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28 settembre 2022

Snow White (J. Searle Dawley, 1916)

Biancaneve (Snow White)
di J. Searle Dawley – USA 1916
con Marguerite Clark, Creighton Hale
**1/2

Visto su YouTube, con cartelli in inglese.

Benvoluta da tutti a corte, la principessa Biancaneve è trattata come una serva dalla matrigna Brangomar, gelosa della sua bellezza. Quando la regina ordina al cacciatore Berthold di portarla nel bosco e ucciderla, questi la risparmia per pietà. Biancaneve trova così rifugio nella capanna dei sette nani. Sobillata da una strega, la regina proverà a raggiungerla anche lì, ma la ragazza sarà salvata dal principe Florimond che si è innamorato di lei. Questo film muto in sei rulli è uno dei primi adattamenti cinematografici della celebre fiaba dei fratelli Grimm (un precedente corto del 1902 è andato perduto). Tecnicamente parlando, si tratta di un adattamento dello spettacolo teatrale di Broadway del 1912 scritto (sotto pseudonimo) da Winthrop Ames, di cui conserva anche la protagonista Marguerite Clark, e che rispetto alla fiaba originale amplia il ruolo dei personaggi secondari, su tutti il cacciatore e i sette nani, ai quali vengono affibbiati per la prima volta dei nomi, vale a dire Blick, Flick, Glick, Snick, Plick, Whick e Quee (il più giovane dei sette, con un ruolo da macchietta comica). Walt Disney ricorda di aver visto il film al cinema quando aveva solo quindici anni e di esserne rimasto colpito: naturalmente vi si ispirerà quando, vent'anni dopo, deciderà di realizzare il suo primo lungometraggio animato. La storia è meravigliosamente raccontata, con una gran cura nelle scene (splendida la sala del trono della regina), nei costumi, nei personaggi, tutti ben caratterizzati, compresi quelli minori (le damigelle di corte, le tre figlie del cacciatore, i nani stessi). Di contro, la regia è parecchio statica, con poco o nessun uso del montaggio narrativo o dei movimenti di macchina: se pensiamo a cosa faceva Griffith in quegli stessi anni, da questo punto di vista il film non è certo innovativo. Se la sceneggiatura mantiene alcuni elementi della fiaba dei Grimm che le versioni successive (a partire da quella disneyana) preferiranno eliminare, come il pettine avvelenato con cui la regina travestita prova a uccidere Biancaneve ben prima della più celebre mela, ne introduce altri del tutto spuri: per esempio, qui la regina cattiva e la strega sono due personaggi differenti, che complottano insieme contro la protagonista (ed è la seconda a consegnare alla prima lo specchio magico). Inoltre, come detto, il cacciatore ha tre figlie che giocano un ruolo importante nella vicenda. Oltre ai sette nani (curiosità: i cartelli usano lo spelling dwarves, al posto del più corretto dwarfs, ben prima dell'uso che notoriamente ne farà Tolkien), tutti i personaggi hanno un nome. Altri elementi che invece rimarranno (e che Disney farà suoi) sono gli animaletti del bosco che aiutano Biancaneve (un uccellino e un coniglio). La pellicola fu distribuita nelle sale a Natale, come suggerisce l'incipit in cui si vede proprio Babbo Natale tirare fuori i personaggi della storia dal suo sacco, sotto forma di bambole che poi prendono vita.

6 settembre 2022

La città incantata (Hayao Miyazaki, 2001)

La città incantata (Sen to Chihiro no kamikakushi)
di Hayao Miyazaki – Giappone 2001
animazione tradizionale
****

Rivisto in TV (Netflix).

Impegnata con la famiglia in un trasloco da una città a un'altra, la piccola Chihiro si imbatte in un parco dei divertimenti apparentemente deserto in una località di campagna. In realtà il luogo non è abbandonato, ma semplicemente è riservato non agli esseri umani, bensì agli spiriti e alle divinità della natura, che vi giungono quando cala la notte. Per via della loro ingordigia, i genitori si ritrovano trasformati in... maiali e messi all'ingrasso, mentre la bambina, con l'aiuto di Haku, un misterioso ragazzo che afferma di conoscerla, riesce a farsi assumere come lavorante nel gigantesco edificio che funge da terme e bagni pubblici per gli spiriti, gestito dalla strega Yubaba. Questa, per avere potere su di lei, "ruba" il vero nome della bambina, che viene così ribattezzata Sen. Vivrà numerose avventure, prima di riuscire a riappropriarsi del proprio nome e a ottenere dalla strega il permesso di tornare al mondo degli umani, insieme ai suoi genitori. Difficile dire quale sia il capolavoro di Hayao Miyazaki e dello Studio Ghibli (le mie preferenze personali vanno a "Laputa" e "Totoro"), ma questo va senza dubbio collocato nella lista delle sue opere migliori e forse dei film giapponesi animati più belli di sempre. Ricchissimo e affascinante, colmo di momenti, trovate e personaggi visionari, ispirati al vasto universo del folklore nipponico ma anche frutto di una rilettura personale di miti e fiabe occidentali (le "prove" che la piccola protagonista deve superare, il ruolo del cibo degli spiriti, le trasformazioni magiche, il divieto di guardarsi indietro mentre percorre il tunnel d'uscita...), il film offre immagini davvero suggestive, anche per merito della grande qualità di disegni, fondali e animazioni cui lo Studio Ghibli ci ha abituato, ma che in questo caso sembrano addirittura superiori alla media: il treno che corre sul pelo dell'acqua (popolato da spiriti: impossibile non pensare al "gatto-bus" di Totoro); le tante creature e creaturine che popolano questo universo soprannaturale, che ne siano normali abitanti o opera di magia come gli uccelli di carta; e naturalmente il gigantesco e complesso edificio termale, con i suoi interni, i ponti, i corridoi, le camere dove alloggiano i lavoranti e le grandi vasche frequentate dagli ospiti. In Giappone la cultura delle terme (onsen) è antica e radicata, e non stupisce come possa essere associata anche al mondo del mito, del folklore e degli spiriti, i cosiddetti kami: mi sovvengono, per esempio, alcune suggestive e inquietanti puntate di "Lamù" dirette da Mamoru Oshii.

Dietro la superficie e la forma, però, ci sono anche i contenuti: siamo di fronte a una storia di coming-of-age, di crescita, che mostra una ragazzina (presentata nelle prime scene come disinteressata e annoiata, oltre che gracile e sgraziata: il character design è un po' diverso da quello solito di Miyazaki) costretta ad affrontare di colpo le difficoltà della vita, senza l'appoggio dei genitori; a dover imparare cosa sono la responsabilità, l'impegno, il rispetto delle regole (tutto ciò che si collega al lavoro), ma anche l'altruismo, la disponibilità, la bontà, il perdono. E supera tutte le prove grazie alla sua rettitudine, all'intelligenza, alla mancanza di quell'avidità e ingordigia che invece ha tradito i suoi genitori (si pensi, per esempio, a come rifiuti i doni e le pepite d'oro che lo spirito Senza-Volto le offre di continuo). Attorno a lei si muovono numerosi personaggi ben caratterizzati, tanto come personalità quanto dal lato estetico, per quanto (ovviamente) spesso bizzarri: il bello e misterioso Haku, per esempio, ragazzo che assume magicamente anche l'aspetto di un dragone e la cui vera identità – una trovata magnifica! – è svelata solo nel finale; l'inserviente Lin, che prende la piccola Sen sotto la sua ala protettiva; il vecchio e "ragnesco" Kamagi, che gestisce le caldaie dei bagni pubblici con l'aiuto di tante creaturine nere che ricordano gli spiriti della fuliggine di "Totoro"; l'avida strega Yubaba e la sua sorella gemella Zeniba (chi sia la buona e chi la cattiva rimane in bilico per quasi tutto il film); il figlio di Yubaba, il gigantesco "Piccino", trasformato in topo da Zeniba; i tanti lavoranti delle terme e i pittoreschi ospiti, fra i quali spiccano il "dio putrido" (Gualtiero Cannarsi, ma che hai in testa?), che in realtà è lo spirito di un fiume, e, appunto, il timido ma goloso Senza-Volto. A condire il tutto, la splendida colonna sonora firmata da Joe Hisaishi. La versione italiana che circola attualmente (si tratta del secondo doppiaggio del film) è purtroppo mediocre, per via del brutto adattamento dei dialoghi di Cannarsi (e non è nemmeno uno dei suoi lavori peggiori), per non parlare del titolo generico e incongruente che ha ereditato dalla precedente (quale sarebbe questa "città" incantata?). Quello originale può essere tradotto come "Sen e Chihiro rapite dagli spiriti": meglio allora il titolo inglese, "Spirited away".

28 febbraio 2022

Dies irae (Carl Theodor Dreyer, 1943)

Dies irae (id.)
di Carl Theodor Dreyer – Danimarca 1943
con Lisbeth Movin, Thorkild Roose
***1/2

Rivisto in divx.

Absalon Pederssøn (Thorkild Roose), pastore di un villaggio protestante nella Danimarca di inizio Seicento, ha preso in moglie Anne (Lisbeth Movin), molto più giovane di lui e figlia di una presunta strega che lui stesso, tacendo, ha salvato dal rogo. Quando la ragazza si innamora del figlio di Absalon, Martin (Preben Lerdorff Rye), suo coetaneo, è tentata di usare i "poteri magici" che avrebbe ereditato dalla madre per desiderare la morte del marito... Tratto da un dramma teatrale di Hans Wiers-Jenssen, ispirato a un episodio realmente accaduto in Norvegia, e girato in Danimarca sotto l'occupazione nazista (e il clima paranoico che vi si respira, la "caccia alle streghe" appunto, dove basta una denuncia non circostanziata per porre una persona o un'intera famiglia sotto accusa, ne è un'evidente testimonianza) questo film segna il ritorno di Dreyer al cinema dopo oltre dieci anni di inattività, ovvero dall'insuccesso commerciale e critico di "Vampyr". La forma lenta e austera, proprio come il canto del "Dies irae" che è intonato dal coro della chiesa, è la cifra stilistica perfetta per riprodurre sullo schermo il rigido protestantesimo del 1600, veicolando al contempo l'idea di cinema rigorosa e quasi teatrale che aveva caratterizzato (si pensi a "La passione di Giovanna d'Arco") e caratterizzerà ("Ordet", "Gertrud") tutte le pellicole del grande regista. L'attenzione alla composizione dell'immagine, il bianco e nero fortemente contrastato della fotografia, i lunghi piani sequenza e l'interpretazione quasi in trance degli attori (soprattutto della protagonista), i cui primi piani risultano incredibilmente intensi e suggestivi, contribuiscono a un'esperienza unica nel suo genere per lo spettatore. Molto interessante la prima parte, con le peripezie della fattucchiera Marte Herlofs (Anna Svierkier), accusata di stregoneria dagli abitanti del suo villaggio e mandata sul rogo nonostante chieda aiuto, inutilmente, proprio ad Absalon, minacciando di rivelare la verità sulla madre di Anne. Cosa che non farà: a tradire la ragazza sarà invece un altro tipo di strega, ovvero la severa suocera Merete (Sigrid Neiiendam), la madre di Absalon, dopo che il figlio è morto, apparentemente ucciso dal semplice desiderio di Anne. Che questa sia davvero una strega, oppure semplicemente una giovane ragazza che sogna l'amore e che è stata costretta a essere imprigionata nel matrimonio con un uomo più vecchio di lei e che non ama, rimane lasciato nell'ambiguità. E in realtà non è così importante: è l'ambiente che la circonda, patriarcale e teocratico, il vero "male" che il "giorno dell'ira" dovrà dissipare e da cui, nel frattempo, riesce a fuggire soltanto con un atto finale di sacrificio ed eroismo quasi pari a quello della Giovanna d'Arco del film precedente. Il parallelo fra la cupezza del diciassettesimo secolo e gli orrori dell'attualità è dunque sottile ma fino a un certo punto: proprio il "realismo" della messa in scena, la naturale accettazione dell'esistenza del maligno e del soprannaturale che permea tutti, serve a trasfigurare in maniera coinvolgente le vicende per uno spettatore contemporaneo (o del 1943: ricordiamo ancora una volta le circostanze in cui fu girato!) che, se ci riflette, scopre di essere a sua volta circondato da forze che operano per il male, pensando magari di operare per il bene. Il che rende la pellicola, nonostante la sua forma apparentemente datata, ancora e sempre d'attualità.

11 luglio 2021

The witch (Robert Eggers, 2015)

The witch - Vuoi ascoltare una favola? (The witch)
di Robert Eggers – USA/Canada 2015
con Anya Taylor-Joy, Ralph Ineson
**1/2

Visto in divx.

New England, diciassettesimo secolo: dopo essere stati banditi dalla propria colonia per divergenze religiose, una famiglia di integralisti puritani si stabilisce ai limiti di un bosco nelle terre selvagge, dove costruisce una fattoria. Ma misteriose presenze maligne e ostili giungono a turbare la loro esistenza, dapprima attraverso il misterioso rapimento del figlio più piccolo, e poi scatenando i sospetti degli altri sulla giovane Thomasin, accusata di essere una strega. Cupo e opprimente horror sui generis, dove l'orrore sembra provenire non (soltanto) dal di fuori (il bosco, gli animali) quanto soprattutto dall'interno della comunità famigliare, talmente chiusa nella propria visione irrazionale da rendere subalterna ad essa ogni tipo di rapporto con il mondo esterno. L'orrore nasce dunque dalla paura verso la natura, dalla chiusura di una religione cieca, oppressiva e bigotta, che porta a vedere tutto ciò che è diverso e "selvatico" come fonte di peccato e legato al demonio. In mezzo a tutto questo, pertanto, la scena finale del sabba delle streghe (per quanto bella) appare quasi superflua. Il regista (esordiente e anche sceneggiatore) ha affermato di essersi ispirato a tutta una serie di fiabe nonché ai racconti popolari sulle streghe (che proprio nel New England furono oggetto di assurde persecuzioni). Ma naturalmente il cinema ha spesso affrontato i temi dell'isolamento che porta alla follia ("Shining" di Kubrick) e della religione che convive con la stregoneria ("Antichrist" di Von Trier). Ben accolto dalla critica, il film ha il suo punto di forza nelle atmosfere gotiche e inquietanti, rinforzate dalla fotografia oscura e livida, che pure concorrono ad appesantire l'insieme e a rendere la pellicola un po' monocorde. E i personaggi sono francamente sgradevoli, protagonisti di scene gridate e sopra le righe (la madre su tutti, ma anche i due gemelli, veramente insopportabili), tanto che alla fine si è quasi felici di vederli morire tutti e male.

8 maggio 2021

Hansel and Gretel (Tim Burton, 1983)

Hansel and Gretel
di Tim Burton – USA 1983
con Jim Ishida, Michael Yama
**1/2

Visto su YouTube, in originale.

Abbandonati nel bosco dalla matrigna cattiva (Michael Yama), i due fratellini Hansel e Gretel (Andy Lee e Alison Hong) trovano rifugio in una casa fatta di dolciumi, dove però abita una strega (sempre Yama) che progetta di mangiarli. A finire nel forno sarà invece lei, e i due bambini potranno riunirsi con il padre (Jim Ishida). Tim Burton ha realizzato questa versione della celebre fiaba dei fratelli Grimm per un programma televisivo di The Disney Channel: si tratta del suo primo lavoro con attori in carne e ossa (il precedente "Vincent" era in animazione a passo uno). Curiosa la scelta di casting, con interpreti tutti di etnia asiatica: forse anche per questo ci sono arti marziali (la strega combatte con shuriken e nunchaku!). Nel complesso simpatico, anche grazie agli sfondi disegnati, ai pupazzi (il padre dei due bambini è un giocattolaio) e all'esplosione di colori nella casa della strega, e degna di lode la scelta di non edulcorare i temi dark della fiaba originale (con gli americani non si sa mai!), con tutti i suoi significati simbolici e psicanalitici.

19 febbraio 2021

Le streghe son tornate (A. de la Iglesia, 2013)

Le streghe son tornate (Las brujas de Zugarramurdi)
di Álex de la Iglesia – Spagna 2013
con Hugo Silva, Carmen Maura
**1/2

Visto in TV (Prime Video).

José (Hugo Silva), padre di Sergio (Gabriel Delgado) e separato dalla moglie Silvia (Macarena Gómez), dopo aver rapinato un "Compro oro" nel centro di Madrid in compagnia del figlioletto, fugge verso il confine insieme a lui, al complice Antonio (Mario Casas) e al tassista Manuel (Jaime Ordóñez), con i quali condivide odio e risentimento verso tutto il genere femminile. Inseguiti dall'ex moglie e da due poliziotti (Secun de la Rosa e Pepón Nieto), finiranno tutti nel villaggio di Zugarramurdi, "infestato" da una congrega di streghe (fra cui Terele Pávez, Carmen Maura e Carolina Bang, rispettivamente nonna, madre e figlia), che intendono sacrificare il bambino alla "grande madre" per restituire alle donne la supremazia sull'intero creato. Black comedy horror dai toni grotteschi e sopra le righe, in purissimo stile de la Iglesia (prendere o lasciare): non mancano momenti geniali (come la scena iniziale della rapina, con i ladri vestiti da artisti da strada e un'irresistibile dissonanza culturale nel vedere statue di Gesù Cristo o personaggi quali Spongebob e Minnie comportarsi da criminali) o sequenze disgustosamente gore, ma il tono è sempre ironico quando non pseudo-tarantiniano nel suo mix di generi (il paragone più azzeccato è quello con "Dal tramonto all'alba"). In ogni caso, da non prendere troppo sul serio, soprattutto quando affronta – in chiave di divertimento provocatorio – il tema dei rapporti con le donne e i tanti luoghi comuni "maschilisti" sull'argomento (dai discorsi in auto sulle rispettive ex, alla "litigata" fra José ed Eva durante la fuga, con inconciliabili differenze di vedute). Proprio queste aggiunte rendono la pellicola qualcosa di più di un semplice intrattenimento post-moderno. Buoni gli effetti speciali.

17 agosto 2020

La morte ti fa bella (R. Zemeckis, 1992)

La morte ti fa bella (Death becomes her)
di Robert Zemeckis – USA 1992
con Meryl Streep, Bruce Willis, Goldie Hawn
**1/2

Rivisto in divx.

L'attrice Madeline Ashton (Meryl Streep) e la scrittrice Helen Sharp (Goldie Hawn), pur conoscendosi fin dall'infanzia, sono acerrime rivali sotto ogni aspetto. Helen, in particolare, detesta Madeline perché le ha rubato il fidanzato Ernest (Bruce Willis), un apprezzato chirurgo estetico che, dopo aver sposato la donna, è diventato un alcolizzato. Dal canto suo Madeline è ossessionata dalla bellezza perduta e dalla gioventù. Una pozione magica, fornita alle due donne dalla strega Lisle Von Rhoman (Isabella Rossellini), dona loro quello che desiderano più di tutto: una nuova giovinezza, accompagnata dalla vita eterna. Peccato che ciò vada preso alla lettera: non possono morire, per quanti danni facciano al loro corpo. E il conteso Ernest diventa ancora più prezioso, viste le sue abilità nel ritoccare il loro aspetto, "aggiustandole" e riverniciandole come se fossero due manichini. Black comedy dai toni grotteschi, la pellicola fece furore alla sua uscita per i rivoluzionari effetti digitali (ad opera della Industrial Light & Magic) che permettevano di mostrare la Streep con il collo torto e la Hawn con un buco nello stomaco. Si trattava della prima applicazione, almeno a questi livelli, di immagini generate al computer e integrate poi nel materiale filmato, riproducendo in maniera realistica particolari del corpo e della pelle degli attori ("Terminator 2", in precedenza, aveva dato "vita" soltanto a personaggi robotici o di metallo liquido). A livello di contenuti la storia è ironica e intrigante, anche se la satira dell'ossessione per l'aspetto fisico può apparire fin troppo esplicita e scontata (anche se siamo a Los Angeles!). Da apprezzare, comunque, il crescendo che fa virare il lungometraggio sempre più sul grottesco e la natura amorale, narcisistica e decadente delle due protagoniste, fra le quali Bruce Willis fa la figura del classico vaso di coccio. Isabella Rossellini è indimenticabile nel ruolo della strega seminuda. Sydney Pollack, non accreditato, appare brevemente nei panni di un medico. Nella scena della festa in casa di Lisle, fra le diverse celebrità che si suggerisce abbiano inscenato la propria morte, appaiono Marilyn Monroe, James Dean, Elvis Presley, Jim Morrison e Andy Warhol.

22 giugno 2020

Suspiria (Luca Guadagnino, 2018)

Suspiria (id.)
di Luca Guadagnino – Italia/USA 2018
con Dakota Johnson, Tilda Swinton
*1/2

Visto in TV.

Nell'autunno 1977, in una Berlino ancora divisa dal muro e sconvolta dalle azioni di terrorismo della RAF, la giovane americana Susie Bannion (Dakota Johnson) si iscrive all'accademia di danza diretta da madame Blanc (Tilda Swinton), scoprendo che la scuola fa da copertura a una congrega di streghe. Remake di uno dei film più celebri di Dario Argento (il più noto in assoluto nei paesi di lingua inglese), di cui però non è una copia pedissequa: Guadagnino, reduce dal successo di "Chiamami col tuo nome", e lo sceneggiatore David Kajganich giocano infatti ad ampliare lo scenario, introducendovi temi sociali, storici e politici che però contaminano inutilmente la natura di horror soprannaturale dell'originale. Sia i riferimenti al terrorismo sia quelli all'olocausto (attraverso la storia di un anziano psicanalista, il dottor Klemperer, che ha perso la moglie durante la seconda guerra mondiale) appaiono infatti spuri e superflui nel contesto della trama principale: e ogni tentativo di collegare la crudeltà delle streghe a quella della storia umana (c'è chi ha scomodato addirittura un paragone con il "Salò" di Pasolini!) sembra francamente pretenzioso. Cambia anche l'atmosfera, più concreta e calata nella realtà rispetto al film di Argento, dal quale rimuove stile e tensione: in particolare la fotografia perde fascino e colore, i personaggi non hanno caratterizzazione, la trama non mantiene la suspense, e il colpo di scena finale non sembra giustificare la lunga attesa con cui si presenta allo spettatore, preannunciato comunque da alcune sequenze legate al passato di Susie che enfatizzano il tema della madre. Persino le occasionali scene di (body) horror fanno più ribrezzo che paura. Nel complesso, un film di cattivo gusto, che ha diviso la critica, non ha catturato il pubblico e non è piaciuto nemmeno allo stesso Argento, il che è tutto dire (in effetti sembra più vicino a "Il cigno nero" e a "The neon demon" che non al cinema argentiano). Fra le cose positive, il modo in cui trasmette le sensazioni "corporee" della danza, descritta come una sorta di possessione demoniaca, e la scena finale del sabba, l'unica in cui la fotografia sembra prendere colore. Nel cast Mia Goth, Chloë Grace Moretz ed Elena Fokina (tre delle danzatrici), Jessica Harper (la protagonista originale, qui in un breve cameo), Angela Winkler, Sylvie Testud, Fabrizia Sacchi e Renée Soutendijk (i membri dello staff della scuola). Dakota Johnson aveva già recitato per Guadagnino in un altro remake, "A bigger splash". Tilda Swinton, habitué del regista sin dal suo primo film, "The protagonists", riveste più ruoli: oltre a madame Blanc (personaggio ispirato a Pina Bausch), è anche la mostruosa Helena Markos e soprattutto, irriconoscibile e accreditata con il falso nome di Lutz Ebersdorf, il dottor Klemperer.

20 maggio 2020

Cuore selvaggio (David Lynch, 1990)

Cuore selvaggio (Wild at heart)
di David Lynch – USA 1990
con Nicolas Cage, Laura Dern
**1/2

Rivisto in DVD, con Sabrina.

Sailor Ripley (Nicolas Cage), delinquente di piccolo calibro appena uscito di prigione, e la sua fiamma Lula Fortune (Laura Dern) sono in fuga dal North Carolina verso la California per sfuggire alla madre di lei, la gelosissima Marietta (Diane Ladd). Questa però sguinzaglia sulle loro tracce sia un detective privato, Johnnie Farragut (Harry Dean Stanton), che il gangster di cui è l'amante, Marcelles Santos (J.E. Freeman), il quale a sua volta assolda alcuni killer per eliminare Sailor e il rivale Johnnie: si tratta del subdolo Bobby Peru (Willem Dafoe) e delle sorelle Perdita e Juana Durango (Isabella Rossellini e Grace Zabriskie). Il quinto lungometraggio di David Lynch è un'originale e romantica fiaba on the road, violenta e barocca, talmente ricca di elementi bizzarri e di personaggi grotteschi e sopra le righe da risultare quasi random (molti di essi avrebbero meritato un maggiore approfondimento, anziché darsi il cambio solo per far numero). Nonostante ciò, la trama è più lineare di quanto possa sembrare e affonda le sue radici nell'immaginario pop e retrò, e a volte kitsch, degli Stati Uniti del sud: vedi le numerosissime citazioni da "Il mago di Oz", Nicolas Cage con la giacca di serpente che canta le canzoni di Elvis Presley, il viaggio attraverso luoghi caratteristici come New Orleans e il Texas. Lynch, come fa spesso, narra la vicenda come se si trattasse di un ininterrotto flusso di coscienza e riesce a rendere vivi e plausibili personaggi in realtà assurdi e surreali. Alcune situazioni sembrano addirittura anticipare certe cose di Tarantino, anche se la visionarietà lynchiana rende il tutto più una fiaba moderna che una pellicola "pulp". Quello in cui i due amanti si barcamenano, cercando di ribellarsi alle difficoltà mantenendo il proprio amore come unico punto di riferimento, è – per dirla con le parole di Lula – "un mondo cattivo, senza pietà, che racchiude dentro di sé un cuore selvaggio". Un mondo in cui sesso, violenza e rock'n'roll giocano un ruolo importante, e dove la morte è sempre in agguato (si pensi ai tanti incidenti stradali che i due protagonisti incrociano sulla loro strada). Da sottolineare, come detto, la ricca colonna sonora, usata spesso in maniera diegetica, e i continui riferimenti a "Il mago di Oz": dalle scarpette rosse di Lula (e quelle nere e attorcigliate, da strega appunto, della madre) ai colori stessi della fotografia che ricordano il technicolor del film del 1939, fino all'apparizione salvifica della "strega buona" (interpretata da Sheryl Lee) nel finale. Ispirato a un romanzo di Barry Gifford (di cui Lynch cambiò la conclusione), il film vinse la Palma d'Oro al Festival di Cannes e confermò una volta di più il talento visionario del regista, che ormai cominciava a debordare senza freni dalle sue opere. Curiosità: Laura Dern (già presente, come la Rossellini, nel precedente lavoro di Lynch, "Velluto blu") è figlia di Dane Ladd anche nella vita reale. Nel cast anche W. Morgan Sheppard (il signor Reindeer), Sherilyn Fenn, Crispin Glover e Pruitt Taylor Vince.

12 marzo 2020

Biancaneve e i sette nani (D. Hand, et al., 1937)

Biancaneve e i sette nani (Snow White and the Seven Dwarfs)
di David Hand, et al. – USA 1937
animazione tradizionale
****

Rivisto in divx.

La bellezza della giovane principessa Biancaneve fa ingelosire la regina cattiva, sua matrigna, che ordina a un cacciatore di condurla nella foresta e di ucciderla. Ma l'uomo non ha il coraggio di portare a termine il compito: la fanciulla si rifugia così nel bosco, dove è accolta nella casa dei sette nani. Tramutatasi in strega grazie alla magia nera, la regina avvelena Biancaneve con una mela incantata: ma il "primo bacio d'amore" del principe azzurro la ridesterà dal sonno mortale. Fortemente voluto da Walt Disney in persona (che nel cartello introduttivo si sentì in dovere di ringraziare tutti i suoi dipendenti e collaboratori), supervisionato dal regista David Hand, con sequenze dirette da William Cottrell, Wilfred Jackson, Larry Morey, Perce Pearce e Ben Sharpsteen, "Biancaneve" è il primo lungometraggio d'animazione della Disney, che fino ad allora aveva sfornato soltanto corti: quelli dedicati a Mickey Mouse e Donald Duck, certo, ma anche la serie delle "Silly symphonies" (Sinfonie allegre), con suoni e immagini perfettamente abbinati, molti dei quali prendevano spunto da celebri fiabe e anticipavano dunque, nonostante la breve durata, i grandi capolavori che sarebbero seguiti. Non solo: "Biancaneve" è il primo lungometraggio interamente in animazione tout court (un'impresa che all'epoca molti addetti ai lavori ritenevano impossibile, convinti che l'interesse e l'attenzione degli spettatori non avrebbero mai potuto essere catturati per così tanto tempo da un film senza attori in carne e ossa), anche se bisogna precisare: stiamo parlando dell'animazione tradizionale con disegni su rodovetri, perché altrimenti il primato andrebbe a "Le avventure del principe Achmed" di Lotte Reininger, realizzato nel 1926 con la tecnica delle silhouette animate, o forse addirittura a due film (andati purtroppo perduti) dell'italo-argentino Quirino Cristiani, "El Apóstol" (1917) e "Sin dejar rastros" (1918), con ritagli di carta animati a passo uno. Di più: "Biancaneve" è il primo lungometraggio d'animazione interamente a colori, con visual spettacolari (ispirati in parte alle illustrazioni di Arthur Rackham, ma anche ai classici dell'espressionismo tedesco), eccellenti sfondi dipinti, un'animazione morbida e fluente, movimenti realistici, una credibile profondità di campo (grazie alla nuova camera multiplane) e persino occasionali effetti speciali che contribuiscono a "immergere" il pubblico nella vicenda.

Lasciando da parte i risvolti psicanalitici della fiaba originale dei fratelli Grimm, che non è il caso di affrontare in questa sede (ma che in parte sono conservati anche nel film, a differenza delle versioni edulcorate delle favole in molte pellicole disneyane successive), è da segnalare come la sceneggiatura, pur semplificando a tratti la vicenda, non glissi sui suoi elementi fondanti: si parla esplicitamente di oscurità e di morte, e sono presenti scene assai espressive e che fanno visceralmente paura (la fuga di Biancaneve nella foresta, con gli alberi che ghermiscono le sue vesti) od orrore (l'antro della strega, con il corvo e lo scheletro nella cella). La stessa regina è davvero inquietante, anche visivamente (nel suo aspetto originale è anche dotata di una notevole carica sexy che contrasta con le forme più morbide da adolescente, se non addirittura da bambina, della protagonista). E non dimentichiamo uno degli elementi "magici" più iconici e misteriosi, ovvero lo specchio che la regina consulta ogni giorno per soddisfare la propria vanità ("Specchio, servo delle mie brame: chi è la più bella del reame?"), dotato di volto parlante. Ma naturalmente ci sono anche ingredienti più leggeri, comici e romantici, in un intreccio azzeccato ed equilibrato (anche se forse la parte centrale riservata ai nani, con le sequenze del lavaggio delle mani o della danza, si trascina un po' troppo a lungo: e per fortuna che altre scene di questo tipo sono state tagliate, vedi sotto). Un mix che ha fatto la fortuna del film e ha indicato la strada sui cui proseguire e su cui si focalizzeranno i successivi lavori della casa di Burbank, a cominciare dalle spalle comiche (qui i nani, ma anche gli animaletti del bosco) e dalle canzoni (di fatto i film Disney, con poche eccezioni, saranno sempre dei musical). A intonare i brani è soprattutto Biancaneve (con canzoni celeberrime come "Impara a fischiettar" e "Il mio amore un dì verrà"), affiancata dal principe azzurro ("Oggi non ho che un canto") e ovviamente dai nani (la popolarissima marcetta "Ehi-Ho!" e la cosiddetta "Tirolese"). Nessuna canzone, invece, per la regina cattiva (nonostante in futuro proprio ai cattivi Disney saranno riservati alcuni dei brani più belli) e per il cacciatore, unici altri personaggi umani presenti nella storia. Il resto del "cast" è infatti composto solo da animali: quelli della foresta, che accompagnano Biancaneve comunicando con lei (e aiutandola nei lavori domestici!), più il cavallo bianco del principe, il corvo nero della strega, e i due avvoltoi.

La scelta di adattare una fiaba già nota anziché partire da un soggetto originale, e il successo che ne conseguirà, condizionerà non solo tutti i futuri film disneyani (dando vita nel dopoguerra, in particolare, al fortunato filone delle "principesse") ma contribuirà anche a caratterizzare lo stesso Walt Disney nell'immaginario collettivo come un moderno affabulatore e narratore di storie per grandi e (soprattutto) piccini. In fondo le fiabe, pur nella loro apparente semplicità, veicolano nella maniera più efficace le emozioni, le paure e i sentimenti primordiali, anche grazie all'ampio ricorso agli archetipi. Ecco perché il contesto storico e l'ambientazione della vicenda rimangono ambigui o generici. In che paese siamo? In che epoca? Di quale regno è principessa Biancaneve e regina Grimilde? (A proposito, il nome della regina cattiva – come d'altronde quelli del principe o del cacciatore, tutti archetipi appunto – non viene mai pronunciato nella pellicola: "Grimilde" le viene affibbiato soltanto nell'adattamento ufficiale a fumetti scritto da Merrill De Maris, disegnato da Hank Porter e Bob Grant e pubblicato sui quotidiani, e deriva probabilmente da Crimilde, versione tedesca della norrena Gudrun, un personaggio della saga dei Nibelunghi; da notare anche l'assonanza con la parola inglese "grim", ovvero "truce, torvo"). E il principe azzurro, da quale regno proviene? Il suo castello, nella scena finale, sembra trovarsi in mezzo alle nuvole: il che lascia intendere che si tratti di un luogo immaginario, e che il personaggio stesso (e l'infatuazione di Biancaneve) siano una metafora dell'amore e dell'avvento della vita sessuale adulta ("Someday my prince will come..."), con il crudele distacco dai genitori come corollario. Ops, avevo scritto che avrei lasciato da parte i risvolti psicanalitici, ma evidentemente quando si tratta di fiabe è impossibile ignorarli... Anche per questo, è pericoloso quando l'adattamento di una fiaba ne modifica gli elementi cardine (come avverrà in alcuni brutti remake moderni o nelle versioni live action che si sono viste di recente). Qui, per fortuna, le differenze con il testo originale sono poche e tendono per di più alla semplificazione: nella fiaba dei Grimm, per esempio, quello con la mela avvelenata era il terzo tentativo della regina di attentare alla vita di Biancaneve, dopo averci provato con una veste magica e un pettine stregato (che nel film non compaiono).

E parlando di differenze con la fiaba originale, veniamo ai sette nani. Eletti in tutto e per tutto a co-protagonisti della vicenda, tanto da condividere l'onore del titolo con Biancaneve, essi erano presenti anche nella versione dei fratelli Grimm, ma formavano un gruppo indistinto, senza personalità o nomi individuali. Disney sceglie invece di caratterizzarli separatamente e di dare un nome a ciascuno di loro (non fu il primo a farlo: l'idea proviene da una commedia di Broadway del 1912, trasposta poi in un film muto nel 1916 che l'allora quindicenne Walt ricorda di aver visto), contribuendo così a stagliarli indelebilmente nella memoria dello spettatore. Quelli che rimangono più impressi, anche perché protagonisti con maggiore frequenza di scene loro dedicate, sono indubbiamente Dotto (Doc), il leader del gruppo, con il suo pomposo farfugliare; Brontolo (Grumpy), sempre di cattivo umore, maldisposto verso Biancaneve perché teme le donne e le loro "arti subdole"; e Cucciolo (Dopey), il più giovane dei sette, che non parla "perché non ci ha mai provato". Completano il lotto Pisolo (Sleepy), Eolo (Sneezy), Gongolo (Happy) e il timido Mammolo (Bashful). Prima di scegliere i nomi e le relative personalità, Disney e i suoi collaboratori ne presero in considerazione più di cinquanta (siamo quasi di fronte agli antesignani dei Puffi)! Il numero sette, fra le altre cose, rimanda naturalmente ai sette vizi capitali, e in effetti le caratteristiche dei nani sembrano un distillato delle inclinazioni morali e universali dell'uomo (come l'ira o la pigrizia). Misteriose sono anche le loro età, quasi indefinibili: le lunghe barbe suggeriscono anzianità, eppure il loro comportamento è decisamente infantile (quando Biancaneve entra per la prima volta nella loro casa, pensa che sia abitata da bambini; e quando li rimprovera per avere le mani sporche, li tratta proprio come tali). Ma nella scena in cui pregano attorno alla bara di cristallo, sembrano una comunità di vecchi frati. Fa eccezione Cucciolo, caratterizzato in tutto e per tutto come un giovane monello, anche se è poi l'unico che richiede più volte a Biancaneve un bacio sulla bocca (gli altri si accontentano di essere baciati sulla "pelata" sotto il berretto). Infine, ci viene mostrato che i nani sono minatori: possiedono infatti una miniera di diamanti e altre gemme preziose, di cui però non è chiaro che cosa facciano: le pietre vengono semplicemente ammassate in un magazzino, la cui chiave è appesa fuori dalla porta alla mercé del primo che passa. Un'ultima considerazione: i nani sono figure classiche del folklore germanico e scandinavo, e oltre che nelle fiabe come quella dei Grimm sono presenti per esempio nell'Edda norrena (che, di converso, ha ispirato quelli che appaiono nelle saghe tolkeniane, per esempio ne "Lo hobbit", pubblicato nello stesso 1937). L'età avanzata, la professione di minatori e la vita isolata nei boschi ne fanno quasi una razza a parte, più simile agli gnomi che agli esseri umani.

Se Biancaneve è la prima di tante eroine Disney senza un padre (le figure paterne, salvo rare eccezioni – come Geppetto –, saranno essenzialmente assenti dalle pellicole disneyane fino al "Re leone" del 1994!), la regina/matrigna è la prima dei molti fortunatissimi villain della cinematografia animata, in questo caso due cattivi in uno: altrettanto memorabile della sua algida forma da sovrana, infatti, è quella decrepita e mostruosa da strega in cui si trasforma grazie alle sue arti oscure, una vera e propria megera con mani adunche e naso bitorzoluto che ricorda l'iconografia classica della befana. È degno di nota il fatto che, pur di avvicinare Biancaneve e consegnarle la mela, la perfida regina giunga a sacrificare (momentaneamente) la cosa alla quale tiene di più, ovvero la sua bellezza. Il grido di compiacimento "E ora la più bella sono io!", che Grimilde esclama nel momento in cui la fanciulla cade a terra avvelenata e lei pregusta il trionfo, è quasi paradossale: in quel momento a guardarla è tutt'altro che bella. E se poi, come si dice, la bellezza non è quella esteriore ma quella interiore, in quel momento la regina è priva sia dell'una che dell'altra. A punirla per i suoi delitti – anche in questo ci si discosta dalla fiaba dei Grimm – saranno i nani, richiamati dagli animaletti del bosco, che inseguiranno la strega sotto la pioggia con armi e bastoni (in una delle rare scene in cui non recitano ruoli buffi ma appaiono invece decisi e minacciosi), ma anche il destino, che la farà precipitare in un burrone mentre si apprestava a smuovere un enorme masso per scagliarlo sui suoi inseguitori. A chiudere il film, infine, c'è l'iconica scena del bacio del principe che risveglia la fanciulla distesa nella sua bara di cristallo (prefigurando ciò che accadrà a un'altra eroina Disney, l'Aurora de "La bella addormentata nel bosco"). Anche la magia nera, infatti, ha le sue regole, e il veleno usato dalla strega (che rende la mela di un rosso scarlatto vivissimo e innaturale, grazie anche al Technicolor) non procurava semplicemente la morte ma solo un sonno apparente che il "primo bacio d'amore" può dissolvere. Eppure, nelle prime fasi di progettazione del film si era pensato a un approccio comico anche per gli altri personaggi (come il principe o la regina), prima di riservarlo ai soli nani. Se Disney era partito da subito con l'idea di rendere questi ultimi i veri protagonisti della pellicola, la scelta di spostare il focus sul conflitto fra Biancaneve e la matrigna costrinse gli animatori ad eliminare alcune sequenze (già completate!) con i sette nani, come quella in cui mangiano la zuppa preparata da Biancaneve (che avrebbe dovuto seguire la scena, rimasta nella pellicola, in cui si lavano prima di andare a tavola).

La lunga e difficile lavorazione richiese quasi quattro anni (dall'inizio del 1934, quando – come racconta un celebre aneddoto – Walt Disney "recitò" l'intero film a voce, mimando tutti i personaggi, davanti al suo staff, fino al dicembre 1937, quando la pellicola ormai completata venne proiettata in anteprima al Carthay Circle Theatre di Los Angeles, per poi essere finalmente distribuita nelle sale di tutto il mondo – Italia compresa – nel corso del 1938) e coinvolse gran parte degli animatori che a quei tempi lavoravano negli studi Disney (situati a Hollywood, in Hyperion Avenue, e non ancora a Burbank). Scorrendo i credits – posti a inizio film, come si usava allora, e non alla fine – si riconoscono infatti molti nomi noti o destinati a diventarlo: per esempio Samuel Armstrong fra i disegnatori dei fondali, Merrill De Maris, Earl Hurd e Ted Sears fra gli autori degli storyboard, Hamilton Luske, Fred Moore, Vladimir "Bill" Tytla e Norman Ferguson fra i supervisori dell'animazione, James Algar, Art Babbitt, Les Clark, Bill Roberts, Frank Thomas, Ward Kimball, Grim Natwick e Woolie Reitherman fra gli animatori. Dei registi ho già detto sopra, mentre i character designer sono Albert Hurter e Joe Grant, i concept artist Ferdinand Hovarth e Gustaf Tenggren, e la colonna sonora (nominata all'Oscar) è firmata da Frank Churchill (per le canzoni), Leigh Harline e Paul J. Smith. La pellicola venne distribuita dalla RKO (la Buena Vista, la casa di distribuzione della stessa Disney, non esisteva ancora). Per la sua realizzazione furono necessarie ingenti risorse e anche un notevole progresso tecnologico, evidente dalla fluidità dell'animazione e dalla maestria tecnica che rimarrà a lungo ineguagliata (persino fra i lungometraggi della stessa Disney: l'unico, di quelli immediatamente successivi, che ci si avvicina è "Pinocchio"). Per i personaggi umani (Biancaneve, il principe, la regina e il cacciatore), allo scopo di ottenere un maggior realismo, in alcune scene si scelse di ricorrere alla tecnica di animazione rotoscope, che consiste nel "ricalcare" le movenze filmate di un attore in carne e ossa. La modella per Biancaneve, in particolare, fu la ballerina quindicenne Marge Belcher (la voce originale, invece, è quella della cantante italo-americana Adriana Caselotti, allora diciannovenne, la cui carriera paradossalmente ne risentì perché lo stesso Walt Disney non volle che la sua voce venisse più utilizzata successivamente in altre produzioni "per non rovinare l'illusione di Biancaneve").

Nonostante in molti, compreso suo fratello Roy e sua moglie Lillian, spaventati dal costo del film (dieci volte superiore a quello di un normale cartone animato), avessero cercato di dissuaderlo da un'impresa che altri produttori hollywoodiani consideravano "una follia", Disney riuscì alla fine nel suo intento. E la pellicola riscosse uno strepitoso successo di pubblico (per qualche tempo fu il film con il maggior incasso di sempre, superato poi da "Via col vento" un paio d'anni più tardi) e di critica (tanto che Walt ricevette, dalle mani di Shirley Temple, un Oscar alla carriera che consisteva in una statuetta di dimensioni normali attorniata da sette statuette in miniatura). Di fatto contribuì ad aumentare il prestigio della Disney, proiettandola definitivamente al di sopra di tutte le case concorrenti che lavoravano nel campo dei cartoni animati. Amatissimo da Sergej Eisenstein (che lo definì "il più grande film mai realizzato") e da Charles Chaplin, il lungometraggio spinse la MGM a mettere in cantiere "Il mago di Oz" e i fratelli Fleischer a produrre a loro volta un film d'animazione, "I viaggi di Gulliver". E naturalmente convinse definitivamente Disney che quella dei lungometraggi era la strada giusta: grazie anche ai ricchi proventi della pellicola, che consentirono di finanziare i nuovi studios di Burbank, negli anni seguenti (dal 1940 al 1942) uscirono "Pinocchio", "Fantasia", "Dumbo" e "Bambi", che insieme a "Biancaneve" compongono il gruppo dei big five, i primi cinque "classici Disney", prima che la guerra e la crisi economica spingessero lo studio a ripiegare su più economiche compilation di corti (i lungometraggi veri e propri torneranno soltanto nel 1950 con la seconda principessa, "Cenerentola"). Rieditato e ridistribuito nelle sale cinematografiche a intervalli regolari, all'epoca della sua uscita in Italia il film godette di una localizzazione con i titoli, i cartelli e persino le scritte (come quelle sui letti dei nani) nella nostra lingua. In occasione della riedizione del 1972, il film fu interamente ridoppiato perché la versione originale del 1938 era considerata troppo datata e infarcita di dialoghi eccessivamente aulici. Fra le curiosità del ridoppiaggio: nel 1938 il cacciatore ingannava la regina portandogli il cuore di un capretto, nel 1972 quello di un cinghiale (in originale era di un maiale!). Alla sua uscita il film fece molta impressione, fra gli altri, anche sul giovane disegnatore veneziano Romano Scarpa, che nel corso della sua carriera pubblicherà poi su "Topolino" diversi sequel a fumetti in cui si immagina che la strega cattiva sia sopravvissuta alla caduta nel burrone.

29 gennaio 2020

Inferno (Dario Argento, 1980)

Inferno
di Dario Argento – Italia 1980
con Leigh McCloskey, Eleonora Giorgi
**1/2

Visto in divx.

La newyorkese Rose Elliot (Irene Miracle) rimane colpita da un libro acquistato in una bottega d'antiquariato, "Le tre madri", scritto dal misterioso architetto e alchimista Emilio Varelli, che avrebbe costruito tre dimore (una a New York, appunto, e le altre a Roma e a Friburgo) per altrettante streghe, chiamate Mater Tenebrarum, Mater Lacrimarum e Mater Suspiriorum. Quando la ragazza scompare all'improvviso, suo fratello Mark (Leigh McCloskey), studente di musicologia a Roma, vola a New York per indagare, e scopre che il palazzo dove viveva nasconde inquietanti presenze... Sequel spirituale di "Suspiria" (che con questo e il successivo "La terza madre", uscito soltanto nel 2007, forma appunto una sorta di trilogia horror soprannaturale, ispirata al romanzo "Suspiria De Profundis" di Thomas de Quincey), uno dei film più barocchi e visionari di Dario Argento, realizzato quando il regista era all'apice della fortuna critica: tanto l'aspetto visivo è affascinante e inquietante, però, tanto la trama è confusa e ingenua o, più precisamente, irrilevante. Le varie sequenze sono spesso fini a sé stesse, nemmeno legate da un filo conduttore, e le azioni dei personaggi sono prive di struttura o di logica narrativa. Di fatto non c'è nemmeno un vero protagonista (Mark è una figura del tutto vuota e inconsapevole), e per lunghi tratti la vicenda passa da un personaggio all'altro: da Rose a Sara (Eleonora Giorgi), compagna di studi di Mark a Roma, dall'antiquario con le stampelle Kazanian (Sacha Pitoëff) alla contessa Elise (Daria Nicolodi). Il vasto cast comprende anche Gabriele Lavia (il giornalista Carlo), Alida Valli (la portinaia del palazzo di New York, un condominio degno delle migliori paranoie polanskiane), Leopoldo Mastelloni (l'ambiguo servitore dela contessa), Feodor Chaliapin jr. (il professor Arnold, ovvero Varelli), Veronica Lazar (Mater Tenebrarum) e Ania Pieroni (Mater Lacrimarum). La regia riesce comunque a costruire un'atmosfera ad effetto, grazie soprattutto alla fotografia (di Romano Albani) che, come in "Suspiria", abbonda di luci e di filtri colorati: il risultato è fortemente stilizzato, a volte addirittura astratto e impalbabile, compensando le mancanze strutturali della sceneggiatura. Anche se la tensione latita (rispetto ai precedenti, il film fa sicuramente meno paura), restano infatti impresse numerose sequenze: lo sguardo della ragazza con il gatto, la corsa in taxi sotto la pioggia, l'uomo divorato dai topi, l'incendio finale. Gli effetti visivi sono opera di Mario Bava, aiuto regista insieme al figlio Lamberto. La colonna sonora è di Keith Emerson, ma grande importanza in alcune scene ha anche il coro "Va, pensiero" di Giuseppe Verdi. Poco adatto il titolo (nel film non si parla mai di inferno): se proprio non andava bene l'ovvio "Le tre madri", si poteva ricorrere (in analogia con "Suspiria", incentrato su Mater Suspiriorum) a "Tenebra" (che al plurale, "Tenebre", sarà il titolo del successivo lavoro di Argento, non legato a questa trilogia).

1 gennaio 2020

Il regno delle fate (Georges Méliès, 1903)

Il regno delle fate (Le royaume des fées)
di Georges Méliès – Francia 1903
con Georges Méliès, Marguerite Thévenard
***

Visto su YouTube.

Dopo l'enorme successo del “Viaggio nella Luna” che aveva realizzato l'anno precedente, Méliès mise in cantiere altre lunghe e sofisticate pellicole di genere fantastico-avventuroso. A cominciare da quello che per molti critici rimane uno dei suoi lavori migliori (per fattura) e più ambiziosi, una movimentata fiaba ispirata – fra le altre cose – alla “Bella addormentata” di Charles Perrault. Al matrimonio della principessa Azurine (Marguerite Thévenard) con il principe Bel-Azor (Méliès stesso) appaiono quattro fate che recano doni, ma anche una strega cattiva, furiosa per non essere stata invitata, che rapisce la principessa e la fa portare nel suo castello da un'orda di demoni infernali. Armato di elmo, spada e scudo d'argento donatigli dalla fata Aurora (Bleuette Bernon), il principe salpa con i suoi uomini per andare a salvarla, ma la loro nave è affondata da una tempesta evocata dalla strega. Le fate li soccorrono e li conducono (su carrozze trainate da pesci) al regno sottomarino di Nettuno, da dove ritornano sulla terraferma portati in bocca da un'enorme balena. Penetrato nel castello della strega, il principe salva la propria sposa e, con l'aiuto di Aurora, sconfigge la megera. Il film si conclude con il corteo trionfale e i dovuti festeggiamenti (nonché l'apparizione delle culle con i numerosi principini che nasceranno!). Lungo circa 16 minuti, diviso in più tableaux, sontuoso per costumi e scenografie (che appaiono ancora più ricche nelle copie colorate a mano), il film impressiona per la commistione sempre più perfetta fra i "trucchi" da palcoscenico (fondali dipinti e semoventi, modellini, fumogeni, botole, carrucole, ecc.) e quelli cinematografici (stop action, sovrimpressioni, dissolvenze). Spettacolari, in particolare, le scene sottomarine, con veri pesci e crostacei che si muovono davanti ai personaggi (fra la macchina da presa e la scena fu collocato un acquario come nel precedente “Visite sous-marine du Maine”), e alcune rudimentali animazioni (vedi la sequenza dei fondali che si aprono l'uno dopo l'altro, che sembra anticipare l'effetto della multiplane camera della Disney). Certo, non c'è alcuna traccia del realismo, del montaggio narrativo, delle inquadrature ravvicinate o dei movimenti di macchina che i contemporanei cineasti britannici e americani stavano già cominciando a sperimentare. La differenza fra il cinema francese (rimasto ancorato ai trucchi e alle atmosfere teatrali) e quello di queste altre due nazioni (che stavano sviluppando un linguaggio più moderno) comincia a essere evidente, ma per adesso il pubblico apprezza ancora e la pellicola divenne estremamente popolare. A parte la scena finale (girata nel giardino di casa Méliès), il resto del film venne filmato in interni. Secondo alcune fonti, la strega sarebbe interpretata da un attore di teatro chiamato Durafour.

11 novembre 2019

Suspiria (Dario Argento, 1977)

Suspiria
di Dario Argento – Italia 1977
con Jessica Harper, Stefania Casini
***

Rivisto in divx.

La giovane ballerina americana Susy Benner (Jessica Harper) giunge a Friburgo, in Germania, per frequentare una prestigiosa accademia privata di danza classica. Attorno alla scuola, però, si verificano inquietanti delitti, come l'omicidio di una studentessa la notte stessa dell'arrivo di Susy. E la ragazza, la cui salute si fa man mano più cagionevole, scopre che alla fine del diciannovesimo secolo l'edificio aveva ospitato quella che si riteneva essere una congrega di streghe, il culto della cui capostipite (Elena Markos, detta "la regina nera") potrebbe essere ancora vivo... Abbandonando il giallo/thriller per darsi all'horror soprannaturale, Dario Argento firma il suo film stilisticamente più maturo e consapevole, nonché quello che internazionalmente è considerato il suo capolavoro (in patria la palma va invece ancora a "Profondo rosso"). Scritto insieme alla compagna Daria Nicolodi, il lungometraggio ha fra i suoi punti di forza la suggestiva ambientazione gotica e mitteleuropea (oltre a Friburgo e alla Foresta Nera, diverse scene sono state girate a Monaco di Baviera), la fotografia coloratissima ed espressionista di Luciano Tovoli (con toni di rosso acceso che donano alle immagini una patina fantastica e surreale: tutto in particolare richiama il sangue, dalle luci alle scenografie, a partire dalle pareti di una scuola fiabesca e barocca), le inquietanti musiche dei Goblin, i volti e le interpretazioni dei vari attori, fra giovani promesse e vecchi mostri sacri (nel cast ci sono, fra gli altri, Stefania Casini, Miguel Bosé, Alida Valli, Joan Bennett, Udo Kier e Renato Scarpa). I meccanismi di costruzione della tensione e della paranoia sono forse un po' scoperti e grossolani (rispetto, per esempio, a capolavori come "Rosemary's baby" e similari), ma anche efficaci nella loro ingenuità stilizzata. E tutti gli elementi della storia concorrono a rendere angosciante l'esperienza dello spettatore: l'ambiente rigido e severo della scuola di danza, la protagonista estraniata e fuori dal proprio mondo, il tema soprannaturale della stregoneria, per non parlare dei personaggi disturbanti (come il pianista cieco, il misterioso dottore, l'inserviente deforme, le domestiche), delle morti cruente, degli eventi misteriosi (cosa accade di notte, dopo che le alunne vanno a dormire e le insegnanti lasciano – presumibilmente – l'edificio?). Curiosità: è il primo di sei film consecutivi di Argento con il titolo composto da una sola parola. Con i successivi "Inferno" (1980) e "La terza madre" (2007) forma una sorta di trilogia, ispirata al romanzo "Suspiria De Profundis" di Thomas de Quincey. Un remake nel 2018, firmato da Luca Guadagnino.

19 aprile 2018

Big fish (Tim Burton, 2003)

Big Fish - Le storie di una vita incredibile (Big Fish)
di Tim Burton – USA 2003
con Ewan McGregor, Albert Finney
**1/2

Rivisto in DVD.

Giunto al capezzale del padre Edward Bloom (McGregor da giovane nei flashback, Finney da anziano), in fin di vita per un tumore, il figlio Will (Billy Crudup) cerca di riavvicinarsi a lui e di comprendere che uomo sia stato: questo perché da sempre i racconti di Edward, novello Barone di Munchhausen, hanno mescolato la realtà con la fantasia, rendendolo protagonista di avventure assurde e sorprendenti, fra giganti gentili, streghe che prevedono il momento della morte, idilliache città nascoste fra i boschi dell'Alabama, circhi il cui direttore è un licantropo, pesci giganti e fatati... Da un romanzo di Daniel Wallace, una riflessione sul rapporto fra padre e figlio ma ancora di più sul potere di un'immaginazione sfrenata, in grado di rendere più ricca e viva anche un'esistenza come tante altre. Eppure, qualcosa infastidisce in questo elogio della fantasia a tutti i costi, del voler convincere che una bugia colorata sia meglio di una grigia verità. E così ci si trova quasi a identificarsi o a parteggiare per il figlio, smarrito di fronte all'ingombrante figura di un padre che di fatto non ha mai imparato a conoscere veramente (perché non ha mai avuto con lui un dialogo reale e costruttivo), più che per un genitore egoista e in fondo anche un po' ipocrita, visto che, nonostante i suoi racconti di evasione ed avventura, quella a cui aspirava era un'esistenza conformista come poche altre (una mogliettina, un lavoro, una casetta con la staccionata bianca): ma questa è un po' la retro-filosofia di tutto il cinema di Tim Burton, nonché uno dei motivi per cui ideologicamente non mi ha mai conquistato. Le storie fantastiche di Edward Bloom (avventuriero, curioso e giramondo come Ulisse: il cognome joyciano non è certo casuale) non vanno naturalmente prese sul serio: sono tutte metafore o allegorie dei vari momenti della vita: per esempio, la cittadina di Spectre (nella quale Edward giunge due volte: la prima "troppo presto" e la seconda "troppo tardi") gli dimostra come "l'uomo vede le cose in modo diverso in momenti diversi della propria vita". E il pesce gigante cui Edward dà la caccia (e nel quale si trasforma al momento della sua morte) è il simbolo della sua curiosità e della sua ambizione, come quei pesci che crescono di dimensione se posti in un acquario più grande. Pur trattandosi di una produzione minore rispetto ad altre pellicole di Burton (assai limitati, per esempio, gli effetti speciali), in ogni caso è da annoverare fra i suoi lavori più sentiti e meglio riusciti. Nel cast, Alison Lohman e Jessica Lange sono Sandra, la moglie di Edward, rispettivamente da giovane e da anziana; Marion Cotillard è la moglie francese di Will; piccoli ruoli inoltre per Helena Bonham Carter (Jenny e la strega), Steve Buscemi (il poeta rapinatore), Danny DeVito (l'impresario del circo), Matthew McGrory (Karl il gigante), Ada e Arlene Tai (le gemelle siamesi). Musica di Danny Elfman.

26 marzo 2018

I am not a witch (Rungano Nyoni, 2017)

I am not a witch
di Rungano Nyoni – Zambia/Francia/GB 2017
con Maggie Mulubwa, Henry B.J. Phiri
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Visto all'Auditorium San Fedele, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

In un remoto villaggio in Zambia, gli abitanti accusano una bambina, giunta lì da sola e da chissà dove, di essere una strega. Evidentemente simili superstizioni possono essere prese sul serio, visto che le donne accusate di provocare danni di ogni tipo vengono isolate e recluse in apposite "riserve", mantenute legate a nastri bianchi per impedire loro di "volare via", costrette a lavorare nei campi o a intrattenere i turisti curiosi. La piccola bambina, ribattezzata Shula (che significa "sradicata") dalle sue protettive compagne anziane, suscita in particolare l'interesse di un funzionario governativo, il signor Banda, che ne sfrutta in ogni modo le presunte capacità (da quella di individuare a una prima occhiata il colpevole di un furto o di un delitto, scegliendolo fra i vari sospetti portati in tribunale, a quella di provocare la pioggia tanto attesa nei momenti di siccità). E la piccola Shula, taciturna dallo sguardo intenso, comincia a pensare che forse essere una strega non è poi questa gran cosa... Il bel film che ha vinto il primo premio al Festival del cinema africano di Milano è l'opera prima (dopo alcuni corti) di una regista zambiana trapiantata in Galles, che racconta una storia insolita e, in teoria, drammatica, con uno sguardo leggero, dai toni ironici e surrealisti, tanto che alcuni critici l'hanno paragonato ai lavori di Lanthimos o di Jodorowsky. Colpisce soprattutto come una superstizione che affonda le sue radici nelle tradizioni locali (e che un tempo, in fondo, aveva il suo corrispettivo in ogni parte del mondo, Italia compresa) sia ancora così accettata e presa sul serio anche in piena modernità, in un contesto dove ormai sono diffuse la scienza, i cellulari, i programmi televisivi e le automobili. A contribuire alla riuscita della pellicola e alla sua strana qualità, un misto di commedia satirica e dramma antropologico, c'è soprattutto lo sguardo della piccola protagonista, attraverso i cui occhi da bambina osserviamo anche noi tutta l'assurdità del mondo. Ma restano impresse anche l'eccentricità dei personaggi di contorno, parecchie immagini altamente simboliche (i nastri di seta, avvolti in enormi rulli, che limitano il raggio d'azione delle "streghe") e l'utilizzo della musica di Vivaldi.

26 ottobre 2017

Drag me to hell (Sam Raimi, 2009)

Drag me to hell (id.)
di Sam Raimi – USA 2009
con Alison Lohman, Justin Long
**1/2

Visto in TV.

Per ingraziarsi il suo capo nella speranza di ricevere una promozione, l'impiegata di banca Christine (Lohman) rifiuta un prestito a una vecchia zingara, e viene da questa maledetta: sarà tormentata per tre giorni da uno spirito maligno, la Lamia, che minaccia di portarla con sé all'inferno. Scritto da Raimi insieme al fratello Ivan, un horror spigliato, divertente e vecchia maniera, con un plot assai semplice e un finale a suo modo sorprendente. Senza troppe pretese, il film ci mostra un crescendo di situazioni legate alla maledizione che la povera Christine cerca di togliersi di dosso, anche con l'aiuto di un veggente indiano che cita Jung (Dileep Rao) e una sensitiva messicana (Adriana Barraza), il tutto mentre tenta di barcamenarsi fra il lavoro (con un collega sleale che prova a farle le scarpe) e l'amore (la prima cena a casa dei futuri suoceri si trasforma in un disastro). Si passa così dalle prime inquietanti manifestazioni dello spirito maligno (allucinazioni, ombre, oggetti che si muovono) ad altre sempre più esplicite e pericolose, fino al tentativo di sbarazzarsene "regalando" a qualcun altro l'oggetto che ha scatenato la maledizione (con echi de "Il diavolo nella bottiglia" di Stevenson). Dopo oltre un decennio, Raimi torna al genere che lo ha reso famoso e dimostra di non aver perso la mano: il film regge fino alla fine senza cali di ritmo o di tensione, concedendosi non pochi tocchi ironici ma senza mai tradire il pubblico (è un vero horror, per quanto leggero e ingenuo, e non una sua parodia). Justin Long è il fidanzato "scettico" di Christine, Lorna Raver è la vecchia strega zingara. L'automobile di quest'ultima, una Oldsmobile Delta 88 gialla del 1973, è apparsa in quasi tutti i film del regista.

17 agosto 2015

Into the woods (Rob Marshall, 2014)

Into the woods (id.)
di Rob Marshall – USA 2014
con Meryl Streep, James Corden
**

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Il bosco è il luogo dell'inconscio, dei desideri e delle magie. E nel bosco si intrecciano le vicende di tante celebri fiabe, i cui personaggi (Cenerentola, Cappuccetto Rosso, Raperonzolo – qui con il nome inglese, come nella versione disneyana, di “Rapunzel” – e Jack della pianta di fagioli) si incontrano e interagiscono fra loro. Filo conduttore è la storia di una coppia di fornai (James Corden ed Emily Blunt) ai quali una strega (Meryl Streep), per sollevare la maledizione che impedisce loro di avere bambini, ha chiesto di trovare i quattro ingredienti che le servono per riottenere la giovinezza perduta: una mucca bianca come il latte, una mantella rossa come il sangue, una scarpetta pura come l'oro e una ciocca di capelli biondi come il grano. Da un musical di Broadway (di Stephen Sondheim e James Lapine), il regista Rob Marhsall – che nel genere aveva già dato con “Chicago” – trae un film che “gioca” con le fiabe: non solo, come detto, intrecciandole fra di loro (di fatto si immagina che le vicende siano contemporanee e avvengano tutte nella stessa regione, fra due regni separati dal bosco, tanto che anche i vari “principi azzurri” – quello di Cenerentola e quello di Rapunzel – sono fra di loro fratelli), o parodizzandone certi elementi (una Cappuccetto Rosso ingorda, che si mangia i dolci destinati alla nonna, per esempio), ma anche andando ad esplorare cosa accade ai personaggi dopo il fatidico “e vissero felici e contenti”. Le loro vicende proseguono infatti ben oltre il finale tradizionale, spesso prendendo brutte pieghe: e così scopriamo che Cenerentola non resterà a lungo con il suo principe, che Jack avrà ancora a che fare con i giganti, e così via. All'inizio divertente, man mano che prosegue il film diventa però sempre più pasticciato e, peggio ancora, noioso. Oltre che senza particolare spessore, colmo com'è di morale hollywoodiana. Colpa anche di canzoni musicalmente monotone ma soprattutto con testi didascalici e retorici. Nel cast Anna Kendrick, Chris Pine, MacKenzie Mauzy e Billy Magnussen. Piccola parte per Johnny Depp nei panni del lupo cattivo.

19 maggio 2015

Il racconto dei racconti (M. Garrone, 2015)

Il racconto dei racconti (Tale of Tales)
di Matteo Garrone – Italia 2015
con Salma Hayek, Vincent Cassel
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Visto al cinema Arcobaleno, con Sabrina, Daniela e Alessandro.

"Lo cunto de li cunti" è una raccolta di cinquanta fiabe popolari, scritta in napoletano nel 1600 da Giambattista Basile. Garrone sceglie di adattarne tre, che si alternano sullo schermo con i loro motivi e i loro simboli, sullo sfondo di un mondo barocco e incantato. Nella prima favola ("La regina"), il desiderio di avere un figlio è forte a tal punto che una sovrana (Salma Hayek) fa ricorso alla magia per ottenerlo: contemporaneamente, però, una giovane serva dà la luce a un ragazzo identico al principe. I due gemelli (Christian e Jonah Less) crescono come amici inseparabili. E quando la regina scaccerà dal regno il figlio della serva, il giovane principe – allertato da una sorgente magica, la limpidezza della cui acqua lo avvisa dello stato di salute dell'amico – partirà alla sua ricerca. Nella seconda ("La pulce"), una principessa (Bebe Cave) sogna di sposarsi e di lasciare il castello dove è sempre vissuta. Suo padre (Toby Jones), però, è costretto a concedere la sua mano a un mostruoso orco, l'unico che ha saputo indovinare da quale animale proviene la pelle che il sovrano ha steso nella sala del trono (ovvero da una pulce!). Nella terza ("Le due vecchie"), un re lascivo (Vincent Cassel) si innamora di Dora (Hayley Carmichael) dopo averla udita cantare, ignorando che non si tratta di una giovinetta ma di una vecchia. Grazie a una strega, Dora tornerà magicamente giovane (Stacy Martin) e sposerà il re, scatenando l'invidia della sorella Imma (Shirley Henderson). Un cast internazionale (ci sono anche John C. Reilly, Guillame Delaunay, Alba Rohrwacher e Massimo Ceccherini) e una confezione che poco ha da invidiare ai fantasy hollywoodiani (la fotografia di Peter Suschitzky, le musiche "elfmaniane" di Alexandre Desplat) per un film che in realtà è assai distante per ritmo e contenuti dalle pellicole di intrattenimento adolescenziale: proprio come le fiabe di Basile (che, nonostante il sottotitolo "lo trattenemiento de peccerille", sono più adatte ai lettori adulti), la pellicola presenta un complesso substrato di significati psicologici e dinamici, per non parlare di connotazioni quasi horror secondo i criteri odierni. Girato in spettacolari e celebri location dell'Italia centrale e meridionale (si riconoscono le gole di Alcantara, la fortezza di Castel del Monte, il castello di Donnafugata con il labirinto, Civita di Bagnoregio, il castello di Roccascalegna, quello di Sammezzano, e il Palazzo Reale di Napoli), il film dà vita a un microcosmo suggestivo e caleidoscopico, popolato da creature fantastiche (il drago d'acqua, mostri vari), orchi, maghi e streghe, ma soprattutto da esseri umani i cui desideri e i peccati, i vizi e le virtù, sono spesso pronti a essere puniti dal destino. Come nei precedenti lavori di Garrone (si pensi a "Primo amore" o a "Reality"), uno dei temi principali è l'ossessione o il desiderio di qualcosa che, forse, sarebbe meglio non ottenere ("Sta attento a cosa desideri", diceva Oscar Wilde), che si tratti di un figlio, di un marito o della giovinezza (spesso raggiunti attraverso una magia che chiede sempre un prezzo in cambio di ciò che concede). Altro tema è quello dell'abbandono, o dell'incapacità di accettare una separazione (la regina non riesce a separarsi dal figlio, la vecchia Imma dalla sorella, il re dalla sua pulce domestica, alla quale sembra più interessato che non alla figlia). Il montaggio alterna le tre storie, che non si incrociano mai: gli unici momenti in cui si sfiorano sono quelli in cui – in occasione di un funerale, di un matrimonio o di un'incoronazione – i sovrani dei regni vicini si presentano nei castelli dei propri confinanti.

27 febbraio 2014

Macbeth (Roman Polanski, 1971)

Macbeth (id.)
di Roman Polanski – GB/USA 1971
con Jon Finch, Francesca Annis
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Rivisto in DVD.

Il guerriero scozzese Macbeth, al quale tre streghe hanno preannunciato l'ascesa al trono, si impegna per far avverare la profezia, rendendosi colpevole di efferati delitti. Ciò che più colpisce in questo adattamento della tragedia shakesperiana è la concretezza palpabile della messa in scena, del tutto priva di quella "artificialità" tipica del palcoscenico e anche di tante versioni cinematografiche di opere teatrali. Merito soprattutto dell'ambientazione quasi barbarica voluta da Polanski e delle sue location "povere" ma di grande qualità visiva: le highlands battute dal vento, le brughiere desolate, i castelli rocciosi, i cortili, la terra e la pietra, dove si snoda una una vicenda archetipica e ancestrale di ambizione, tradimento e di morte. E poi c'è la violenza: il sangue copioso sullo schermo, con teste mozzate, carneficine e un tono cruento, cupo e opprimente che molti critici hanno collegato direttamente allo stato d'animo del regista (si trattava del primo film girato dopo il massacro della moglie Sharon Tate da parte di Charles Manson: significativa, al riguardo, l'intensità emotiva della scena in cui gli sgherri di Macbeth trucidano la moglie e il figlio di Macduff). Polanski riesce anche ad evitare le "trappole" del confronto con le grandi versioni cinematografiche che l'avevano preceduto (quelle di Welles e di Kurosawa), realizzando un film che vive di vita propria. Pur non sacrificando la fedeltà al testo di partenza, l'adattamento (opera del regista stesso, in collaborazione con il critico teatrale Kenneth Tynan) utilizza le immagini per costruire qualcosa di nuovo e dare ulteriore e ambiguo significato ad alcuni personaggi minori: si pensi a Ross, sviluppato ben oltre il suo ruolo originario e trasformato in un machiavellico opportunista; o a Donalbain, il figlio minore di Re Duncan, che nel finale si reca presso l'antro delle streghe, come a suggerire che il ciclo della violenza non avrà mai fine. Tutto questo senza però aggiungere ulteriori battute a quelle previste da Shakespeare, le cui parole risuonano sullo schermo con alternanza fra il parlato e il pensato (i soliloqui sono rappresentati, in maniera assai naturalistica, con la voce fuori campo), sostenute dalle recitazioni intense e credibili di un cast di attori in gran parte britannici: oltre a Jon Finch nel ruolo di Macbeth e a Francesca Annis in quello di sua moglie, ci sono Martin Shaw (Banquo), Terence Bayler (Macduff), John Stride (Ross) e Nicholas Selby (Duncan). Degna di nota anche la colonna sonora, firmata dal gruppo progressive Third Ear Band. Il film fu prodotto da Hugh Hefner (sì, quello di "Playboy"!), dopo che tutte le major hollywoodiane avevano rifiutato di finanziarlo.

15 maggio 2012

Dark Shadows (Tim Burton, 2012)

Dark Shadows (id.)
di Tim Burton – USA 2012
con Johnny Depp, Eva Green
*1/2

Visto al cinema Arcobaleno, con Sabrina.

Barnabas Collins, rampollo di una ricca famiglia europea di commercianti ittici trasferitisi nel New England nel diciottesimo secolo, viene trasformato in vampiro dalla gelosa strega Angelique, il cui amore aveva incautamente respinto. Dopo essere rimasto chiuso in una bara per quasi duecento anni, si risveglia in pieni anni settanta, entra in contatto con un mondo profondamente cambiato e scopre che i suoi discendenti se la passano male: farà di tutto per rimettere in sesto l’azienda di famiglia, anche perché dall’altro capo della barricata (in affari così come in amore) c’è ancora Angelique… Ispirato a una vecchia serie televisiva americana da noi sconosciuta, un progetto che aggiunge ben poco alle filmografie di Burton e di Depp. Pellicola dopo pellicola, il regista americano pare ormai chiudersi sempre di più nel suo universo gotico, manierista e autoreferenziale: qui cura solamente le scenografie e l’aspetto ‘dark’ dei personaggi, senza apparente interesse per la sceneggiatura o l’equilibrio complessivo del film, fra characters che entrano e escono a casaccio dalla storia, scomparendo per lunghi tratti di pellicola per poi ricomparire all’improvviso, elementi narrativi calati dal nulla (la licantropia della figlia maggiore), caratterizzazioni piatte e banali, gag stiracchiate e poco divertenti, incertezze sui toni da adottare (la commedia famigliare, il melodramma romantico, la ghost story, l’action soprannaturale) e una complessiva povertà di contenuti e di significati. Alla fine il lungometraggio si tiene a galla soltanto grazie agli interpreti e alla confezione (la fotografia è del francese Bruno Delbonnel, quello di “Amelie”). Anche l’ambientazione negli anni settanta, potenzialmente interessante, è poco sfruttata e si limita a uno sfondo costituito da luoghi comuni: un paio di accenni alla guerra, gli hippy più stupidi e stereotipati possibili, qualche brano musicale e una battuta (quella sul nome “femminile” di Alice Cooper) ripetuta almeno cinque volte. Depp, in compenso, sembra nato per fare il vampiro, così come Eva Green per fare la ‘vamp’. Nel cast anche Michelle Pfeiffer, Helena Bonham Carter (cui sono riservate diverse scene e battute piuttosto "cattive"), Chloë Moretz, Jackie Earle Haley e la semiesordiente Bella Heathcote nel ruolo della ragazza di cui Barnabas si innamora. In più, camei di Christopher Lee (il vecchio pescatore) e di Alice Cooper (nei panni di sé stesso).