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21 gennaio 2023

The outfit (Graham Moore, 2022)

The Outfit (id.)
di Graham Moore – GB/USA 2022
con Mark Rylance, Zoey Deutch
**

Visto in TV (Now Tv).

Nella Chicago degli anni cinquanta, un sarto di origine inglese (Mark Rylance) consente a una banda di gangster di usare la propria bottega come copertura per lo scambio di messaggi e informazioni. Ma quando la banda, impegnata in un regolamento di conti con un gruppo rivale, viene informata che fra di loro si nasconde una spia, le cose si complicano. E i vari banditi cominciano a sospettarsi fra di loro, mentre il sarto, umile e sottovalutato da tutti, nonché dal passato misterioso, inizia a manipolarli dietro le quinte, sfruttandone le rivalità sotterranee... Ambientato tutto in una notte e tutto all'interno del negozio del sarto (anzi, "tagliatore", come lui si definisce), il film segna l'esordio come regista di lungometraggi per Graham Moore, già sceneggiatore ("The imitation game"). Nonostante la collocazione spaziale e temporale così ridotta, i twist e i colpi di scena non mancano: ma la pellicola, pur dall'aspetto elegante, comincia ben presto ad apparire meccanica e persino prevedibile, senza vere emozioni. Non aiutano le caratterizzazioni semplicistiche e il fatto che le innumerevoli svolte e le decisioni dei personaggi non siano sempre credibili, e pure i continui riferimenti metaforici al mestiere di sartoria sembrano girare a vuoto. Alla fine l'impressione è quella di aver assistito a un "Le iene" dei poveri: ma in fondo ci si può accontentare, basta non attendersi di essere scossi da qualcosa di epocale. Zoey Deutch è la segretaria del sarto. Nel cast Dylan O'Brien (il figlio del boss), Johnny Flynn (il suo braccio destro), Simon Russell Beale (il boss irlandese), Nikki Amuka-Bird (il capo della gang rivale). Il titolo non si riferisce a un capo di vestiario, ma al nome di un'organizzazione criminale, una sorta di sindacato globale, fondata nientemeno che da Al Capone. Curiosamente, nel 1973 era uscito un altro gangster movie con il medesimo titolo (in italiano "Organizzazione crimini").

2 gennaio 2023

Daguerréotypes (Agnès Varda, 1976)

Daguerréotypes
di Agnès Varda – Francia 1976
con attori non professionisti
**

Visto in TV (RaiPlay), in originale con sottotitoli.

In questo documentario, Agnès Varda (che lo narra in prima persona) passa in rassegna i piccoli negozi di quartiere che popolano la rue Daguerre, vicino a Montparnasse, nella cui zona la regista abitava. I commercianti, i commessi, gli artigiani vengono mostrati nella loro quotidianità, nel lavoro di tutti i giorni, nei rapporti con i clienti: che si tratti di drogherie, panifici, botteghe di oggetti vari o di riparazioni, parrucchieri, macellai, autoscuole, i loro proprietari sono intervistati e raccontano dei loro trascorsi, della loro vita privata, dei loro sogni. C'è persino spazio per l'esibizione di un illusionista. Ne risulta il ritratto di un quartiere, anzi una serie di ritratti o appunto di "dagherrotipi", le fotografie dei primordi, inventate proprio da colui da cui la strada prende il nome. Un documentario "umano", sincero, silenzioso, che come un diario non esita a trasfigurare la realtà (una realtà che oggi non esiste più, visto che tutti quei negozi e quelle botteghe antiche, a conduzione famigliare, probabilmente sono scomparsi) con i colori dell'immaginazione e della psicoanalisi. E che la stessa Varda, che si firma "Agnès, la daguerréotypesse", definisce "un ritratto collettivo e quasi stereotipato" di uomini e donne della via Daguerre che, tutti insieme, "formano... un reportage? un omaggio? un saggio? un rimpianto? un rimprovero? un approccio?..."

28 novembre 2022

You and me (Fritz Lang, 1938)

You and me
di Fritz Lang – USA 1938
con George Raft, Sylvia Sidney
**1/2

Visto su YouTube, in originale.

L'ex rapinatore Joe Dennis (George Raft) sta cercando di rifarsi una vita onesta, lavorando come commesso nei grandi magazzini di proprietà del signor Morris (Harry Carey), filantropo che ama dare una seconda possibilità agli ex galeotti. Qui si innamora della collega Helen (Sylvia Sidney) e finisce per sposarla, ignorando che anche la ragazza ha trascorsi criminali: quando lo scopre, per la delusione accetta la proposta dei suoi ex complici di rapinare proprio il negozio in cui lavora. Sarà Helen a insegnare a lui e agli altri ladri perché "il crimine non paga" (e non con un pistolotto morale, ma con un ragionato calcolo... economico!). Il terzo film americano di Fritz Lang è forse uno dei suoi lavori più incompresi e di minor successo (tanto da non essere mai stato importato nel nostro paese, e per questo motivo manca di un titolo italiano), dai toni insoliti che mescolano tanti generi e tipologie di pellicola: si va dalla commedia romantica a quella a sfondo sociale post-Depressione, dal dramma morale al noir gangsteristico, il tutto condito con un'insolita leggerezza (per alcuni critici si tratta dell'unica commedia mai diretta da Lang). Le sequenze notturne e alcune belle scene (quella in cui gli ex galeotti ricordano e rimpiangono i "bei tempi" in cui erano in cella, o quella della "lezione" che Helen elargisce ai rapinatori) e un buon cast di contorno (con tanti attori "secondari" ma brillanti, come Warren Hymer, Barton MacLane, Robert Cummings) forniscono un interessante substrato per un film che però appare decisamente legato al suo tempo e debitore al cosiddetto Lehrstűck, il "teatro didattico" alla Bertolt Brecht: non a caso le musiche sono accreditate a Kurt Weill, sodale di Brecht, che però abbandonò il progetto prima della conclusione, lasciando solo una canzone (quella introduttiva, che ironizza sul consumismo e recita "Non puoi avere niente per niente, devi pagare") e alcuni spezzoni di colonna sonora. Anche la lavorazione fu travagliata, per via di contrasti fra Lang e la sceneggiatrice Virginia Van Hupp (che lavorò su un soggetto di Norman Krasna), nonché fra i due attori protagonisti. Il risultato fu un sonoro flop di pubblico e di critica ("meritato", disse lo stesso Lang), rivalutato solo in tempi recenti.

12 aprile 2022

Il vestito per il matrimonio (A. Kiarostami, 1976)

Il vestito per il matrimonio (Lebasi baraye arusi)
di Abbas Kiarostami – Iran 1976
con Hassan Darabi, Mehdi Nekoueï, Massoud Zand
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Ali, Hossein e Mamad sono tre giovani amici che lavorano negli esercizi commerciali che si affacciano sul cortile interno di un palazzo. Ali fa il garzone nella bottega di un sarto: quando una cliente benestante commissiona un vestito su misura per il figlio, da indossare il giovedì seguente al matrimonio della sorella, Hossein chiede all'amico di prestarglielo la sera di mercoledì, promettendo di riportarglielo indietro prima che la donna venga a ritirarlo la mattina dopo. Ma anche Mamad vuole sfoggiare il vestito, e convince Hossein a cederglielo... L'abito che dà il titolo a questo mediometraggio è l'oggetto del desiderio dei giovani protagonisti, un autentico status symbol (simbolo di ricchezza ed eleganza, come quella dei modelli che appaiono nel catalogo nel negozio del sarto) da sfoggiare, anche solo per una sera, per uscire con una ragazza (nel caso di Hossein) o per andare a teatro ad assistere allo spettacolo di un prestigiatore (nel caso di Mamad) e potersi permettere di salire sul palco come volontario. E mentre i genitori e gli adulti non comprendono questo desiderio ("Io indosso lo stesso vestito da nove anni!"), i ragazzi (e lo spettatore con loro) si interrogano se l'abito tornerà nel negozio sano e salvo prima che la cliente giunga a reclamarlo (soprattutto perché Mamad ha una reputazione per farsi coinvolgere nelle risse e tornare a casa con gli abiti strappati). Incentrato in fondo su un "piccolo" episodio, come altri lavori di Kiarostami il film si apre a un respiro più ampio grazie alla simpatica caratterizzazione dei tre amici e del luogo in cui lavorano, un microcosmo dove l'arte del commercio e delle transazioni si espande alle relazioni di tutti i giorni (si veda come i ragazzi "contrattino" ogni favore reciproco). In fondo, anche in questo caso, i problemi dell'infanzia o dell'adolescenza non sono altro che un simulacro, più ingenuo e innocente, di quelli dell'età adulta. Nota: Hassan Darabi, che interpreta Ali, era già stato il protagonista del precedente lungometraggio di Kiarostami, "Il viaggiatore".

5 aprile 2022

Alta fedeltà (Stephen Frears, 2000)

Alta fedeltà (High Fidelity)
di Stephen Frears – GB/USA 2000
con John Cusack, Iben Hjejle
***

Rivisto in TV (Disney+).

Dopo la rottura con la fidanzata Laura (Iben Hjejle), l'ansioso Rob Gordon (John Cusack), ex DJ, appassionato di musica e proprietario di un negozio di dischi nella periferia di Chicago, ripensa alle sue storie sentimentali passate e ai motivi per cui sono finite male. Per capirne le ragioni, decide di rintracciare le cinque ragazze che gli hanno spezzato di più il cuore: la "top five" delle rotture più dolorose. Insieme ai due dipendenti che lavorano nel suo negozio, il timido Dick (Todd Louiso) e l'esuberante Barry (Jack Black), è infatti solito passare il tempo snocciolando classifiche sulle cose più svariate: a cominciare dalla musica, certo (i dischi o le canzoni più belle su particolari temi), ma anche su tutti gli aspetti della sua vita privata. Dall'omonimo romanzo di Nick Hornby (che però era ambientato a Londra), una pellicola che trasuda amore, oltre che per i simpatici personaggi e per le loro vicende romantiche, soprattutto per la musica. Il negozio di Rob vende vinili e si rivolge ad appassionati consapevoli della grande musica del passato, che non inseguono soprattutto le mode, a costo di essere sbeffeggiati nei loro gusti dall'atteggiamento snob dei suoi commessi (in particolare dal provocatorio Barry): e il fascino per i vecchi dischi, le lunghe discussioni sugli artisti e sui concerti, i sogni di far parte di quel mondo porteranno Rob, nel finale, a lanciarsi persino a produrre il CD di due ragazzini che bazzicano il suo negozio (spesso rubando, più che comprando, gli album esposti). In linea con il romanzo di Hornby, cui è piuttosto fedele, il film è brillante e spigliato, condotto per mano da un protagonista insicuro e semi-depresso, che parla in camera direttamente con lo spettatore (rivelando, fra le varie cose, i segreti per realizzare una compilation ideale su cassetta) e ripercorre le sue storie passate, il tutto mentre cerca (e spera) disperatamente di ricucire i rapporti con Laura. Le sue ex ragazze sono interpretate, fra le altre, da Catherine Zeta-Jones, Lili Taylor e Joelle Carter. Tim Robbins è Ian/"Ray", la nuova fiamma di Laura; Lisa Bonet è la cantante Marie DeSalle; Joan Cusack (sorella di John) è Liz, amica di Laura e Rob; Bruce Springsteen ha un cameo nel ruolo di sé stesso. Ottimo Black. Ricchissima, ovviamente, la colonna sonora (per non parlare dei brani o dei dischi soltanto menzionati nei dialoghi): per selezionarne i contenuti, Frears e gli sceneggiatori hanno passato in rassegna circa 2000 canzoni!

28 gennaio 2022

Il tabaccaio di Vienna (N. Leytner, 2018)

Il tabaccaio di Vienna (Der Trafikant)
di Nikolaus Leytner – Austria/Germania 2018
con Simon Morzé, Bruno Ganz
*1/2

Visto in TV (RaiPlay).

Il diciassettenne Franz (Morzé) lascia la madre (Regina Fritsch) e il suo villaggio natale fra le montagne del Salzkammergut per trasferirsi a Vienna e lavorare come apprendista nella tabaccheria di Otto Trsnjek (Johannes Krisch), amico di famiglia. Qui il ragazzo vive le prime esperienze romantiche, innamorandosi della bella e problematica boema Anežka (Emma Drogunova), ma soprattutto assiste all'avvento del nazismo (siamo negli anni Trenta), che si impadronisce del paese. E nel frattempo stringe amicizia con uno dei clienti della tabaccheria, nientemeno che il professor Sigmund Freud (Bruno Ganz), fondatore della psicoanalisi. Un film su cui non si possono che dare giudizi ambivalenti: da un lato l'ambientazione storica è interessante (il cambio di clima politico risalta in piccoli e grandi mutamenti: in un cabaret dove una volta si prendeva in giro Hitler, per esempio, in seguito si fanno battute sugli ebrei), la narrazione intreccia diversi fili (il tema della crescita e della conoscenza del mondo, ingiustizie e violenze comprese; quello dell'educazione sentimentale, con tanto di cocenti delusioni; quello dell'amicizia con un mentore o "consigliere" come Freud) e il finale è realistico e per nulla conciliante. Dall'altro la confezione lascia a desiderare: la fotografia è eccessivamente patinata, la regia anonima, le caratterizzazioni monotematiche, i dialoghi superficiali, il ritmo senza brio. Né il personaggio di Freud né la psicoanalisi hanno davvero importanza nella vicenda (Franz comincia a trascrivere i suoi sogni, quasi tutti ambientati presso il lago della sua infanzia, appendendo poi i fogli alla vetrina del suo negozio, ma da questo spunto non viene poi fuori nulla di interessante), e sembrano in fondo abbastanza superflui. Per Ganz è stato il penultimo ruolo: l'ultimo sarà ne "La vita nascosta" di Malick, film ambientato curiosamente nello stesso periodo e contesto storico.

7 novembre 2020

Christmas in August (Hur Jin-ho, 1998)

Christmas in August (Palwolui Keuriseumaseu)
di Hur Jin-ho – Corea del Sud 1998
con Han Suk-kyu, Shim Eun-ha
***

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Il trentenne Jung-won (Han) è single, vive con il padre, gestisce un negozio di fotografie ed è malato terminale. Nei pochi mesi che gli restano prima di morire (il film si svolge da agosto a dicembre) va avanti come se niente fosse con il proprio lavoro, sempre sorridendo, ma si preoccupa anche di visitare i parenti, rivedere i vecchi amici e organizzare ogni cosa per la propria dipartita. Nel frattempo conosce la giovane poliziotta addetta al traffico Da-rim (Shim), con cui scatta una simpatia reciproca: la ragazza inizia a frequentarlo e pian piano se ne innamora, rimanendo perplessa quando il negozio chiude all'improvviso... Un film delicato e intimo, fatto di emozioni e sentimenti mai gridati o forzati (ha il pregio di evitare toni sensazionalisti o melodrammatici), che racconta una tenera storia d'amore destinata a non essere mai espressa a causa delle avversità della vita. Niente di particolarmente originale, ma narrato con toni gradevoli e capace di affrontare un tema pesante in modo leggero e senza mostrarsi superficiale: si parla di serena accettazione della morte e del parallelo fra l'amore e le fotografie (che invecchiano e sbiadiscono). E come capita spesso nelle pellicole dell'estremo oriente, a contare sono i dettagli, gli sguardi e gli episodi apparentemente meno significativi (come quello dell'anziana signora che si reca nel negozio di Jung-won per farsi scattare il ritratto funebre). La bella Shim Eun-ha divenne una star, ma lasciò il mondo del cinema dopo pochi anni. Ottime la colonna sonora acustica e la fotografia che sottolinea il passaggio del tempo e l'avvicendarsi delle stagioni, in parallelo con gli stati d'animo: si comincia in piena estate, con giornate luminose, e pian piano arrivano le piogge d'autunno e infine il buio dell'inverno (accompagnati dal cambio degli abiti e delle pietanze). Ricordato con affetto e diventato un piccolo cult movie in patria, il film vanta anche un remake giapponese nel 2005.

21 maggio 2020

Diamanti grezzi (J. e B. Safdie, 2019)

Diamanti grezzi (Uncut gems)
di Josh e Benny Safdie – USA 2019
con Adam Sandler, Julia Fox
***

Visto in TV (Netflix), con Sabrina.

Il gioielliere ebreo Howard Ratner (Adam Sandler) ha un negozio nel Diamond District di Manhattan. "Maneggione" dai mille traffici, si barcamena fra debiti (deve una forte somma di denaro all'usuraio Arno (Eric Bogosian), che è anche suo cognato, dai cui esattori si defila in continuazione), gioco d'azzardo (è un appassionato di basket, sulle cui partite scommette senza freni), famiglia (è in fase di separazione dalla moglie Dinah (Idina Menzel) e ha tre figli che spesso ignora) e amante (la giovane Julia (Julia Fox), commessa nel suo negozio, che vive nel suo appartamento). Un giorno riesce a procurarsi un prezioso e misterioso opale grezzo dall'Etiopia, che intende vendere all'asta: ma questo attira l'interesse del superstizioso Kevin Garnett, giocatore di basket della NBA (che interpreta sé stesso), convinto che gli porti fortuna... Un film caotico e colorato, un affresco gridato e debordante su un personaggio dalla vita notturna e sregolata, che sguazza nell'inganno e nel disordine, nel kitsch e nella volgarità, sballottato dal destino avverso in una New York ostile che a tratti ricorda quella dello Scorsese di "Fuori orario" e di altri film del regista italo-americano ambientati nella Grande Mela (la fotografia di Darius Khondji aiuta di certo nell'immedesimazione). Altri punti di riferimento dei fratelli Safdie sembrano essere il Tarantino di "Pulp fiction" (per la violenza che scoppia all'improvviso, la ricchezza dei personaggi di contorno e l'incrociarsi di più fili narrativi) e l'Abel Ferrara del "Cattivo tenente" (con la sfida fra Boston e Philadelphia nelle semifinali della NBA 2012 che fa da sfondo e filo conduttore alla vicenda, proprio come in quel film capitava per una serie di playoff del baseball). Se il protagonista della pellicola è di certo sgradevole e irresponsabile, la sceneggiatura e l'interpretazione di Sandler (sorprendentemente a suo agio in una parte drammatica) riescono però a tenere agganciato lo spettatore dall'inizio alla fine e a renderlo partecipe delle sue disavventure, grazie anche una cadenza serrata (nei dialoghi, nel montaggio) che ben si sposa con il ritmo adrenalinico di chi fa dell'azzardo la propria regola di vita, fino a un finale che giunge a sorpresa ma anche con un certo grado di inevitabilità. Nel cast anche Lakeith Stanfield (l'assistente di Howard che gli procura clienti famosi), Keith Williams Richards (l'esattore di Arno), Judd Hirsch (il suocero di Howard) e Mike Francesa (l'allibratore), oltre a vari cantanti e rapper newyorkesi nelle parti di sé stessi.

4 ottobre 2019

I tartassati (Steno, 1959)

I tartassati (aka Fripouillard et Cie)
di Steno – Italia/Francia 1959
con Totò, Aldo Fabrizi
**

Rivisto in TV, con Sabrina.

Il cavalier Pezzella (Totò), proprietario di un avviato negozio di abbigliamento nel centro di Roma, evade le tasse. Quando riceve la visita fiscale del maresciallo tributario Topponi (Aldo Fabrizi), cerca in ogni modo di evitare di pagare l'inevitabile multa. Seguendo i suggerimenti del suo disonesto e imbranato "consulente fiscale" (Louis de Funès), Pezzella prova così a "ingraziarsi" l'integerrimo Topponi, fra eccessivo servilismo e maldestri tentativi di corruzione che non andranno mai a buon fine, spesso ritorcendosi contro di lui ma comunque rendendo difficile la vita ad entrambi: e nel frattempo i due uomini si scopriranno legati l'uno all'altro perché i rispettivi rampolli (il figlio del commerciante e la figlia del maresciallo) finiranno con l'innamorarsi... Un soggetto esile e di facile appiglio, con situazioni da barzelletta (la battuta di caccia...) e una regia anonima, ravvivato però dall'estro dei due protagonisti, che avevano già recitato insieme (con ruoli simili) in "Guardie e ladri". Totò, "furbo" finto e maldestro che rende impossibile la vita del "retto" e disciplinato Fabrizi, sembra quasi voler invertire con l'amico/nemico i ruoli di perseguitato e di persecutore (o di "vittima" e carnefice), dando vita a scenette e situazioni comiche innegabilmente divertenti, soprattutto se ci si mette nei panni dello sfortunato Fabrizi. La lieve satira sociale (le tasse, il consumismo, l'antifascismo) completa il tutto. Il produttore Mario Cecchi Gori interpreta un passante. Nota: nella versione francese si dà maggiore risalto al personaggio interpretato da Louis de Funès (e meno a quello di Fabrizi), con alcune scene non presenti nell'edizione italiana.

4 luglio 2019

Roberta (William A. Seiter, 1935)

Roberta (id.)
di William A. Seiter – USA 1935
con Irene Dunne, Randolph Scott
**1/2

Visto in divx.

A Parigi in cerca di fortuna (e di un ingaggio) con la sua orchestra di amici spiantati, l'americano John Kent (Randolph Scott) "eredita" la sartoria di alta moda Roberta, fondata da sua zia Minnie (Helen Westley) e diretta ora dall'ex principessa russa Stephanie (Irene Dunne), di cui si innamora. Tratta dall'omonimo musical del 1933 di Otto Harbach e Jerome Kern che ebbe molto successo a Broadway, una commedia romantico-musicale ricca di vivacità ed eleganza, anche per via dell'ambientazione parigina e del tema della moda. Ma più che i due interpreti principali, degni di nota sono i comprimari, in particolare Fred Astaire e Ginger Rogers, che recitavano in coppia per la terza volta e che rubano spesso e volentieri la scena ai veri protagonisti grazie ai loro numeri di ballo, alle dinamiche e alla simpatia dei rispettivi personaggi: Fred è Huck Haines, il direttore dell'orchestra e il miglior amico di John, mentre Ginger è la sedicente contessa polacca Scharwenka (in realtà un'americana dell'Illinois che si finge tale per poter frequentare il jet set). Siamo in effetti in una Parigi ricolma di veri e finti aristocratici russi o dell'Est Europa (fuggiti dopo la rivoluzione), in balia dei capricci della moda, che sembrano volubili come gli stessi sentimenti dei personaggi: vedi per esempio Sophie (Claire Dodd), l'ex fiamma di John che lo aveva lasciato perché lo riteneva un bifolco e che lo rivorrebbe ora che, grazie a Stephanie, è diventato più raffinato. Nel frattempo, le vicende amorose si intrecciano con i destini della sartoria (che culminano in una grande sfilata per presentare nuovi modelli: i costumi sono di Bernard Newman). E leggerezza e sofisticazione vanno miracolosamente di pari passo. Le coreografie sono dello stesso Astaire e di Hermes Pan (accreditato per la prima volta). Irene Dunne canta numerose canzoni, la più celebre delle quali, destinata a diventare un classico, è "Smoke gets in your eyes". Degne di nota, però, anche "I'll be hard to handle" (su cui Fred e Ginger danzano il tip tap, di fatto dialogando – e "litigando" – attraverso il ballo), "I won't dance" e "Lovely to look at". Victor Varconi è il principe Ladislaw, Luis Alberni è il proprietario del caffé russo, mentre fra le modelle c'è una giovane Lucille Ball. Un remake nel 1957 ("Modelle di lusso").

10 marzo 2019

Le amiche (Michelangelo Antonioni, 1955)

Le amiche
di Michelangelo Antonioni – Italia 1955
con Eleonora Rossi Drago, Yvonne Furneaux
**1/2

Visto in TV.

Tornata da Roma nella natìa Torino per aprire un negozio di moda sartoriale, Clelia (Eleonora Rossi Drago) comincia a frequentare un gruppo di amiche dopo che una di loro, la fragile Rosetta (Madeleine Fischer), ha tentato il suicidio per amore. Rosetta è infatti innamorata di Lorenzo (Gabriele Ferzetti), pittore sposato con Nene (Valentina Cortese), un'artista che ha molto più successo di lui. Del gruppo fanno anche parte la ricca Momina (Yvonne Furneaux), che passa con disinvoltura dal marito all'amante, e la più "leggera" Mariella (Anna Maria Pancani). Quanto a Clelia, fra la carriera e l'amore per il manovale Carlo (Ettore Manni), finirà con lo scegliere il primo... Al quarto lungometraggio, Antonioni comincia ad addentrarsi in maniera sempre più approfondita in quel dedalo di emozioni che caratterizza l'insicurezza e il malessere della nascente borghesia italiana, in particolare da un punto di vista femminile, che sarà al centro dei suoi capolavori successivi (a partire da "L'avventura"). Ispirato a un romanzo di Cesare Pavese ("Tra donne sole"), ma con alcune affinità anche al classico "Donne" di George Cukor, il film mette al centro della scena i rapporti, le illusioni, le delusioni, i litigi, i rimpianti e la fragilità di un gruppo di donne che si barcamenano fra gli affetti e il lavoro (secondo alcuni critici, il film è praticamente un prototipo della serie "Sex and the city"!). Gli uomini restano un mondo a parte, fonte di felicità o di disperazione in maniera quasi casuale, e per loro c'è chi sceglie di rimanere (Nene), rinunciando al proprio successo, e chi invece di partire (Clelia). Le inquietudini e le introversioni dei personaggi prendono vita sullo schermo grazie al buon cast ma soprattutto alla sensibilità del regista, che mostra di essere a suo agio nel descrivere un microcosmo inserito in modi diversi nel tessuto della città. La sceneggiatura è firmata da Antonioni insieme (non a caso) a due donne: Suso Cecchi D'Amico e Alba de Céspedes. Nel cast anche Franco Fabrizi (l'architetto Cesare), Luciano Volpato e Maria Gambarelli.

1 novembre 2018

Bio-zombie (Wilson Yip, 1998)

Bio-zombie (Sheng hua shou shi)
di Wilson Yip – Hong Kong 1998
con Jordan Chan, Sam Lee, Angela Tong
**1/2

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

I commessi di un centro commerciale – fra i quali Woody Invincible (Jordan Chan) e l'amico Crazy Bee (Sam Lee), impiegati di un negozio di Video CD pirata, e Rolls (Angela Tong), ragazza che lavora in un beauty shop – devono far fronte a un'epidemia di zombie scatenata da un'arma chimica irachena (!). Il primo film a portare Wilson Yip all'attenzione della critica comincia come una parodia del genere (sui titoli di testa ci sono addirittura spettatori che parlano fra loro), con personaggi comici o sgangherati e situazioni che fanno il verso al classico "Zombi" di Romero (quello ambientato, per l'appunto, in un grande magazzino). Ma pur essendo girato con un budget poverissimo (siamo di fronte a un vero e proprio B-movie che non si fa scrupolo di sconfinare nel trash) e presentando la stessa vena dissacrante di titoli come "L'alba dei morti dementi" ("Shaun of the dead") e delle prime pellicole di Peter Jackson ("Splatters - Gli schizzacervelli"), man mano che la storia procede ci rendiamo conto di stare assistendo ad uno zombie movie con tutte le carte in regola, con energia e ritmo da vendere, e che le battute e gli sberleffi non vanno a detrimento della tensione. Il bel finale nichilista, infine, suggella il tutto. Come in Romero, l'ambientazione vuole far riflettere sulla società consumistica, e gli zombie continuano a compiere le stesse azioni che facevano quando erano umani: mangiare, fare shopping, cercare l'amore della propria vita. Non mancano riferimenti al mondo dei videogiochi (con schermate che presentano i personaggi e scritte in sovrimpressione sullo schermo).

30 ottobre 2018

La bottega dei suicidi (P. Leconte, 2012)

La bottega dei suicidi (Le magasin des suicides)
di Patrice Leconte – Francia/Can/Bel 2012
animazione tradizionale
**

Visto in TV.

In una città perennemente triste, grigia e piovosa, la famiglia Tuvache gestisce un negozio che prospera fornendo ai numerosi aspiranti suicidi tutto il materiale loro necessario (cappi, veleni, armi di vario genere, ecc.). Ma il figlio più giovane della famiglia, Alan, l'unico di indole allegra e giocosa, complotta per riportare a tutti la gioia di vivere. Da un romanzo di Jean Teulé (adattato dallo stesso Leconte, all'esordio nel cinema di animazione), una black comedy nella vena lugubre di "Nightmare before Christmas" e "La famiglia Addams", e con uno stile che ricorda i lavori di Sylvain Chomet, che ha elevato ad arte la tristezza e l'inquietudine. Gradevole, anche se alla lunga un po' esile e ripetitivo. I nomi dei vari membri della famiglia Tuvache si ispirano a quelli di celebri suicidi: il capofamiglia Mishima (Yukio), la moglie Lucrezia (Borgia), il figlio maggiore Vincent (Van Gogh), la figlia Marilyn (Monroe) e il figlio minore Alan (Turing). Le canzoni sono di Etienne Perruchon (la migliore è la prima, "Contro la crisi e il carovita"). Polemiche in Italia perché in un primo momento (unico caso al mondo) il film era stato vietato ai minori di 18 anni (oltre al tema del suicidio, con abbondanza di morti sullo schermo, c'è anche un'insolita ma innocua scena di nudo).

3 ottobre 2018

Poveri milionari (Dino Risi, 1958)

Poveri milionari
di Dino Risi – Italia 1958
con Maurizio Arena, Renato Salvatori
**

Visto in TV.

Terzo episodio delle avventure di Romolo (Arena) e Salvatore (Salvatori), cominciate con "Poveri ma belli" e proseguite con "Belle ma povere". A questo giro manca la co-protagonista Marisa Allasio, sostituita da Sylva Koscina in un ruolo piuttosto stereotipato, e cambia anche il setting della vicenda: ma senza l'ambientazione proletaria (che diventa piccolo borghese) si perde molto dell'atmosfera che rendeva speciali i primi due film. Freschi di nozze l'uno con la sorella dell'altro – Marisa (Lorella De Luca) e Anna Maria (Alessandra Panaro) – dopo una problematica luna di miele i giovani si trasferiscono a vivere in un appartamento ancora in costruzione (mancano persino i vetri alle finestre). Investito dall'auto della ricchissima ed eccentrica Alice (Koscina), Salvatore perde la memoria e viene accolto in casa da questa, che se ne innamora e lo nomina direttore generale dei grandi magazzini di cui è proprietaria. Si tratta degli stessi negozi dove Romolo lavora come commesso, e dove Salvatore farà assumere anche Marisa, di cui si invaghisce senza sapere che è già sua moglie... Non più bulli di borgata, i due personaggi sembrano ora uscire da una commedia degli equivoci americana o dalle pagine di un fumetto comico (la trovata dell'amnesia è quanto di più riciclato ci possa essere), e la pellicola risulta assai lontana dal realismo precedente, oltre che prevedibile e debole sia come trama che come gag (un'altra botta in testa farà guarire Salvatore). Ma la verve dei due attori (che battibeccano di continuo), oltre al buon ritmo della regia di Risi, tiene a galla la baracca e garantisce un innocuo divertimento. Dei due interpreti, che con questa trilogia ottennero un'improvvisa popolarità, quello che farà poi la carriera migliore è Salvatori (lo ricordiamo, per esempio, ne "I soliti ignoti", "Rocco e i suoi fratelli" e "Queimada"). Cameo per Fred Buscaglione.

23 settembre 2018

Tramonto (László Nemes, 2018)

Tramonto (Napszállta)
di László Nemes – Ungheria 2018
con Juli Jakab, Vlad Ivanov
***

Visto al cinema Palestrina, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Nel 1913, la giovane orfana Írisz giunge a Budapest con l'intenzione di farsi assumere nel prestigioso negozio di cappelli Leiter, fondato dai suoi genitori (morti in un incendio quando lei aveva solo due anni) e ora gestito dall'ambiguo signor Brill. Scoprirà di avere anche un fratello, lo sfuggente e misterioso Kálmán, bollato da tutti come un assassino e a capo di un gruppo di rivoltosi che intendono ribellarsi contro il potere austriaco, sabotando anche i festeggiamenti per l'anniversario del negozio stesso. Il secondo lungometraggio di Nemes è soltanto all'apparenza un thriller caotico e filosofico: in realtà, il piano individuale è uno specchio di quello sociale, politico e storico: e il continuo senso di smarrimento della protagonista, che non sa da che parte stare, che rimane invischiata in una ragnatela di enigmatici intrighi e che perde la propria identità (finendo per identificarsi con il fratello, anche nel ruolo di capo della rivolta), esemplifica la situazione dell'Ungheria, formalmente parte dell'impero austro-ungarico ma di fatto soggiogata ai voleri dei sovrani di Vienna (qui i regnanti e gli ufficiali di lingua tedesca fanno il bello e il cattivo tempo, e sono un concentrato della corruzione dell'etica e della moralità di fine impero). Il negozio di cappelli Leiter, espropriato e usurpato, è così una metafora della nazione magiara (sottomessa e privata delle proprie radici): per riconquistare la propria identità e la libertà sarà prima necessario spazzare via tutto con una rivolta violenta. Il continuo parallelo fra il contesto personale e quello storico arricchisce a dismisura un film già complesso di suo, ricco esteticamente e stilisticamente: c'è chi ha criticato il fatto che la regia ricalchi la trovata del lavoro precedente di Nemes, "Il figlio di Saul", che incollava la macchina da presa al protagonista (sempre in primo piano o visto di nuca, seguito con lunghi piani sequenza) e lasciava sfocati e confusi gli eventi sullo sfondo. In effetti, se lì serviva a mantenersi isolati dall'orrore, qui la scelta sembra meno giustificata, ma in realtà illustra tutta l'incertezza e lo smarrimento in un bivio epocale, il "tramonto" (come da titolo) di un mondo che dietro l'eleganza e la raffinatezza della moda e i fasti dell'impero nascondeva una tragedia pronta a scoppiare. Anzi, l'esplosivo era già piazzato, bastava soltanto accendere la miccia. Non a caso la pellicola termina mostrandoci una trincea della prima guerra mondiale, l'evento che segnerà compiutamente la fine di quel "mondo di ieri" tanto caro a Stefan Zweig: una trincea dove la stessa Írisz rivedrà forse Kálmán e si ricongiungerà finalmente con la propria parte mancante, quella parte di cui – in assenza appunto del fratello – aveva dovuto farsi carico. Forse Nemes tira troppo la corda (la lunghezza del film è un po' eccessiva), ma gli spunti, come detto, sono notevolissimi: uno su tanti, il distorcimento della fiaba di Cenerentola (il principe che sceglie la più bella delle ragazze al ballo per portarla con sé a palazzo, e le fa addirittura togliere le scarpe, anche se non certo per metterle una scarpetta di cristallo). Nella colonna sonora spicca il quartetto "La morte e la fanciulla" di Schubert.

23 maggio 2018

Dogman (Matteo Garrone, 2018)

Dogman
di Matteo Garrone – Italia 2018
con Marcello Fonte, Edoardo Pesce
***1/2

Visto al cinema Colosseo.

In una periferia degradata e opprimente, una vera e propria arena sul litorale che ha visto tempi migliori (il film è stato girato nei pressi di Castel Volturno), il piccolo e mansueto Marcello gestisce con passione un negozio di toelettatura per cani. Il suo problema, che è anche quello degli altri commercianti della zona, si chiama Simone: pugile prepotente, bullo, instabile e attaccabrighe, che lo coinvolge in piccoli furti e al quale è però legato da un rapporto di amicizia difficile da scindere. In fondo sono entrambi come dei cani: Simone è quello aggressivo e territoriale, Marcello quello sottomesso e dipendente dal padrone anche di fronte ai maltrattamenti. Liberamente ispirato a un fatto di cronaca di fine anni ottanta, il caso del "canaro della Magliana", il film è un riuscitissimo ritratto di un personaggio complesso, buono nell'anima e disposto ad accettare (quasi) di tutto pur di vivere quietamente: anche la modesta attività di spaccio di droga (che forse, a ben vedere, finisce con l'esacerbare il problema di Simone, diventato cocainomane) viene svolta con le migliori intenzioni, in particolare quella di integrare i piccoli guadagni nel negozio per potersi permettere le gita fuori porta con la figlia, appassionata di immersioni subacquee (i due sognano di andare alle Maldive o al Mar Rosso: e le sequenze che mostrano padre e figlia che si immergono sembrano quasi appartenere a un altro film, con la loro atmosfera di sogno e di libertà). Marcello è quasi costretto dalle circostanze a diventare un assassino. La macchina da presa di Garrone lo segue continuamente, senza mollarlo mai un istante, spesso riprendendo da vicino il suo volto in primo piano (come nell'intenso finale all'alba): il protagonista, Marcello Fonte, ha vinto a Cannes il premio per la miglior interpretazione maschile. Oltre a lui e ad Edoardo Pesce (Simone), il terzo personaggio è l'ambiente (magnificamente esaltato sullo schermo dalla fotografia di Nicolaj Brüel), un ex resort turistico sulla spiaggia dimenticato da tutti, trasformatosi nella piazza di un western, dove si vive alla giornata fra sogni di fuga (attraverso il lavoro, il gioco o la delinquenza) e in attesa di un'occasione migliore. E di fronte alle follie e alla violenza degli uomini, i cani sono spettatori curiosi e inermi. Fra tutti i film di Garrone, ricorda in parte "L'imbalsamatore" (peraltro girato negli stessi luoghi) nel mettere in scena individui al margine della società. Come quello, si ispira a un fatto di cronaca reale: lì il protagonista imbalsamava animali morti, qui accudisce animali vivi, ma in entrambi i casi il vero animale si conferma essere l'uomo stesso (indicative le scene in cui Marcello finisce in prigione e in cui Simone viene rinchiuso in una gabbia, proprio come i cani feroci).

2 maggio 2018

La cravate (Alejandro Jodorowsky, 1957)

La cravate, aka Les têtes interverties
di Alejandro Jodorowsky – Francia 1957
con Alejandro Jodorowsky, Denise Brossot
**1/2

Visto su YouTube.

La prima esperienza di Jodorowsky nella regia cinematografica risale a quando aveva 28 anni, si era trasferito a Parigi da quattro ed era assistente del celebre mimo Marcel Marceau. E proprio a una pantomima teatrale, stralunata e poetica, assomiglia questo cortometraggio di 20 minuti, muto (a parte la colonna sonora) e ispirato a un raccconto di Thomas Mann ("Le teste scambiate"). Il protagonista, per conquistare una donna che non lo ama ma che ammira il suo corpo, si reca infatti in un negozio la cui graziosa commessa commercia appunto in teste, consentendo ai clienti di depositare la propria e di prenderne un'altra al suo posto. Colorata e fiabesca, nella vena dei surrealisti francesi (ma ha anche qualcosa che ricorda l'espressionismo tedesco), la pellicola è gradevole e leggera, senza troppe pretese e senza il bagaglio di simboli e di metafore che caratterizzerà la successiva produzione del regista cileno (a partire dal primo lungometraggio, "Il paese incantato", del 1968). In scena, fra gli altri, anche il produttore Saul Gilbert e il comico surrealista Raymond Devos.

16 aprile 2018

L'asso di picche (Miloš Forman, 1964)

L'asso di picche (Cerny Petr)
di Miloš Forman – Cecoslovacchia 1964
con Ladislav Jakim, Pavla Martinkova
**1/2

Visto su YouTube, per ricordare Miloš Forman.

Il lungometraggio d'esordio di Forman mette in scena, fra timidezza e sfacciataggine, le prime esperienze di vita adulta del sedicenne Petr (Jakim). Assunto come sorvegliante in un supermercato per controllare che i clienti non rubino, il ragazzo fatica a soddisfare le esigenti aspettative di un padre (Jan Vostrcil) che proietta tutte le sue speranze su di lui. E nel frattempo deve destreggiarsi nei rapporti sociali, corteggiando in maniera goffa e senza successo la coetanea Paula (Martinkova) e stringendo amicizia con un ragazzo forse ancora più imbranato di lui, il muratore Cenda (Vladimír Pucholt). Forman dirige con un approccio leggero, quasi da commedia, come suggerisce anche il commento musicale (che richiama l'incipit dello "Schiaccianoci" di Tchaikovsky, senza mai andare però oltre le prime note). Fra tante scenette semi-comiche o comunque "sbarazzine" (Petr che segue per strada un cliente del negozio che sospetta di furto, o che spia le ragazze che si spogliano nei camerini), ne risulta un ritratto generazionale di giovani dalle idee confuse, lasciati a sé stessi nella scoperta del mondo da adulti incapaci di fornire le necessarie indicazioni (i genitori o i datori di lavoro sono buoni solo a rimproverare o a fare retoriche ramanzine). Il gap fra le generazioni – tema che Forman continuerà ad esplorare nei film successivi – è mostrato sotto ogni punto di vista, dalla musica all'approccio con il sesso. Il titolo originale ("Petr il nero") è il nome di un gioco di carte, corrispondente al nostro "Uomo nero".

21 novembre 2017

Preferisco l'ascensore (Newmeyer, Taylor, 1923)

Preferisco l'ascensore (Safety last!)
di Fred C. Newmeyer, Sam Taylor – USA 1923
con Harold Lloyd, Mildred Davis
***1/2

Visto su YouTube.

Una delle immagini più iconiche nella storia del cinema, in particolare del cinema muto, è quella che mostra Harold Lloyd aggrappato alle lancette di un orologio e sospeso nel vuoto. È stata ripresa e omaggiata più volte, per esempio in "Ritorno al futuro" (con un altro Lloyd, Christopher, nella stessa situazione), in "Hugo Cabret", e da Jackie Chan in "Project A" (il funambolo cinese ha sempre indicato in Lloyd uno dei suoi modelli di riferimento). L'attore americano, noto per il suo "personaggio con gli occhiali" (chiamato semplicemente "The boy" nei titoli dei suoi film) è da considerare il terzo grande comico dell'epoca del muto insieme a Charlie Chaplin e Buster Keaton, con i quali negli anni venti rivaleggiava in popolarità, anche se oggi è assai meno conosciuto di loro. Questo film, per via della scena dell'orologio (e in generale di tutta la sequenza conclusiva) ma non solo, è senza dubbio il suo lavoro più famoso. La trama vede il protagonista lasciare il suo paesino di provincia per andare in cerca di fortuna a New York, dove non troverà che un modesto impiego da commesso nel reparto tessuti di un grande magazzino. Quando sente che il proprietario intende elargire una lauta ricompensa a chi troverà il modo di attirare più clienti, decide di organizzare un grande evento pubblicitario: il suo coinquilino, un agile operaio edile abituato a lavorare a grandi altezze (interpretato dallo stuntman Bill Strother, celebre all'epoca come "mosca umana"), dovrà scalare a mani nude la facciata del palazzo di fronte al negozio. Per una serie di sfortunati eventi, però, al posto dell'amico sarà proprio lui a dover eseguire l'arrampicata! L'impresa, già difficile di suo, sarà resa ancora più ardua da (comicissime) disavventure che si succederanno piano dopo piano. L'eccezionale sequenza, girata in maniera magistrale, è davvero da brividi, e combina l'umorismo con la suspense e le vertigini, grazie anche agli "effetti ottici" che sfruttano la profondità di campo nelle varie inquadrature, mostrando le strade, i passanti e il traffico sotto lo sventurato ragazzo. Ma il resto del film non è da meno, zeppo di gag slapstick in cui il protagonista – ambizioso e intraprendente – si mette nei guai e cerca ingegnosamente di uscirne, realizzate con un perfetto uso dei tempi e gestione degli spazi. Mildred Davis è la fidanzata alla quale Harold fa credere di essere il direttore del negozio. Prodotto da Hal Roach (co-autore anche del soggetto).

20 luglio 2017

Zombi (George A. Romero, 1978)

Zombi (Dawn of the dead)
di George A. Romero – USA/Italia 1978
con Ken Foree, Scott H. Reiniger
***1/2

Rivisto in DVD.

Dieci anni dopo il primo film sui "morti viventi", Romero rivisita il genere che gli aveva dato la notorietà, realizzando forse il miglior zombie movie di tutti i tempi: un sequel epocale e del tutto autonomo, che rispetto al prototipo mostra gli effetti dell'invasione degli zombi su scala più ampia, oltre a presentare letture metaforiche ben più esplicite dell'originale. A parte l'incipit in media res (al fenomeno che riporta in vita i morti sotto forma di zombi affamati di carne umana non viene data alcuna spiegazione, se non la celebre frase "Quando all'inferno non ci sarà più posto, i morti cammineranno sulla Terra"), l'intero film si svolge infatti in un enorme mall, o centro commerciale (che i dialoghi italiani dell'epoca si premurano di descrivere a uno spettatore che forse non li conosceva: "uno dei quei grandi complessi di negozi e supermercati"), fra le cui corsie si aggirano orde di zombi immemori, costretti dall'istinto a tornare in quei luoghi che significavano così tanto per loro quando erano in vita. La metafora del consumismo non potrebbe essere più esplicita, e permea l'intera pellicola a più livelli. Anche i quattro protagonisti – due membri delle squadre speciali della polizia, Peter (Ken Foree: come nel primo film, il leader del gruppo è un nero) e Roger (Scott H. Reiniger), e due giornalisti di una stazione televisiva, Stephen (David Emge) e Jane (Gaylen Ross) – barricatisi nel negozio dopo essere fuggiti in elicottero da una Filadelfia ormai in preda (come quasi tutto il Nord America) all'apocalittica invasione, approfittano della situazione per fare man bassa di tutta la merce che potrebbe servire loro, al punto da condurre per breve tempo una vita quasi lussuosa e spensierata: non a caso si rifiuteranno di condividere queste risorse con la banda di razziatori che assalta il centro commerciale nel finale, dando vita a un conflitto dove gli zombi diventano praticamente dei terzi incomodi. Tutt'altro che mostri inarrestabili, i "morti viventi" camminano come automi, con movimenti lenti e incerti, ma fanno paura perchè rispecchiano l'uomo a livello istintuale, aggirandosi instancabili in quelli che una volta erano i templi della civiltà (e del consumismo, appunto). Gli scienziati hanno un bel dire che si tratta di "una nuova specie": in realtà gli zombi siamo noi stessi, e – come recita il memorabile e inquietante prete con una gamba sola, all'inizio del film – "quando i morti camminano, bisogna smettere di uccidere o si perde la guerra". Naturalmente, c'è anche spazio per questioni razziali e morali, come racconta la scena dell'irruzione degli SWAT nel caseggiato di "negri e portoricani" che si rifiutano di distruggere o conseguare i cadaveri dei loro cari. Rispetto al primo episodio, anche la confezione fa un notevole salto di qualità, e non soltanto per il passaggio dal bianco e nero al colore (notevole il make up degli zombi, che dona loro un colorito bianco-verdastro, opera di Tom Savini così come gli effetti speciali estremamente sanguinolenti e gore) e per una regia solida e claustrofobica, ma anche per le scene d'azione, le scenografie e un montaggio che genera tensione ininterrotta. Savini recita anche nei panni di un motociclista e di uno zombi, mentre John Landis è lo scienziato in tv con la benda sull'occhio. Dario Argento (che aiutò Romero a ottenere i finanziamenti necessari, e che è accreditato come "script consultant"), curò l'uscita della versione internazionale, che comprende una colonna sonora ad opera dei Goblin. Nel 1985 Romero realizzerà quello che avrebbe dovuto essere il capitolo finale della sua trilogia, "Il giorno degli zombi", in seguito trasformata in esalogia. "Zombi 2" e "Zombi 3" di Lucio Fulci sono invece sequel non ufficiali.