31 marzo 2008

Kirikù e gli animali selvaggi (M. Ocelot, 2005)

Kirikù e gli animali selvaggi (Kirikou et les bêtes sauvages)
di Michel Ocelot, Bénédicte Galup – Francia 2005
animazione tradizionale
**1/2

Visto in DVD, con Elena.

Più uno spin-off che un sequel, questo film non aggiunge molto di nuovo all'universo di Kirikù creato da Ocelot con la prima pellicola ("Kirikù e la strega Karabà"), ma ne ripropone l'ambientazione, i personaggi e i bellissimi disegni attraverso una serie di episodi decisamente più minimalisti e infantili che si svolgono contemporaneamente alle vicende precedenti. Scopriamo così come Kirikù abbia avuto a che fare con una serie di animali più o meno amichevoli (una iena, un bufalo, una giraffa) e come la sua saggezza e la sua intraprendenza (è stato giardiniere, vasaio, mercante, medico) abbiano salvato più volte il villaggio nei momenti di difficoltà. Carino, ma non all'altezza del film originale.

Kirikù e la strega Karabà (M. Ocelot, 1998)

Kirikù e la strega Karabà (Kirikou et la sorcière)
di Michel Ocelot – Francia/Belgio 1998
animazione tradizionale
***1/2

Rivisto in DVD.

Ispirato a fiabe e leggende dell'Africa occidentale, è lo straordinario film che mi ha fatto conoscere il talento di Ocelot. Animazione bidimensionale e "povera" fin che si vuole, ma elegante, colorata (si dice che il regista abbia preso spunti anche dai dipinti "primitivi" di Henri Rousseau) e piena di invenzioni visive (gli alberi di corallo, i feticci di legno), con una storia che offre diversi livelli di lettura e risulta avvincente sia per i bambini (per l'avventura, gli animali esotici, la simpatia del protagonista) sia per gli adulti (per i temi antropologici, il fascino del mito, il sorprendente finale). Kirikù, stupefacente neonato che parla ancora prima di venire alla luce e che "si mette al mondo da solo", è una creatura curiosa, saggia e coraggiosa che protegge il proprio villaggio dalle angherie della minacciosa strega Karabà. Costei non solo ha "divorato" tutti gli uomini, lasciando al villaggio soltanto le donne, i vecchi e i bambini, ma pretende tributi e gioielli con la minaccia di privare gli abitanti di ogni risorsa, acqua compresa, e di scatenare i suoi feticci, statuette di legno animate che si muovono come robot. Dopo un lungo viaggio pieno di pericoli, Kirikù scoprirà la verità su di lei. Una delle morali più indovinate della fiaba è quella della relatività del bene e del male: ben lungi dal voler distruggere la strega, il piccolo protagonista ne è invece innamorato ed è curioso di scoprire il motivo per cui essa è cattiva. La musica di Youssou N'Dour contribuisce a rendere il film un autentico gioiellino, una delle opere più fresche che il cinema d'animazione abbia partorito negli ultimi anni.

30 marzo 2008

Superman vuole uccidere Jessie (V. Vorlícek, 1966)

Superman vuole uccidere Jessie (Kdo chce zabít Jessii?)
di Václav Vorlícek – Cecoslovacchia 1966
con Jirí Sovák, Dana Medrická
***

Visto in DVD, con Martin, in originale con sottotitoli.

Una scienziata mette a punto un sofisticato apparecchio per visualizzare i sogni degli esseri viventi e persino un siero in grado di eliminare gli incubi sgradevoli, ma quando scopre che il marito di notte sogna la sexy eroina di una serie a fumetti (anche se in realtà desidera soltanto i guanti anti-gravitazionali che lei indossa), per gelosia decide di utilizzarlo su di lui. Peccato però che l'invenzione abbia come effetto collaterale quello di materializzare i sogni nel mondo reale: e così la procace (e geniale) Jessie e i suoi due nemici, un malvagio supereroe e un burbero cowboy, seminano il panico per le strade di Praga, pur continuando a comportarsi come in un fumetto e a parlare attraverso balloon. Un film incredibile e divertente, surreale e fantasioso, che forse sorprenderebbe meno se provenisse dagli Stati Uniti o dalla Francia, colmo com'è di suggestioni e riferimenti alla cultura pop fantascientifica e (soprattutto) fumettistica degli anni cinquanta-sessanta: una vera e propria sorpresa per chi fosse convinto che il cinema nei paesi del blocco orientale fosse esclusivamente lento, impegnato e tarkovskiano! Non per nulla lo scenario culturale cecoslovacco era ben più vivace e fresco di quello della Germania dell'Est (si pensi anche ai primi film di Forman). Il tono da commedia brillante, il ritmo e le gag non hanno nulla da invidiare ad alcune pellicole di Wilder, Hawks ("Il magnifico scherzo") o Lubitsch, gli elementi fantastici e fumettistici (che anticipano addirittura "Barbarella" e il telefilm di Batman) aggiungono vivacità e colpi di scena, e c'è persino qualche accenno di satira sociale (a spese dei pianificatori, degli scienziati, dei giudici, dei poliziotti, dei secondini, oltre che naturalmente dei rapporti di coppia...). Il fumetto da cui provengono Jessie e i suoi due nemici (il cui titolo, nonché quello originale del film, è "Chi vuole uccidere Jessie?") è dichiaratamente ispirato a serie tipo "The perils of Pauline" o al personaggio di Gwendoline di John Willie, ovvero al filone delle damsel in distress, nel quale al termine di ogni puntata la protagonista si trovava legata e alla mercé dei cattivi, per poi riuscire a sfuggire in qualche modo nell'episodio successivo. In America si pensò addirittura di farne un remake con Jack Lemmon e Shirley MacLaine nelle parti dei due coniugi protagonisti (mentre Juraj Visny, Karel Effa e la graziosissima Olga Schoberová, che interpretano i tre personaggi del fumetto, avrebbero mantenuto i propri ruoli: fra l'altro, grazie all'uso dei balloon, non avrebbero certo avuto bisogno di imparare l'inglese!), poi l'occupazione della Cecoslovacchia nel 1968 mandò a monte il progetto. In Italia alcune scene del film vennero tagliate e altre, girate appositamente, vennero aggiunte. Il bel DVD, che fa parte del cofanetto "Stelle Rosse 2", contiene entrambe le versioni.

Batman & Robin (J. Schumacher, 1997)

Batman & Robin (id.)
di Joel Schumacher – USA 1997
con George Clooney, Arnold Schwarzenegger
*1/2

Rivisto in DVD.

Ancora più infantile e fracassone del terzo episodio (e stavolta persino Burton si defila completamente, visto che risulta assente anche come producer), il quarto film di Batman si rifà a un concetto del personaggio (e di supereroe) rimasto fermo agli anni sessanta. La fotografia e le luci sono sempre più colorate, le inquadrature sghembe come nel telefilm, i personaggi ridicoli e dialoghi colmi di doppi sensi e battutine da scuola elementare. Nonostante il titolo (che forse sarebbe stato più adatto al film precedente), adesso gli eroi sono in tre: a Batman e Robin si aggiunge anche Batgirl, una Alicia Silverstone che eccede in smorfie. I cattivi, invece, sono sempre due: un improponibile Schwarzy nei panni di Mr. Freeze (personaggio davvero minore, non lo ricordo affatto nei fumetti) e un'affascinante Uma Thurman come Poison Ivy (l'unica davvero efficace del cast e l'unica a salvare parzialmente il film). Non mancano comunque comparsate di altri character che diranno qualcosa ai lettori dei comics: da Jason Woodrue ("l'uomo floronico" dello Swamp Thing di Alan Moore, qui completamente snaturato) al Flagello (Bane). Maggiore importanza rispetto ai film precedenti l'ha anche il maggiordomo Alfred, colpito da una strana malattia che naturalmente trova una rapida cura nel finale. Clooney, un Batman brizzolato, non fa molto meglio dei suoi due predecessori nel rendere giustizia all'uomo pipistrello e si esibisce in gag pietose (come quella della carta di credito), mentre Robin entra in conflitto con l'amico per l'amore della bella Ivy. Carine comunque alcune scenografie, come le statue colossali che reggono strade ed edifici di Gotham.

29 marzo 2008

Schiava d'amore (N. Michalkov, 1975)

Schiava d'amore (Raba ljubvi)
di Nikita Michalkov – URSS 1975
con Elena Solovéj, Rodion Nachapetov
**1/2

Rivisto in DVD alla Fogona, con Marisa.

È il secondo lungometraggio di Michalkov, ma il primo ad aver avuto una certa notorietà in occidente. Basato su una sceneggiatura del fratello Andrei Konchalovsky (il futuro regista di "A trenta secondi dalla fine" che – a differenza di Nikita – ha scelto di usare il cognome della madre), a sua volta rimaneggiamento di un film dallo stesso titolo che era rimasto incompiuto per dissidi fra il precedente regista e la casa di produzione, è ambientato a Odessa e in Crimea nell'ottobre del 1918, ossia quando il paese era scosso dalla guerra civile. Ma gli eventi storici sembrano lontani, confinati a Mosca, mentre a Odessa – nonostante la mobilitazione dell'esercito contro i sovversivi rivoluzionari – l'attrice Olga Voznesenskaja (Elena Solovéj) e la troupe del film muto che sta girando (un melodramma esotico e strappalacrime intitolato appunto "Schiava d'amore") sembrano immersi in un'atmosfera onirica ed estraniante. Pur frivola e capricciosa, l'attrice però si annoia e sogna di impegnarsi attivamente in qualcosa di concreto: e riesce ad soddisfare la propria coscienza sociale aiutando un operatore di cui è innamorata e che è compromesso con i bolscevichi. Il film, piuttosto piacevole, non punta tanto le sue carte sulla ricostruzione storica quanto su barlumi di quell'atmosfera conviviale e "cechoviana" che diventerà il marchio di fabbrica del regista russo (si pensi per esempio al successivo "Partitura incompiuta per pianola meccanica"). I personaggi sembrano quasi lasciarsi trasportare dagli eventi ed essere in perenne attesa che il destino decida per loro quale sia la giusta direzione da prendere. La protagonista Olga è ispirata alla diva del cinema muto russo Vera Cholodnaja.

28 marzo 2008

Tickets (Olmi, Kiarostami, Loach, 2005)

Tickets
di Ermanno Olmi, Abbas Kiarostami, Ken Loach – Italia/GB 2005
con Carlo Delle Piane, Silvana de Santis
**

Visto in divx alla Fogona.

Tre episodi – ambientati in un convoglio ferroviario – che sfumano l'uno nell'altro senza una separazione netta, con alcuni personaggi comuni che "traghettano" lo spettatore attraverso le varie storie. Nel segmento di Ermanno Olmi (*1/2), un anziano farmacologo (Delle Piane) che sta tornando in Italia dalla Germania rimpiange un possibile amore mai nato con la bella interprete (Valeria Bruni Tedeschi) che lo ha aiutato a trovare il posto in treno. Mentre i vagoni vengono perlustrati da una pattuglia di militari alla misteriosa ricerca di qualcosa, il professore ha un gesto di solidarietà nei confronti di un bambino albanese in viaggio con la sua famiglia. Nell'episodio di Abbas Kiarostami (**), un giovane che sta svolgendo il servizio civile pianta in asso l'arrogante e odiosa moglie di un generale che deve accompagnare e che lo schiavizza in continuazione. Nell'episodio di Ken Loach (**1/2), infine, tre tifosi scozzesi della squadra di calcio del Celtic, in viaggio verso Roma per assistere a una partita, cedono generosamente uno dei loro biglietti alla famiglia albanese di cui sopra, per poi sfuggire alla polizia una volta giunti in stazione grazie all'aiuto dei tifosi romanisti. L'ambientazione all'interno di un convoglio di Trenitalia è il filo conduttore dell'intera pellicola, ma solo Loach sfutta anche il titolo del film ("Biglietti"). Nel complesso, una pellicola che non graffia e non colpisce particolarmente. Olmi è troppo populista, Kiarostami è simpatico ma effimero, solo Loach mette in scena dei "veri" personaggi.

Uomo bianco, tu vivrai! (J. L. Mankiewicz, 1950)

Uomo bianco, tu vivrai! (No way out)
di Joseph L. Mankiewicz – USA 1950
con Richard Widmark, Sidney Poitier
**1/2

Visto in DVD.

Per ricordare il grande caratterista Richard Widmark, scomparso un paio di giorni fa, mi sono guardato questo bel drammone a sfondo sociale (anche se il titolo italiano fa pensare semmai a un western revisionista!) in cui interpreta la parte di un cattivone balordo e razzista, ricoverato in ospedale insieme al fratello dopo essere rimasto ferito in una tentata rapina. Quando il fratello muore sotto i ferri di un giovane medico di colore (Poitier, al suo esordio sullo schermo), Widmark lo accusa senza mezzi termini di averlo ucciso e provoca una tumultuosa rivolta contro i neri nei bassifondi della città. L'unico modo che il medico avrebbe per dimostrare di aver agito correttamente sarebbe quello di fare l'autopsia del cadavere, ma ovviamente il fratello rifiuta di dare il suo assenso. Insolitamente duro per l'epoca, il film è solido grazie agli ottimi protagonisti (ci sono anche Linda Darnell nei panni della vedova del paziente morto, inizialmente a sua volta razzista ma che poi si ravvede, e Stephen McNally in quelli del primario dell'ospedale che nutre fiducia nell'operato del medico) e al grande mestiere del regista-sceneggiatore. Parallelo al conflitto razziale c'è il (consueto per Mankiewicz) conflitto di classe, dove i rapporti di forza fra le parti sono curiosamente invertiti: Poitier, come gli altri medici, è infatti educato e benestante, mentre Widmark e la Darnell sono di bassa estrazione.

27 marzo 2008

Poliziotto in blue jeans (B. Evans, 1992)

Poliziotto in blue jeans (Kuffs)
di Bruce A. Evans – USA 1992
con Christian Slater, Milla Jovovich
**1/2

Visto in divx alla Fogona.

Un film che si apre con una Milla Jovovich sedicenne che balla in mutande e maglietta non può essere veramente brutto, nemmeno se se ha una trama piuttosto stereotipata e se Milla è soltanto una comprimaria. E infatti non mi è affatto dispiaciuto, anzi a tratti l'ho trovato piuttosto divertente. Il giovane e impulsivo protagonista, George Kuffs, non sa bene cosa fare della propria vita, ma quando il fratello poliziotto viene ucciso da un malvivente che viene poi lasciato in libertà, decide di arruolarsi a propria volta per fare giustizia. Il tono della pellicola però è leggero, quasi comico, con scene come quella dell'agguato del killer a casa di George che sembrano uscite da un film di Jackie Chan, arti marziali a parte. Slater rompe continuamente il "quarto muro", guardando in camera e parlando con gli spettatori (lo fa persino quando è imbavagliato, aiutato dai sottotitoli!). Ambientato a San Francisco, il film affronta anche il tema delle pattuglie speciali, poliziotti "privati" pagati direttamente dai cittadini, che collaborano con i veri agenti e si possono passare la licenza in eredità. Una serie di personaggi simpatici e ben caratterizzati completa una pellicola d'azione senza pretese ma piuttosto godibile e con una discreta verve.

26 marzo 2008

La regola del gioco (J. Renoir, 1939)

La regola del gioco (La règle du jeu)
di Jean Renoir – Francia 1939
con Marcel Dalio, Nora Grégor
***1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Era la prima volta che vedevo questo classico, considerato da alcuni (Truffaut, per esempio) uno dei film più belli di tutti i tempi. Aperta da una citazione di Beaumarchais, la pellicola è dichiaratamente ispirata a "Le nozze di Figaro": ma l'ambientazione alla vigilia della seconda guerra mondiale la rende un ritratto di un mondo che sta per scomparire, quello di un'alta borghesia frivola e svagata che non sarebbe sopravvissuta al conflitto imminente. Nella tenuta di campagna del marchese Robert de la Cheyniest vengono accolti numerosi ospiti per una settimana di divertimento che prevede una battuta di caccia. Fra gli invitati c'è l'aviatore André Jurieux, il nuovo idolo delle folle che ha appena compiuto una trasvolata oceanica e che è innamorato della marchesa Christina, come ben tutti – compreso il marito – sanno. Anche il marchese ha comunque la sua amante, Geneviève, che ha però intenzione di lasciare. I tradimenti amorosi non mancano nemmeno dal lato della servitù: la cameriera della marchesa, Lisette, accetta di buon garbo la corte dell'ex bracconiere e ora domestico Marceau, scatenando la gelosia del marito e guardiacaccia Schumacher (il cui nome è pronunciato da tutti alla francese, Sciumascèr). Una scena nel finale rispecchia quasi alla lettera quella della commedia di Beaumarchais (e dell'opera di Da Ponte/Mozart), con la marchesa che si incontra con uno dei suoi spasimanti nella serra del giardino, indossando il mantello della sua cameriera. Il ritmo vivace, la ricchezza dei personaggi, la fluidità dei sentimenti (non è mai chiaro chi ami veramente chi, e se la marchesa o anche la cameriera intendano restare fedeli ai mariti o consegnarsi ai propri amanti; gli uomini, a dire il vero, sembrano decisamente più stabili nei sentimenti) rendono la pellicola un piccolo capolavoro "fuori dal tempo" (e infatti fu rifiutato dal pubblico), più simile alle commedie degli anni venti e dei primi anni trenta, come quelle di Lubitsch, che al cinema contemporaneo e successivo. Anche il regista recita sullo schermo nei panni di Octave, amico del marchese e di Julian e confidente (innamorato) di Christina. Il "gioco" del titolo è naturalmente quello amoroso, che ha anch'esso le sue inderogabili regole e prevede drammatiche conseguenze per chi non le rispetta. Celebre la battuta "Il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni".

25 marzo 2008

Batman forever (J. Schumacher, 1995)

Batman forever (id.)
di Joel Schumacher – USA 1995
con Val Kilmer, Chris O'Donnell
*

Visto in DVD.

Dal terzo episodio Burton si limita a produrre e lascia la manovella al mediocre Schumacher. Anche Keaton si defila dal ruolo dell'uomo pipistrello, ma non è che le cose migliorino di molto con l'ingessatissimo Kilmer. Con il passaggio di consegne tra i registi si passa dall'estetica del cinema a quella del telefilm, dalle scenografie gotico-futuristiche a quelle di un parco dei divertimenti, da una Gotham City labirintica e oscura a una città finta, plasticosa e coloratissima, con neon e luci fluorescenti. Le psicologie (già semplici) si superficializzano, i cattivi si riducono a mostri ridacchianti. Due Facce, in particolare, è la delusione maggiore: si trattava probabilmente del più interessante fra tutti i nemici di Batman nel fumetto, eppure qui (lo interpreta Tommy Lee Jones) non lascia alcuna traccia di sé: le sue origini sono rivelate en passant, in una decina di secondi o forse meno, senza evidenziare alcun legame con l'Harvey Dent visto nel primo film della saga, mentre le riflessioni sulla sua doppia natura si limitano alla scena – carina – della dimora divisa in due, con tanto di doppia amante (quella "angelica" è Drew Barrymore!). A rubare la scena è invece Jim Carrey, alias l'Enigmista, ma solo perché la sua mimica facciale spicca rispetto alla mancanza di recitazione del resto del cast, compresa una Nicole Kidman che non si spreca certo negli inutilissimi panni di una psicologa innamorata di Batman. Come se non bastasse, ecco Robin: non se ne sentiva certo la mancanza, ma se non altro avrebbero potuto scegliere un attore più giovane del venticinquenne O'Donnell. Forse si voleva evitare ogni possibilità di lettura ambigua del rapporto fra i membri del Dinamico Duo? In ogni caso, il peggio del film è dato senza dubbio dalla sceneggiatura, puerile e noiosa, che tocca il punto più basso nei dialoghi fra la Kidman e Kilmer, fra allusioni, battute e frecciatine.

Tutta colpa di Voltaire (A. Kechiche, 2000)

Tutta colpa di Voltaire (La faute à Voltaire)
di Abdellatif Kechiche – Francia 2000
con Sami Bouajila, Élodie Bouchez
**

Visto in divx.

È il primo lungometraggio del franco-tunisino Kechiche, autore in seguito del bellissimo "La schivata" e del sopravvalutato "Cous cous". Da subito mette in scena personaggi e situazioni di un paese multietnico e multiculturale, o almeno che vorrebbe esserlo ma non si accorge (alla faccia di Voltaire, appunto) di emarginare gli stranieri e di costringerli a una vita quasi parallela (immigrati e francesi non si incrociano praticamente mai, come se vivessero in due mondi a parte). Jellal, il protagonista, è un sans-papier appena arrivato in Francia. Pur senza permesso di soggiorno, riesce a trovare ospitalità in un ostello per stranieri e senzatetto e si adatta vendendo prima frutta nella metropolitana e poi rose per la strada. Una relazione infelice con una giovane cameriera di un bar lo conduce a un periodo di depressione e a un breve ricovero in un ospedale psichiatrico, dove conosce una giovane sciroccata e appiccicosa che si affeziona a lui. Ma per tutta la vicenda incombe un senso di precarietà: Jallel e i clandestini come lui fanno fatica a costruire un rapporto con le persone, gli amici, una donna, e poi all'improvviso tutto può infrangersi in un solo momento, con un controllo della polizia e un rimpatrio forzato. E il finale giunge così improvviso, come la vita vera. Kechiche mette in mostra un mondo di poveri ed emarginati che vivono in armonia, amicizia e solidarietà, un mondo poetico e "abbellito" (Jallel è sensibile e amante della poesia), nel quale non c'è quasi traccia di tensioni sociali, politiche o religiose, se non quelle legate allo scontro fra i caratteri dei singoli individui. Il tono realista, senza drammatizzazioni, gioca a favore della pellicola, ma nella seconda parte c'è qualche lungaggine di troppo e il film comincia a stancare: questo, in ogni caso, è un difetto connaturato a Kechiche, che spesso trascina a dismisura alcune scene (vedi per esempio la lite durante la partita a bocce): anche "Cous cous" non ne era immune, anzi era persino peggio sotto questo punto di vista. Uno dei temi che ho trovato più interessanti è quello della sopravvivenza di Jallel attraverso i continui "furti" di identità: dapprima cerca di ottenere asilo politico facendosi passare per algerino ("I francesi hanno un occhio di riguardo per gli algerini, per via dei sensi di colpa. Pensano di essere gli inventori della libertà, hanno il pallino dei diritti umani"), poi si fa ricoverare in ospedale con i documenti dell'amico Franck, infine utilizza la patente di un altro amico che si è trasferito all'estero.

24 marzo 2008

Fine agosto all'hotel Ozon (J. Schmidt, 1967)

Fine agosto all'hotel Ozon (Konec srpna v Hotelu Ozon)
di Jan Schmidt – Cecoslovacchia 1967
con Beta Ponicanová, Ondrej Jariabek
**1/2

Visto in DVD con Martin, in originale con sottotitoli inglesi.

Un film fantascientifico piuttosto interessante, ambientato in un mondo post-apocalittico nel quale l'umanità è quasi scomparsa in seguito a una guerra nucleare. Sono passati svariati decenni dalla distruzione e un gruppo di otto donne (sette giovani più un'anziana che fa loro da guida, l'unica che ha conosciuto la Terra prima della catastrofe) si aggira attraverso una natura desolata, selvaggia e inospitale che non offre più alcun mezzo di sostentamento. Dopo numerose peregrinazioni nel corso delle quali la vecchia cerca segni di vita (e segnatamente di maschi, nella speranza di ricreare la razza umana), le donne sembrano trovare un'oasi di pace in un vecchio albergo, l'hotel Ozon del titolo, il cui vecchio proprietario vive ormai soltanto di ricordi e circondato da oggetti ormai inutili. Ma se l'edificio e i barlumi di una cultura precedente possono costituire un punto di riferimento per i due anziani, non significano invece nulla per le ragazze, ormai selvatiche e abituate a una vita più dura e ben diversa, quasi primitiva e barbarica (l'unica cosa che le affascina, pur senza comprenderla, è la musica proveniente da un vetusto grammofono). Tarkovskiano nel ritmo e bressoniano nell'estetica, il film scritto da Pavel Jurácek è in bianco e nero e completamente privo di effetti speciali, ma non se ne sente la mancanza: la distruzione del mondo è mostrata attraverso dissolvenze in bianco sui scenari ai quattro angoli del globo (con un conteggio alla rovescia recitato nelle diverse lingue), mentre il trascorrere degli anni viene conteggiato grazie agli anelli di un tronco d'albero, in una scena che rimanda a "La donna che visse due volte" di Hitchcock. Alcune sequenze in cui le donne uccidono degli animali (un cane, un serpente, una mucca) sembrano decisamente realistiche e fanno fatto venire il dubbio che non si tratti di messa in scena. La versione che abbiamo visto (quella nel cofanetto di DVD "Stelle rosse 2", contenente tre film fantascientifici cecoslovacchi) aveva i sottotitoli inglesi impressi sulla pellicola: una nota avvertiva che era impossibile eliminarli perché, vista la diffusione limitata del film, non è stato possibile trovare una copia migliore. Quasi tutte le attrici non erano professioniste: ho letto che probabilmente si trattava di soldatesse dell'esercito cecoslovacco, che ha contribuito alla produzione della pellicola.

22 marzo 2008

Due anni

Tomobiki Märchenland compie due anni!

Oltre a cogliere l'occasione per ringraziare tutti coloro che mi leggono e per inserire finalmente i tag con i nomi dei registi (ma solo per gli autori più importanti e/o per quelli di cui ho recensito un numero cospicuo di film), ne approfitto per ribadire (per l'ennesima volta?) un concetto che mi sta particolarmente a cuore e che è meglio precisare periodicamente. È vero che, come il Mereghetti, affibbio un voto in stelline ai film che vedo. Ma a differenza dei suoi, non si tratta di un giudizio sulla qualità del film quanto piuttosto di un "indice di gradimento" personale. In poche parole: se dò **1/2 a "Persona" e *** a "Fong Sai Yuk", non significa che ritengo il primo meno bello, ma soltanto che ho provato più piacere a guardare il secondo. Chiaro, no?

E ora, per la vostra gioia, un po' di cifre. Nel suo secondo anno di vita, TM ha parlato di 309 film (nel primo anno erano stati 283, per un totale di 592). Di questi, 86 sono stati visti al cinema (erano 102, totale 188), di cui 54 solo nelle due rassegne di Cannes e Venezia (l'anno prima 69, totale 123), e dunque ben 223 a casa (l'anno prima 181, totale 404). 226 li ho visti per la prima volta (236 l'anno scorso, il totale sale a 462), mentre per 83 si trattava almeno di una seconda visione (erano 47, si va a 130).
Il regista di cui ho visto più film nel secondo anno di vita del blog è stato ancora Wim Wenders (11), come l'anno scorso (quando erano 10): naturalmente questo si spiega col fatto che il regista tedesco è stato il protagonista della rassegna che ho fatto con Martin nel 2007. Seguono Lang con 7, Godard e Rohmer con 6, Antonioni, Burton e Tsukamoto con 5, Almodovar e Zhang Yimou con 4.

21 marzo 2008

Horse feathers (Norman McLeod, 1932)

I fratelli Marx al college (Horse feathers)
di Norman McLeod – USA 1932
con Groucho, Chico, Harpo e Zeppo Marx
***

Rivisto in DVD, con sottotitoli.

Groucho, nominato nuovo rettore del prestigioso Huxley College (è sempre un mistero come riesca a occupare incarichi importanti, visto il suo comportamento indisponente), si presenta con un discorso surreale che si riassume nella canzone "Whatever it is, I'm against it" ("Di qualsiasi cosa si tratti, io sono contrario"). Deve però affrontare due problemi: convincere il figlio Zeppo a dedicare più tempo agli studi e meno al corteggiamento della bella Thelma Todd ("Dodici anni in un college! Alla tua età, in dodici anni io ero stato in tre college!") e fare in modo che la squadra di football della scuola vinca l'imminente partita con i rivali del Darwin. Per riuscirci, si reca in uno speak-easy (gli spacci illegali di alcolici) per ingaggiare due giocatori professionisti, ma per errore assolda il venditore di ghiaccio Chico e l'accalappiacani Harpo. Dopo aver portato scompiglio durante le lezioni, i fratelli riusciranno a vincere la partita (imbrogliando ripetutamente e assurdamente) e sposeranno – tutti e tre insieme! – la ragazza di Zeppo. Il quarto film dei Marx, il secondo diretto da McLeod, porta l'anarchia e il caos all'interno delle istituzioni accademiche, del mondo dello sport amatoriale e soprattutto, nel finale, del matrimonio (siamo ben prima del Codice Hays!): non c'è da stupirsi che il film sia uno dei più incompresi e "disturbanti" di tutta la loro carriera. Decisamente buoni i numeri musicali e le canzoni, in particolare il tormentone "Everyone says I love you" che tutti i fratelli, a turno e cambiando le parole, intonano alla ragazza. Diverse le battute memorabili di Groucho ("Domani demoliremo le camerate" – "Ma dove dormiranno gli allievi?" – "Dove hanno sempre dormito, in classe!"; oppure "Non è una cattiva proposta. Sentirò il mio avvocato e se mi consiglia di accettare... cambio avvocato!"), che a un certo punto – durante l'esibizione al piano di Chico – si rivolge direttamente al pubblico invitandolo a rifugiarsi nell'atrio del cinema finché non sarà finita, ed esilarante la scena (intraducibile) in cui deve entrare nello speak-easy dicendo la parola d'ordine ("swordfish", ossia "pescespada"). Alcune note: il personaggio di Thelma Todd viene definito "college widow", un termine con il quale si indicava una donna che rimane nel campus anche dopo la laurea, in cerca di un marito. Il termine fu reso popolare da una commedia teatrale di George Ade, adattata in un film del 1927, "La vedova del collegio", di cui questa pellicola dei fratelli Marx è praticamente una parodia. Se nel film i college Huxley e Darwin sono acerrimi rivali, nella realtà Thomas Huxley (nonno dello scrittore Aldous) fu uno dei più fedeli sostenitori delle teorie darwiniane. La gag della parola d'ordine ha ispirato il titolo di un brutto film recente, "Codice Swordfish".

20 marzo 2008

Parigi che dorme (René Clair, 1923)

Parigi che dorme (Paris qui dort)
di René Clair – Francia 1923
con Henri Rollan, Myla Seller
***

Visto in divx, con Marisa.

Innanzitutto ringrazio Luciano, un cui post mi ha spinto a ricercare questo piccolo gioiellino del muto realizzato nel 1923 (ma uscito nelle sale francesi solo nel 1925, stando all'IMDb). Pur nella sua brevità (dura una ventina di minuti) è un film intenso e dalle mille suggestioni: l'inizio, con il guardiano notturno della Torre Eiffel che si sveglia per scoprire che la città è completamente deserta, è onirico e surreale (e la potenza delle immagini, quasi da incubo, ha fatto scuola: recentemente, per esempio, situazioni simili si sono viste in "28 giorni dopo" e "Io sono leggenda"). Il mistero tiene lo spettatore col fiato sospeso per diversi minuti. Ben presto il protagonista scopre di essere l'unica persona ancora sveglia in tutta Parigi: gli altri – con l'eccezione del pilota e dei quattro passeggeri di un piccolo aeroplano – sono stati "congelati" dal misterioso raggio di una macchina creata da uno scienziato più distratto che pazzo. I non del tutto innocenti protagonisti (fra loro c'è anche un ladro di professione) cercheranno di sfruttare la situazione a proprio vantaggio, ma alla fine tutto tornerà alla normalità. Con il suo film d'esordio e uno dei primi film di fantascienza dell'epoca (dopo quelli di Méliès, naturalmente), Clair mette subito in mostra la sua propensione verso le storie fantastiche e il suo amore per gli spazi aperti (gran parte del film è girato in esterni), creando un opera geniale e poetica, avvincente e divertente, futurista e conservatrice, concreta ed eterea allo stesso tempo, che gioca con gli effetti speciali e la narrazione cinematografica, con le paure individuali e quelle collettive.

Furyo (Nagisa Oshima, 1983)

Furyo (Merry Christmas Mr. Lawrence, aka Senjou no Merii Kurisumasu)
di Nagisa Oshima – Giappone/GB 1983
con David Bowie, Ryuichi Sakamoto
***1/2

Rivisto in DVD, con Marisa.

In un campo giapponese per prigionieri di guerra, a Giava nel 1942, giunge il maggiore Jack Celliers (David Bowie), soldato britannico particolarmente irriverente e – agli occhi dell'inflessibile e disciplinato comandante Yonoi (Ryuichi Sakamoto) – estremamente seducente. L'attrazione fra i due è palpabile, oltre che "impossibile", ma Oshima è abile a mantenerla a un livello di "non agito". Col tempo conosceremo anche qualcosa del suo passato di Jack, scoprendo come la sua incoscienza autodistruttiva derivi dal tragico rapporto con il fratello minore. Entrambi gli interpreti (Sakamoto è anche autore della bella colonna sonora) sono curiosamente musicisti prima che attori, ma si dimostrano incredibilmente in parte. Un film assolutamente non stereotipato, lento ma affascinante, nel quale l'ambientazione storica, le ingiustizie della guerra e la descrizione dei contrasti fra la filosofia giapponese e quella occidentale riguardo alla prigionia, alla resa e alla sconfitta si fondono perfettamente con le vicende personali dei protagonisti. La prima volta che l'avevo visto mi aveva piuttosto spiazzato e confuso: stavolta, sapendo già cosa aspettarmi, l'ho apprezzato decisamente di più. Il film è indimenticabile anche per la presenza di Takeshi Kitano (che nei titoli è accreditato solo come "Takeshi" e non si era ancora dato alla regia) nel ruolo fondamentale del sergente Hara, la cui amicizia/rivalità con il colonnello Lawrence, intepretato da Tom Conti, fa da contraltare al rapporto tormentato fra Bowie e Sakamoto. Kitano ha l'onore di aprire il film e soprattutto di chiuderlo, con il suo faccione ("Che buffa faccia", esclama Bowie la prima volta che lo vede) che pronuncia la frase del titolo originale (non ho mai capito a cosa si riferisca invece il titolo italiano).

19 marzo 2008

Peppermint candy (Lee Chang-dong, 1999)

Peppermint candy (Bakha satang)
di Lee Chang-dong – Corea del Sud 1999
con Sol Kyung-gu, Moon So-ri
***1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Il quarantenne Kim Yong-ho si suicida su un ponte della ferrovia (gridando "Voglio tornare indietro!") mentre sulle sponde rocciose del fiume sottostante i suoi compagni di un tempo stanno festeggiando il loro ritrovo con un picnic. Da questo punto di partenza, il film prosegue raccontando a ritroso la sua amara storia, fatta di rimpianti, di occasioni perdute e di eventi traumatici che hanno cancellato la sua innocenza e le sue passioni giovanili fino a portarlo al punto di non ritorno. Con una serie di flashback che scavano sempre più lontani nel tempo (proprio come "Memento", "CinquePerDue" e "Irreversible", tutti film peraltro usciti successivamente), il regista dell'acclamato "Oasis" realizza una pellicola commovente nella sua tragicità, che mi ha sorpreso davvero in positivo (avevo cominciato a guardarla senza molte aspettative, visto che ultimamente i miei incroci con il cinema coreano non erano stati troppo felici). Lo stratagemma di invertire il flusso temporale mi è sembrato più efficace e coinvolgente che in alcuni dei titoli sopra citati, e in ogni caso assolutamente non fine a sé stesso. I segmenti dei vari flashback sono intervallati dall'immagine di binari che scorrono – come ben presto capiremo – a ritroso anch'essi: e proprio l'onnipresente ferrovia, oltre ad altri temi e oggetti ricorrenti (come le caramelle alla menta del titolo), costituisce il filo conduttore di una pellicola che documenta un'esistenza in parallelo con i tragici eventi di vent'anni di storia della Corea, dalle contestazioni studentesche – represse con metodi fascisti dalla polizia e dall'esercito – alla crisi dei mercati finanziari asiatici di metà anni novanta. Il bellissimo finale chiude un cerchio (l'ultima inquadratura del film è praticamente identica alla prima) e dona all'insieme un senso di eterna e onirica ciclicità ("Che strano... non ho mai visitato questo posto prima d'ora, eppure mi sembra di esserci già stato", commenta Kim ventenne quando si ritrova nello stesso luogo dove in futuro porrà fine alla propria vita). Mostrando prima le conseguenze e poi le cause che le hanno provocate, il regista lavora come uno psicanalista che indaga nel passato alla ricerca degli eventi in grado di cambiare irrimediabilmente un uomo mentre procede lungo il percorso della propria vita: l'abbandono dei sogni di gioventù, un'esperienza traumatica sotto le armi, la perdita del primo amore, un matrimonio infelice, la consuetudine alla violenza, il rifiuto dei sentimenti, il viaggio verso la follia: tutti snodi cruciali che l'ottima sceneggiatura prima preannuncia e poi svela, sorprendendo lo spettatore per crudeltà e profondità.

Persona (Ingmar Bergman, 1966)

Persona (id.)
di Ingmar Bergman – Svezia 1966
con Bibi Andersson, Liv Ullmann
***

Visto in DVD.

Elisabeth (Ullmann), attrice di teatro stufa di "recitare" e stanca dell'ipocrisia della vita, si chiude in un ferreo mutismo. Per scuoterla da questa strana apatia nei confronti del mondo e distoglierla dal silenzio e dall'immobilità, la giovane e loquace infermiera Alma (Andersson) la conduce in una villa sul mare. Le due donne diventano amiche e Alma si lascia andare a confessioni e ricordi personali, ma nemmeno il tentativo di Elisabeth di ripararsi dalla vita per non dover più mostrare reazioni false e insincere le impedisce di ferire i sentimenti della ragazza. Un film esistenzialista e introspettivo sul concetto di individuo e sul suo rapporto con il mondo esterno, forse un po' pallosetto nella sua astrazione ma sicuramente interessante per lo stile, con primissimi piani sui volti delle protagoniste e una bellissima fotografia (di Sven Nykvist) molto contrastata. Pur essendo votata al "privato", ossia a scrutare all'interno dell'animo delle persone, la pellicola non tralascia accenni a fatti "pubblici" (si intravede la celebre foto del bambino del ghetto di Varsavia; si parla della guerra del Vietnam, con le immagini dei bonzi che si danno fuoco per protesta), forse per indicare l'impossibilità di astrarsi completamente dal mondo come vorrebbe fare Elisabeth. Nel finale una scena (un frammento di discorso di Alma) viene ripetuta per due volte, inquadrando prima il volto di chi ascolta e poi quelli di chi parla, come se le due protagoniste si rispecchiassero l'una nell'altra e di fondessero in un'unica "persona". I primi minuti del film, un montaggio di immagini subliminali (anche di un pene eretto!), vecchi filmati e ricordi d'atmosfera, hanno una carica crudele, surreale e metacinematografica che mi ha fatto venire in mente "Un chien andalou" di Buñuel (ma anche Lynch). A metà film, inoltre, la pellicola sembra spezzarsi e prendere fuoco, proprio nel punto in cui Alma è soggetta a un esaurimento nervoso e il suo rapporto con Elisabeth si degrada irrimediabilmente. Belle ed brave le due attrici.

18 marzo 2008

Kika (Pedro Almodóvar, 1993)

Kika – Un corpo in prestito (Kika)
di Pedro Almodóvar – Spagna 1993
con Verónica Forqué, Peter Coyote
**1/2

Visto in DVD.

Kika, estroversa truccatrice, è fidanzata con il complessato Ramon ma ha una relazione con il patrigno del ragazzo, Nicholas, scrittore di origine americana che è forse coinvolto nel suicidio della moglie e ha una strana attrazione per i serial killer e le storie di omicidi. A complicare la vicenda si aggiungono strani personaggi: Pablo, attore porno e stupratore evaso dal carcere; Juana (la "solita" Rossy de Palma), lesbica dichiarata, sorella di Pablo e domestica in casa di Kika e Ramon; Susana, una misteriosa bionda che frequenta Nicholas; e soprattutto Angela "la sfregiata" (Victoria Abril), ex psicologa e conduttrice di un programma di tv spazzatura, che gira con una tuta bondage/fantascientifica e una videocamera in testa per raccogliere notizie e filmati da trasmettere sul suo network. Fra menzogne, segreti (molti personaggi nascondono agli altri il proprio passato o anche il semplice fatto di conoscersi), tradimenti e vendette, il film mi è piaciuto parecchio nella sua prima parte, irriverente, frenetica e col tono trasgressivo e grottesco delle migliori commedie di Almodóvar, come "Donne sull'orlo di una crisi di nervi". Il passaggio nel finale ad atmosfere da thriller-horror più drammatiche e cruente lo rende invece poco equilibrato. E la denuncia della televisione spazzatura non convince fino in fondo, visto che in realtà il regista sembra nutrire una certa simpatia e accondiscendenza verso quello che Angela manda in onda (tanto da non tirarsi indietro nel mostrarci, con ironia, lo stupro prolungato di Kika da parte di Pablo). Interessanti comunque i temi dei guardoni, della privacy, dell'occhio televisivo, insoliti per Almodóvar (sono invece più nelle corde di un Wenders). Belli i costumi e le scenografie, colorate come sempre. Peter Coyote, che interpreta Nicholas, è perfetto come personaggio ambiguo e dai lati oscuri (lo ricordo come tale anche in "Luna di fiele" di Polanski). Con il successivo "Tutto su mia madre" il film non ha in comune soltanto la venerazione di Ramon per la madre ma anche una citazione esplicita del cinema hollywoodiano classico: Ramon guarda in tv "The prowler" ("Sciacalli nell'ombra") di Joseph Losey, una scena del quale è fondamentale per la soluzione della vicenda. Senza senso il sottotitolo italiano.

Batman – Il ritorno (Tim Burton, 1992)

Batman – Il ritorno (Batman returns)
di Tim Burton – USA 1992
con Michael Keaton, Danny DeVito, Michelle Pfeiffer
**

Rivisto in DVD.

Per stile, contenuti, personaggi e ambientazione (una Gotham City fiabesca, invernale e imbiancata dalla neve), il sequel di Batman è un film decisamente più "burtoniano" del primo. Quello che si guadagna in atmosfera (grazie anche alle ottime musiche di Elfman) si perde però in realismo, e la pellicola a tratti sembra un film-giocattolo, forse a causa del setting natalizio, del personaggio di Max Schreck e della presenza della gang di criminali circensi: non a caso, questa volta, batmobile e batcaverna vengono chiamate per nome (e compare pure il batarang!). Dimenticati gran parte dei personaggi del primo film (c'è giusto un accenno a Vicky Vale), la sceneggiatura introduce subito i tre comprimari che, a dire il vero, a tratti assurgono al ruolo di protagonista molto più di Wayne/Batman: il deforme e crudele Pinguino (un ottimo DeVito), la patetica prima e sexy poi Catwoman (una Pfeiffer con frusta e costume in latex che dona al film inedite suggestioni sadomaso, peraltro mutuate dal fumetto di Frank Miller "Batman: Year One": ma lì Selina Kyle era una prostituta e non certo una segretaria!) e il malvagio magnate dei giocattoli Max Schreck (un deludente Christopher Walken, imparruccato e inespressivo). Le dinamiche fra i personaggi in costume e la descrizione della città stessa di Gotham (sempre più caotica, fredda e inospitale) costituiscono l'ossatura di una storia banalotta che nel finale procura anche qualche sbadiglio. Ottimo invece l'inizio, con l'abbandono del piccolo Oswald Cobblepot da parte dei terrorizzati genitori (il padre del Pinguino è Pee-Wee Herman, protagonista del primo lungometraggio di Burton), e a suo modo suggestiva anche l'origine, con morte e rinascita, della Donna Gatto: come al solito, i cattivi sono più interessanti dell'eroe. Il costume di Batman mi è sembrato più convincente rispetto a quello di tre anni prima.

17 marzo 2008

Il coltello nell'acqua (R. Polanski, 1962)

Il coltello nell'acqua (Nóz w wodzie)
di Roman Polanski – Polonia 1962
con Leon Niemczyk, Jolanta Umecka, Zygmunt Malanowicz
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni e Chiara.

Il primo lungometraggio di Polanski (realizzato dopo una serie di brillanti cortometraggi e considerato uno dei migliori esordi nel mondo del cinema) è un affascinante thriller psicologico basato su tre soli personaggi, isolati dal resto del mondo e in preda alle forti dinamiche delle loro relazioni. Andrea e Cristina (questi i nomi del doppiaggio italiano) sono una coppia alto-borghese che si appresta a trascorrere una tranquilla giornata domenicale in barca a vela. Durante il tragitto verso il lago i due coniugi danno un passaggio a un giovane autostoppista che, una volta giunti al molo, il marito invita in maniera sarcastica e con aria di sfida a salire a bordo insieme a loro. Il ragazzo, nonostante non sia mai stato in barca, accetta per orgoglio. Le continue provocazioni fra i due uomini, i battibecchi fra i coniugi, l'attrazione fra il giovane e la donna fanno lentamente crescere la tensione fino al punto di non ritorno: e le pulsioni, che l'eccellente regia è abile nel mettere in scena con estrema semplicità (aiutata da una suggestiva ambientazione e dalla bella musica jazz) paiono sempre sul punto di esplodere, come se scorressero sotto la superficie dell'acqua che viene solcata dall'imbarcazione. Due dei tre attori (la donna e il giovane) non avevano esperienze da attori professionisti. Il titolo si riferisce al grosso coltellaccio che l'autostoppista porta con sé, "utile nei boschi ma inutile su un lago", costantemente al centro di molte scene.

16 marzo 2008

Haze (Shinya Tsukamoto, 2005)

Haze – Il muro (Haze)
di Shinya Tsukamoto – Giappone 2005
con Shinya Tsukamoto, Kaori Fuji
*

Visto in DVD, con Martin, in originale con sottotitoli.

Un uomo (Tsukamoto stesso) si trova misteriosamente rinchiuso in uno stretto spazio immerso nel buio, forse sepolto sottoterra. Non ricorda come sia finito in quella situazione, sanguina e non sa come uscire: ma presto scopre di non essere solo: c'è anche una donna, con lui. Confuso, noioso, privo di significato: dopo dieci minuti in cui non si capisce nulla di quello accade sullo schermo, ho cominciato a temere che fosse tutto così. Per fortuna, nel finale di questo mediometraggio (dura 48 minuti), le cose cambiano un po', ma resta un'opera che non comunica niente, nemmeno quell'angoscia o claustrofobia che probabilmente l'autore voleva trasmettere. Tsukamoto, che fino a "Vital" nel bene o nel male mi era sempre piaciuto, sta prendendo decisamente una brutta piega (vedi anche "Nightmare detective").

15 marzo 2008

Il mistero Picasso (H.-G. Clouzot, 1956)

Il mistero Picasso (Le mystère Picasso)
di Henri-Georges Clouzot – Francia 1956
con Pablo Picasso, Henri-Georges Clouzot
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

"Pagheremmo moltissimo per sapere che cosa passava per la mente di Rimbaud mentre stava scrivendo Le bateau ivre, o in quella di Mozart mentre stava componendo la sinfonia Jupiter, o per conoscere il meccanismo segreto che guida un creatore nella sua pericolosa avventura. Grazie a Dio, quello che è impossibile per la poesia e la musica è invece possibile per la pittura. Per sapere cosa succede nella mente di un pittore, non abbiamo che da seguire la sua mano".

La frase con cui si apre questo documentario spiega già tutto. Il regista de "I diabolici" ha chiesto a Picasso, immerso nella penombra di un open space, di poterlo riprendere mentre dipinge una serie di quadri e di schizzi: quasi sempre lo schermo è occupato esclusivamente dalla tela sulla quale, come in un film d'animazione, vediamo le figure svilupparsi e prendere forma, tratto dopo tratto. L'occhio segue le linee che lentamente si accumulano sullo spazio bianco, dando forma a figure astratte o a personaggi umani, a nudi di donna e a strani animali, a tori e a toreri. Spesso c'è la curiosità di scoprire a cosa condurranno quei primi tratti ancora informi, altre volte ci si chiede se il dipinto è ormai finito o se il pittore continuerà a lavorarci sopra per aggiungere dettagli o coprire quelli già esistenti. Fra bianco/nero e colore, formato 4:3 o panoramico, musica spagnoleggiante o frammenti di dialogo fra il pittore, il regista e l'operatore (Claude Renoir), il film affascina ed è importante per documentare le fasi intermedie (spesso altrettanto belle e interessanti, se non di più, del risultato finale) di una serie di opere di Picasso. A volte la lavorazione di un dipinto racconta una vera e propria storia, come nel caso del bellissimo e travagliato paesaggio balneare che viene mostrato nel film come ultimo quadro, e che lascia insoddisfatto il pittore.

14 marzo 2008

Muriel, il tempo di un ritorno (A. Resnais, 1963)

Muriel, il tempo di un ritorno (Muriel, ou Le temps d'un retour)
di Alain Resnais – Francia 1963
con Delphine Seyrig, Jean-Pierre Kérien
**

Visto in DVD.

Di solito Resnais mi piace, ma questo film mi ha un po' deluso e anche annoiato. Certo, per quegli anni si trattava di un cinema "di rottura" (Resnais, più che della nouvelle vague, faceva parte del gruppo parallelo della rive gauche insieme ad Agnés Varda, Chris Marker, Alain Robbe-Grillet, ecc., leggermente più anziani e "letterari" di Godard e compagni ma animati dallo stesso spirito iconoclasta verso il cinema dei padri) ma oggi è molto meno interessante. La cosa che risalta di più è il montaggio, frammentato ed estraniante, a volte rapidissimo e a volte che lascia in sospeso situazioni e dialoghi, particolarmente indicato a raccontare la routine quotidiana, al limite dell'insignificante, di personaggi incerti e che vivono di ricordi, i cui comportamenti "presentano degli spazi vuoti, delle assenze, delle lacune". Hélène (la Seyrig), antiquaria e giocatrice d'azzardo, che ha richiamato a Boulogne-sur-Mer la sua anziana fiamma Alphonse, nella vana speranza di riallacciare le fila di una relazione che non era mai cominciata; il suo scostante figliastro Bernard, da poco tornato dalla guerra in Algeria profondamente cambiato e incapace di condurre una vita normale perché ossessionato dal ricordo di Muriel, una ragazza che ha torturato laggiù insieme ai suoi commilitoni, e dal desiderio di documentare la realtà sfuggente con la sua cinepresa; l'ambiguo Alphonse, che fugge da un passato che è intenzionato a nascondere in ogni modo attraverso la menzogna; Françoise, aspirante attrice e donna irrealizzata: la costante mancanza di interazione fra di loro e con la realtà, dovuta ai rimpianti o alla vergogna per il passato e alla paura del futuro, rende il film freddo e poco coinvolgente. Le scene in cui Bernard descrive la tortura, sulle immagini di filmini amatoriali girati con i commilitoni in Algeria, sono le più celebri, e presentano un curioso parallelo con un film recente, "Nella valle di Elah" di Paul Haggis. C'è un piccolo ruolo per Jean Dasté, il protagonista de "L'Atalante", nei panni del contadino con la capra.

13 marzo 2008

Batman (Tim Burton, 1989)

Batman (id.)
di Tim Burton – USA 1989
con Michael Keaton, Jack Nicholson
**

Rivisto in DVD.

Nel 1989, quando uscì questo film, avevo da poco riscoperto il personaggio di Batman. Non ero mai stato un fan dell'uomo pipistrello (da bambino leggevo i fumetti della Marvel, non quelli della DC), ma ero stato appena folgorato dal capolavoro di Frank Miller "Il ritorno del Cavaliere Oscuro". E dunque il film di Tim Burton, che pure rappresentava una pietra miliare nel genere supereroistico (fino ad allora spesso confinato nel ridicolo) e che si sforzava di dare un setting realistico al personaggio affrancandolo dal tono fumettoso della celebre serie televisiva (batmobile e batcaverna ci sono, ma non vengono mai chiamate per nome; Robin, per fortuna, è ancora assente), mi deluse profondamente. Costituiva infatti un passo indietro rispetto alla durezza e alla profondità delle storie di Miller (e di Alan Moore, con "The killing joke"). In più, Michael Keaton come protagonista è una vera e propria palla al piede: poco carismatico come Bruce Wayne e assolutamente privo di fascino come Batman (ma una parte di responsabilità ce l'ha anche il brutto costume di gomma). Alla prima visione, persino Jack Nicholson non mi aveva impressionato più di tanto nei panni del Joker, mentre stavolta lo ho apprezzato molto di più. Gradevole vedere Jack Palance nel breve ruolo del boss Carl Grissom. Fra le cose migliori della pellicola ci sono le scenografie, che fanno di Gotham una città fra il gotico e il futuristico alla "Metropolis", con un setting vagamente da anni trenta che è stato poi ripreso (in maniera anche più efficace) nella serie a cartoni animati "Batman Adventures". All'inizio vengono presentati fin troppi personaggi, alcuni dei quali (il giornalista Knox) inutili, e altri (il commissario Gordon, il procuratore distrettuale Harvey Dent) quasi dimenticati nella seconda metà del film, che si concentra esclusivamente sullo scontro fra Batman e Joker (lo sceneggiatore Sam Hamm introduce l'interessante idea – assente nei fumetti – che ciascuno dei due rivali abbia dato vita direttamente all'altro). Molto spazio ha invece la reporter Vicky Vale (Kim Basinger), inedita "fiamma" di Batman che offre l'occasione per una citazione dell'opera di Miller (il paese di Corto Maltese nel quale ha lavorato come fotografa di guerra, infatti, non è un omaggio a Pratt ma alla miniserie sopra citata). Burton, in ogni caso, non rinuncia ad alcuni tocchi "camp" (le prime pagine dei giornali che roteano, gli aggeggi del Joker, il vandalismo nel museo, gli anchormen televisivi che non si truccano più). Sedici anni dopo, Christopher Nolan gli mostrerà come si fa veramente un bel film su Batman.

11 marzo 2008

Fong Sai Yuk II (Corey Yuen Kwai, 1993)

Fong Sai Yuk II (Fong Sai Yuk juk jaap, aka The Legend 2)
di Corey Yuen Kwai – Hong Kong 1993
con Jet Li, Josephine Siao
**1/2

Visto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Il seguito di "Fong Sai Yuk", realizzato a tempo di record lo stesso anno e dallo stesso staff tecnico, ricomincia dopo si era fermato il primo episodio e ne replica la spettacolarità e l'umorismo. Sai Yuk è entrato a far parte della Red Flower Society, ma deve proteggere il segreto del capo della setta Chan (ossia il fatto di essere il fratello dell'imperatore che sta tentando di detronizzare) dalle mani del traditore Yu. Ancora una volta i maggiori momenti comici sono riservati alla madre di Sai Yuk, mentre il protagonista si trova coinvolto in un delicato triangolo romantico: oltre alla bella Ting Ting (Michelle Li), che aveva conquistato nel primo capitolo, diventa oggetto anche dell'amore della capricciosa Angie (Amy Kwok), figlia del governatore nemico che – manco a dirlo – non trova di meglio che organizzare il solito torneo di arti marziali per scegliere il suo compagno. "Costretto" a partecipare anche questa volta, il mammone Sai Yuk scopre che sconfiggere i rivali è facile, mentre lo è meno fronteggiare l'ira di Ting Ting. Se nella prima parte c'è forse qualche passaggio a vuoto, l'ultima mezz'ora del film è un susseguirsi spettacolare di acrobazie e combattimenti dove l'abilità di Jet Li (seppur aiutato, come al solito, dal wire work) lascia senza fiato, per esempio nel duello fratricida a base di spade contro gli ex compagni della società ribelle, o nello scontro finale in un intrico fra scale e panche.

Fong Sai Yuk (Corey Yuen Kwai, 1993)

Fong Sai Yuk (id., aka The Legend)
di Corey Yuen Kwai – Hong Kong 1993
con Jet Li, Josephine Siao
***

Visto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

È uno dei film che hanno reso grande Jet Li nel suo periodo hongkonghese, uno spettacolo puro, elegantemente diretto e coreografato da un maestro del genere che lo ha realizzato sull'onda del successo riscosso da "Once upon a time in China" di Tsui Hark, il film che aveva dato nuova vita al genere del kung fu mescolandolo con gli stilemi del wuxia. Si tratta di un film prima di tutto "divertente da vedere", che mescola alle fenomenali acrobazie e al wire work una forte dose di umorismo cantonese che, soprattutto nella prima parte, lo apparenta a certe cose che Jackie Chan faceva nei primi anni ottanta e lo mantiene sul terreno dell'avventura e non su quello della ricostruzione storica. Fong Sai Yuk (altro celebre eroe popolare cinese, come il Wong Fei-hung del film di Tsui Hark) è infatti tutt'altro che un eroe senza macchia: abile lottatore, preferisce gironzolare con gli amici a corteggiare ragazze, ad attaccar briga e ad accettare tutte le sfide che riceve piuttosto che aiutare i genitori nel loro negozio di tessuti. Non che l'intrattabile e scatenata madre (una straordinaria Josephine Siao) sia da meno: con grande disperazione del marito, anche lei è una testa calda che non perde occasione per combinare guai. Quando il signorotto del villaggio organizza un torneo di arti marziali per scegliere un marito per sua figlia (la graziosa Michelle Li), Sai Yuk partecipa solo per il gusto di mettere in mostra la propria abilità, ma è sua madre a vincere (travestita da uomo!), dando vita a una serie di esilaranti equivoci e a sottotrame romantiche. Nella seconda metà, il film assume un tono più serio e legato alle vicende storiche: i nostri eroi devono infatti lottare contro i seguaci del perfido imperatore Manchu per difendere la lista segreta degli affiliati alla leggendaria Red Flower Society, un gruppo di ribelli che vorrebbe restaurare sul trono l'antica dinastia Ming. L'umorismo è eccezionale e non mancano assurdità anacronistiche (Sai Yuk a bordo di una rudimentale bicicletta, la madre che si fabbrica occhiali da sole) e riferimenti metacinematografici: Sai Yuk e i suoi amici scelgono come pseudonimi quelli di cineasti come Yuen Kwai stesso, Jeff Lau e Wong Jing (dopo aver esordito con "Wong..." e aver fatto partire la musica di Wong Fei-hung!), e poi afferma che a insegnargli l'inglese è stata proprio l'attrice Josephine Siao! Spettacolari (a dire poco) i combattimenti, come quello fra Jet Li e Sibelle Hu (che piacere rivederla!) che saltano sulle teste degli spettatori, e quello finale sotto il palco dell'impiccagione. E alla fine, la lista dei nomi della società segreta si rivela essere i titoli di coda del film!

10 marzo 2008

Il grande sonno (Howard Hawks, 1946)

Il grande sonno (The big sleep)
di Howard Hawks – USA 1946
con Humphrey Bogart, Lauren Bacall
***1/2

Rivisto in DVD.

Insieme a "Il mistero del falco" (realizzato cinque anni prima e dove Bogart interpretava Sam Spade, un altro celebre detective), è il prototipo del genere noir investigativo nonché il film che più ha cementato nell'immaginario collettivo la figura di "Bogey" come poliziotto privato cinico ma romantico, duro ma fragile, fedele ma disincantato. Philip Marlowe è uno dei personaggi più memorabili della storia del cinema, "occhio privato" onesto e ribelle, non privo di dignità e senso dell'umorismo. Ingaggiato dall'anziano miliardario Sternwood perché trovi chi lo sta ricattando, scopre che nell'intrigo – che è ben più ramificato del previsto e sfocia in una serie di omicidi – sono coinvolte anche le due bellissime e viziate figlie del vecchio, Carmen e Vivien: e con la maggiore, interpretata da una Lauren Bacall che a quel tempo faceva coppia fissa con Bogart (sulla qual cosa il regista gioca sin dai titoli di testa, con la favolosa silhouette dei due che si fumano una sigaretta), scatta il colpo di fulmine. La trama, che segue più o meno fedelmente quella del romanzo di Raymond Chandler (uno dei miei scrittori preferiti), è complessa e convoluta ai limiti dell'intellegibilità, con una caterva di nomi, personaggi e situazioni che si succedono senza fiato. Un aneddoto vuole che sul set nemmeno il regista e gli attori riuscissero a capire che cosa stesse succedendo, tanto da essere costretti a un certo punto a spedire un telegramma a Chandler perché chiarisse chi avesse veramente ucciso l'autista degli Sternwood, o se magari si fosse suicidato: e lo scrittore rispose che non lo sapeva nemmeno lui! Ma naturalmente, facezie a parte, pur trattandosi di un giallo in cui ogni tassello deve andare al posto giusto, quello che conta nel film è l'atmosfera, cupa e morbosa, ravvivata da squarci solari come gli incontri di Marlowe con le tante splendide donnine che lo aiutano nel corso dell'indagine (la libraia, la tassista, le guardarobiere...) e dall'ottima interpretazione dei comprimari che tratteggiano con pochissimi tocchi personaggi minori eppure indimenticabili: Charles Waldron nei panni dell'anziano generale Sternwood, John Ridgely in quelli del losco Eddie Mars, Elisha Cook jr. in quelli dello sfortunato Harry Jones, e ancora Bob Steele (il killer Canino), Louis Heydt (la mezzatacca Joe Brody), Sonia Darrin (l'ambiziosa Agnes), e molti altri. Memorabili anche i dialoghi e le frasi lapidarie, come "In questa città girano troppe pistole e troppo pochi cervelli", o l'ultimo scambio di battute fra i due protagonisti: "Cos'hai che non va?" "Nulla che tu non possa sistemare".

Nota: esiste una versione precedente del film (chiamiamola director's cut), mai uscita nelle sale cinematografiche americane, nella quale la parte di Lauren Bacall era considerevolmente meno ampia. In seguito alla crescente popolarità della diva e alla sua love story con Bogey, i produttori decisero infatti di aumentare il suo spazio sullo schermo e Hawks fu costretto a rigirare intere sequenze (compreso il finale), sacrificando una scena in cui Marlowe ricapitolava tutta la vicenda a beneficio del procuratore generale (e degli spettatori!).

Morirai a mezzanotte (A. Mann, 1947)

Morirai a mezzanotte (Desperate)
di Anthony Mann – USA 1947
con Steve Brodie, Audrey Long
*1/2

Visto in DVD, con Marisa.

Un camionista, reduce di guerra e fresco di nozze, viene coinvolto da una banda di criminali in una rapina che va male (viene ucciso un poliziotto). I gangster vorrebbero che si accollasse tutta la colpa dell'accaduto per salvare uno dei loro uomini che rischia la sedia elettrica, ma lui preferisce una disperata fuga in compagnia della moglie. Un noir piuttosto ordinario e non molto interessante, nel quale sono da ricordare giusto un convincente Raymond Burr nei panni del cattivo e il gioco di sguardi incrociati nel finale, quando il protagonista e il gangster attendono la mezzanotte (l'ora in cui il secondo ha minacciato di uccidere il primo, come dice il titolo italiano), che sembra anticipare alcune sequenze di Sergio Leone. In quegli anni, sui temi del destino e della fuga, erano usciti film molto più interessanti (a partire da "Detour" di Ulmer). È uno dei rarissimi ruoli da protagonista per Brodie, caratterista confinato di solito in ruoli di contorno. Curiosità: il detective Ferrari è interpretato da Jason Robards Sr., padre del più noto Robards Jr.

9 marzo 2008

Lisa e il diavolo (Mario Bava, 1973)

Lisa e il diavolo
di Mario Bava – Italia 1973
con Elke Sommer, Telly Savalas
**

Visto in DVD, con Martin.

Primo film di Mario Bava che vedo. Lisa, una turista americana, si perde per le strade di una labirintica e arcana Toledo. Dopo aver accettato un passaggio in macchina da alcuni sconosciuti, si ferma con loro in una strana villa dove il tempo sembra essersi fermato e dove avvengono misteriosi omicidi. C'entra forse il mefistofelico maggiordomo che si aggira di notte trasportando angoscianti manichini e che assomiglia al demonio dipinto sulla cattedrale della città mentre porta via i morti? Un horror-thriller dalle atmosfere lugubri e soprannaturali, che a tratti ricorda persino Buñuel (il setting spagnolo, i manichini) o il Corman del ciclo di Poe (Lisa scopre di essere la sosia della defunta moglie del padrone di casa). Peccato che la tensione non salga mai sopra i livelli di guardia per colpa di una trama che gira in circolo e soprattutto di una protagonista inadeguata che non fa nulla se non correre di qua e di là con il volto pensieroso o terrorizzato. Molto meglio i comprimari, a partire dall'anziana matrona Alida Valli e dalla vittima Silva Koscina. Curioso e ironico il ruolo di Savalas, che di tanto in tanto vorrebbe fumarsi una sigaretta ma è costretto dalla padrona a ripiegare sui chupa-chupa (e pare che l'idea di farli succhiare anche a Kojak, nella serie televisiva che sarebbe partita lo stesso anno, sia nata proprio durante le riprese di questa pellicola). Del film esiste anche un'altra versione, intitolata "La casa dell'esorcismo", che il produttore Alfred Leone rimontò per sfruttare il successo del filone de "L'esorcista", e che il regista rifiutò di firmare (sul DVD c'era anche quella, ma non l'abbiamo vista).

8 marzo 2008

Big bang love, Juvenile A (T. Miike, 2006)

Big bang love, Juvenile A (46-okunen no koi)
di Takashi Miike – Giappone 2006
con Ryuhei Matsuda, Masanobu Ando
***

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Il timido Jun e il violento Shiro, entrambi condannati per omicidio, entrano in carcere lo stesso giorno e sviluppano una strana relazione omoerotica, con il secondo che protegge il primo dalle angherie dei compagni. Quando Shiro viene trovato strangolato, Jun se ne addossa la responsabilità. Ma due detective indagano, sospettando invece del direttore del carcere (Ryo Ishibashi, già protagonista di "Audition" e visto in un paio di film di Kitano), che aveva motivi personali per odiarlo.
Takashi Miike è un regista degli eccessi, mai banale e capace di sorprendere sempre, anche se talvolta la sua "cialtroneria" limita parecchio la qualità delle pellicole che realizza. Questo film è decisamente uno dei suoi lavori recenti più interessanti, soprattutto dal punto di vista estetico, e, pur presentando uno stile estremamente personale (ma meno violento del solito), di volta in volta sembra addirittura rifarsi a Jarman, a Fassbinder, a Ozon (per i temi gay e la teatralità della messa in scena, ma anche – nel caso del francese – per i colori vivaci della fotografia), a von Trier (le celle della prigione dipinte sul pavimento come in "Dogville", un'indagine in un'atmosfera malsana come in "L'elemento del crimine"), o a Godard (titoli e cartelli, il ciak in scena ad aprire la pellicola, la decostruzione narrativa). Come capita spesso in un certo tipo di cinema giapponese, però, si fa un po' fatica a entrare nella mente dei personaggi, che appaiono chiusi e distanti, e il coinvolgimento in parte ne risente. Fra rewind e fast forward temporali, fugaci apparizioni di fantasmi e ambienti essenziali od onirici (sia gli interni, che ricordano la pittura astratta o il teatro filmato, sia gli assurdi esterni, con piramidi egiziane e rampe di lancio per missili), il film affascina in maniera insolita, cresce dentro e forse meriterebbe visioni plurime! Il titolo originale significa "4,6 miliardi di anni d'amore", con riferimento all'età dell'universo.

7 marzo 2008

Monkey business (Norman McLeod, 1931)

Monkey business – Quattro folli in alto mare (Monkey Business)
di Norman McLeod – USA 1931
con Groucho, Chico, Harpo e Zeppo Marx
**1/2

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

I quattro fratelli Marx (che in questo film interpretano personaggi senza nome e che iniziano tutti dallo stesso punto di partenza, senza dinamiche preesistenti come quelle che di solito contrappongono la coppia Chico-Harpo a Groucho) si imbarcano come clandestini a bordo di un transatlantico in viaggio dall'Europa agli Stati Uniti. Dopo aver cercato di sfuggire in ogni modo agli ufficiali di bordo, vengono ingaggiati – due per parte – da due gangster che si trovano sulla nave: Chico e Harpo da Joe Helton, bandito "buono" che vuole ritirarsi dal giro (e che – caso unico – ride alle loro gag anziché rimanerne stizzito o esterrefatto); Groucho e Zeppo da Alky Briggs, mobster "cattivo" che vuole ereditare il racket del primo. A complicare le cose, Zeppo si innamora (ricambiato) della figlia di Helton, mentre Groucho (in mancanza della Dumont) corteggia la moglie di Briggs, l'affascinante bionda Lucille (Thelma Todd). Terzo film dei fratelli, ma primo a essere concepito direttamente per il cinema e non tratto da un loro spettacolo teatrale, è cinematograficamente più fluido dei precedenti grazie anche al lavoro di un vero regista, che dirigerà anche il successivo "Horse feathers". Chico resta un po' in ombra, mentre su tutti svetta Harpo in alcuni dei suoi numeri migliori (per esempio quello in cui si trasforma letteralmente in una marionetta del teatro dei burattini per sviare i suoi inseguitori). Memorabile anche il modo in cui tutti e quattro i fratelli cercano di scendere dalla nave facendosi passare per Maurice Chevalier e cantandone i brani (persino Harpo, con l'aiuto di un grammofono!). Non mancano i consueti numeri musicali per Chico e Harpo (che accompagna all'arpa una cantante in "O sole mio"!). Nel finale, dopo che i fratelli hanno svolto il classico ruolo di guastatori alla festa di Joe, Zeppo ha l'onore di uno scontro finale con Alky nel fienile dove questi ha portato la ragazza rapita (mentre Groucho improvvisa una radiocronaca come se si trattasse di un incontro di boxe). Alcuni elementi (il viaggio in nave, i clandestini, la cantante d'opera, il travestimento collettivo) torneranno in "Una notte all'opera".

6 marzo 2008

Il gabinetto del dottor Caligari (R. Wiene, 1920)

Il gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari)
di Robert Wiene – Germania 1920
con Werner Krauss, Conrad Veidt
***1/2

Rivisto in DVD, con Marisa, con cartelli in inglese.

Il manifesto dell'espressionismo tedesco, nonché precursore di molte pellicole con il twist ending (oggi un suo remake potrebbe benissimo essere girato da M. Night Shyamalan), è caratterizzato dalle scenografie sperimentali e pittoriche, deliranti e assurde, fasulle e contorte (case, strade e mobili sono distorti e obliqui come gli animi dei personaggi), da un senso di oppressione e paura che molti, col senno di poi, associarono al futuro avvento del nazismo, e da una storia piena di mistero e di suspense e con un finale memorabile, anche se a uno spettatore di oggi – abituato a tempi più rapidi e colpi di scena molteplici – potrebbe apparire poco intrigante. Il film si regge sulla possibile interpretazione di tutte le vicende (narrate in un lungo flashback) come del semplice frutto della fantasia e della paranoia di un malato di mente, rinchiuso in un manicomio, che sceglie come protagonisti del suo racconto i suoi compagni e il direttore dell'istituto (quest'ultimo naturalmente nei panni del "cattivo"). Proprio la follia del narratore permette di giustificare anche la deformità delle scenografie, trasfigurate dalla sua mente malata. Elementi come l'illusionismo e la magia, la fiera di paese, l'uomo ridotto ad automa e l'ambientazione senza tempo rimandano alla tradizione del racconto fantastico tedesco (alla E.T.A. Hoffmann), ma sottendono anche una critica di tipo politico e sociale. Fra le scene più memorabili ci sono quella in cui il sonnambulo Cesare penetra nella casa della fanciulla per rapirla e quella in cui il malvagio antagonista si aggira per le strade di notte, tormentato dalla sua ossessione di ripercorrere i passi del leggendario mistico Caligari (e attorno a lui compaiono le parole della frase "Du mußt Caligari werden!", "Tu devi diventare Caligari!", che fu voluta dal produttore Erich Pommer come slogan per il lancio dell'opera). Il regista, di origine polacca, realizzò il film (diviso in sei "atti") in sole tre settimane: in origine avrebbe dovuto girarlo il giovane Fritz Lang (Caligari come precursore di Mabuse, oltre che di Hitler?), che rifiutò per altri impegni di lavoro, anche se probabilmente i veri artefici del suo successo furono lo sceneggiatore Carl Mayer e gli scenografi Walter Röhrig, Herman Warm e Walter Reimann della rivista espressionista Der Sturm. La copia che ho visto era virata a colori.

Un uomo in prestito (M. Lehmann, 1996)

Un uomo in prestito (The truth about cats & dogs)
di Michael Lehmann – USA 1996
con Janeane Garofalo, Uma Thurman
**1/2

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Gradevole commedia romantica di stampo animalista e ispirata al "Cyrano": la protagonista Abby, infatti, è la simpatica conduttrice di un programma radiofonico di consigli veterinari, ma soffre di una carenza di autostima a causa della propria bassa statura. Così, quando un giovane e bel fotografo (Ben Chaplin), rimasto affascinato dalla sua voce e dai suoi consigli, le chiede un appuntamento, lei si descrive come "alta e bionda" e chiede alla propria vicina Noelle, una modella, di prendere il suo posto. Attraverso equivoci e situazioni scontate si giungerà all'immancabile lieto fine. L'affiatamento degli attori e il mestiere di Lehmann tengono a galla il film, anche se alcuni personaggi vengono persi per strada (come il compagno/manager di Noelle e l'amico-assistente di Chaplin, intepretato da Jamie Foxx).

5 marzo 2008

Le più belle truffe del mondo (aavv, 1964)

Le più belle truffe del mondo
(Les plus belles escroqueries du monde)
di Hiromichi Horikawa, Roman Polanski, Ugo Gregoretti, Claude Chabrol, Jean-Luc Godard – Fra/Ita/Ola/Gia 1964
**

Visto in divx, in francese.

Un film a episodi poco accattivante e poco omogeneo per stile (per lo più tendente alla commedia), nel quale spicca in positivo il segmento diretto da Polanski, al suo primo lavoro fuori dalla Polonia. Interessanti anche gli episodi di Godard e Gregoretti. Sui titoli di testa e come introduzione a ogni segmento c'è una canzone, non eccezionale, di Serge Gainsbourg.

Tokyo – "Les cinq bienfaiteurs de Fumiko", di Hiromichi Horikawa, con Mie Hama, Ken Mitsuda (*1/2)
Una ragazza che lavora come intrattenitrice in un locale segue fino a casa un cliente, un anziano musicista, per rubargli la dentiera di platino. Ma scoprirà che era falsa. Horikawa era stato assistente regista di Kurosawa, ma non ha ereditato il talento dell'Imperatore. La protagonista è simpatica, ma il film manda di... "mordente" (ah ah!).

Amsterdam – "La riviere de diamants", di Roman Polanski, con Nicole Karen, Jan Teulings (**1/2)
Una ragazza francese seduce un ricco diplomatico e si finge sua moglie per sottrarre a un gioielliere una preziosa collana di diamanti. Ma evidentemente non le interessava poi tanto, visto che subito dopo la baratta con un pappagallo (!). Ambientato in una Amsterdam cosmopolita e trafficata, dove ogni tanto si intravede la polizia che ripesca un'automobile finita nei canali, è l'episodio più bello, girato in maniera frizzante e con uno stile che il Mereghetti giustamente definisce "svagato e funambolico".

Napoli – "La feuille de route", di Ugo Gregoretti, con Gabriella Giorgelli, Beppe Mannaiuolo (**)
Una prostituta ha ricevuto il foglio di via e sarebbe costretta a tornare al paese natale. Un giovane studente in legge le suggerisce di sposare un vecchietto dell'ospizio per "mettersi in regola". L'idea piace al suo protettore, che sogna di applicarla su grande scala. Ma il vecchietto, che voleva consumare la sua prima notte di nozze, si vendica denunciando i due per adulterio. I toni a metà fra commedia e neorealismo salvano un po' un episodio che forse sarebbe stato più interessante con maggior tempo a disposizione per approfondire i personaggi.

Parigi – "L'homme qui vendit la tour Eiffel", di Claude Chabrol, con Francis Blanche, Jean-Pierre Cassel (*)
Una banda di truffatori, tutti con nasi e baffi finti, vende la torre Eiffel a un tedesco che ha una vera e propria venerazione per il monumento. Una farsa senza stile e senza idee, che sembra la brutta copia di una commedia all'italiana (ricorda infatti la gag della Fontana di Trevi di "Totòtruffa 62"). I personaggi sono soltanto delle macchiette, e le uniche scene belle sono quelle della Torre, che ricordano il documentario "La Tour" di René Clair. Catherine Deneuve ha una particina minuscola e dice solo una battuta (quasi di culto) al suo compagno, uno dei truffatori: "Ti preferisco con un naso finto".

Marrakech – "Le Grand Escroq", di Jean-Luc Godard, con Jean Seberg, Charles Denner (**)
Una giovane reporter americana (che si chiama Patrizia: è lo stesso personaggio di "À bout de souffle"?), in giro per il mondo per fare reportage, documentari e "cinema-verità", si aggira per la medina di Marrakech con una macchinetta per cineriprese e indaga su un misterioso falsario di biglietti di banca, che le spiega le proprie ragioni ("La charité ne pense pas le mal", dalla prima lettera ai Corinzi). Rispetto agli altri episodi, sembra decisamente fuori posto con le sue riflessioni filosofiche sul cinema, la società, la politica e l'economia, tipiche del Godard di quegli anni, e infatti il segmento era stato eliminato dalle versioni del film proiettate in Europa.

3 marzo 2008

Fuga da Alcatraz (Don Siegel, 1979)

Fuga da Alcatraz (Escape from Alcatraz)
di Don Siegel – USA 1979
con Clint Eastwood, Patrick McGoohan
***

Visto in DVD, con Martin.

Trasferito nella rocciosa isola che funge da carcere nella baia di San Francisco, il criminale Frank Lee Morris riuscirà ad evadere insieme a due compagni. Poco dopo, la prigione verrà chiusa per sempre. Ispirandosi a una storia vera (i tre evasi furono le prime e le uniche persone a essere mai fuggite da Alcatraz: le loro tracce non furono più trovate, e rimase il dubbio che fossero annegati nella baia), Siegel gira con uno stile asciutto e controllato un film pieno di atmosfera che sembra voler integrare al proprio interno tutti gli stereotipi e gli elementi classici del "prison movie": il direttore crudele che instaura un regime di dura disciplina, la solidarietà fra detenuti, il prepotente che prende di mira il nuovo venuto, l'immancabile periodo trascorso in isolamento. Ma la poca originalità non pesa affatto e anzi rende il film ancora più piacevole e familiare, perché tutto funziona alla perfezione (grazie anche al carisma di Clint) e perché regista e sceneggiatore non vanno mai sopra le righe, al punto da ricorrere molto raramente a scene d'azione o di violenza. Il riferimento cinematografico – mi è sembrato evidente – è "Un condannato a morte è fuggito" di Robert Bresson, con il quale il film ha in comune la lunga e metodica preparazione dell'evasione e la tesa e muta sequenza della fuga notturna.

2 marzo 2008

Ghost in the shell 2 (M. Oshii, 2004)

Ghost in the shell 2: L'attacco dei cyborg (Kokaku kidotai 2: Innocence)
di Mamoru Oshii – Giappone 2004
animazione tradizionale e al computer
**1/2

Visto in DVD.

Realizzato una decina di anni dopo il primo capitolo e scritto direttamente da Oshii (anziché essere tratto dal secondo volume del manga di Masamune Shirow), "GitS 2" colpisce per la grafica che fonde l'animazione tradizionale (non male) e quella in CGI (che invece non mi ha convinto e mi è sembrata già datata) e per essere il film che più di ogni altro si è avvicinato ai temi e all'aspetto visivo di "Blade Runner": spessissimo, infatti, si leggono paragoni con il capolavoro di Ridley Scott a proposito di pellicole fantascientifiche o cyberpunk: ma mai avevo visto somiglianze così forti come quelle nella prima parte (la migliore) di questo film: toni investigativi da giallo/noir, animali artificiali (il protagonista ha un cane, "clonato, perché quelli originali sono troppo costosi"), androidi che si ribellano, persino l'aspetto della città futuristica. Certo, la cosa non depone molto a favore della sua originalità. La trama vede l'agente Batou della polizia informatica indagare su una serie di misteriosi omicidi commessi da ginoidi, robot di compagnia dalle fattezze femminili che uccidono i loro proprietari per poi autodistruggersi (si citano, al riguardo, le tre leggi della robotica di Asimov). Scoprirà un atroce segreto che lo porterà a interrogarsi (come nell'episodio precedente) sulla natura dell'anima, lo "spirito nel guscio". La prima metà, che come detto sembra un poliziesco, non è male. Nella seconda, invece, la sceneggiatura spinge sulla differenze fra realtà e illusione e la storia si fa più confusa e noiosa. Nel complesso, dunque, un film un po' deludente ma comunque interessante e a tratti affascinante per i temi che tratta. Il protagonista, poi, mi è parso più riuscito rispetto alla Motoko del primo capitolo. A proposito di (poca) originalità, anche Kawai ricicla musiche dal primo episodio, mentre la canzone dei titoli di coda si basa su un brano del Concerto de Aranjuez di Rodrigo. L'abbondante ricorso a citazioni di frasi famose e proverbi da parte dei personaggi mi ha fatto sorridere, perché mi ha ricordato il Sakurambo di "Lamù" (che a dire il vero lo faceva negli episodi diretti non da Oshii ma da Kazuo Yamazaki).

Ghost in the shell (M. Oshii, 1995)

Ghost in the shell (Kokaku kidotai)
di Mamoru Oshii – Giappone 1995
animazione tradizionale
**1/2

Rivisto in DVD.

In una megalopoli futuristica e ipertecnologica, dove convivono uomini e cyborg, il maggiore Motoko Kusanagi e i suoi compagni fanno parte di un'unità speciale che si occupa di crimini informatici e cibernetici. La stessa Kusanagi ha un cervello potenziato e un corpo in gran parte artificiale. E indagando sul "Signore dei pupazzi", un misterioso hacker in grado di introdursi nella mente delle persone manipolandone le azioni come se fossero marionette e che si rivela essere un intelligenza artificiale (un progetto per lo spionaggio industriale diventato consapevole della propria esistenza), il maggiore giunge a interrogarsi sulla natura della propria umanità: un corpo artificiale con un'anima (uno "spirito nel guscio") è ancora un essere umano? Tratto dal manga di Masamune Shirow (dai testi quasi incomprensibili, ma disegnato splendidamente) e diretto da un regista al quale sarò sempre grato per aver realizzato tanti magnifici episodi di "Lamù", è un film che avevo visto una decina di anni fa, alla sua uscita, ma che avevo quasi dimenticato. In effetti, atmosfere cyberpunk e fantapolitiche a parte (hai detto nulla), la trama non è il massimo della memorabilità: devo però dire che rivedendolo, l'ho trovato persino più lucido e chiaro di quanto ricordassi. Pur rimanendo un po' freddo e cerebrale, il lungometraggio riesce ad affrontare in modo non banale temi filosofici "difficili" come quelli dello sviluppo dell'autocoscienza, della manipolazione della memoria, dei rapporti fra realtà e illusione/sogno/fantasia, presenti peraltro da sempre nella filmografia di Oshii (si vedano anche "Beautiful Dreamer" o "Avalon"). In fondo poco differenzia il maggiore Kusanagi dal Signore dei pupazzi, come dimostra il finale. Bellissima e suggestiva la colonna sonora (a base di cori) di Kenji Kawai, che ricorda in parte quella di "Akira". Nel 2004 arriverà un sequel, sempre diretto da Oshii, più complesso ma meno originale.

1 marzo 2008

Oltre il giardino (Hal Ashby, 1979)

Oltre il giardino (Being there)
di Hal Ashby – USA 1979
con Peter Sellers, Shirley MacLaine
***1/2

Visto in divx.

Chance è un anziano giardiniere analfabeta che ha trascorso tutta la propria vita nella residenza del suo datore di lavoro, a Washington. Dopo la morte di questi è costretto ad abbandonare la casa e ad andare alla scoperta di un mondo che conosce soltanto attraverso la televisione (esemplare la scena in cui, di fronte a un teppista in strada, gli punta contro il telecomando nel tentativo di cambiare canale). Entrato per caso in contatto con una delle famiglie più ricche e influenti della città, riscuote le simpatie di tutti e viene creduto un saggio uomo d'affari, profondo e con un gran senso dell'umorismo: i suoi silenzi vengono scambiati per pause di riflessione, e i suoi discorsi sul giardinaggio, la semina e le stagioni per metafore politiche o economiche. E Chance, che non si rende conto di quel che accade intorno a lui, in un irresistibile crescendo diventa addirittura consigliere del presidente degli Stati Uniti, mentre il mistero sul suo passato scatena un caso giornalistico e diplomatico che manda in tilt CIA e FBI.
Un film bello e delicato, talvolta forse poco credibile ma salvato da un humour mai sopra le righe e sorretto dalla magistrale prova di Sellers in quello che è considerato il suo testamento d'attore (è stato il suo penultimo film, e l'ultimo uscito mentre era ancora in vita), che dimostra come un comportamento stupido e vacuo ma abbastanza ambiguo possa essere scambiato per intelligenza e buon senso. Tutti i personaggi vedono in Chance qualcosa che semplicemente non c'è: di volta in volta viene considerato gentile e affabile, freddo e distaccato, abile calcolatore; l'ambasciatore russo crede che lui parli la sua lingua; Ben, l'eminenza grigia che lo ospita nella sua villa (un Melvyn Douglas che vinse l'Oscar), riesce addirittura – grazie alla sua "filosofia" – ad accettare l'idea della propria morte imminente; e sua moglie, la brava Shirley MacLaine, se ne innamora perché convinta di trovarsi di fronte a una spiccata sensibilità (le scene in cui lei tenta pateticamente di sedurlo, mentre lui è manifestamente indifferente, sono eccezionali). L'unico momento in cui sembra mostrare un sentimento "vero" è quando piange dopo la morte di Ben. Nel finale, mentre i funzionari di partito valutano l'opportunità di candidare il giardiniere alla presidenza, lo vediamo addirittura camminare sulle acque: un modo per sottolineare come Chance sembri ormai – anche agli spettatori – più di quello che è davvero? Interessante, nella colonna sonora, l'uso di una versione arrangiata di "Also sprach Zarathustra" quando Chance si accinge, per la prima volta, all'esplorazione dello "spazio" attorno a lui. E interessante anche fare un paragone con "Forrest Gump": quest'ultimo è scemo e dunque saggio; Chance invece è scemo e basta, e la sua saggezza esiste solo nella mente dei suoi interlocutori, che sono portati a vederla anche perché l'uomo che si trovano di fronte sembra rispecchiare i loro preconcetti (come dice la vecchia domestica di colore, se fosse stato nero non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo). "La vita è uno stato mentale" recita l'ultima frase della pellicola, che mi è piaciuta anche se ho avuto l'impressione che – proprio come il suo protagonista – a tratti sembri dire cose più profonde di quanto siano davvero. Ma il film è perfettamente riuscito come satira della politica, dell'economia e di una società americana dove la televisione è onnipresente in ogni stanza.