29 novembre 2018

Il tè nel deserto (B. Bertolucci, 1990)

Il tè nel deserto (The sheltering sky)
di Bernardo Bertolucci – Italia/GB 1990
con Debra Winger, John Malkovich
**1/2

Rivisto in divx.

Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, tre viaggiatori americani giungono sulle coste del Nordafrica: si tratta dei coniugi Port e Kit Moresby (Malkovich e Winger), artisti annoiati e in cerca di nuovi stimoli (anche per rinsaldare il proprio rapporto coniugale), e del loro giovane amico George Tunner (Campbell Scott). L'avventura, però, si rivela meno piacevole del previsto, fra compagni di viaggio sgradevoli, come il grassoccio Eric Lyle (Timonthy Spall) e sua madre (Jill Bennett), difficoltà logistiche con mezzi di trasporto improvvisati, imprevisti e malattie (Port si ammala di tifo). E i personaggi si smarriscono e si addentrano sempre più nel Sahara e nei suoi misteri. Tratto dal romanzo di Paul Bowles (che compare nel film nei panni del vecchio gentiluomo nel bar, testimone e narratore dell'intera vicenda), sceneggiato da Bertolucci insieme al cognato Mark Peploe e prodotto da Jeremy Thomas (come il precedente "L'ultimo imperatore"), un film difficile da gustare appieno se non ci si adagia nel suo ritmo e non si partecipa, insieme ai protagonisti, al viaggio con i tempi giusti. Caratterizzato, prima ancora che dalla regia di Bertolucci (e da un estetismo e una sensualità un po' melensi e noiosi), dalla fotografia dorata e crepuscolare di Vittorio Storaro, che rende reali e suggestivi gli scenari del deserto (compresa la sabbia e le mosche), sembra procedere a lungo senza una vera trama: in realtà la trama è sotto la superficie, e viene pienamente alla luce soltanto nell'ultima mezz'ora, la parte più bella e suggestiva della pellicola, quando Kit – rimasta sola – si unisce a una carovana di tuareg ed entra per un breve periodo a far parte della loro vita, diventando anche l'amante del berbero Belqassim. Allora dal film spariscono i dialoghi (visto che la donna non parla la lingua dei nomadi), sostituiti da canti e da silenzi, e anche la fotografia muta i propri toni, facendosi lunare (il sole è associato a Port, la luna a Kit). Celebre il tema musicale di Ryuichi Sakamoto.

27 novembre 2018

L'ultimo imperatore (B. Bertolucci, 1987)

L'ultimo imperatore (The Last Emperor)
di Bernardo Bertolucci – Italia/GB 1987
con John Lone, Joan Chen
***

Rivisto in DVD, per ricordare Bernardo Bertolucci.

Salito al trono nel 1908 a soli 3 anni, Pu Yi è stato l'ultimo imperatore della Cina: la sua abdicazione forzata, alla nascita della Repubblica Popolare Cinese, ha posto fine a una tradizione bimillenaria. Questo kolossal storico-epico di enorme successo (conquistò, fra le altre cose, ben 9 premi Oscar, fra cui quelli per la miglior pellicola e il miglior regista) si basa sulla sua autobiografia, scritta in tarda età, e racconta – attraverso le vicende personali del protagonista – le immense trasformazioni che il paese ha vissuto nel corso del Novecento, dopo secoli (millenni?) di immobilismo. E sotto questo aspetto, nonostante l'ambientazione esotica (la Cina può sembrare quanto di più lontano dalla provincia emiliana o dai confini europei), non mancano i punti in comune con gli altri capolavori di Bernardo Bertolucci, "Novecento" appunto, ma anche "Il conformista" (con la sua ragnatela di passioni e intrighi politici, rievocati in particolare nelle sequenze in cui Pu Yi diventa il sovrano dello stato fantoccio del Manchukuo). Strutturata come una serie di flashback, la sceneggiatura segue la prigionia di Pu Yi bambino all'interno della sua stessa corte, dalla quale non può uscire né quando è il divino "figlio del cielo" né quando rimane solo un simbolo mentre all'esterno il mondo sta cambiando rapidamente. In fondo non è dissimile dal topolino, dal grillo o dagli altri animaletti di corte. Dal carattere aperto, riformista ed esterofilo (anche per merito del precettore britannico Reginald Johnston), per tutta la vita Pu Yi rimane suo malgrado una pedina in mano ad altri: prima ai nazionalisti cinesi, e poi ai giapponesi che lo mettono a capo della Manciuria occupata. Infine, a guerra terminata, è accusato di collaborazionismo dal Partito Comunista e rinchiuso in un "campo di rieducazione", dal quale uscirà dopo dieci anni, nel 1959, per vivere gli ultimi suoi giorni da cittadino comune. Le ultime sequenze (forse immaginarie) ce lo mostrano mentre visita il suo palazzo, ormai diventato un'attrazione turistica. Per la prima volta una troupe cinematografica occidentale ebbe il permesso, da parte delle autorità cinesi, di girare all'interno della Città Proibita, la vasta cittadella che fu sede della corte imperiale. Bertolucci ebbe totale libertà d'azione, e il risultato è sontuoso, grazie anche alla fotografia di Vittorio Storaro. Nella sua lunghezza (due ore e quaranta minuti), il film attraversa molteplici fasi e atmosfere: dallo splendore formale dei riti e dei cerimoniali di corte, al progressivo svuotamento del palazzo man mano che il sovrano cresce, dal trasferimento a Tianjin ai venti di guerra, dagli interrogatori nella prigione all'avvento della rivoluzione culturale di Mao (con gli inesorabili contrappassi che genera ogni svolta di potere). La produzione richiese quasi 20.000 comparse, molte delle quali fornite dall'esercito cinese. Nel ruolo di Pu Yi si alternano quattro attori: John Lone è l'imperatore da adulto, mentre tre bambini o ragazzini lo interpretano a varie età (a 3, a 8 e a 15 anni). Joan Chen è Wanrong/Elizabeth, l'imperatrice, mentre Wu Junmei è Wenxiu, la seconda moglie. Peter O'Toole è il precettore scozzese, Ying Ruocheng il governatore della prigione, Ryuichi Sakamoto (autore anche delle musiche) il giapponese Amakasu. Nel cast anche Victor Wong (il gran tutore), Dennis Dun, Maggie Han (la spia "Gioiello d'oriente"), Cary-Hiroyuki Tagawa e il regista Chen Kaige (il capo delle guardie). Al vasto successo di critica non sono estranei la cura dei costumi, delle scenografie e del montaggio. E il film rimane forse l'esempio per eccellenza del respiro vasto e internazionale che il cinema italiano un tempo poteva vantare (anche attraverso le co-produzioni, come in questo caso).

26 novembre 2018

Callas forever (Franco Zeffirelli, 2002)

Callas forever
di Franco Zeffirelli – Italia/Fra/Spa 2002
con Jeremy Irons, Fanny Ardant
**

Visto in TV.

Reduce da una disastrosa tournée in Giappone, nel 1977 Maria Callas (Ardant) considera la propria carriera finita e si chiude nel suo appartamento parigino, dove vive da sola e nel rimpianto dopo la morte di Onassis. A tirarla fuori sarà Larry (Irons), impresario teatrale e suo amico di lunga data, che la convince a recitare in una serie di film-opera dove canterà in playback, "doppiata" grazie alle incisioni dei suoi anni d'oro. Ma dopo aver realizzato il primo di questi film, una "Carmen" piena di colore e di vigore (che per lei è un modo di chiudere un rapporto rimasto incompiuto con il personaggio, visto che non lo aveva mai interpretato a teatro), cambia nuovamente idea e chiede all'amico di distruggere il filmato... Insolito biopic "di finzione" (la didascalia conclusiva recita: "Gli avvenimenti narrati in questo film appartengono alla fantasia dell'autore e al ricordo della sua lunga amicizia con Maria Callas") che ritrae la Diva negli ultimi mesi della sua vita (morirà nel settembre di quello stesso anno), quando ormai la voce di un tempo si era deteriorata e il mondo intorno a lei stava cambiando velocemente (lo stesso Larry si dedica ora a promuovere "scandalosi" gruppi punk rock). Ma le visite notturne dei "fantasmi" del personaggi delle sue opere (Norma, Violetta, Tosca...) la spingeranno a tornare sulle scene... Se la Callas non fosse una figura realmente esistita, il suo personaggio sembrerebbe la solita diva capricciosa e patetica: ma Zeffirelli la ritrae con affetto, grazie anche all'ottima interpretazione di una Ardant che, se fisicamente non le somiglia, psicologicamente si cala del tutto nelle contraddizioni del personaggio. Bene anche Irons. Per il resto, però, il film – che più che una biografia va considerato dunque come un omaggio alla Diva che più di ogni altra ha incarnato l'ideale della cantante lirica del ventesimo secolo – dà il meglio di sé nelle scene dell'opera-nel-film (Zeffirelli allestirà personalmente una "Carmen" all'Arena di Verona nel 1995), girate in maniera sontuosa, ricche di atmosfera e di barocchismi, molto superiori al resto della pellicola che soffre invece per i dialoghi didascalici e alcuni momenti un po' stucchevoli. Joan Plowright è la giornalista Sarah, Jay Rodan è il pittore amante di Larry, Gabriel Garko è Marco, il bel cantante che interpreta Don José. Fra i brani cantati dalla Callas si possono sentire (oltre alla "Habanera" e altri spezzoni della "Carmen") "Casta diva", "O mio babbino caro", "Un bel dì vedremo", "Libiamo nei lieti calici" e "Vissi d'arte".

25 novembre 2018

Identità (James Mangold, 2003)

Identità (Identity)
di James Mangold – USA 2003
con John Cusack, Ray Liotta, Amanda Peet
***

Rivisto in TV.

In una notte di pioggia forte e incessante, undici persone rimangono bloccate in un motel nel deserto del Nevada, impossibilitate a comunicare con l'esterno. Ben presto si rendono conto che uno di loro è un assassino psicopatico, che intende uccidere gli altri dieci uno a uno. Nel frattempo, in città, un giudice, un avvocato e uno psichiatra discutono sulla possibile infermità mentale di un condannato alla sedia elettrica che deve essere giustiziato la mattina seguente... Un plot che inizialmente ricorda "Dieci piccoli indiani" (come nel classico di Agatha Christie, i personaggi scoprono di avere tutti dei segreti e, soprattutto, qualcosa in comune...) si trasforma, a metà strada, in un thriller psicologico con un notevole colpo di scena (che a differenza di pellicole come "Il sesto senso" o "Fight club", non giunge alla fine ma appunto a due terzi di film, e non del tutto imprevedibile: è sì il fulcro della vicenda ma non impedisce di provare suspense anche dopo la sua rivelazione). Alcune analogie, meno evidenti, anche con "Ombre rosse", per via del gruppo di personaggi costretti a stare insieme in una situazione di pericolo, e che comprende, fra gli altri, un criminale, un poliziotto, una prostituta, una famiglia... Pur essendo costruito su un'ipotesi che richiede la piena disponibilità dello spettatore ad accettarne premesse e conseguenze, come puro thriller non è pretenzioso, ma solido e ben girato (con un diffuso utilizzo del "multiplo punto di vista" all'inizio, nella presentazione dei personaggi), e regge anche a una seconda visione: forse il miglior film di Mangold fra quelli che ho visto. Ottimo il cast: fra gli occupanti del motel ci sono John Cusack, Ray Liotta, Amanda Peet, Rebecca De Mornay, Clea DuVall e Jake Busey, mentre Alfred Molina è lo psichiatra. Buona la fotografia notturna e piovosa.

23 novembre 2018

La samaritana (Kim Ki-duk, 2004)

La samaritana (Samaria)
di Kim Ki-duk – Corea del Sud 2004
con Kwak Ji-min, Lee Eol, Han Yeo-reum
***

Rivisto in DVD.

La liceale Jae-young (Han Yeo-reum) si prostituisce per raccogliere il denaro necessario a un viaggio in Europa con la sua amica del cuore Yeo-jin (Kwak Ji-min), la quale, pur disapprovandone il comportamento, la aiuta organizzando gli incontri e facendole da palo. Quando però Jae-young si suicida gettandosi dalla finestra di un albergo, Yeo-jin decide di sostituirsi a lei (cui già prestava la voce al telefono) e di incontrare nuovamente tutti i suoi clienti per restituire loro il denaro che le avevano dato... Con la consueta fusione di temi scabrosi e poesia delle immagini (tutta la vicenda è ammantata di colori autunnali), il film di Kim Ki-duk è soltanto in parte una pellicola sulla prostituzione minorile, un fenomeno sociale peraltro assai diffuso in estremo oriente: a metà strada cambia infatti il proprio focus e si concentra sul rapporto (venato di incomunicabilità) fra genitori e figli. Il padre di Yeo-jin (Lee Eol), dopo aver scoperto per caso gli incontri clandestini della figlia, inizia infatti a seguirne i clienti per punirli in maniera sempre più violenta. E infine, decide di partire con la ragazza per un viaggio in montagna, dal quale prevede di non tornare più... Divisa in tre sezioni (intitolate "Vasumitra", "Samaria" e "Sonata", e dedicate rispettivamente a Jae-young, a Yeo-jin e a suo padre), la storia cambia focus più volte, tanto che sembra quasi di assistere a tre film diversi, accomunati però dal fatto di rappresentare un percorso "iniziatico", che attraverso il sesso (e la morte) conduce ciascuno dei tre protagonisti verso la scoperta del proprio ruolo e del rapporto con il mondo circostante. Jae-young è il più "libero" dei tre personaggi, quello che vive il sesso in maniera gioiosa e disinteressata, consapevole di donare felicità agli altri (si identifica appunto in Vasumitra, monaca-cortigiana indiana che convertiva gli uomini al buddhismo attraverso l'amore fisico). Per Yeo-jin (la "samaritana" del titolo) si tratta invece di una questione morale, un modo per onorare la memoria dell'amica ed espiare al tempo stesso le proprie colpe. Il padre, poliziotto che progressivamente perde il controllo di sé, sospinto da un furore vendicativo, è infine una figura più complessa, che nel terzo atto del film lascia intendere più volte allo spettatore di voler compiere un atto irreparabile nei confronti della figlia: ma dopo averlo evocato oniricamente, il regista ci sorprende invece con un bel finale di metaforica responsabilità (la lezione di guida). L'intero viaggio in campagna, lontano dunque dal setting cittadino delle prime due sezioni, sembra quasi trasportarci in un altro mondo e in un altro tempo, dove è più facile dimenticare, perdonare e ricominciare. Se da un lato la pellicola cammina su un terreno sottile e rischioso (non sono mancate le controversie, in patria e all'estero) per il modo con cui affronta il tema della prostituzione giovanile (che pure è mostrato attraverso diversi punti di vista: quelli delle due ragazze, inizialmente opposti, ma anche quello del padre e quelli dei vari clienti, che spaziano dall'indifferenza totale ai sensi di colpa), dall'altro offre numerosi spunti, anche appena accennati: il tema del doppio, con l'identificazione fra le due ragazze, ma anche quello dell'amicizia (che confina, o sconfina, nell'amore) o quello dell'immancabile connubio fra eros e thanatos (con l'inquietante sorriso di Jae-young al momento del suo suicidio). Molto brave le due giovani attrici, praticamente esordienti. Nella colonna sonora (che ricorda Joe Hisaishi) si sentono brani di Erik Satie.

22 novembre 2018

Aniki Bóbó (Manoel de Oliveira, 1942)

Aniki Bóbó
di Manoel de Oliveira – Portogallo 1942
con Horácio Silva, Nascimento Fernandes
***1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Nei quartieri poveri di Porto, lungo le sponde del fiume Douro, il piccolo Carlitos si contende l'amore della coetanea Teresinha con il compagno di classe (e bulletto) Eduardo, leader naturale del loro gruppo di monelli di strada. Per lei arriva a rubare una bambola, finendo poi in balia dei sensi di colpa. Quando però sarà accusato dagli amici di aver spinto il rivale giù da uno strapiombo sulla ferrovia sottostante, sarà proprio il negoziante che lo sospettava del furto (Nascimento Fernandes) a scagionarlo. Opera prima del prolifico regista Manoel de Oliveira (che in precedenza aveva realizzato soltanto alcuni brevi documentari), un'affascinante pellicola che trasporta le dinamiche del mondo degli adulti (amori, gelosie, crimini, sensi di colpa) in quello dei bambini, ritratti con affetto e attenzione all'ambiente circostante. Lasciando da parte il neorealismo italiano, siamo più dalle parti del realismo poetico francese: la vicenda ha la connotazione di una favola, con tanto di lieto fine ed insegnamento morale (già preannunciato dalla scritta che Carlitos reca sulla borsa con cui va a scuola: "Segui sempre la retta via"), anche se per fortuna gli intenti pedagogici alla "Pinocchio" sono tenuti a distanza grazie a una deliziosa leggerezza, lontana dall'anarchia o dalla sovversione di un Jean Vigo ("Zero in condotta") o un Luis Buñuel ("I figli della violenza"), titoli con cui pure ha qualcosa in comune. Convincenti (e assai simpatici) i piccoli protagonisti. Non mancano alcuni tocchi onirici (l'incubo di Carlitos in preda ai sensi di colpa), surreali e comici (le scenette ambientate a scuola; quelle con Pistarim, il piccolo amico del protagonista, che inciampa sempre nelle sue scarpe). Il titolo è l'incipit di una filastrocca che i bambini utilizzano come conta (prima di giocare a guardie e ladri) e come parola d'ordine. All'epoca la pellicola non ebbe successo (tanto che il regista non dirigerà più un'opera di finzione per quasi trent'anni), salvo essere rivalutata col tempo.

21 novembre 2018

Widows (Steve McQueen, 2018)

Widows - Eredità criminale (Widows)
di Steve McQueen – USA/GB 2018
con Viola Davis, Michelle Rodriguez
*1/2

Visto al cinema Colosseo.

Quando una banda di rapinatori muore durante un colpo, le loro vedove si vedono costrette a prendere il loro posto e a progettare una pericolosa rapina per restituire il denaro che i mariti avevano sottratto a un gangster. Dopo l'esordio folgorante con due pellicole d'autore intense e sorprendenti ("Hunger" e "Shame"), McQueen – per la prima volta senza l'attore feticcio Michael Fassbender – prosegue purtroppo sulla strada della normalizzazione, o se vogliamo della "hollywoodizzazione": e al successo agli Oscar "12 anni schiavo" fa seguire questo thriller d'azione ispirato a una serie televisiva inglese del 1983, una versione sofisticata e psicologica di "Ocean's eleven" (o meglio, di "Ocean's eight", il cui cast era interamente femminile). Purtroppo abbondano cliché e stereotipi, a partire dalla composizione del gruppo di protagoniste, una banda multietnica come le peggiori gang dei fumetti Marvel degli anni ottanta: c'è la nera ricca (Viola Davis), la nera proletaria (Cynthia Erivo), l'ispanica tamarra (Michelle Rodriguez) e la bionda slavata (Elizabeth Debicki). D'altronde il film è tutto un tentativo di distribuire le etnie in maniera equilibrata fra buoni e cattivi, rispettando in questo modo le minoranze (e probabilmente ammiccando anche alle femministe). Se la regia è solida e la tensione a tratti non manca (la parte migliore, come in ogni heist movie che si rispetti, è la sequenza della rapina), molte situazioni sono però scontate, i dialoghi poco incisivi, i colpi di scena prevedibili (è evidente che un personaggio interpretato da un attore noto come Liam Neeson non possa morire dopo cinque minuti!), per non parlare di trovate abusatissime come lo sparo fuori campo. E il tentativo di complicare la vicenda, inserendo più parti in gioco (molteplici antagonisti, per esempio), non fa che rendere la trama più sfilacciata. Viola Davis con il cagnolino bianco ricorda un cattivo di 007. Nel cast anche Colin Farrell (il politico bianco) e Robert Duvall (suo padre).

20 novembre 2018

Contro il destino (Olivier Assayas, 1991)

Contro il destino (Paris s'éveille)
di Olivier Assayas – Francia 1991
con Judith Godrèche, Thomas Langmann
**1/2

Visto in TV.

Il diciannovenne Adrien (Thomas Langmann), in fuga dalla polizia, lascia Tolosa per rifugiarsi a Parigi dal suo padre naturale, Clément (Jean-Pierre Léaud), che non vede da diversi anni. L'uomo convive con la diciottenne Louise (Judith Godrèche), aspirante attrice e modella, che ben presto lo lascia per mettersi proprio con il figlio. Ma la vita dei due ragazzi è difficile, anche perché Louise è tossicodipendente e Adrien non ha né lavoro né documenti... Il terzo film di Assayas è uno spaccato esistenziale di personaggi irrequieti e problematici, alla continua ricerca di stabilità e di qualcosa che li completi. La bella atmosfera (costruita dalla regia avvolgente e dalla fotografia di Denis Lenoir) e la ricchezza dei dialoghi, curati e realistici, sono al servizio di una vicenda priva di focus, proprio come i suoi protagonisti, indecisi e in balìa di loro stessi (oltre che di rapporti familiari e sentimentali irrisolti e tormentati), che alla fine non potranno che prendere strade separate. Memorabile la Godrèche, in bilico fra ragazzina e donna matura, con i capelli corti e l'espressione sognante, a volte timida e incerta (come nell'audizione) e a volte decisa e sicura di sé. Il titolo originale, che significa "Parigi si sveglia", sembra rimandare al classico di René Clair "Parigi che dorme" e sottolinea l'ambientazione in una città catturata in un momento di passaggio, sospesa, nervosa e dai colori cangianti, che promette molte opportunità ma si rivela anche poco accogliente e anzi quasi ostile. Musica di John Cale.

19 novembre 2018

La signora di tutti (Max Ophüls, 1934)

La signora di tutti
di Max Ophüls – Italia 1934
con Isa Miranda, Memo Benassi
**

Visto in TV.

La diva del cinema Gabriella "Gaby" Doriot (Isa Miranda) tenta il suicidio: sotto anestetico, mentre viene operata in ospedale, la sua mente ricorda tutte le traversie della sua vita, causate dall'irresistibile fascino che ha sempre esercitato sugli uomini. Cacciata da scuola per via di una relazione con un insegnante sposato, viene accolta nella casa dei ricchi conti Nanni per tenere compagnia alla signora Alma (Tatiana Pavlova), costretta sulla sedia a rotelle. Qui si fidanza con il giovane Roberto (Friedrich Benfer), ma a perdere davvero la testa per lei è suo padre, Leonardo Nanni (Memo Benassi), industriale che a causa sua si rovinerà. Da un romanzo di Salvator Gotta, l'unico film girato in Italia da Ophüls è un melodramma sentimentale prodotto dall'editore Angelo Rizzoli (all'esordio nel cinema, dove sperava di fare la stessa fortuna che in quegli anni stava sperimentando il suo rotocalco femminile "Novella", poi "Novella 2000"). La pellicola riscosse molto successo, rendendo popolare la sua protagonista Isa Miranda, nonché la canzone "La signora di tutti" interpretata da Nelly Corradi (che nel film recita nel ruolo della sorella di Gaby, Anna). Lamberto Picasso è il padre di Gaby, Franco Coop è il suo agente. Acclamato all'epoca per la qualità superiore alla media del cinema italiano (merito soprattutto della regia elegante di Ophüls, a suo agio nell'affrontare i temi del destino e della perdizione, e della figura della protagonista, un'ingenua ragazza di campagna che diventa "femme fatale suo malgrado"), rivisto oggi il film è poco più di un feuilletton molto datato (soprattutto nella recitazione: i migliori sono Benassi e la Pavlova), e inoltre soffre di problemi nell'audio in presa diretta che rendono quasi inudibili alcuni dialoghi: evidentemente l'industria italiana non aveva ancora preso le misure con le nuove tecnologie del sonoro.

17 novembre 2018

Ragtime (Miloš Forman, 1981)

Ragtime (id.)
di Miloš Forman – USA 1981
con Howard E. Rollins jr., Brad Dourif
**1/2

Rivisto in TV.

Nella New York di inizio novecento si intrecciano le storie di diversi personaggi (alcuni dei quali realmente esistiti): la più importante è quella di Coalhouse Walker Jr. (Howard Rollins), pianista di colore che, per vendicarsi di un affronto subito (uno scherzo razzista che porta a tragiche conseguenze), terrorizzerà l'establishment bianco, minacciando di far saltere in aria la biblioteca privata del milionario J.P. Morgan se non gli sarà consegnato il responsabile del gesto, il pompiere volontario Willie Conklin (Kenneth McMillan). Ma c'è anche la storia della famiglia bianca e benestante di New Rochelle, appena fuori New York, che accoglie Sarah, compagna di Coalhouse e madre di suo figlio, rimanendo coinvolta nella vicenda: i suoi membri – il padrone di casa (James Olson), la sua sensibile moglie (Mary Steenburgen) e il fratello minore di lei (Brad Dourif) che, simpatizzante della causa di Walker, si unirà al gruppo di questi fornendogli armi e bombe – curiosamente non hanno nome per tutto il film. E c'è la giovane modella e attrice Evelyn Nesbit (Elizabeth McGovern), che ha posato per una statua nuda posizionata sul tetto del Madison Square Garden, cosa che fa impazzire di gelosia il suo ricco marito, l'industriale Harry Thaw (Robert Joy), il quale sparerà all'architetto Stanford White (Norman Mailer). E c'è l'artista di strada Tateh (Mandy Patinkin), migrante che farà fortuna nel mondo del cinema, scegliendo proprio Evelyn come protagonista dei suoi lavori... Un montaggio di spezzoni di cinegiornale, all'inizio della pellicola, introduce alcuni di questi e molti altri personaggi pubblici dell'epoca (Harry Houdini, Theodore Roosevelt e il suo vice Charles W. Fairbanks, Booker T. Washington, J. P. Morgan) che saranno legati, in maniera diretta o indiretta, alle vicende narrate. Ne risulta un affresco corale e "altmaniano", fra la realtà storica e la fiction, bel calato nell'atmosfera di inizio secolo: un momento in cui la società americana era in piena trasformazione, fra nuove forme di arte (il cinema, la musica, come il ragtime che dà il titolo alla pellicola), mutamenti sociali e di costume (il ruolo della donna, le minoranze razziali), l'incombere della guerra. Nel cast spicca James Cagney (nel ruolo del capo della polizia Rheinlander Waldo), di ritorno al cinema dopo vent'anni di assenza e alla sua ultima apparizione sullo schermo (a lui, per rispetto, va il primo posto nei titoli). Ultimo film anche per Pat O'Brien. Ma ci sono anche piccole parti per interpreti all'esordio come Samuel L. Jackson, Debbie Allen e Jeff Daniels. La musica è di Randy Newman. Otto nomination agli Oscar (fra cui sceneggiatura, fotografia e colonna sonora, oltre a Rollins e McGovern come attori non protagonisti) ma nessuna statuetta. Il film è tratto dall'omonimo romanzo storico di E. L. Doctorow.

16 novembre 2018

Aspettando il re (Tom Tykwer, 2016)

Aspettando il re (A Hologram for the King)
di Tom Tykwer – USA/Fra/Ger 2016
con Tom Hanks, Alexander Black
**

Visto in TV.

Alan Clay (Hanks), venditore in crisi familiare, professionale e di salute, viene inviato dalla sua azienda in Arabia Saudita per cercare di vendere al re di quel paese – che sta costruendo una gigantesca città nel deserto – un avveniristico sistema di teleconferenze olografico. Ma il sovrano non si fa vivo, e l'incontro con lui viene rimandato di giorno in giorno senza che a Clay (in un crescente stato di frustrazione e alienazione) vengano fornite spiegazioni... Da un romanzo di Dave Eggers, una pellicola che mostra un personaggio catapultato dall'altra parte del mondo, in un paese a lui totalmente estraneo e incomprensibile (potrebbe essere su Marte, per quanto lo riguarda), dove però finirà per trovare un punto di contatto. Gli echi kafkiani ("Il castello", "Davanti alla legge") e beckettiani ("Aspettando Godot", evocato dal titolo italiano), gli accenni ai pericoli dell'economia globale (l'outsourcing), la crisi personale ed esistenziale, si intrecciano in un film che parte bene ma che da metà in poi comincia a perdere per strada il proprio focus, trascinandosi verso un improbabile lieto fine hollywoodiano (la love story con la dottoressa). Surreali e suggestive le scene della città in costruzione nel deserto, ma per il resto l'ambientazione araba appare stereotipata (un po' come lo era quella giapponese in "Lost in translation", film con cui ha qualche similarità). La regia di Tykwer è comunque spigliata. Flop al botteghino, nonostante un buon Hanks. Alexander Black è l'autista, Sarita Choudhury la dottoressa, Sidse Babett Knudsen la collega danese. Nel cast anche Ben Whishaw e Tom Skerritt.

15 novembre 2018

Ho fatto splash (Maurizio Nichetti, 1980)

Ho fatto splash
di Maurizio Nichetti – Italia 1980
con Maurizio Nichetti, Angela Finocchiaro
**1/2

Rivisto in TV.

Angela (Finocchiaro), Luisa (Morandini) e Carlina (Torta: i personaggi hanno gli stessi nomi delle tre attrici) dividono un appartamento milanese a Porta Venezia, insieme a un bambino, figlio di una quarta coinquilina che è partita per un viaggio intorno al mondo. Delle tre, soltanto Carlina ha un lavoro stabile (fa l'insegnante in una scuola elementare) e porta a casa uno stipendio: Luisa aspira a fare l'attrice (con piccole parti a teatro e negli spot pubblicitari) e Angela è una pittrice sciroccata. A ravvivare ulteriormente l'atmosfera in casa, arriva il cugino di Carlina (Nichetti), che si era addormentato da piccolo guardando la televisione e si è appena risvegliato dopo un sonno durato oltre vent'anni... Il secondo film di Nichetti dopo "Ratataplan" è un libero susseguirsi di situazioni surreali e di scenette comiche ed episodiche che da un lato guardano alla comicità del muto (significativamente, nella casa delle ragazze spiccano, fra le altre cose, dei ritratti di Chaplin, Keaton, Oliver & Hardy e i fratelli Marx), per esempio nelle sequenze in cui il protagonista porta il caos in luoghi istituzionali (in chiesa, a teatro), e dall'altro cercano di abbozzare una satira sociale tipica della commedia all'italiana, benché filtrata attraverso l'ironia strampalata e grottesca, quasi "da fumetto", tipica dell'attore/regista. Il quale, fedele al proprio personaggio stralunato, resta in silenzio per l'intero film, con l'eccezione di un'unica frase, quella che dà il titolo al film (pronunciata durante le riprese di uno spot all'Idroscalo) e che diventa involontariamente un fortunato slogan pubblicitario per una bibita gassata. E proprio la pubblicità e la televisione, anzi la dipendenza (soprattutto da parte dei bambini e dei giovani) da questa, sono il filo conduttore della pellicola: sin dalla scena iniziale, in cui assistiamo all'indisciplina che regna nella classe in cui insegna Carlina (fra le altre cose, uno degli scolari fa il verso al Fonzie di "Happy Days"), per proseguire con l'attrazione irresistibile del bambino che vive in casa delle ragazze per i cartoni animati sul piccolo schermo (anche se non sembra far altro che guardarsi in loop la sigla italiana di "Gundam") e per la popolarità virale conquistata dal jingle "Ho fatto splash". Ma ce n'è per la società in generale (i giovani ribelli, il ladro gentiluomo, l'architetto "madonnaro", l'ingordigia degli invitati al pranzo di nozze, il mondo del teatro, con una presa in giro di Giorgio Strehler nella sequenza che mostra il suo allestimento de "La tempesta" di Shakespeare al Teatro Lirico). Guido Manuli ha collaborato alla sceneggiatura e ha disegnato le animazioni.

14 novembre 2018

Slacker (Richard Linklater, 1991)

Slacker (id.)
di Richard Linklater – USA 1991
con Richard Linklater, Teresa Taylor
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Ventiquattr'ore nella vita degli abitanti di Austin, in Texas, e in particolare dei giovani rappresentanti della cosiddetta "Generazione X", perlopiù ventenni e sfaccendati, impegnati in discussioni filosofiche o pseudo-intellettuali. Seguito ideale (ma ben più compiuto) del suo film d'esordio, l'autoprodotto "It's impossible to learn to plow by reading books", il film che ha portato per la prima volta Linklater all'attenzione della critica salta – in stile semi-documentaristico – da un personaggio all'altro, senza trattenersi con nessuno per più di pochi minuti e approfittando di ogni incontro (anche casuale) per abbandonare il primo e seguire il secondo come se si cedessero il testimone (o come ne "La ronde" di Ophüls, di cui è quasi una versione aggiornata). A volte rimaniamo in compagnia di un personaggio per pochissimi secondi, giusto il tempo di un raccordo; altre volte ci restiamo invece per sequenze più lunghe e complesse. Fra le decine di scenette, da ricordare quella iniziale in cui lo stesso Linklater, a bordo di un taxi, espone le sue teorie sui sogni e gli universi paralleli; quella in cui un ragazzo investe in auto la propria madre; quella in cui un complottista tormenta una ragazza con le tante ipotesi sull'assassinio di Kennedy; quella in cui un anziano anarchico fa amicizia con il giovane ladro entrato in casa sua; quella in cui incontriamo un fanatico della televisione e dei video. Alla fine, ci accorgiamo che l'insieme ha più valore e significato delle singole sequenze, che concorrono a formare un affresco di una generazione senza direzione, senza prospettive, imprigionata nei propri discorsi fumosi (filosofici, sociali, politici, culturali) e nelle teorie di complotto (sbarchi lunari ed alieni, cospirazioni del governo...). Una generazione inconcludente e poco interessata a costruirsi una vita vera o una carriera lavorativa, ma anche rapporti di amicizia o sentimentali che posino su basi solide, preferendo restare in preda di un "cazzeggio" generalizzato che nasconde la mancanza di relazioni e di collegamenti. Linklater è ben conscio di tutto questo, eppure guarda ai suoi personaggi con una certa simpatia, anche ai più stralunati, forse perché sa di farne parte (interpreta personalmente il primo ragazzo della pellicola, e idealmente fa parte del gruppo dei giovani filmmaker che si vedono proprio nel finale). L'ottimo lavoro di scrittura in alcune sequenze, il naturale fluire degli eventi, e l'efficacia nella descrizione di un milieu sociale e culturale rendono il film uno dei più interessanti del panorama indipendente dei primi anni novanta. Fra i tanti attori ci sono amici del regista (Kim Krizan), musicisti (Teresa Taylor, Abra Moore) e altri cineasti (Lee Daniel, Athina Rachel Tsangari).

13 novembre 2018

I kill giants (Anders Walter, 2017)

I kill giants (id.)
di Anders Walter – USA 2017
con Madison Wolfe, Sydney Wade
**

Visto in TV.

Barbara (Wolfe) è una ragazzina nerd, eccentrica e introversa, che vive con la sorella e il fratello in una casa sulle coste del New Jersey e si aggira nei boschi, vestita in maniera bizzarra e con delle orecchie da coniglio ("Un tributo allo spirito guida"), per allestire trappole e prepararsi a combattere mostruosi giganti, convinta di essere l'unica in grado di proteggere l'intera città. Tutti a scuola la credono ovviamente matta, tanto che viene seguita da una psicologa (Zoe Saldana) ed è emarginata (quando non bullizzata) dalle compagne, con l'unica eccezione dell'amica Sophia (Wade): ma il suo mondo di fantasia, ispirato da giochi di ruolo come "Dungeons & Dragons" e dalla carriera di un vecchio giocatore di baseball, Harry Coveleski (il cui nome ha dato alla sua "arma magica", una gigantesca mazza in grado di abbattere i titani), nasconde un terribile segreto... Da un fumetto di Joe Kelly e Ken Niimura, un film che mescola fantasia e realtà, dramma e commedia teen, sulla falsariga di "Un ponte per Terabithia", anche se il risultato è meno convincente e visionario di quanto le premesse facessero sperare. Se tutto ciò di cui Barbara si circonda (riti, presagi, strani apparecchi, preparativi e trappole nei boschi) rappresenta una mitologia senz'altro interessante, e se le riflessioni sui traumi adolescenziali, sull'incapacità di affrontarli e sul tentativo di sfuggire alla realtà (o di ammantarla di altri significati) non sono banali (si potrebbe persino azzardare un paragone con Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento, scambiando anch'essi per giganti), il film non riesce però a sfuggire ai cliché del genere scolastico (i bulli, le amicizie) e ad approfondire i suoi personaggi – protagonista a parte – al di là degli stereotipi (personaggi che, sottolineato giusto per curiosità, sono praticamente tutti femminili: la protagonista, l'amica, la bulla, la psicologa, la sorella). Il regista, danese, è all'esordio nel lungometraggio dopo alcuni corti di successo.

12 novembre 2018

Il sogno della farfalla (M. Bellocchio, 1994)

Il sogno della farfalla
di Marco Bellocchio – Italia 1994
con Thierry Blanc, Roberto Herlitzka
*

Visto in TV.

Massimo (Thierry Blanc), figlio di uno studioso di mitologia greca (Roberto Herlitzka) e di una poetessa (Bibi Andersson), ha scelto di non parlare più "in maniera normale" e di esprimersi soltanto attraverso monologhi o frammenti di dialogo tratti da testi teatrali (per esempio l'Edipo a Colono o il Macbeth). Anche per questo motivo ha scelto la carriera di attore... Su una sceneggiatura dello psichiatra Massimo Fagioli (che era l'analista del regista, e con cui aveva collaborato anche ne "Il diavolo in corpo" e "La condanna"), Bellocchio gira il suo film più criptico e meno accessibile, un'astrusa storia di silenzio e di rapporti familiari irrisolti (quella di Massimo è una ribellione?), che mescola riferimenti alla cultura greca (l'intero finale che si svolge proprio durante una vacanza nel Peloponneso), pretenziosità filosofica, banalità archetipiche e ridicolo involontario (vedi la scena del vecchio giardiniere che, sdraiato a terra, si taglia la barba con le cesoie da giardino e fa il morto). La chiusura di Massimo nel silenzio vorrebbe forse rappresentare una fuga, a differenza del fratello Carlo (Henry Arnold: sì, l'Hermann di "Heimat 2"!) che, essendo fisico, cerca invece di indagare la natura anche a costo di distruggerla (quanti luoghi comuni!): due facce della figura di Ulisse, quella curiosa e ricercatrice e quella invece che (secondo Herlitzka) fugge dal proprio inconscio per tornare nel più confortante luogo natale. Personaggi enigmatici prima ancora che irrequieti, frasi ripetute allo sfinimento finché non sono svuotate di significato ("Tu sei il mio figlio più bello"), qualche bel paesaggio (le sponde del Lago d'Iseo), ma per il resto zero cinema, tanta noia, pessimi dialoghi e personaggi con cui è impossibile trovare il minimo aggancio emotivo. Siamo di fronte a un film vuoto e presuntuoso, pseudo-intellettuale e fintamente psicologico, in cui più si cerca e meno si trova, e che rifiuta persino di affrontare il tema stesso che si era scelto, quello del silenzio (su cui peraltro ci sarebbe tanto da dire, Bergman docet). Registicamente le cose migliori sono le scene in cui nessuno parla e quelle del viaggio in Grecia. Sprecato l'interessante cast. All'inizio Massimo recita ne "Il principe di Homburg" di von Kleist, che sarà proprio il soggetto del successivo film di Bellocchio.

11 novembre 2018

Le belle della notte (René Clair, 1952)

Le belle della notte (Les belles de nuit)
di René Clair – Francia/Italia 1952
con Gérard Philipe, Gina Lollobrigida
**

Visto in TV.

Claudio (Gérard Philipe), compositore giovane e spiantato, si trova talmente a disagio nel mondo moderno che sogna in continuazione (ad occhi aperti, ma anche no) di vivere avventure gloriose e romantiche nei secoli precedenti. Alla fine scoprirà che si può essere felici (con poco) anche nella realtà. Garbata commedia dal taglio onirico, con cui Clair si prende gioco di chi elogia "il buon tempo antico" (in qualsiasi epoca, persino nella preistoria, c'è un vecchio che afferma che ai suoi tempi si viveva meglio). I toni trasognati da favola e le gag surreali (vedi l'orchestra sinfonica che, anziché i normali strumenti, utilizza tutte le fonti di rumore moderno che tanto tormentano il nostro eroe: motori a scoppio, martelli pneumatici, trombette...) donano al film un bel ritmo svagato. Le donne protagoniste dei sogni di Claudio, ciascuna delle quali ha un contraltare nella sua grigia realtà, sono Martine Carol (la dama di inizio secolo, in realtà la madre di una ragazzina cui dà lezioni di piano), Gina Lollobrigida (l'odalisca algerina, in realtà la cassiera di un bar) e Magali Vendeuil (la ragazza della Rivoluzione Francese, in realtà la figlia del garagista che abita sotto di lui). Parimenti, tutti i suoi amici (fra cui Raymond Bussières e Jean Parédès) e i personaggi del mondo reale si ritrovano, trasfigurati, nel poutpurrì di sogni che, a un certo punto, si incrociano mescolandosi con vari anacronismi. Paolo Stoppa è il direttore dell'Opéra di Parigi (nel sogno) che si esprime sempre cantando.

9 novembre 2018

L'inquilino del terzo piano (R. Polanski, 1976)

L'inquilino del terzo piano (Le locataire)
di Roman Polanski – Francia 1976
con Roman Polanski, Isabelle Adjani
***1/2

Rivisto in DVD.

Il timido Trelkowski (Polanski stesso: il personaggio non ha un nome ma solo un cognome) trova un appartamento in affitto in un vetusto condominio di Parigi. La precedente inquilina, Simone Choule, si è inspiegabilmente suicidata gettandosi da una finestra. E ben presto lo stesso Trelkowski, spinto verso la follia e la paranoia da vicini di casa sempre più invadenti e insofferenti (si lamentano del minimo rumore), comincia a identificarsi con lei e a sospettare di dover fare la stessa fine... Capolavoro dell'horror condominiale di Polanski, un thriller psicologico (tratto da un romanzo surrealista di Roland Topor) che insieme ai precedenti "Repulsion" e "Rosemary's baby" forma un'ideale trilogia sull'angoscia e l'incubo che nascono dal quotidiano, in un crescendo di claustrofobia e impotenza. Molte le possibili interpretazioni della vicenda, a partire dalla più ovvia, e cioè che Trelkowski diventi progressivamente pazzo e paranoico. C'è la lettura della cospirazione alla "Rosemary's baby", in cui effettivamente gli inquilini dello stabile formano una setta segreta per spingere al suicidio le persone (vedi i tentativi di far sì che Trelkowski assuma le stesse abitudini e i comportamenti di Simone: la portiera gli consegna la posta della ragazza, il barista gli offre la cioccolata e le Marlboro che lei fumava, ecc.). Ci sono le suggestioni mistiche egiziane (i geroglifici nel bagno, il bendaggio che ricompre Simone come una mummia, ecc.) che fanno pensare a una storia di reincarnazione (o di cicli che si ripetono, come in un loop: vedi anche il finale in cui il protagonista rivede sé stesso al proprio capezzale). C'è l'aspetto sociale e soprattutto autobiografico: Trelkowski è un polacco naturalizzato francese, come lo stesso regista (che lo interpreta personalmente e ha anche doppiato il personaggio nelle versioni in italiano e in inglese), e in quanto tale suscita a prescindere sospetto e diffidenza negli altri (in più Polanski ha origini ebraiche e ha sperimentato sentimenti antisemiti). E altre letture ancora (per esempio, cito da Wikipedia: "Trelkowski è una donna in un corpo da uomo e combatte contro la sua parte che si risveglia. Questo la porta a non fidarsi più di se stessa e di conseguenza degli altri. Nella società dell'epoca, una tendenza del genere era fonte di notevole disagio e, vista la rigidità culturale, questo portava a meccanismi di difesa molto elevati che sfociavano in puro delirio"). Personalmente mi piace leggere il film come una riflessione (grottesca e metaforica) sui rapporti di vicinato nelle moderne città, dove il minimo problema (i rumori notturni, per esempio) viene ingigantito e sfocia in faide, proteste, esposti di ogni tipo. Emblematiche le scene in cui il povero Trelkowski, inibito e a disagio, cerca di evitare ogni azione che possa comportare una reazione da parte dei suoi vicini (e alla minima infrazione, cominciano subito i colpi di avvertimento sul muro o sulle pareti), mentre invece il suo collega di lavoro esuberante e prepotente si permette di suonare musica fracassona a ogni ora e a scacciare in malo modo chiunque osi timidamente protestare. All'angosciante e intrigante atmosfera contribuiscono la fotografia di Sven Nykvist e le musiche di Philippe Sarde. Da notare che un giovane Jacques Audiard figura come assistente al montaggio. Isabelle Adjani è Stella (l'amica di Simone), Melvyn Douglas è il padrone di casa, Shelley Winters è la portinaia. Nel cast anche Jo Van Fleet, Bernard Fresson, Josiane Balasko ed Eva Ionesco (la bambina). Trelkowski ha dato il suo nome anche a un personaggio di "Dylan Dog", l'anziana medium alleata del protagonista.

8 novembre 2018

The little house (Yoji Yamada, 2014)

The little house (Chiisai ouchi)
di Yoji Yamada – Giappone 2014
con Haru Kuroki, Takako Matsu
***

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Alla metà degli anni trenta, la giovane Taki (Haru Kuroki) lascia il suo villaggio di montagna per andare a lavorare a Tokyo come domestica. Si stabilirà nella dimora degli Hirai, una piccola casa dal tetto di tegole rosse sulla collina, dove sarà testimone della storia d'amore segreta fra la signora Hirai (Takako Matsu) e il giovane disegnatore Itakura (Hidetaka Yoshioka), impiegato nella fabbrica di giocattoli del marito, fino a quando il ragazzo dovrà partire per il fronte durante la seconda guerra mondiale. L'intera storia è raccontata in flashback attraverso le memorie scritte ai giorni nostri dall'anziana Taki e lette dal suo pronipote Takeshi, che dopo la morte della zia andrà in cerca del figlio degli Hirai, che all'epoca dei fatti era solo un bambino. Un film gentile e dai toni nostalgici, appassionante e mai melenso, anzi ben calato nell'atmosfera del Giappone di fine anni '30 e inizio anni '40, quando montava il nazionalismo e tutto era filtrato dall'entusiasmo e dall'ingenuità. La sceneggiatura riesce a raccontare contemporaneamente una storia d'amore e un periodo storico, mostrando come gli eventi della guerra fossero percepiti da chi (soprattutti anziani, donne e bambini) era rimasto "a casa". Più che la domestica Taki (i cui sentimenti sono spesso celati: forse ama anche lei Itakura, e si ritrae per fedeltà verso la sua padrona?), a tratti l'autentica protagonista è la signora Hirai, inguaribile romantica che legge "Via col vento", che abita in una casa da fiaba (e in stile occidentale!) e che sogna un'impossibile fuga d'amore. Chieko Baisho è Taki da anziana, Satoshi Tsumabuki è Takeshi, Takataro Kataoka è il signor Hirai. La colonna sonora è di Joe Hisaishi. Fra le fonti di ispirazione (esplicite), il libro illustrato "The little house" di Virginia Lee Burton.

7 novembre 2018

Era mio padre (Sam Mendes, 2002)

Era mio padre (Road to Perdition)
di Sam Mendes – USA 2002
con Tom Hanks, Paul Newman
**1/2

Rivisto in TV.

Il dodicenne Michael (Tyler Hoechlin) scopre l'esistenza del male la notte in cui vede suo padre Mike (Tom Hanks) uccidere qualcuno per conto del vecchio boss della "mala" irlandese John Rooney (Paul Newman). Scaricato da questi (di cui era il braccio destro) a causa degli intrighi del suo rampollo Connor (Daniel Craig), Mike è costretto a darsi alla fuga insieme al figlio, cercando al contempo di trovare un modo per vendicare il resto della propria famiglia (la moglie Annie e l'altro figlio Peter), sterminata dallo stesso Connor. Da un romanzo a fumetti di Max Allan Collins (ispirato a sua volta al manga "Lone Wolf and Cub"), un thriller gangsteristico on the road ambientato all'epoca del proibizionismo (siamo nel 1931) che riflette sul tema della violenza e, soprattutto, sul rapporto fra padri e figli (cosa che il titolo italiano si premura di portare in primo piano: quello originale era un gioco di parole sul nome della cittadina – fittizia – che i due fuggitivi cercano di raggiungere). Oltre al rapporto fra Mike e il figlio Michael, che fa da guida e collante all'intera vicenda (narrata in prima persona proprio dal bambino, che cerca di comprendere la vera natura di un padre che ha sempre idealizzato), ci sono infatti quelli di Rooney rispettivamente con Mike, il figlio adottivo ma fedele, e Connor, il figlio vero ma sleale. Il progetto del film era inizialmente di Steven Spielberg, il che spiega come la storia sia stata in parte annacquata rispetto al fumetto originale, soprattutto nella rappresentazione delle scene di violenza, quasi sempre tenute fuori campo (Collins aveva invece immaginato una pellicola in stile John Woo). La regia di Mendes, al secondo lavoro dopo "American beauty", è elegante e patinata (molto bella, per esempio, la silenziosa resa dei conti finale sotto la pioggia), e può contare sulla fotografia d'atmosfera di Conrad L. Hall, ma appare a tratti un po' scolastica e didascalica. Proprio come la sceneggiatura, che semplifica le emozioni più del dovuto: a rimetterci è la tensione, mai oltre il livello di guardia. Il personaggio del vecchio Rooney è ispirato a un vero gangster degli anni '20, John Looney. Gli ottimi Hanks e Newman guidano un ricco cast in cui figurano anche Jude Law (il sicario che è anche fotografo di scene di omicidio), Stanley Tucci (Nitti, l'uomo di Al Capone) e Jennifer Jason Leigh (la moglie di Mike). Cameo per Mendes come uno dei "gorilla" di Rooney.

6 novembre 2018

Anon (Andrew Niccol, 2018)

Anon (id.)
di Andrew Niccol – USA 2018
con Clive Owen, Amanda Seyfried
**

Visto in TV.

In un futuro prossimo in cui tutti gli esseri umani sono "connessi" a un sistema centrale, l'Ether, che registra ogni cosa che vedono con i loro occhi (e le registrazioni possono essere trasmesse telepaticamente ad altri come fossero dei file, o riviste in qualsiasi momento, facilitando per esempio le indagini della polizia ma anche eliminando del tutto il concetto di privacy), un detective della polizia (Owen) indaga su una misteriosa hacker (Seyfried) che non solo sembra aver cancellato la propria identità ed essere in grado di eliminare, sostituire o addirittura alterare i ricordi e le percezioni degli altri, ma è anche sospettata di uccidere i propri clienti. Uno spunto sicuramente interessante, che ripropone in chiave distopica e cyberpunk il tema dell'anonimato e della diffusione dei dati personali all'interno dei social media, per una pellicola che perde via via la sua forza, adagiandosi nei cliché dei polizieschi d'azione e non sfruttando fino in fondo le tante potenzialità di partenza. A parte i due attori protagonisti, sembra anche girata al risparmio (gli effetti speciali si limitano a veloci scritte in sovrimpressione nelle scene in soggettiva, che mostrano come gli impianti per la realtà aumentata forniscano informazioni ai vari personaggi, rilevando le "impronte digitali" di cose e persone). Bella comunque l'atmosfera fredda e paranoica di una società dove tutto è catalogato e nessuno può avere segreti per nessuno.

5 novembre 2018

La piscina (Jacques Deray, 1969)

La piscina (La piscine)
di Jacques Deray – Francia 1969
con Alain Delon, Romy Schneider
*1/2

Visto in TV.

Ospiti in una villa con piscina sulla Costa Azzurra durante le vacanze estive, la pace dei coniugi Jean-Paul (Alain Delon) e Marianne (Romy Schneider) è turbata dall'arrivo inatteso di Harry (Maurice Ronet), vecchio amico dell'uomo ed ex amante della donna, insieme alla sua figlia diciottenne Penelope (Jane Birkin). La presenza di Harry suscita la gelosia di Jean-Paul, che forse anche per questo motivo trasferisce le proprie attenzioni sulla ragazza... Scritto da Deray insieme a Jean-Claude Carrière (che hanno fatto una sorta di incrocio fra "I diabolici" e "Un uomo a nudo"), un film pruriginoso nella prima parte (con la macchina da presa che indugia sui corpi seminudi dei protagonisti), troppo tirata per le lunghe con le sue descrizioni dei noiosi riti di seduzione dell'alta borghesia, e che nel finale vira verso il thriller, quando le tensioni sotterranee finiscono con l'esplodere (senza comunque rinunciare a un'atmosfera sospesa e di continua attesa). I protagonisti sono tutte figure vuote, annoiate e insignificanti (come rivelano anche i loro mestieri: il pubblicitario e scrittore fallito, l'autore di canzonette...), senza un vero legame con il mondo esterno (ma anche i rapporti fra di loro sono esili, al punto che servirà una tragedia per far riavvicinare almeno un poco i due coniugi). Delon e la Schneider (che erano stati una coppia nella vita reale fino a pochi anni prima) esibiscono una discreta alchimia, Ronet non si fa notare, mentre la Birkin appare svagata e fuori parte nel ruolo della ragazza candida e ingenua. Musica di Michel Legrand. Rifatto da Luca Guadagnino nel 2015 ("A bigger splash").

4 novembre 2018

Attenzione alla puttana santa (R. W. Fassbinder, 1971)

Attenzione alla puttana santa
(Warnung vor einer heiligen Nutte)
di Rainer Werner Fassbinder – Germania/Italia 1971
con Lou Castel, Eddie Constantine
**1/2

Visto in divx.

Un regista dispotico (Lou Castel) e la sua troupe tedesca si trovano in un albergo sulla costa di Sorrento per girare un film. Gli stipendi e il materiale sono in ritardo, e nell'attesa il gruppo si perde in infiniti litigi e discussioni, amori (gay e no) e gelosie, crisi e insicurezze. Sorta di personale "Otto e mezzo" (o, se vogliamo, contraltare di "Effetto notte"), questo lungometraggio può essere considerato un punto fermo nella filmografia di Fassbinder, la pellicola con cui il regista tedesco riflette e mette in discussione l'esperienza dell'Antiteater, il collettivo con cui aveva realizzato i primi film della sua carriera, ovvero il gruppo di ben dieci pellicole girate fra il 1969 e il 1970 (anche se alcune, come questa, usciranno solo nel 1971). Non a caso, subito dopo si prenderà una pausa di circa un anno, dopodiché si ripresenterà al pubblico con una nuova impostazione artistica, più classica, votata al melodramma e ispirata al cinema di Douglas Sirk. Basandosi su episodi davvero accaduti all'interno del collettivo, il film mostra un gruppo di persone che convive (e lavora per un obiettivo comune) pur sopportandosi a malapena, insultandosi, odiandosi (anche amandosi, certo) in un'atmosfera tesa, e prendendo finalmente coscienza del fatto che fondere insieme l'arte e la vita può essere rischioso. E al tempo stesso, svela il lato oscuro del mondo del cinema (soprattutto intellettuale), quello fatto di oppressione, manipolazione e nevrosi. Secondo il Mereghetti, "la puttana del titolo dovrebbe essere la macchina da presa". Incorniciato da due detti, "L'orgoglio viene prima della caduta" (all'inizio) e "Io vi dico che sono stanco da morire di rappresentare l'umanità senza farne parte" (alla fine), il lungometraggio esprime l'inquietudine di RWF verso un modo di fare cinema che ormai gli sta stretto, pronto com'è ad evolvere la sua arte in nuove direzioni. Eddie Constantine, lo stagionato attore del film nel film, interpreta sé stesso (si cita Lemmy Caution). La sempre bella Hanna Schygulla è abbigliata come Marilyn. Nel cast, i soliti Kurt Raab, Margarethe von Trotta, Ingrid Caven e lo stesso Fassbinder. La colonna sonora (per lo più canzoni che i personaggi ascoltano dal juke box nella hall dell'albergo) comprende Elvis Presley, Leonard Cohen, Ray Charles e "Il dolce suono" dalla Lucia di Lammermoor di Donizetti.

3 novembre 2018

Perfetti sconosciuti (P. Genovese, 2016)

Perfetti sconosciuti
di Paolo Genovese – Italia 2016
con Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher
***

Visto in TV, con Sabrina.

Sette amici, a tavola per cena, decidono per gioco (e per dimostrare di "non avere nessun segreto da nascondere") di rendere pubblici tutti i messaggi, le chat e le telefonate che riceveranno sul proprio cellulare durante la serata. Non l'avessero mai fatto! Persino gli amici più affiatati o le coppie apparentemente felici scopriranno di non conoscersi poi così bene, e che dietro le apparenze si celano sfiducia, infedeltà e pregiudizi. Un'idea in fondo semplice per uno dei film italiani di maggior successo degli ultimi anni (a punto da essere già stato rifatto in molti altri paesi, dalla Spagna alla Francia, dall'India alla Grecia), con un ottimo cast di caratteristi (Kasia Smutniak, Marco Giallini, Edoardo Leo, Alba Rohrwacher, Valerio Mastandrea, Anna Foglietta, Giuseppe Battiston) e una nutrita serie di colpi di scena in crescendo. Man mano che la tensione monta, ogni volta che squilla una suoneria o una notifica i personaggi sussultano pieni di ansia, e noi con loro. Certo, può sembrare esagerato o inverosimile che nel giro di poche ore vengano alla luce talmente tanti altarini, ma la sceneggiatura gestisce il tutto con naturalezza, aiutata da alcune divertenti trovate (la migliore fra tutte è lo scambio di cellulari fra due dei commensali, che crea una situazione paradossale e imbarazzante) e da battute azzeccate che però lasciano anche posto a un retrogusto cinico o drammatico. Difficile pensare che la sceneggiatura non fosse stata scritta inizialmente per il teatro: e in quanto ambientata tutta a tavola, fra le quattro mura di una stanza, ricorda precedenti illustri come "La parola ai giurati" di Lumet o (più pertinente) il recente "Carnage" di Polanski. La riflessione sull'impatto e l'abuso delle nuove tecnologie (in particolare gli smartphone e i social network) sulle relazioni di amicizia, di famiglia e di coppia consente un aggancio all'attualità, ma anche senza di essa si sfiorano temi come l'importanza di mantenere qualche segreto fra amici o coniugi e la delicatezza dei ruoli sociali (anche quelli dei genitori). In tavola c'è un ottavo coperto, con il piatto vuoto perché uno dei commensali non è potuto venire: è bello pensare che sia riservato allo spettatore, che idealmente può sedersi insieme ai protagonisti (spingendoci a chiederci se anche noi non abbiamo qualche segreto inconfessabile). Il tutto avviene durante una serata con eclissi di luna: e l'astro argenteo che viene coperto dall'ombra per poi lentamente risvelarsi sembra proprio alludere allo "svelamento" dei segreti. Non a caso il finale ci mostra cosa sarebbe successo se il "gioco" non fosse mai stato fatto: nulla sarebbe venuto alla luce e i sette amici avrebbero potuto continuare la loro vita di sempre, illudendosi di conoscersi, senza sapere di essere in realtà l'uno per l'altro dei "perfetti sconosciuti". La regia di Genovese si mette umilmente al servizio della storia e dei personaggi, senza farsi notare, e fa la scelta migliore.

2 novembre 2018

Il libro della vita (Jorge R. Gutierrez, 2014)

Il libro della vita (The Book of Life)
di Jorge R. Gutierrez – USA 2014
animazione digitale
**

Visto in divx alla Fogona, con Marisa e Monica.

Prodotto da Guillermo del Toro, un film d'animazione incentrato sul "Día de Muertos", la colorata e folkloristica festività messicana in cui gli esseri viventi si riuniscono per ricordare i loro cari defunti. Ad alcuni ragazzini statunitensi, in visita a un museo, la guida racconta la storia di una scommessa fra La Muerte, sovrana dei morti "ricordati", e Xibalba, che governa invece il mondo dei "dimenticati" e che ambisce a scambiare i rispettivi regni. Ciascuna delle due divinità sceglie un ragazzo (Manolo o Joaquin) e vincerà se sarà lui a sposare l'amica del cuore di entrambi, Maria. Manolo proviene da una rispettata famiglia di toreri, ma anziché uccidere i tori sogna di diventare un mariachi. Joaquin è invece il discendente di celebri soldati, e aspira a diventare un grande eroe... La variopinta mitologia messicana dell'aldilà, un plot che ricorda in parte il mito di Orfeo ed Euridice, tanta azione, colpi di scena e canzoni (con una colonna sonora che racchiude innumerevoli citazioni, da Elvis Presley a Ennio Morricone), ma anche un pizzico di political correctness (di fatto non c'è un vero cattivo) e una caratterizzazione dei tre protagonisti non proprio originalissima. La cosa migliore è l'aspetto estetico e visivo, con un character design sopra le righe (da notare comunque che i personaggi della storia sono marionette di legno), ma da apprezzare anche il modo allegro e colorato con cui si affronta il tema della morte. Mediocre il doppiaggio italiano (mentre in quello originale ci sono, fra le altre, le voci di Zoe Saldana, Ice Cube, Ron Perlman e Placido Domingo). Il regista ha annunciato un sequel in cantiere. Tre anni dopo, un altro cartoon digitale ("Coco" della Pixar) si incentrerà a sua volta sul Giorno dei Morti.

1 novembre 2018

Bio-zombie (Wilson Yip, 1998)

Bio-zombie (Sheng hua shou shi)
di Wilson Yip – Hong Kong 1998
con Jordan Chan, Sam Lee, Angela Tong
**1/2

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

I commessi di un centro commerciale – fra i quali Woody Invincible (Jordan Chan) e l'amico Crazy Bee (Sam Lee), impiegati di un negozio di Video CD pirata, e Rolls (Angela Tong), ragazza che lavora in un beauty shop – devono far fronte a un'epidemia di zombie scatenata da un'arma chimica irachena (!). Il primo film a portare Wilson Yip all'attenzione della critica comincia come una parodia del genere (sui titoli di testa ci sono addirittura spettatori che parlano fra loro), con personaggi comici o sgangherati e situazioni che fanno il verso al classico "Zombi" di Romero (quello ambientato, per l'appunto, in un grande magazzino). Ma pur essendo girato con un budget poverissimo (siamo di fronte a un vero e proprio B-movie che non si fa scrupolo di sconfinare nel trash) e presentando la stessa vena dissacrante di titoli come "L'alba dei morti dementi" ("Shaun of the dead") e delle prime pellicole di Peter Jackson ("Splatters - Gli schizzacervelli"), man mano che la storia procede ci rendiamo conto di stare assistendo ad uno zombie movie con tutte le carte in regola, con energia e ritmo da vendere, e che le battute e gli sberleffi non vanno a detrimento della tensione. Il bel finale nichilista, infine, suggella il tutto. Come in Romero, l'ambientazione vuole far riflettere sulla società consumistica, e gli zombie continuano a compiere le stesse azioni che facevano quando erano umani: mangiare, fare shopping, cercare l'amore della propria vita. Non mancano riferimenti al mondo dei videogiochi (con schermate che presentano i personaggi e scritte in sovrimpressione sullo schermo).