terra (Wim Wenders, 2014)

Il sale della Terra (The Salt of the Earth)
di Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado – Brasile/Francia 2014
con Sebastião Salgado
**1/2

Visto in TV (Prime Video).

Documentario che ripercorre la vita e la carriera del fotografo brasiliano Sebastião Salgado, realizzato da Wenders con il contributo del figlio dello stesso Salgado come aiuto regista. Figlio di un fazendeiro del Minas Gerais e destinato a una carriera di economista, Salgado fuggì dalla dittatura militare per rifugiarsi in Francia. Qui, incoraggiato dalla moglie Lélia, scoprì la sua vera vocazione, quella di fotografo. E mosso da una forte empatia verso la condizione umana, convinto che gli esseri umani siano "il sale della Terra", nei suoi scatti ne ha ritratto di volta in volta la laboriosità (le attività delle comunità di contadini "senza terra" nel Nord-est del Brasile), le sofferenze (la fame provocata da siccità e carestie in Etiopia e in Mali), le tribolazioni (i viaggi dei migranti e dei rifugiati che fuggivano dal Rwanda o dall'ex Jugoslavia), sempre interrogandosi sul proprio ruolo di fotografo come testimone di tragedie, guerre, catastrofi umanitarie, che si trattasse di documentare gli incendi dei pozzi di petrolio in Kuwait, le miniere d'oro a cielo aperto in Brasile, o la vita di tribù che hanno vissuto isolate dal mondo moderno come gli Yali dell'Indonesia o gli Zo'é del Brasile. Infine, tornato nel paese natìo (dove, insieme alla moglie, intraprenderà un'attività di ripristino della foresta pluviale che era stata disboscata da gran parte della regione), si dedicherà a un nuovo progetto fotografico inteso come "omaggio al pianeta e alla natura", ritraendo animali, luoghi e persone che vivono come all'alba dei tempi. Con la voce narrante dello stesso Wenders e lunghi monologhi di Salgado, il documentario è interessante e presenta sullo schermo molti degli scatti del fotografo, anche se proprio questo aspetto lo rende poco "cinematografico" e quasi una carrellata di immagini fisse (fanno eccezioni alcuni documenti filmati sui suoi viaggi).

23 febbraio 2022

Black Hawk Down (Ridley Scott, 2001)

Black Hawk Down - Black Hawk abbattuto (Black Hawk Down)
di Ridley Scott – USA/GB 2001
con Josh Hartnett, Ewan McGregor
***

Rivisto in TV (Now Tv).

Nella Somalia scossa dalla guerra civile, durante una missione che sarebbe dovuta durare pochi minuti, un Black Hawk (elicottero d'assalto dell'esercito degli Stati Uniti) viene abbattuto dalle milizie del generale Aidid, signore della guerra locale, e precipita nelle strade di Mogadiscio. Qui i soldati superstiti a bordo, nonché quelli che vengono inviati a recuperarli, devono difendersi dall'assalto dei miliziani nemici: ne nasce una vera battaglia, uno cruento scontro a fuoco per le strade e i palazzi della città, che durerà tutta la notte e si concluderà con numerosi caduti. Da un episodio realmente avvenuto nel 1993 (che lo sceneggiatore Ken Nolan ha adattato da un saggio dello storico Mark Bowden), una pellicola bellica ad alta intensità che si concentra quasi tutta sull'azione, rappresentata con grande maestria dalla regia di Scott che, pur immersiva, evita sempre (per fortuna) l'effetto videogioco. Fra i film di guerra non esplicitamente di impostazione antibellica (nonostante accenni alle diverse sensibilità dei soldati coinvolti, c'è poco spazio per riflessioni ad ampio raggio sull'impegno e l'interventismo americano nei paesi stranieri, e anzi se ne celebra l'eroismo con una certa retorica), sicuramente è uno dei migliori per confezione tecnica e costruzione della suspense, viscerale e frenetica, grazie anche a un'impostazione corale nella quale comunque non mancano di sollevarsi alcune figure individuali. Il ricco cast comprende Josh Hartnett, Ewan McGregor, Eric Bana, Orlando Bloom, Sam Shepard, Tom Sizemore e molti altri (compreso un esordiente Tom Hardy). Ma più di loro a essere protagoniste sono le immagini (la fotografia è di Sławomir Idziak), il montaggio (di Pietro Scalia) e il sonoro, con queste due ultime categorie premiate con l'Oscar (due su quattro nomination). Colonna sonora di Hans Zimmer. Qualche critica per come sono stati rappresentati i somali (sia i "cattivi" sia la popolazione inerme).

12 maggio 2021

The constant gardener (F. Meirelles, 2005)

The constant gardener - La cospirazione (The Constant Gardener)
di Fernando Meirelles – GB/Germania 2005
con Ralph Fiennes, Rachel Weisz
**1/2

Visto in TV (Now Tv), con Sabrina.

Dopo la morte della giovane moglie (Rachel Weisz), attivista umanitaria che indagava sulle attività illecite delle case farmaceutiche occidentali che operano in Africa, un diplomatico inglese di stanza in Kenya (Ralph Fiennes) prosegue il suo lavoro e scopre che nel continente nero vengono sperimentati con disinvoltura nuovi farmaci sulla pelle delle persone e con la complicità del governo britannico. Da un romanzo di John le Carré, sceneggiato da Jeffrey Caine, un buon thriller di fantapolitica che si appoggia su temi forti e d'attualità, vagamente ispirato a casi reali e con una bella ambientazione. La brava Weisz (che appare quasi solo in flashback) fu premiata con l'Oscar come miglior attrice non protagonista, ma il peso del film è soprattutto sulle spalle di Fiennes, che torna in Africa (questa volta subsahariana) nove anni dopo "Il paziente inglese". Peccato che regia e fotografia non abbiano le idee del tutto chiare, ondeggiando in un guazzabuglio di stili diversi. Colonna sonora dell'almodovariano Alberto Iglesias. Il titolo si riferisce alla passione per il giardinaggio del protagonista, in un primo tempo indifferente ai problemi dei paesi africani (significativa la scena in cui rifiuta di aiutare una famiglia kenyota, spiegando alla moglie che è impossibile occuparsi di tutti, mentre in seguito cambierà idea e sarà protagonista di uno scambio di vedute simile, ma stavolta dall'altra parte della barricata). Nel cast anche Bill Nighy (il politico corrotto), Danny Huston (il collega traditore) e Pete Postlethwaite (il medico con i sensi di colpa).

26 settembre 2019

You will die at 20 (Amjad Abu Alala, 2019)

You will die at 20
di Amjad Abu Alala – Sudan/Francia 2019
con Mustafa Shehata, Islam Mubark
**

Visto al cinema Eliseo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

Un santone itinerante, dal quale Sakina aveva portato il figlio neonato Muzamil per essere benedetto, profetizza che il bambino morirà all'età di vent'anni. La previsione sconvolge la comunità, che pure la accetta senza metterla in discussione. Abbandonata dal marito, Sakina è costretta a crescere il figlio tutta da sola, cercando di proteggerlo in ogni maniera. Il piccolo, che viene dileggiato e chiamato "Il figlio della morte" dai suoi coetanei, non esce mai dal suo villaggio. Ciò nonostante, crescendo, comincia a sviluppare sempre più curiosità e sete di conoscenza. Iscritto alla scuola coranica, ne diventa uno degli alunni più promettenti. E contemporaneamente frequenta la casa di uno "straniero" ai margini della comunità, che gli insegna la matematica e l'amore per le culture occidentali, e dal quale apprenderà anche a "peccare". Nel frattempo, però, man mano che il suo ventesimo compleanno si avvicina, tutto il villaggio comincia a fare i preparativi per il suo funerale. E la ragazza di cui è innamorato viene data in sposa a un altro, visto che il legame con lui non avrebbe prospettive... Uno spunto interessante, legato alla fede assoluta nella religione e alle superstizioni fondate sul nulla, per un film pittoresco che però alla resa dei conti mantiene forse meno di quello che promette. Se il contesto è interessante, i temi morali e quelli della predestinazione sono svolti con una certa pretestuosità. Deludente in particolare il finale, anticlimatico e incapace di tirare adeguatamente le fila della vicenda.

20 settembre 2019

Camille (Boris Lojkine, 2019)

Camille
di Boris Lojkine – Francia 2019
con Nina Meurisse, Fiacre Bindala
**

Visto al cinema Colosseo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Locarno).

Biopic su Camille Lepage, giovane fotoreporter francese che rimase uccisa nel 2014 nella Repubblica Centrafricana, dove si trovava per documentare con i suoi scatti le violenze della guerra civile e gli scontri fra i ribelli mussulmani (i Séléka) e le milizie cristiane (gli anti-Balaka). Alternando il ritratto simpatetico di una protagonista giovane e idealista alla rappresentazione di una tragedia umanitaria della quale ai paesi occidentali importa davvero poco (a parte forse ai francesi, per via del loro passato coloniale), ma di cui in realtà non approfondisce particolarmente i retroscena, il film colpisce per la cura tecnica con cui ricostruisce sullo schermo scenari ed eventi anche molto recenti (la guerra è tuttora in corso) e per la potenza dell'intepretazione di Nina Meurisse. Ma gli manca quel "quid" che c'era nei reportage di Kapuściński (come "Ancora un giorno", ambientato in Angola, dal quale è stato tratto recentemente un bel film in animazione rotoscope) o persino in pellicole hollywoodiane come "Sotto tiro" con Nick Nolte, dove la situazione contingente non impediva di allargare lo sguardo al di là della tragica realtà. In questo caso siamo invece di fronte a poco più di un documentario, incapace di uscire dai limiti ristretti del suo argomento e che si limita a ribadire concetti generici sull'assurdità della guerra e della violenza.

19 settembre 2019

Nafi's father (Mamadou Dia, 2019)

Nafi's father (Baamum Nafi)
di Mamadou Dia – Senegal 2019
con Alassane Sy, Saikou Lô
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Locarno).

In un villaggio nel nord-est del Senegal dove l'Islam convive con le antiche tradizioni e alcune credenze animiste, il Tierno (l'imam locale) disapprova il fidanzamento della propria figlia Nafi con il cugino Tokara, figlio del suo fratello maggiore Ousmane. La questione, però, non è solo familiare ma anche religiosa e politica: Ousmane è infatti legato a un gruppo di integralisti islamici, finanziati da uno sceicco fondamentalista che vorrebbe prendere il potere nella zona e imporre la sharia. La rivalità fra i due fratelli divide pian piano la comunità: e per screditare Ousmane, il Tierno suggerisce ai due ragazzi di mettere in scena una "fuga d'amore"... Il primo lungometraggio del regista senegalese Mamadou Dia mette in scena lo scontro (fratricida) fra una concezione gentile e moderata dell'autorità religiosa (quella dell'imam protagonista) e una invece rigida, oppressiva e imposta con il potere della forza e dei soldi (grazie ai quali Ousmane si compra pian piano il favore e l'approvazione degli abitanti del villaggio). Efficace nel mettere in scena drammi, dubbi e aspirazioni personali all'interno di un contesto sociale (Nafi sogna di andare a studiare all'università, e in effetti il suo fidanzamento con il cugino fa parte di una strategia per poter trasferirsi nella capitale Dakar, dove anche il ragazzo vorrebbe studiare la danza), la pellicola ha come suo centro nevralgico un personaggio di forte integrità, coerente e deciso nell'opporsi (anche se passivamente) alle ingiustizie e alla barbarie che avanza, ma al tempo stesso diviso fra i suoi doveri di padre, di fratello, di autorità religiosa e di guida spirituale per i membri della comunità (oltre che sofferente per una malattia terminale che lentamente lo sta devastando).

28 maggio 2019

Black Panther (Ryan Coogler, 2018)

Black Panther (id.)
di Ryan Coogler – USA 2018
con Chadwick Boseman, Michael B. Jordan
**

Visto in divx.

La piccola nazione del Wakanda, situata nel cuore dell'Africa nera e completamente isolata dal mondo esterno, è segretamente ricca e tecnologicamente avanzata (pur conservando riti etnici e tradizioni ancestrali) grazie al vibranio, un metallo di origine extraterrestre che si trova nel suo sottosuolo e che consente di sviluppare armi e tecnologie avveniristiche. T'Challa (Chadwick Boseman), nuovo monarca dopo la morte del padre T'Chaka (avvenuta in "Captain America: Civil War", film che introduceva il personaggio nel Marvel Cinematic Universe), intende proseguire la politica di isolamento voluta dai propri antenati: ma la sua decisione sarà messa a dura prova dal cugino rivale Killmonger (Michael B. Jordan), che ne vuole usurpare il trono. Supereroe minore della Casa delle Idee, Pantera Nera (o Black Panther, come il marketing impone di chiamarlo anche in Italia) è il protagonista del primo film Marvel con un cast quasi esclusivamente di colore (fanno eccezione Martin Freeman nei panni dell'agente della CIA Everett Ross e l'ottimo Andy Serkis in quelli del malvagio trafficante d'armi Klaw, già visto a sua volta in "Avengers: Age of Ultron"), osannato proprio per questo motivo dalla critica e dal pubblico d'oltreoceano (e nominato a ben sette premi Oscar, compreso quello per il miglior film, vincendo le statuette per la scenografia, i costumi e la colonna sonora). Eppure, nonostante gli elogi, l'impressione è quella di trovarsi di fronte a un prodotto non particolarmente profondo o innovativo, nemmeno considerando la media della Marvel. Abbiamo una trama poco originale (con rimandi a "Il re leone" nelle scene delle visioni in cui T'Challa parla con il padre defunto), un protagonista di scarso carisma (molto meglio il cattivo, che almeno ha reali motivazioni, e persino i comprimari), scene d'azione piuttosto mediocri (alcuni combattimenti sembrano quasi al rallentatore), una CGI onnipresente ma non sempre di eccellente qualità, una sceneggiatura priva di dialoghi memorabili (per non parlare delle occasionali battutine che stonano con la seriosità di tutto il resto). Gli accenni alle questioni razziali antiche o moderne (il colonialismo, lo schiavismo, le lotte per i diritti civili, il dramma dei profughi) donano almeno una patina di spessore a quello che resta comunque un film d'intrattenimento, rendendo comprensibile l'entusiasmo, l'orgoglio e l'identificazione da parte del pubblico afro-americano (è praticamente la versione moderna – e supereroistica – dei film di blaxploitation degli anni settanta). Lupita Nyong'o è Nakia, spia wakandiana ed ex fidanzata di T'Challa; Danai Gurira è la guerriera Okoye, guardia del corpo del re; Letitia Wright è Shuri, la sorellina scienziata di T'Challa che gli fornisce armi e gadget (praticamente una variante di "Q" di James Bond). Daniel Kaluuya e Winston Duke sono due capi tribù del Wakanda. Piccoli ruoli per Angela Bassett (la regina madre), Forest Whitaker (lo sciamano) e Isaach De Bankolé (uno degli anziani). Stan Lee (che ha creato il personaggio insieme a Jack Kirby nel 1966 sulle pagine de "I Fantastici Quattro") fa il suo consueto cameo nel ruolo di un giocatore al casinò in Corea. Scadente il doppiaggio italiano. A parte gli accenni ai due film Marvel già citati e il controfinale con Bucky Barnes, la pellicola è essenzialmente fruibile a sé stante: ma il personaggio (del quale è in produzione un secondo capitolo "a solo") riapparirà nei lungometraggi successivi degli Avengers.

31 marzo 2019

Ancora un giorno (De la Fuente, Nenow, 2018)

Ancora un giorno (Another Day of Life)
di Raúl de la Fuente, Damian Nenow – Polonia/Spagna 2018
animazione rotoscope
***

Visto all'Auditorium San Fedele, con Marisa, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

Nel 1975 il giornalista e scrittore polacco Ryszard Kapuściński si trova in Angola come corrispondente di guerra, ed è testimone del conflitto civile che esplode nel paese dopo che è stato abbandonato in fretta e furia dai colonialisti portoghesi. Gli scontri fra le due fazioni, spalleggiate rispettivamente da USA e URSS (allora in piena guerra fredda), fanno precipitare il paese nel caos (o nella confusão, per usare il termine locale). Questo bel documentario in animazione rotoscope è ispirato al libro scritto dallo stesso Kapuściński, integrato da filmati e interviste ad alcuni dei protagonisti di allora (un paio di giornalisti angolani che collaborarono con lo scrittore, il comandante portoghese Farrusco che guidò la resistenza nel sud del paese), e fa un ottimo lavoro nel descrivere l'atmosfera di quei giorni, ritraendo la situazione politica e sociale ma anche il difficile mestiere del corrispondente di guerra. Lo stesso Kapuściński si scopre legato a doppio filo alle sorti del conflitto, quando deve prendere la difficile decisione se comunicare o meno al mondo la notizia dell'intervento delle forze cubane (per far fronte all'invasione da parte del Sudafrica), rivelando così la verità ma rischiando di provocare la reazione degli Stati Uniti. La riflessione (l'osservatore perturba la realtà con la sua sola presenza?) ricorda uno dei concetti alla base della meccanica quantistica. Fra diario di viaggio, testimonianza storica e collezione di ritratti di personaggi indimenticabili (come Carlota, la giovane e carismatica soldatessa che accompagna Kapuściński e un suo collega al fronte), il tono del racconto è coinvolgente, stimolante, e mai retorico o superficiale. Anche l'animazione è ben fatta: l'uso dei disegni consente di rendere sullo schermo (in maniera anche surreale e immaginifica) sequenze che girate dal vivo sarebbero state irrimediabilmente cruente.

30 marzo 2019

Divine wind (Merzak Allouache, 2018)

Divine wind (Rih rabani)
di Merzak Allouache – Algeria/Francia 2018
con Sarah Layssac, Mohamed Oughlis
*1/2

Visto all'Auditorium San Fedele, con Marisa, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

In una capanna nel deserto algerino, ospiti di un'anziana contadina, una giovane reclutatrice dell'ISIS e un ragazzo che ha scelto di andare a combattere con i terroristi islamici attendono di ricevere gli ordini per compiere la propria missione: un attentato suicida presso un vicino impianto petrolifero. Girato in bianco e nero e caratterizzato da estrema lentezza, un film assai dilatato che lascia appena intuire il passato e i trascorsi dei suoi personaggi (nelle scarne telefonate che il ragazzo fa al padre, cercando di convincerlo di trovarsi a Barcellona, e negli sguardi che la ragazza rivolge alla foto della sorella defunta). Lui è fragile, insicuro, incerto, mentre lei è all'apparenza assai dura e decisa, salvo lasciarsi andare a profonde reazioni emotive quando non pensa di essere vista: e naturalmente fra i due scatta qualcosa, anche se una relazione affettiva non può aver veramente modo di svilupparsi. Ma nonostante la bella fotografia (quasi da cinema muto o da Nouvelle Vague) che rende al meglio gli affascinanti spazi del deserto, la pellicola risulta davvero troppo esile, anche perché la lunga fase di attesa e sospensione (gli eventi accadono soltanto nel finale) non è accompagnata da alcun approfondimento o riflessione particolare sui suoi personaggi e sul tema stesso del terrorismo (il titolo, "Vento divino", traduce il termine kamikaze) o del fanatismo religioso (perché i due protagonisti sono diventati così?).

29 marzo 2019

Flatland (Jenna Bass, 2019)

Flatland
di Jenna Cato Bass – Sudafrica/Ger/Lux 2019
con Nicole Fortuin, Faith Baloyi
*

Visto allo Spazio Oberdan, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

In fuga da una traumatica prima notte di nozze, Natalie (Nicole Fortuin) uccide il prete che l'aveva sposata e scappa insieme all'amica e "sorella di latte" Poppie (Izel Bezuidenhout), una sciroccata che si è fatta mettere incinta da un camionista. Insieme, le due partono come Thelma & Louise, ma sulle loro tracce c'è Beauty Cuba (Faith Baloyi), solitaria poliziotta appassionata di telenovelas, che intende scagionare l'ex fidanzato Billy, auto-accusatosi dell'omicidio (e "incastrato" da Bakkies, il marito di Natalie, figlio del capo della polizia). Un film sconclusionato, rocambolesco, con una sceneggiatura convoluta ed sovrabbondante, personaggi idioti (è praticamente impossibile empatizzare con chiunque di loro, compresa Natalie, che parla al proprio cavallo come se fosse sua madre) e alcuni fra gli attori più inespressivi che abbia mai visto. La regista vorrebbe giocare con i generi (dal western al thriller d'azione, dal melodramma alla denuncia sociale), ma fa un pasticcio senza alcun senso della misura, privo di grazia e di equilibrio, che procede per accumulo in maniera goffa e insensata, forse nel tentativo di fare il verso ad alcune (brutte) pellicole post-moderne americane. Il titolo (l'unico motivo per cui avevo scelto di vederlo) non ha purtroppo nulla a che fare con il romanzo satirico di Edwin Abbott, ma si riferisce alla piattezza del territorio dove si svolge la storia, la semi-desertica regione del Karoo.

Freedom fields (Naziha Arebi, 2018)

Freedom fields
di Naziha Arebi – Libia/GB 2018
con attori non professionisti
**

Visto all'Auditorium San Fedele, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

Un documentario che racconta del tentativo di mettere in piedi una nazionale femminile di calcio nella Libia post-Gheddafi, dopo una rivoluzione che, anziché dare la libertà promessa, ha finito col rendere ancora più difficile la vita delle donne. L'ostilità e i pregiudizi che le calciatrici ricevono da ogni parte di una società che non approva il loro impegno nello sport fa naufragare ben presto il progetto della federazione, lasciando le giovani atlete completamente da sole. E dopo aver seguito alcune delle protagoniste nella loro difficile vita di tutti i giorni, il film documenta il loro viaggio in Libano per partecipare (come squadra "privata") a un torneo di calcio riservato a calciatrici dei paesi arabi. Girata nell'arco di cinque anni, una pellicola interessante (dove i temi dello sport e dell'autodeterminazione delle donne vanno a braccetto) ma anche un po' noiosetta, che a un certo punto tende a sfilacciarsi, forse anche perché la regista ha dovuto modificare in corsa il suo progetto quando gli eventi reali non sono andati come ci si sarebbe aspettati all'inizio.

28 marzo 2019

Dreamaway (M. Omara, J. Domke, 2018)

Dreamaway
di Marouan Omara, Johanna Domke – Egitto/Germania 2018
con Horreya Hassan, Shaima Reda
*1/2

Visto all'Auditorium San Fedele, con Marisa, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

L'esistenza di un gruppo di lavoratori di un grande e lussuoso albergo di Sharm El Sheikh, durante la bassa stagione, quando di turisti non ce ne sono (forse anche per le conseguenze del terrorismo e della Primavera Araba) e i vari animatori, dj, massaggiatori, ecc. sono costretti a riflettere e a fare i conti con sé stessi. Film di impostazione anti-narrativa (è praticamente un documentario, che segue i sette personaggi nelle loro attività di tutti i giorni), venato da una profonda tristezza. Le immense strutture, pensate per divertire e intrattenere i villeggianti stranieri, sono vuote e desolate (o forse popolate da fantasmi), il che ne mette in luce tutta l'artificialità, e gli stessi operatori si rendono conto di come la frequentazione di questo mondo fasullo li stia cambiando poco a poco, facendo loro perdere la propria identità (vedi per esempio l'uomo che si dipinge di vernice dorata per fingere di essere una statua). Le varie sequenze che si succedono sono spesso ambientate all'alba, al tramonto o durante la notte, e il ritmo lento costruisce un'atmosfera ipnotica e quasi onirica. Ma francamente, forse anche per questo, durante la visione ho fatto fatica a tenere gli occhi aperti: e a vivacizzare una pellicola che forse avrebbe avuto bisogno di un tocco registico alla Jia Zhangke (o alla Robert Altman, vista la natura di film corale) non riesce nemmeno la trovata "surreale" di far intervistare i vari personaggi, lungo la strada, da un figurante vestito da scimmia gigante, o l'estemporanea scena in cui il massaggiatore si ritrova sotto le mani non una cliente, ma un manichino. Omara è un regista egiziano, Domke una videoartista tedesca: questo è il loro secondo lavoro insieme.

29 novembre 2018

Il tè nel deserto (B. Bertolucci, 1990)

Il tè nel deserto (The sheltering sky)
di Bernardo Bertolucci – Italia/GB 1990
con Debra Winger, John Malkovich
**1/2

Rivisto in divx.

Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, tre viaggiatori americani giungono sulle coste del Nordafrica: si tratta dei coniugi Port e Kit Moresby (Malkovich e Winger), artisti annoiati e in cerca di nuovi stimoli (anche per rinsaldare il proprio rapporto coniugale), e del loro giovane amico George Tunner (Campbell Scott). L'avventura, però, si rivela meno piacevole del previsto, fra compagni di viaggio sgradevoli, come il grassoccio Eric Lyle (Timonthy Spall) e sua madre (Jill Bennett), difficoltà logistiche con mezzi di trasporto improvvisati, imprevisti e malattie (Port si ammala di tifo). E i personaggi si smarriscono e si addentrano sempre più nel Sahara e nei suoi misteri. Tratto dal romanzo di Paul Bowles (che compare nel film nei panni del vecchio gentiluomo nel bar, testimone e narratore dell'intera vicenda), sceneggiato da Bertolucci insieme al cognato Mark Peploe e prodotto da Jeremy Thomas (come il precedente "L'ultimo imperatore"), un film difficile da gustare appieno se non ci si adagia nel suo ritmo e non si partecipa, insieme ai protagonisti, al viaggio con i tempi giusti. Caratterizzato, prima ancora che dalla regia di Bertolucci (e da un estetismo e una sensualità un po' melensi e noiosi), dalla fotografia dorata e crepuscolare di Vittorio Storaro, che rende reali e suggestivi gli scenari del deserto (compresa la sabbia e le mosche), sembra procedere a lungo senza una vera trama: in realtà la trama è sotto la superficie, e viene pienamente alla luce soltanto nell'ultima mezz'ora, la parte più bella e suggestiva della pellicola, quando Kit – rimasta sola – si unisce a una carovana di tuareg ed entra per un breve periodo a far parte della loro vita, diventando anche l'amante del berbero Belqassim. Allora dal film spariscono i dialoghi (visto che la donna non parla la lingua dei nomadi), sostituiti da canti e da silenzi, e anche la fotografia muta i propri toni, facendosi lunare (il sole è associato a Port, la luna a Kit). Celebre il tema musicale di Ryuichi Sakamoto.

31 ottobre 2018

Lo straniero (Luchino Visconti, 1967)

Lo straniero
di Luchino Visconti – Italia 1967
con Marcello Mastroianni, Anna Karina
***1/2

Visto in divx.

Nell'Algeria coloniale francese, il modesto impiegato Arturo Meursault (Mastroianni) uccide "per caso" un giovane arabo. Si consegna alla polizia e sarà condotto in tribunale. Qui il dibattimento diventa un processo alla sua vita, in particolare alla sua presunta insensibilità in occasione della recente morte della madre in un ospizio fuori città. È un processo di stampo etico e moralista, dove l'indifferenza di Meursault e il suo scarso attaccamento alla madre vengono visti come disinteresse per la patria, i valori religiosi e gli ideali dell'intera società. Dal romanzo esistenzialista di Albert Camus (sceneggiato dal regista con Suso Cecchi D'Amico), uno dei film esteticamente più sobri e minimalisti di Visconti. La prima metà è dedicata alla confessione di Meursault, e ne fornisce il ritratto di un uomo mite, senza volontà o ambizioni e apparentemente senza sentimenti, ma in realtà semplicemente uno "straniero" che vive in un mondo in cui non sa o non vuole integrarsi, dove nulla lo interessa davvero ("Per me è lo stesso" è il suo mantra, che si parli di amore o di lavoro). Eppure ha una donna (Maria, l'ex collega interpretata da Anna Karina), degli amici (Raimondo, un poco di buono: è lui, avendone picchiato la sorella, che scatena l'ira dell'arabo che poi Arturo uccide), delle relazioni (il vicino di casa con il cane, il datore di lavoro). Agli occhi altrui appare però vuoto, anestetizzato, difficile da comprendere. E naturalmente non crede in Dio, per la disperazione del procuratore che lo accusa (Georges Wilson) e lo sconcerto del prete che lo visita in galera (Bruno Cremer). Tanto basta per ritrarlo come un "mostro" abietto agli occhi della società (e della giuria) e per condannarlo alla pena capitale (la sua colpa sembra più quella di non aver pianto al funerale della madre che quella di aver ucciso l'arabo). Una condanna che accetterà con la stessa indifferenza e noncuranza, vista l'ineluttabilità della morte. La parte del protagonista sarebbe dovuta andare inizialmente ad Alain Delon, ma Mastroianni è perfetto e misurato, con il suo sguardo vuoto e il suo flusso di pensieri che donano alla pellicola un andamento quasi onirico, come se la vicenda non fosse ambientata nella nostra realtà ma in un territorio di confine fra l'esistenza e la sua negazione. D'altronde Mersault è letteralmente uno straniero, un uomo diviso a metà, fra l'Europa e l'Africa, né francese né algerino, senza una vera patria o vere radici. La regia asciutta di Visconti e la fotografia di Giuseppe Rotunno illustrano l'irrealtà dell'ambiente alla perfezione. Interessante anche la musica spettrale ed evocativa di Piero Piccioni. Bernard Blier è l'avvocato difensore. Da notare come il doppiaggio presenti i nomi italianizzati (Arturo, Raimondo, ecc.), provenienti forse dalla prima traduzione del romanzo.

26 marzo 2018

I am not a witch (Rungano Nyoni, 2017)

I am not a witch
di Rungano Nyoni – Zambia/Francia/GB 2017
con Maggie Mulubwa, Henry B.J. Phiri
***

Visto all'Auditorium San Fedele, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

In un remoto villaggio in Zambia, gli abitanti accusano una bambina, giunta lì da sola e da chissà dove, di essere una strega. Evidentemente simili superstizioni possono essere prese sul serio, visto che le donne accusate di provocare danni di ogni tipo vengono isolate e recluse in apposite "riserve", mantenute legate a nastri bianchi per impedire loro di "volare via", costrette a lavorare nei campi o a intrattenere i turisti curiosi. La piccola bambina, ribattezzata Shula (che significa "sradicata") dalle sue protettive compagne anziane, suscita in particolare l'interesse di un funzionario governativo, il signor Banda, che ne sfrutta in ogni modo le presunte capacità (da quella di individuare a una prima occhiata il colpevole di un furto o di un delitto, scegliendolo fra i vari sospetti portati in tribunale, a quella di provocare la pioggia tanto attesa nei momenti di siccità). E la piccola Shula, taciturna dallo sguardo intenso, comincia a pensare che forse essere una strega non è poi questa gran cosa... Il bel film che ha vinto il primo premio al Festival del cinema africano di Milano è l'opera prima (dopo alcuni corti) di una regista zambiana trapiantata in Galles, che racconta una storia insolita e, in teoria, drammatica, con uno sguardo leggero, dai toni ironici e surrealisti, tanto che alcuni critici l'hanno paragonato ai lavori di Lanthimos o di Jodorowsky. Colpisce soprattutto come una superstizione che affonda le sue radici nelle tradizioni locali (e che un tempo, in fondo, aveva il suo corrispettivo in ogni parte del mondo, Italia compresa) sia ancora così accettata e presa sul serio anche in piena modernità, in un contesto dove ormai sono diffuse la scienza, i cellulari, i programmi televisivi e le automobili. A contribuire alla riuscita della pellicola e alla sua strana qualità, un misto di commedia satirica e dramma antropologico, c'è soprattutto lo sguardo della piccola protagonista, attraverso i cui occhi da bambina osserviamo anche noi tutta l'assurdità del mondo. Ma restano impresse anche l'eccentricità dei personaggi di contorno, parecchie immagini altamente simboliche (i nastri di seta, avvolti in enormi rulli, che limitano il raggio d'azione delle "streghe") e l'utilizzo della musica di Vivaldi.

25 marzo 2018

Sheikh Jackson (Amr Salama, 2017)

Sheikh Jackson
di Amr Salama – Egitto 2017
con Ahmed El Fishawy, Ahmed Malek
**1/2

Visto all'Auditorium San Fedele, con Marisa e Patrizia,
in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

La notizia della morte di Michael Jackson, di cui era stato un grande fan da adolescente, fa piombare in crisi spirituale (e non solo) un giovane imam, che inizia a dubitare della propria fede. Gli incubi e l'ossessione per la morte lo portano da una psicoanalista, davanti alla quale rievocherà il proprio passato e in particolare il difficile rapporto con il padre. E alla fine riuscirà finalmente ad accettare sé stesso, riappacificandosi con il genitore e cessando di rinnegare una parte di sé. Etichettato come una commedia (e in effetti non mancano scene surreali o momenti divertenti: si pensi alle "apparizioni" di Michael Jackson a disturbare il protagonista durante le preghiere, o all'anello elettronico con cui tiene il conto dei peccati e delle buone azioni commesse), questo insolito film (campione d'incassi in Egitto, nonostante un soggetto che potrebbe sembrare quantomeno poco ortodosso da un punto di vista religioso) è una lunga riflessione di un personaggio che cerca di conciliare e rimettere insieme le diverse parti di sé, a cominciare dalla propria identità. Il suo vero nome Khaled, infatti, non viene quasi mai usato: i compagni di classe lo prendono in giro con un nomignolo dispregiativo, lui stesso si ribattezza Jackson per far colpo su una ragazza (a sua volta appassionata del cantante) di cui è innamorato, e da adulto a un certo punto perde pure la carta d'identità. La via d'uscita, come sempre, sta nella sincerità e nel bandire le ipocrisie (per esempio, non vietando alla figlia di seguire le proprie passioni, a differenza di quello che il padre aveva fatto con lui). Nonostante i numerosi riferimenti e le tante citazioni visive, nella pellicola non è presente alcun brano del cantante.

23 marzo 2018

The number (Khalo Matabane, 2017)

The Number
di Khalo Matabane – Sudafrica 2017
con Mothusi Magano, Kevin Smith
**1/2

Visto all'Auditorium San Fedele, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

Da anni rinchiuso in una prigione sudafricana, Magadien (Magano, attore estremamente espressivo) fa parte della fratellanza chiamata "Il numero", organizzazione clandestina di detenuti che spadroneggia fra le quattro mura. Quando viene designato un nuovo direttore, Jacobs (Smith), che vorrebbe migliorare le condizioni di vita all'interno del carcere, proprio Magadien comincia un processo di riabilitazione per uscire lentamente dalla spirale di violenza che si autoalimenta. Spinto anche dal desiderio di non perdere definitivamente il rapporto con il proprio figlio, Magadien accetta di aiutare Jacobs a mantenere l'ordine nel carcere e di tenere discorsi educativi nelle scuole, ma il suo atteggiamento è mal visto dai compagni di cella... Per una volta, un film sudafricano che non parla di Apartheid (si svolge ai giorni nostri, o comunque successivamente alla caduta del regime razzista). Bello e intenso, inevitabilmente – vista l'ambientazione – ricorda a tratti altre pellicole carcerarie, da "Il profeta" (anche se qui il percorso del protagonista è all'opposto) a "Le ali della libertà" (c'è persino una scena in cui l'ascolto di musica lirica, in questo caso "La Bohéme", arriva a toccare il cuore dei detenuti), ma ha comunque una propria identità, fortemente incentrata su un protagonista irrequieto e combattuto fra il desiderio di autodeterminarsi attraverso la violenza e la volontà di riformare in senso positivo la propria vita.

24 settembre 2017

Les bienheureux (Sofia Djama, 2017)

Les bienheureux
di Sofia Djama – Francia/Belgio/Qatar 2017
con Sami Bouajila, Nadia Kaci, Amine Lansari
***

Visto al cinema Centrale, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

Ambientato ad Algeri nell'arco di una giornata, un film corale per riflettere – attraverso gli sguardi di differenti generazioni – sul tragico passato del paese nordafricano (insanguinato dalla guerra civile), il suo difficile presente (fra i pericoli del terrorismo e la recrudescenza dell'integralismo religioso) e il suo incerto futuro (le cui speranze sono affidate ai più giovani, che sembrano peraltro ancora in cerca di una propria identità, sballottati fra mille contraddizioni). Samir (Sami Bouajila), medico che pratica aborti clandestini, e sua moglie Amal (Nadia Kaci) si recano a trascorrere la serata in casa di amici e poi al ristorante per festeggiare l'anniversario del loro matrimonio. I differenti punti di vista sul loro paese, che a differenza di altri non hanno mai abbandonato nemmeno negli anni più difficili, rischiano di dividerli: la donna, che ha perso ogni speranza in un rapido miglioramento delle cose, vorrebbe che il figlio Fahim (Amine Lansari) lasciasse l'Algeria per andare a studiare in Europa, mentre il marito crede ancora che possa esserci un futuro. Nel frattempo, Fahid bighellona con gli amici Reda (Adam Bessa), che in pieno fervore religioso vorrebbe farsi tatuare sulla schiena una "sura" del Corano, e Feriel (Lyna Khoudri), ragazza ribelle in cerca di autonomia e di libertà, con un tragico passato da dimenticare... Un grande lavoro di scrittura (non a caso la regista e sceneggiatrice, all'esordio, ha studiato letteratura) per una pellicola che riesce a dare voci uniche e credibili a tutti i personaggi, portando alla luce di volta in volta le individualità, le cicatrici nascoste, i sogni e le aspirazioni, le illusioni e la rassegnazione, la rabbia e il desiderio di trasgressione. Il film è infatti sfaccettato, espone diversi punti di vista e mette in scena in problemi e le contraddizioni di un paese che attraversa una fase di profondo cambiamento: in meglio o in peggio, la questione è tutta lì. Ma la cosa certa è che dipenderà dalle nuove generazioni.

20 aprile 2017

Cacciatore bianco, cuore nero (C. Eastwood, 1990)

Cacciatore bianco, cuore nero (White Hunter, Black Heart)
di Clint Eastwood – USA 1990
con Clint Eastwood, Jeff Fahey
**

Visto in divx alla Fogona, con Sabrina e Marisa.

John Wilson (Eastwood), regista hollywoodiano anticonformista e poco incline ai compromessi ("Chi fa un film deve fregarsene altamente di chi va a vederlo"), accetta di dirigere un lungometraggio in Africa, ma solo perché intende approfittare dell'occasione per soddisfare un suo personale capriccio: quello di dare la caccia a un elefante. E infatti, una volta giunto in Kenya, trascura il lavoro e pensa soltanto a organizzare un safari, coinvolgendo anche lo sceneggiatore del film, Pete Verrill (Jeff Fahey), in quella che diventa una vera e propria ossessione. Girato in Zimbabwe e tratto da un romanzo (del 1953) di Peter Viertel, che romanzava le esperienze vissute durante la lavorazione de "La regina d'Africa" (il protagonista è evidentemente ispirato a John Huston, Verrill è l'alter ego dello stesso Viertel), un film non del tutto soddisfacente: il soggetto e soprattutto l'ambientazione avevano grandi potenzialità, ma la realizzazione manca della forza necessaria per elevare la vicenda su un piano larger-than-life, come forse autori come Peter Weir o Werner Herzog sarebbero riusciti a fare (per non parlare dello stesso Huston). Così com'è, l'ossessione di Wilson per la caccia all'elefante rimane qualcosa di elusivo e inspiegabile, un suo fatto personale – conseguenza forse della sua megalomania e delle sue insicurezze – che gli impedisce di connettersi non solo con gli altri personaggi ma anche con gli spettatori. E sequenze come quella in cui si dimostra intollerante al razzismo dei bianchi colonialisti in Africa sembrano quasi dei corpi estranei (curiosità: la scazzottata con Clive Mantle, secondo alcuni, è l'unico caso in cui Clint, sullo schermo, le busca in uno scontro alla pari).

11 febbraio 2017

A United Kingdom (Amma Asante, 2016)

A United Kingdom - L'amore che ha cambiato la storia
(A United Kingdom)
di Amma Asante – GB 2016
con David Oyelowo, Rosamund Pike
*

Visto al cinema Orfeo, con Sabrina.

La vera storia di Seretse Khama, erede al trono del protettorato britannico del Bechuanaland (l'attuale Botswana, di cui dopo l'indipendenza diventerà il primo presidente), e del suo controverso matrimonio nel 1948 con una donna bianca, l'inglese Ruth Williams, conosciuta quando lui studiava legge a Londra e lei era una semplice impiegata. Il loro amore fece scalpore nell'Africa ancora soggetta al colonialismo e alla separazione razziale, e indispettì in particolare il vicino Sudafrica, che proprio in quegli anni stava istituzionalizzando l'apartheid. Pur di non compromettere i rapporti con quel paese (dal quale riceveva approvvigionamenti di oro e uranio), il governo britannico cercò dapprima di convincere Khama a divorziare da Ruth, e poi lo costrinse all'esilio, assumendo direttamente il controllo della nazione (e dei suoi preziosi giacimenti). Ma le reazioni e le proteste dell'opinione pubblica riuscirono a farlo tornare in patria, dove si battè per l'indipendenza e la democrazia nel suo paese. Una storia interessante ed edificante raccontata in modo piatto, scialbo e convenzionale. Gli intrighi politici, che sovrastano ben presto la storia d'amore, sono esposti in maniera semplicistica, e il film che ne risulta è agiografico, ingessato dagli eventi storici e compiaciuto nella sua retorica.