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18 ottobre 2022

Il peccato di Lady Considine (A. Hitchcock, 1949)

Il peccato di Lady Considine (Under Capricorn)
di Alfred Hitchcock – GB 1949
con Ingrid Bergman, Joseph Cotten, Michael Wilding
**1/2

Visto in TV (Prime Video).

Australia, 1831. Charles Adare (Wilding), gentiluomo irlandese giunto a Sydney per fare fortuna, conosce Sam Flusky (Cotten), ex galeotto che, scontata la pena, è diventato un ricco proprietario terriero. Questi lo assume per tenere compagnia alla moglie, Lady Henrietta Considine (Bergman), che vive isolata dalla società e soffre di depressione. La coppia, infatti, è tormentata da un tragico passato (lui fu condannato ai lavori forzati per aver ucciso in Europa il fratello di lei, che disapprovava la loro unione per via della differenza di classe: aristocratica la donna, un semplice stalliere l'uomo) e da un stigma sociale che non l'ha abbandonata nemmeno all'altro capo del mondo... Secondo film in technicolor di Hitchcock dopo il precedente "Nodo alla gola", nonché terzo e ultimo con la Bergman come protagonista (dopo "Notorious" e "Io ti salverò"), segna anche il breve ritorno di sir Alfred in Inghilterra, dove dirigerà ancora un altro film ("Paura in palcoscenico") prima di ritrasferirsi definitivamente a Hollywood. Si tratta di un melodramma romantico a sfondo storico-sociale, piuttosto sopra le righe e abbastanza lontano dai soliti thriller cari al regista (anche se non mancano paralleli con lavori realizzati in precedenza, si pensi a "Rebecca"): l'ottima qualità della regia, assai mobile ed elaborata, che fa ampio ricorso a lunghi piani sequenza, e l'uso dei colori, quasi pastello, dona all'insieme un'aura tutta particolare, al limite dell'astratto o dell'irreale, il che gli consente di superare i limiti di un soggetto – tratto da un romanzo di Helen Simpson – da soap opera (un mix fra "L'amante di Lady Chatterley" e certi polpettoni storici ambientati in luoghi esotici), evidenti per esempio nel personaggio della governante Milly (Margaret Leighton), la domestica di casa, ambigua e manipolatrice. Buone le prove degli attori: da ricordare il lungo monologo della Bergman in cui Henrietta confessa a Charles il proprio tragico passato. Il film è noto in Italia anche con il titolo "Sotto il capricorno", traduzione letterale dell'originale (il capricorno in questione è il tropico che attraversa l'Australia).

16 luglio 2021

Shine (Scott Hicks, 1996)

Shine (id.)
di Scott Hicks – Australia 1996
con Geoffrey Rush, Noah Taylor
**1/2

Rivisto in divx, alla Fogona.

Il film racconta la vita di David Helfgott, pianista australiano che dopo una carriera da giovane prodigio fu colpito da disturbi schizofrenici, qui simbolicamente e artisticamente associati all'esecuzione del terzo concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninov (il “Rach 3”), così monumentale e difficile da esaurire ogni energia fisica e psichica di un musicista incapace di controllare le proprie emozioni. Ma la vera origine dei problemi mentali di David, stando alla sceneggiatura di Jan Sardi, è da far risalire al rapporto problematico con un padre severo ed esigente, Peter (Armin Mueller-Stahl), ebreo di origine polacca, che da un lato ha contribuito a instillare nel figlio l'amore per la musica (“investendo” su di lui per compensare le proprie aspirazioni personali deluse), ma dall'altro lo ha sempre represso e ostacolato nella sua ricerca di un equilibrio personale, opponendosi per esempio alla sua uscita di casa quando viene invitato a studiare in America o in Inghilterra. Narrato in gran parte in flashback, il film segue tutta la vita di David, fra alti (pochi) e bassi (molti), mostrandone il progredire della pazzia di pari passo con le esibizioni pianistiche: e nonostante alcuni difetti (qualche deviazione dalla realtà dei fatti, una certa mancanza di sottigliezza e un finale un po' troppo conciliatorio) riesce a trasmettere come pochi altri – e grazie alla potenza delle immagini e della musica (l'esecuzione di un concerto diventa un vero e proprio tour de force fisico e mentale, un misto di fatica, suono e sudore che non può che condurre a un esaurimento nervoso) – il sottile legame fra genio e follia, fra arte e vita, fra passione e irrequietezza. David è interpretato, da bambino, adolescente e adulto, rispettivamente da Alex Rafalowicz, Noah Taylor e Geoffrey Rush. Quest'ultimo, che vinse l'Oscar (la pellicola ricevette in tutto sette nomination, comprese quelle per il miglior film e la regia), è l'unico dei tre a non aver bisogno di una controfigura nelle scene in cui suona: l'attore, che aveva studiato pianoforte fino ai 14 anni, ricominciò a prendere lezioni per non dover ricorrere a un “hand double”. Nel cast anche Nicholas Bell (Rosen), John Gielgud (Cecil) e Lynn Redgrave (Gillian).

20 aprile 2021

Spirits of the air, gremlins of the clouds (A. Proyas, 1989)

Spirits of the air, gremlins of the clouds
di Alex Proyas – Australia 1989
con Michael Lake, Rhys Davis, Norman Boyd
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Il misterioso Smith (Norman Boyd), in fuga da qualcuno, attraversa il deserto fino a giungere alla fattoria sperduta dove vivono i fratelli Felix (Michael Lake) e Betty (Rhys Davis). Mentre la donna teme l'arrivo dello straniero che ritiene essere un demone e progetta di mandarlo via, l'uomo, inventore paralitico e ossessionato dal volo, chiede l'aiuto di Smith per costruire una "macchina volante", necessaria per superare l'alta muraglia di montagne invalicabili che circondano il deserto verso nord. L'opera prima (dopo alcuni cortometraggi) di Alex Proyas, per lungo tempo quasi irreperibile (ma è stata restaurata e riproposta in home video nel 2018), è una bizzarra pellicola con soli tre personaggi, visionaria e ricca di suggestioni, a partire dalla fotografia colorata e ipersatura di David Knaus che sembra anticipare certi lavori di Darius Khondji (come i primi film di Jeunet). Lo scenario è quasi un incrocio fra il mondo post-apocalittico di "Mad Max" (sempre di deserto australiano si tratta, in fondo), un western e un manga (vedi anche il trucco e gli abiti eccentrici ma di stampo "nipponico" della sciroccata Betty), con notevoli sottotesti onirici e religiosi (la fattoria dei due fratelli è letteralmente tappezzata di croci), dominato dal tema del volo. Interessante anche la colonna sonora di Peter Miller. Nel complesso è un film originale e fumettoso, interessante anche se dall'andamento lento e statico, che Proyas ha scritto, diretto e prodotto con un budget limitato prima di fare il gran salto a Hollywood dove realizzerà "Il corvo" e "Dark city".

14 giugno 2020

Babadook (Jennifer Kent, 2014)

Babadook (The Babadook)
di Jennifer Kent – Australia 2014
con Essie Davis, Noah Wieseman
***

Visto in TV.

Dopo la morte del marito, Amelia (Davis) vive faticosamente da sola con il figlio Samuel. Il bambino è irrequieto e iperattivo, ha forti problemi di comportamento e di relazione con gli altri (anche e soprattutto per via della mancanza di un padre), ed è spaventato dai "mostri" che crede si nascondino nella vecchia casa, sotto il letto o nell'armadio, per affrontare i quali progetta ogni tipo di arma rudimentale. Quando trova per caso un libro illustrato sul perfido Babadook, creatura oscura e minacciosa, le sue paure crescono a dismisura. E l'ansia e l'angoscia cominciano a impossessarsi anche della madre, sempre più stressata, che inizia a sentirsi a sua volta perseguitata e a perdere il contatto con la realtà... Opera prima dell'australiana Jennifer Kent, ex attrice e assistente di Lars von Trier, questo horror domestico e claustrofobico sembra quasi una versione al femminile di "Shining", con la progressiva pazzia che si impadronisce di un genitore, mettendo in pericolo il suo stesso figlio (ci sono anche altri elementi in comune: la vecchia vicina di casa che ricorda il custode dell'albergo, o il fatto che Amelia facesse la scrittrice). Non c'è da stupirsi che sia piaciuto molto a Stephen King. Di suo, su una trama non troppo originale, aggiunge riflessioni sulle difficoltà della maternità, soprattutto quando si è una madre single: pur fra molte esagerazioni, colpiscono nel segno, anche perché provengono appunto da una cineasta donna. In ogni caso, in quanto horror, a tratti il film fa davvero paura, essendo girato premurandosi di non mostrare mai troppo apertamente il mostro (modellato su "Nosferatu") e lasciando che ad emergere sia "il male dentro di noi", da lui risvegliato, il che ne fa quasi un thriller psicologico sulla nevrosi e la pazzia, con atmosfere tenebrose e inquietanti. Il bambino, comunque, è davvero insopportabile.

24 settembre 2019

Babyteeth (Shannon Murphy, 2019)

Babyteeth
di Shannon Murphy – Australia 2019
con Eliza Scanlen, Toby Wallace
**1/2

Visto al cinema CityLife Anteo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

La sedicenne Milla (Eliza Scanlen), figlia di uno psichiatra (Ben Mendelsohn) e di un'ex pianista (Essie Davis), è gravemente malata di tumore allo stadio terminale. Ma i suoi ultimi mesi sono caratterizzati da una "botta di vita" con l'infatuamento per il ventitreenne Moses (Toby Wallace), delinquentello di strada e piccolo spacciatore: una relazione che i genitori dapprima osteggiano e poi cercheranno invece di favorire, pur di rendere felice la ragazza. Opera prima di una regista che in precedenza ha diretto cortometraggi ed episodi di serie televisive, la pellicola ha un'origine teatrale (da una commedia di Rita Kalnejais, che ha adattato la sceneggiatura) ma non ci se ne accorge, per come è girata in maniera vivace e sbarazzina, anche visivamente, con una leggerezza che stupisce visto il tema trattato. Diviso in micro-capitoletti (ciascuno con un proprio titolo, spesso ironico o pretestuoso, che appare sullo schermo), il film accatasta situazioni di vita familiare, ribellione adolescenziale, problematiche legate all'uso (e all'abuso) di farmaci (che coinvolgono un po' tutti i personaggi: il padre li prescrive, la madre li utilizza per i propri problemi di depressione, la figlia ne è dipendente per la malattia, il fidanzato perché li ruba e li spaccia), ma anche il legame con la natura e soprattutto con la musica (il primo amore della madre, pianista classica, che spinge anche la figlia a imparare a suonare il violino). Peccato che, man mano che procede, la storia si sfilacci un po'. In ogni caso, una visione simpatica e piacevole. Eugene Gilfedder è l'insegnante di musica (e vecchio partner della madre di Milla), Emily Barclay la vicina di casa incinta (con cui il padre ha la tentazione di una scappatella extraconiugale).

26 settembre 2018

The nightingale (Jennifer Kent, 2018)

The nightingale
di Jennifer Kent – Australia 2018
con Aisling Franciosi, Baykali Ganambarr
*1/2

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

Per inseguire l'ufficiale britannico (Sam Claflin) e i due soldati che l'hanno violentata e hanno ucciso suo marito e suo figlio, l'ex galeotta irlandese Clare (Franciosi) si fa guidare dall'aborigeno Billy (Ganambarr) fra i boschi della Tasmania del 1825 (che allora era una colonia penale a cielo aperto). Fra i due nascerà una sorta di solidarietà, in quanto entrambi hanno perso la propria famiglia per colpa degli inglesi. Un revenge movie forzato, melodrammatico, manipolatore e manicheo, oltre che inutilmente lungo. Anche perché la protagonista cambia idea e personalità ad ogni svolta, soltanto per rimandare l'inevitabile resa dei conti e prolungare l'inseguimento. Anche le ripetute scene di violenza e uccisioni appaiono gratuite, al solo scopo di mostrare quanto cattivi siano i cattivi. Alcuni critici americani avevano polemizzato quest'anno con la Mostra di Venezia perché in concorso c'era soltanto un film di una regista donna: ma dopo averlo visto si può ben dire che sarebbe stato meglio se non ci fosse stato nemmeno questo (che pure la giuria ha voluto premiare con un contentino). Buona comunque la parte centrale, quando sono in scena soltanto la protagonista e l'aborigeno, che in mezzo alla natura riescono a superare le rispettive diffidenze e a scoprire quanto abbiano in comune (a partire dal canto e dal soprannome: "usignolo" lei, "merlo nero" lui). Pretestuoso (e in fondo inutile) il formato 4:3.

15 aprile 2018

Predestination (Michael e Peter Spierig, 2014)

Predestination (id.)
di Michael e Peter Spierig – Australia 2014
con Ethan Hawke, Sarah Snook
**1/2

Visto in divx.

In un pub di New York nel 1970, un barista (Ethan Hawke) ascolta la bizzarra storia di un cliente (Sarah Snook), scrittore di "confessioni intime" per riviste di terz'ordine, che gli racconta le numerose e contorte traversie della propria vita: nato donna e cresciuto in un orfanotrofio, ha cambiato sesso poco dopo aver dato alla luce una bambina che è stata misteriosamente rapita a pochi giorni dalla nascita: inoltre è stato abbandonato dall'uomo che l'aveva messa incinta, di cui ignora persino l'identità. A sorpresa il barista gli rivela di essere un agente temporale, e gli offre la possibilità di tornare indietro nel tempo per vendicarsi del misterioso seduttore... Da un racconto breve di Robert A. Heinlein ("Tutti voi zombie", noto in Italia anche come "Tutti i miei fantasmi"), una sofisticata pellicola sui paradossi temporali, di cui mette in scena praticamente tutti gli esempi più classici, e anche di più (l'uomo che è padre e madre di sé stesso). Rispetto al materiale di partenza, i due fratelli tedesco-australiani (anche sceneggiatori) aggiungono un'ulteriore sottotrama per accrescere la tensione (l'agente temporale è alla caccia di un terrorista che sembra prevedere ogni sua mossa), ma restano comunque fedeli allo spirito del racconto di Heinlein. Se alcune svolte sono prevedibili durante la visione (basta aver letto un po' di letteratura fantascientifica sul tema, provare a ragionare sui presupposti, oltre che conoscere certe regole cinematografiche: quando non si mostra mai il volto di un personaggio, è perchè è previsto un colpo di scena che lo riguarda), l'insolita costruzione della pellicola (la prima metà è tutta riservata al racconto in flashback di Jane/John) e la sua altissima densità lo elevano comunque sopra la media del genere, quel tipo di fantascienza che si basa più sui personaggi e sulle loro vicende che non sugli effetti speciali o le scene d'azione. Ecco perché, nonostante la complessa struttura a incastro (ma non è più complicato da seguire di "Memento" o de "I soliti sospetti") e la scelta di aggiungervi una piega da thriller, a emergere sono i temi esistenziali e filosofici (l'identità e la consapevolezza di sé, il destino e la libertà di scelta): questo perché è scritto con intelligenza e interpretato con coraggio e intensità (spicca la Snook, in un ruolo multiplo e non certo facile). Resta forse il dubbio che si tratti solo di un gioco intellettuale (il racconto originale è stato scritto in un solo giorno, quasi una sfida di Heinlein con sé stesso), ma i personaggi sono ben caratterizzati e la loro storia è talmente curiosa e interessante da appassionare per tutta la durata del film. Annotarsi la cronologia degli eventi o concedersi una seconda visione, in ogni caso, può aiutare. Peter Spierig firma anche la colonna sonora. Heinlein è citato a più riprese (c'è un dottore che si chiama così, si intravedono altri libri scritti da lui).

27 settembre 2016

La luce sugli oceani (D. Cianfrance, 2016)

La luce sugli oceani (The light between oceans)
di Derek Cianfrance – USA/Australia/NZ 2016
con Michael Fassbender, Alicia Vikander
*1/2

Visto al cinema Plinius, con Daniela, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Reduce dagli orrori della prima guerra mondiale e in cerca di solitudine, il taciturno Tom Sherbourne (Michael Fassbender) si trasferisce a vivere come guardiano del faro su un isolotto al largo della costa dell'Australia, insieme alla giovane moglie Isabel (Alicia Vikander). Questa, sconvolta dalla perdita di due figli nati morti, insisterà per tenere per sé la neonata giunta fin lì su una barca a remi, insieme al cadavere del padre, convincendo il marito a seppellire l'uomo e a non dire nulla dell'accaduto, facendo credere a tutti che si tratti di loro figlia. Ma quattro anni più tardi, quando scoprirà che la madre della bambina (Rachel Weisz), che abita nel villaggio sull costa di fronte, ancora piange la scomparsa della figlia, Tom si farà prendere dai sensi di colpa e lascerà che la verità venga a galla, a costo di pagarne le conseguenze... Dal romanzo d'esordio di M. L. Stedman, un drammone strappalacrime sui temi della colpa, del perdono e dell'espiazione. A una prima parte intrisa di romanticismo patinato, e a una sezione centrale che riesce effettivamente a risultare intensa, con i dilemmi morali che sconvolgono la coscienza di Tom, segue una parte finale che rovina tutto con il suo melodramma esasperato e artificioso, e una sceneggiatura che cerca in tutti i modi (e fin troppo scopertamente) di provocare emotivamente lo spettatore. Il risultato è un polpettone stucchevole e retorico, al quale concorrono persino gli scenari naturali (il mare, il vento, i tramonti) e le musiche di Alexandre Desplat, per non parlare della bambina bionda che gioca sull'erba. Ottimi comunque i tre protagonisti.

30 maggio 2015

Mad Max: Fury Road (George Miller, 2015)

Mad Max: Fury Road (id.)
di George Miller – Australia/USA 2015
con Tom Hardy, Charlize Theron
***1/2

Visto al cinema Orfeo, con Monica e altra gente.

A distanza di trent'anni, George Miller torna sorprendentemente al personaggio con cui aveva esordito, sfornando un quarto capitolo della saga che surclassa tutti i precedenti (nonché buona parte dell'odierno cinema hollywoodiano d'azione) per adrenalina, intrattenimento, energia e ritmo, il tutto senza sacrificare i personaggi e le loro motivazioni. Praticamente il regista ha preso il "pezzo forte" dei lungometraggi antecedenti (ovvero gli inseguimenti finali, che occupavano i 20-30 minuti conclusivi dei film del 1981 e del 1985) e lo ha esteso per l'intera durata della pellicola, realizzando un manifesto del cinema d'azione che consiste essenzialmente in una corsa continua e forsennata nel deserto con inseguimenti e battaglie senza esclusione di colpi, senza un attimo di tregua e senza tempi morti. L'ambientazione post-apocalittica, barbarica e violenta che ha sempre contraddistinto la saga (con tanto di personaggi sopra le righe, ma caratterizzati alla perfezione con pochissimi tocchi di scrittura) fa il resto: e il divertimento non manca, anche perché la sceneggiatura mette da parte ogni tipo di zavorra concettuale e ideologica (il politically correct, per esempio: qui non c'è scampo per nessuno, e nemmeno donne incinte, bambini o vecchiette possono dirsi al sicuro) per concentrarsi sull'azione sfrenata e su una trama, come al solito, semplicissima ma coinvolgente e che va dritta al punto. Nel ruolo del protagonista, l'ex poliziotto Max Rockatansky divenuto vagabondo che lotta per la propria sopravvivenza ma che, in un modo o nell'altro, si trasforma sempre in un eroe riluttante destinato a salvare gli altri (e ad allontanarsi nel finale dopo averlo fatto, come se per lui non ci possa essere mai un luogo dove fermarsi e riposare: un perfetto "eroe senza nome" da film western, insomma), non c'è più Mel Gibson (ormai "troppo vecchio" per la parte) ma un azzeccato Tom Hardy, che fra l'altro era già stato protagonista di un altro film interamente on the road, ovvero il bellissimo "Locke". Il suo Max, taciturno e individualista come sempre, è ancora più "pazzo" di quello di Gibson, giustificando ad un ulteriore livello il suo soprannome: "sente le voci" e ha improvvise visioni di coloro che ha amato e non ha potuto salvare, lampi che alludono al suo passato (per chi ha visto i film precedenti) ma che non appesantiscono il personaggio, o la sua vicenda, per i neofiti (come tutti i film della saga, anche questo è perfettamente godibile da solo; la continuity della serie sembra azzerarsi ogni volta: qui all'inizio, per breve tempo, Max ha addirittura nuovamente la sua V8 Interceptor).

Se Max non è mai stato così "Mad" (persino all'interno di un mondo ancora più folle di lui), al suo fianco c'è una strepitosa Charlize Theron, forse nel ruolo finora più convincente della sua carriera, nei panni di Furiosa: al tempo stesso violenta guerriera e fragile donna in cerca di redenzione, di un rifugio e (lo si capisce dallo sguardo) di amore. Proprio lei mette in moto la vicenda quando fugge dalla Cittadella governata dall'anziano tiranno-patriarca Immortan Joe, portando via con sé (a bordo di una "blindo-cisterna") le sue cinque concubine, con l'intenzione di attraversare il deserto in cerca di una vita migliore. Joe scatena tutte le sue truppe all'inseguimento, composte in gran parte dai suoi "figli di guerra", giovani emi-vita che si lanciano incontro alla morte con il sorriso (cromato!) sulle labbra, pronti all'appuntamento con il Valhalla (e fra questi rimane memorabile Nux, interpretato da un eccellente Nicholas Hoult, vero e proprio terzo protagonista della storia). Nella lotta è naturalmente coinvolto anche il nostro Max, che non tarderà a mettersi dalla parte delle fuggitive. La sequela di corse, inseguimenti, scontri e battaglie procede senza soluzione di continuità dall'inizio alla fine del film, con non pochi colpi di scena che sarebbe un peccato anticipare. Mai come in questo caso, comunque, la forma e il contenuto si fondono, con la prima in grado di veicolare il secondo (che non è assente, attenzione). A questo proposito, fondamentale e spettacolare l'estetica della pellicola, con una fotografia che sfrutta fino in fondo la tavolozza di colori digitali (il giallo e il rosso del deserto, il blu della notte) per mettere in scena un mondo di sabbia, sangue, ferro e fuoco, e un montaggio che si nutre del turbinio di motori rombanti e ruote fumanti, mentre i personaggi si battono con armi di ogni tipo, dai fucili ai pugnali, dagli arpioni alle catene, senza lasciare la presa sui volanti a forma di teschio. Come dicevo, memorabili tutti i personaggi, anche quelli minori, i cattivi in caccia come le vecchiette motorizzate; e in mezzo a tanti barbari mostruosi e deformi, l'aspetto angelico delle cinque mogli di Joe è incredibilmente straniante: per la cronaca, si tratta delle modelle Rosie Huntington-Whiteley, Zoë Kravitz (figlia di Lenny), Riley Keough (nipote di Elvis Presley), Abbey Lee Kershaw e Courtney Eaton. Fra le figure più kitsch, merita però una menzione il chitarrista che accompagna gli inseguitori, fornendo loro una colonna sonora diegetica a base di hard rock (ma nella soundtrack, per inciso, c'è anche il "Dies irae" dal Requiem di Verdi). Grande successo di critica e di pubblico, e strada sicuramente spianata per ulteriori sequel.

29 maggio 2015

Mad Max: Oltre la sfera del tuono (Miller, Ogilvie, 1985)

Mad Max - Oltre la sfera del tuono (Mad Max Beyond Thunderdome)
di George Miller, George Ogilvie – Australia 1985
con Mel Gibson, Tina Turner
**

Rivisto in divx.

Il terzo (e per lungo tempo rimasto l'ultimo) film della serie di "Mad Max", è per molti versi il più debole della saga, sicuramente il meno originale. Ritrae un mondo ancora più barbarico di quello dei film precedenti, forse perché sono trascorsi più anni dalla guerra nucleare che ha sconvolto il pianeta: ora persino l'acqua è una risorsa preziosa, e i pochi avamposti di "civiltà", come la città di Bartertown che fa da sfondo alla prima parte della pellicola, si basano sul baratto e sulla legge del più forte. Il comando di Bartertown è conteso fra la corrotta Aunty (Tina Turner), che gestisce i commerci e l'ordine pubblico, e il nano Master (Angelo Rossitto), direttore della fabbrica che fornisce energia alla città (attraverso il metano prodotto dallo sterco dei maiali: una metafora fin troppo esplicita!). Aunty chiede a Max di sconfiggere per suo conto Blaster, la colossale guardia del corpo di Master, attraverso un duello nella Thunderdome, la gabbia-arena al centro della città. Il nostro eroe finisce però per tradire la fiducia della donna, che lo esilia così nel deserto. Qui incontrerà una tribù di ragazzini che vivono in una piccola oasi, una pozza d'acqua circondata dalle rocce, e li guiderà verso una nuova dimora. Come al solito i collegamenti con i film precedenti sono esili o contraddittori (abbiamo addirittura un personaggio, l'aviatore interpretato da Bruce Spence, che torna dalla seconda pellicola ma che non riconosce Max, né è riconosciuto da quest'ultimo), il che è forse un vantaggio perché consente di godersi ogni singolo episodio come se si trattasse di un reboot della saga. Il problema però è che stavolta manca l'originalità (tanto lo scenario della città perduta, quanto quello della tribù dei bambini, non sono particolarmente innovativi all'interno del filone post-apocalittico) ed è assente anche l'energia delle stimolanti sequenze d'azione e di corsa su auto o moto. Solo nel finale abbiamo un inseguimento che prova a imitare quello del film precedente, stavolta a un treno anziché a un'autocisterna, ma l'effetto è decisamente in tono minore. Per il resto la serie sembra ammantarsi di atmosfere new age, con i bambini che mettono Max e gli aeroplani al centro di una religione non dissimile dai "cargo cult" di certi indigeni del Pacifico. Proprio la presenza della tribù dei bambini (che ricordano anche i "bimbi perduti" di Peter Pan) rischia di infantilizzare un po' il setting, come invece non accadeva con il Feral Kid del secondo film per via della sua furia selvaggia. Ma quella dell'abbassamento dell'età del target era un po' una tendenza del cinema fantastico dei primi anni ottanta (si pensi anche a "Il ritorno dello Jedi"). Byron Kennedy, il produttore storico della serie, era scomparso in un incidente di elicottero durante la fase di pre-produzione della pellicola, e Miller ne fu talmente sconvolto da meditare persino di non dirigere più il film: alla fine scelse di farsi aiutare dall'amico George Ogilvie, che dunque figura come co-regista. Oltre che recitare nel ruolo di Aunty, Tina Turner canta due canzoni, fra cui "We Don't Need Another Hero (Thunderdome)" sui titoli di coda. Nota finale: finalmente anche i titoli italiani cominciano a mettere in rilievo il nome del protagonista; d'altronde la V8 Interceptor era andata distrutta nella pellicola precedente.

27 maggio 2015

Interceptor - Il guerriero della strada (G. Miller, 1981)

Interceptor - Il guerriero della strada
(Mad Max 2: The Road Warrior)
di George Miller – Australia 1981
con Mel Gibson, Bruce Spence
***1/2

Rivisto in divx.

Dopo una guerra nucleare che ha devastato il pianeta, il mondo è piombato nella barbarie, una sorta di nuovo medioevo in cui la legge e l'ordine non esistono più, imperano saccheggi e violenze, e la risorsa più importante è il carburante (persino più, pare, delle riserve alimentari: per quelle, basta sfamarsi con il cibo per cani, come mostra una delle scene più memorabili all'inizio del film). Max (Gibson), ex agente di polizia, vaga ora per le strade del deserto australiano (ribattezzate "Le terre perdute") a bordo della sua V8 Interceptor, senza più obiettivi se non la sopravvivenza giorno per giorno. L'incontro con un bizzarro pilota di elicotteri (Bruce Spence) lo porta a scoprire un insediamento fortificato i cui abitanti riescono ad estrarre petrolio e a raffinarlo, sperando di accumularne abbastanza per fuggire verso il mare (a duemila miglia di distanza) e un futuro migliore. Nonostante l'iniziale riluttanza, Max si unirà a loro per aiutarli a sconfiggere la banda di violenti predoni che assedia l'accampamento (guidati dal malvagio Lord Humungus). Dopo l'inatteso ed enorme successo del film a basso costo "Mad Max" (da noi intitolato "Interceptor": e l'assenza di un numero 2 nel titolo italiano del sequel porterà spesso a confondere le due pellicole), Miller ebbe a disposizione un budget decisamente più elevato per realizzarne il seguito, riuscendo così a portare sullo schermo in maniera compiuta quell'ambientazione post-apocalittica che aveva sempre avuto in mente e che entrerà a far parte dell'immaginario collettivo degli anni ottanta e oltre (si pensi, in particolare, alla serie di "Ken il guerriero", che a questo film è debitore per gli scenari, le atmosfere e numerosi personaggi). Rispetto al prototipo il registro è differente, più cupo ma anche più bizzarro, come mette subito in chiaro la voce epica di un narratore in stile Conan il Barbaro (e solo alla fine del film sapremo a chi appartiene quella voce da anziano), che riepiloga velocemente gli eventi del primo film e fornisce vaghe informazioni sullo scenario in cui si muovono i personaggi.

Nonostante la scarsità di dettagli, proprio l'ambientazione è il formidabile punto di forza della pellicola: raramente la fine della civiltà e l'avvento di una nuova barbarie, in cui la vita umana non ha più valore e le forme di aggregazione sociale seguono regole differenti, erano state rappresentate con tale efficacia. A essa contribuiscono i personaggi, in particolar modo i cattivi, predoni motorizzati che vanno oltre le semplici bande di motociclisti visti in precedenza: l'abbigliamento, le maschere, il linguaggio e l'atteggiamento ne fanno qualcosa a metà strada fra i punk, i wrestler, i gladiatori e i barbari medievali, con connotazioni fra l'altro omoerotiche (uno dei cattivi, Wez, è indubbiamente legato a uno dei suoi compagni; lo stesso Humungus sfoggia una tenuta, maschera a parte, quasi sadomaso), e la mancanza di informazioni su di loro e sul loro passato non fa che accentuarne la sensazione di pericolosità, peraltro confermate da diverse scene che li vedono mettere in pratica stupri e violenze. Ma in generale, con pochi tocchi (eccezionale soprattutto il lavoro sui costumi), Miller riesce a caratterizzare in maniera sorprendente tutti i personaggi, anche quelli minori, fra i "buoni" così come fra i "Vermi" (come si chiamano i predoni). Basti pensare allo stesso Spence (il pilota di elicotteri, con cuffia e occhiali da aviatore), alla ragazza guerriera, al bambino selvaggio con il boomerang, e ad altri ancora. Il lavoro di regia con la camera car, il ritmo e il senso dell'azione (già ammirati nel primo film) salgono di livello e culminano nella mezz'ora finale, la lunga e ininterrotta sequenza d'azione con l'inseguimento alla motrice, guidata da Max, che trasporta la cisterna piena del prezioso carburante. Gibson incarna alla perfezione l'eroe riluttante e taciturno, quasi inespressivo, dal passato misterioso (in particolare per chi non avesse visto la pellicola del 1979), pronto a salvare gli altri ma non sé stesso: una vera e propria figura iconica, da paragonare a tanti eroi del western. All'epicità dell'insieme contribuisce anche il commento musicale di Brian May.

26 maggio 2015

Interceptor (George Miller, 1979)

Interceptor (Mad Max)
di George Miller – Australia 1979
con Mel Gibson, Joanne Samuel
**1/2

Rivisto in divx.

In un futuro non molto distante, in cui le risorse e le materie prime cominciano a diminuire, gli agenti della Main Force Patrol (MFP) mantengono a fatica l'ordine sulle strade. Uno di questi poliziotti, Max Rockatansky (un Gibson praticamente al debutto), deve fronteggiare una feroce banda di motociclisti drogati e psicopatici che hanno ucciso il suo collega Goose. Quando i banditi se la prendono anche con sua moglie e suo figlio, Max diventa "pazzo" e scatena la sua vendetta... Il primo film della saga di "Mad Max", nonché pellicola d'esordio del regista australiano George Miller, fu ai suoi tempi uno dei più grandi successi economici della storia del cinema (detenne il record di film con il maggior rapporto fra incassi e costi fino al 1999, anno di "Blair Witch Project"). Girato con pochissimi mezzi (e si vede), portò all'attenzione di tutto il mondo il suo autore, la sua star e un mondo post-apocalittico che a partire dagli episodi successivi avrebbe influenzato profondamente l'immaginario popolare (dal cinema hollywoodiano ai manga giapponesi). Qui, a dire il vero, le potenzialità si intravedono appena: siamo di fronte a una pellicola non molto lontana da quelle di exploitation degli anni settanta, a base di violenza e di vendette, ovviamente on the road. La prima parte, incentrata sulle operazioni dei poliziotti per tenere pulite le strade, è caratterizzata dal blando sfondo distopico e fantascientifico, alla "Judge Dredd" se vogliamo (dove alla violenza dei teppisti corrisponde quella degli agenti, senza alcun approfondimento o riflessione di natura etica o sociale), ma sconta la povertà del budget che si riflette nelle scenografie (essenzialmente solo strade di campagna) e nei costumi (gli agenti della MPF sono vestiti con giubbotti di pelle). Meglio invece la seconda parte, quella in cui Max dà le dimissioni da agente e parte per una breve vacanza con la sua famiglia: incrocerà nuovamente la strada dei banditi e gli eventi precipiteranno piuttosto in fretta. Nonostante tutto, quello che conta non è né l'ambientazione (lasciata quantomeno nel vago, ed è un eufemismo: a tratti non sembra di trovarsi in un mondo così distante dal nostro), né la tecnologia (auto e moto genericamente "potenziate", come la macchina con motore V8 e compressore volumetrico usata da Max nel finale), ma solo gli esseri umani e le loro emozioni primordiali (rabbia, follia, desiderio di pace o di vendetta). Gibson venne scelto come protagonista quasi per caso: aveva accompagnato ai provini l'amico Steve Bisley (poi scelto per il ruolo di Goose) e fu notato perché i postumi di una rissa in un bar, avvenuta la sera prima, gli davano un aria da duro e da "freak". Fu perciò scritturato come uno dei cattivi, ma quando le ferite al volto guarirono si ritrovò a recitare nella parte dell'eroe. Per il suo successo a partire da una pellicola artigianale e a basso costo, nonché per il talento visionario e creativo (visibile soprattutto nelle scene d'azione), Miller – anche sceneggiatore – può essere accostato ad altri grandi registi dell'horror e del fantastico che hanno mosso i primi passi nello stesso modo: Wes Craven, Sam Raimi e Peter Jackson. Il distributore italiano scelse malauguratamente di intitolare il film con il nome della vettura guidata da Max, anziché mantenere quello del protagonista stesso: un errore che si trascinerà nel sequel (intititolato da noi "Interceptor - Il guerriero della strada") e a cui si rimedierà solo con il terzo capitolo ("Mad Max - Oltre la sfera del tuono").

30 luglio 2014

The story of the Kelly Gang (Charles Tait, 1906)

The story of the Kelly Gang
di Charles Tait – Australia 1906
con Frank Mills?, John Forde
**1/2

Visto su YouTube.

In un'epoca pioneristica in cui la maggior parte dei film consisteva in un unico rullo di pellicola (e dunque aveva una durata massima di 10-12 minuti), con i suoi 60 minuti "The story of the Kelly Gang" è considerato il primo lungometraggio di finzione della storia del cinema ("di finzione" perché la palma di primo lungometraggio tout court spetterebbe a una ripresa del 1897 di un incontro di pugilato). Ai giorni nostri ne sono sopravvissuti però soltanto alcuni frammenti (alcuni dei quali parecchio rovinati), per un totale di circa 15 minuti, oltre che foto di scena, intertitoli e altro materiale che – integrato nella versione restaurata dal National Film and Sound Archive australiano – permette, se non altro, di seguire compiutamente la storia. Come da titolo, il film ripercorre le imprese del leggendario fuorilegge australiano di origine irlandese Ned Kelly e della sua gang di briganti ("bushrangers"), composta dal fratello Dan e da altri due uomini. Ucciso nel 1880 a soli 25 anni e considerato quasi un eroe da una parte della popolazione australiana (all'epoca il paese era ancora sotto il dominio britannico), Kelly è rimasto una figura chiave nell'immaginario collettivo e la sua vita è stata oggetto di diverse altre pellicole (fra cui "I fratelli Kelly" del 1970 con Mick Jagger e "Ned Kelly" del 2003 con Heath Ledger). Il film di Tait è diviso in sei sequenze, ciascuna con camera quasi sempre fissa, ripresa in campo largo e praticamente senza montaggio interno. Se la recitazione è difficile da giudicare secondo gli standard odierni e in generale la pellicola non presenta (lunghezza a parte) nessuna vera innovazione tecnica, è da apprezzare la "messa in scena" quasi documentaristica che fa buon uso dei set in esterni, grazie anche alla lunga durata che permette di variare a sufficienza gli ambienti. Gli eventi mostrati sullo schermo si rifanno in maniera piuttosto fedele alla realtà storica (compresa la cattura di Ned mentre indossava un rudimentale elmo per proteggersi dai proiettili della polizia). Ma che non si tratti di una cronaca fredda e impersonale è dimostrato dallo sguardo simpatetico con cui sono ritratti i banditi, "gentiluomini" che non rapinano le donne (davanti alle quali si tolgono il cappello) o i bambini: al loro confronto i poliziotti e le forze dell'ordine sono messi costantemente in cattiva luce (nella prima scena, un agente maltratta la madre e la sorella dei Kelly; in un'altra, un poliziotto codardo si fa scudo con una donna; in seguito, pur di catturare la banda gli agenti non si fanno scrupolo di dare fuoco a un albergo che ospita anche persone innocenti). Quasi tutti i nomi degli attori coinvolti nella pellicola (compreso il protagonista) rimangono incerti o sconosciuti: ma pare che del cast abbiano fatto parte diversi membri della famiglia del regista, a partire da sua moglie Elizabeth come controfigura di Kate, la sorella di Ned.

9 ottobre 2013

E morì con un felafel in mano (R. Lowenstein, 2001)

E morì con un felafel in mano (He died with a felafel in his hand)
di Richard Lowenstein – Australia 2001
con Noah Taylor, Emily Hamilton
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Visto in DVD.

Danny, aspirante scrittore senza un soldo e con una venerazione per Jack Kerouac (che lo porta a voler scrivere, come lui, su un rotolo di carta da telex perché "la pagina interrompe il flusso di coscienza"), per gli esistenzialisti francesi e i romanzieri russi, è costretto a cambiare residenza in continuazione per problemi vari con i suoi bizzarri coinquilini e con i debiti da pagare. Il film, tratto da un romanzo di John Birmingham (dove le case in cui il protagonista vive sono molte di più), consiste essenzialmente in una serie di episodi e di vignette (precedute regolarmente da un cartello "godardiano" a mo' di titolo) che si succedono senza soluzione di continuità, tenute insieme dai rapporti di Danny con alcuni dei variopinti personaggi con cui si ritrova a convivere (principalmente con Sam, l'amica di cui è innamorato; con l'ambigua Anya, seguace di un culto esoterico contro il "potere del patriarcato"; e con l'amico tossicodipendente Flip, al quale si riferisce la frase che dà il titolo alla pellicola) e mostra, in una serie di flashback, la vita di Danny in tre diversi appartamenti (il n. 47, a Brisbane; il n. 48, a Melbourne, e il n. 49, a Sydney), in ciascuno dei quali "resiste" per soli tre mesi, prima di trovare finalmente il successo come scrittore di racconti per "Penthouse". Senza un vero filo conduttore (né un senso compiuto), il lungometraggio affastella citazioni (alla cultura "alta", vedi Dostoevsky, Sartre, la nouvelle vague, ecc., così come a quella "bassa", vedi Star Trek, Star Wars, Doctor Who... ), riferimenti musicali (da Nick Cave a "California Dreaming", che Danny strimpella alla chitarra) e spunti surreali, cinici, post-tarantiniani (il dialogo iniziale su "Le iene" sembra fare il verso a quelli degli stessi film di Quentin). Nel complesso, un film ricco e curioso, ma anche assai confuso e che procede solo per accumulo: alla fine ci si chiede che cosa volesse dire, se non esprimere un punto di vista esistenzialista e post-moderno. E si ha l'impressione che si potrebbe prendere, smontare, rimontare in maniera diversa (o con pezzi totalmente differenti) e non cambierebbe nulla. Il felafel è un tipo di polpetta araba, anche se da quello che si vede sullo schermo sembra che Flip tenga in mano piuttosto un panino con kebab.

21 settembre 2013

Tracks (John Curran, 2013)

Tracks - Attraverso il deserto (Tracks)
di John Curran – Australia 2013
con Mia Wasikowska, Adam Driver
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Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

La storia vera di Robyn Davidson, una ragazza che nel 1975 decise di attraversare a piedi (accompagnata solo dal cane Diggity e da quattro cammelli) il deserto australiano, da Alice Springs fino all'Oceano Indiano: 2700 chilometri da percorrere in circa sei mesi. Ispirato al reportage fotografico di Rick Smolan per la rivista "National Geographic", oltre che al libro che la stessa Davidson scrisse in seguito (intitolato, appunto, "Tracks"), un film che racconta di un viaggio effettuato, come tutti i viaggi, alla scoperta di sé, senza un vero motivo se non un bisogno viscerale, primordiale, di compierlo. Peccato però che la pellicola rimanga del tutto fine a sé stessa, talmente piatta e banale che oserei definirla insignificante. Il regista si limita a svolgere il compitino, riprendendo bellissime immagini di paesaggi, di tramonti, di animali, con una fotografia patinata da documentario, e la sceneggiatura procede in maniera che più lineare non si può: ogni difficoltà, ogni problema, ogni incertezza viene risolta nel giro di due o tre minuti (esemplare il momento in cui Robyn smarrisce la bussola, che ovviamente ritrova subito), senza né pathos né dramma. Alla fine, da salvare c'è quasi solo l'interpretazione della Wasikowska, che si cala perfettamente nei panni di una ragazza coraggiosa e indomita, soprannominata "La signora dei cammelli" da curiosi e giornalisti che seguono a distanza il suo cammino, tormentata dai ricordi d'infanzia e decisa in fondo a compiere la traversata solitaria più per i suoi genitori (il padre esploratore, la madre suicida) che non per sé stessa.

11 maggio 2011

Picnic ad Hanging Rock (P. Weir, 1975)

Picnic ad Hanging Rock (Picnic at Hanging Rock)
di Peter Weir – Australia 1975
con Rachel Roberts, Dominic Guard
****

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele, Paola, Ilaria e Stefano.

Nel giorno di San Valentino del 1900, un gruppo di studentesse di un college privato dell'entroterra australiano si reca a fare un picnic ai piedi di Hanging Rock, antichissima formazione geologica e vulcanica nello stato di Victoria. In un'atmosfera di impalpabile sospensione (il tempo sembra fermarsi, passato e presente si compenetrano, la natura e gli animali rimangono in osservazione), accade qualcosa di inesplicabile: tre ragazze (la bellissima Miranda e le compagne Irma e Marion) e un'insegnante (l'anziana Miss Craw), attratte da una forza misteriosa, si arrampicano sulla roccia e scompaiono nel nulla. Le ricerche e le indagini della polizia non portano ad alcun risultato: ma una settimana più tardi, il giovane inglese Michael riuscirà in qualche modo a "riportare indietro" una delle ragazze, Irma. L'affascinante film di Weir, uno dei capolavori del suo periodo australiano, pone molte domande allo spettatore senza apparentemente fornire le risposte: il trascendente, l'ignoto e il mistero (perché sia Irma che Michael hanno le medesime ferite sulla fronte e sulle mani?) rimangono impenetrabili a chi non desidera o non è in grado di avvicinarvisi (come, nel film, fa la quarta studentessa, Edith, che sceglie di non attraversare la soglia). Ma una chiave di lettura è fornita dalla bellissima colonna sonora, che oltre alle sonorità inquietanti di Bruce Smeaton (più Bach, Mozart, Tchaikovsky e Beethoven, con l'adagio del concerto per pianoforte n. 5 che Weir riutilizzerà anche in un altro film ambientato in un college, "L'attimo fuggente") contiene temi eseguiti da Gheorghe Zamfir con il flauto di Pan: strumento non certo scelto a caso, visto che Pan era il dio della natura selvaggia, colui che rapiva le ninfe (e al quale erano consacrate le cime dei monti!). Le sue fattezze (corna e zampe di caprone) hanno ispirato nella nostra cultura quelle del diavolo, e difatti Hanging Rock può essere assimilata a una di quelle località, sparse un po' in tutto il globo, che tradizionalmente sono indicate come via d'accesso agli inferi: una voragine che inghiotte le persone (soprattutto le fanciulle: vedi Persefone!) e dove è possibile entrare in contatto – spirituale o fisico – con "l'altro mondo", oppure con la parte di questo mondo che normalmente non è visibile a tutti.

Che stiamo parlando di un "passaggio" lo dimostra anche la collocazione geografica (l'Australia era davvero "un altro mondo" per gli europei, segnatamente per gli inglesi come i protagonisti di questo film; anche se nella pellicola non sono presenti aborigeni – a differenza di un altro film di Weir di questo periodo, "L'ultima onda" – con l'eccezione di qualcuno che si intravede fra coloro che cercano le ragazze, è chiaro il collegamento con le "vie dei canti" e i sogni: lo suggeriscono, per esempio, la visione notturna di Michael che si trova dinnanzi Miranda trasformata in cigno, o il sogno dell'amico Albert in cui la sorella Sara giunge a salutarlo per l'ultima volta) e soprattutto quella temporale (siamo esattamente nel 1900, ovvero nel passaggio da un secolo a un altro). Pan è anche un dio fortemente legato alla sessualità: e dunque quella di queste ragazze, dall'aspetto verginale, vestite di bianco, è una vera e propria iniziazione, un rito di passaggio verso la maturità e l'età adulta. Miranda e le sue amiche vengono "chiamate" dalla natura (e nella natura ci si addentra a piedi nudi, senza il corsetto o vestiti ingombranti), guarda caso a mezzogiorno preciso ("l'ora di Pan"): "C'è un tempo e un luogo giusto perché ogni cosa abbia principio, e fine...". Eppure la ricchezza (anche visiva, oltre che di contenuti) del film sembra suggerire molti altri paralleli: notevole quello, avanzato da Giuliano nel suo blog, con "Alice nel paese delle meraviglie" di Lewis Carroll: la ragazza che sparisce in un buco, l'ambientazione vittoriana, gli orologi, la matematica, gli animali, i personaggi e i loro abiti (la direttrice della scuola ricorda davvero, anche nell'aspetto, la Regina di Cuori)... Ma l'intera vicenda può anche essere letta più semplicemente come una metafora del tema della scomparsa: che sia per eventi naturali o violenti, tutti prima o poi sono destinati ad andarsene, e quelli che rimangono devono fare i conti con la loro assenza (Weir ha dichiarato di essere stato molto colpito dalle testimonianze di coloro che avevano perduto i propri cari durante la prima guerra mondiale: e di molti, dispersi in battaglia e la cui sorte è rimasta sconosciuta, hanno inutilmente atteso il ritorno per anni e anni).

L'atmosfera onirica e soprannaturale si tinge dunque di concretezza (il sangue delle ferite, la presenza fisica delle rocce – che sembrano volti umani – e degli alberi, gli sguardi degli animali), la dolcezza e l'eterea figura delle ragazze contrastano con le rigide norme di comportamento dell'epoca vittoriana (della dura disciplina e dell'oppressione fra le quattro mure del college fa le spese soprattutto la fragile e sensibile Sara, orfana e indifesa, che vive in adorazione della compagna Miranda). Anche per questo, nonostante il tripudio di pizzi, abiti bianchi, fiori e poesie, il film non risulta assolutamente melenso, e al posto del sentimentalismo troviamo la suspense e – come abbiamo visto – una continua tensione sessuale (che si tratti di iniziazione o di repressione). A renderlo indimenticabile, oltre alla colonna sonora, ci sono l'eccellente regia, la splendida fotografia (molte sequenze sono incredibilmente pittoriche), i vertiginosi scenari e le intense interpretazioni (magnifica la galleria di volti delle protagoniste: "Miranda è un dipinto del Botticelli", dice l'istitutrice francese). Ai numerosissimi personaggi, anche quelli minori, rendono giustizia molti bravi attori: spiccano, fra i tanti, Rachel Roberts nei panni dell'autoritaria Miss Appleyard, la direttrice del collegio, e Anne Louise Lambert in quelli della bellissima Miranda (nome shakesperiano...), personaggio centrale nonostante compaia solo nella prima mezz'ora di film. Il romanzo originale di Joan Lindsay (e in parte anche il lungometraggio) lasciava intendere che la vicenda narrata fosse tratta da una storia vera, di cui però non vi è menzione nella stampa dell'epoca. Il successo del film (una delle prime pellicole australiane a raggiungere una certa notorietà internazionale) ha dato un forte impulso alla carriera del bravissimo regista. Nel 2018 dal romanzo di Lindsay è stata tratta anche una miniserie televisiva in sei episodi.

13 aprile 2010

Gli anni spezzati (Peter Weir, 1981)

Gli anni spezzati (Gallipoli)
di Peter Weir – Australia 1981
con Mel Gibson, Mark Lee
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele, Paola, Ilaria e Giuseppe.

Due giovani atleti australiani (l'idealista "campagnolo" Archie e il più cinico "cittadino" Frank) si arruolano per andare a combattere in Europa durante la Prima Guerra Mondiale: la visione innocente della guerra lascerà il posto alla consapevolezza della futilità del massacro di cui saranno protagonisti, mentre la storia della loro amicizia si intreccia con i tragici eventi di Gallipoli, in Turchia, presso lo stretto dei Dardanelli, il primo grande scontro militare che vide la partecipazione delle forze australiane e neozelandesi. Estremamente toccante nel suo messaggio antibellico (ma la guerra vera e propria la si vede soltanto negli ultimi minuti della pellicola: gran parte del film si svolge invece in Australia, per narrare l'incontro e l'amicizia fra i due personaggi principali, e poi in Egitto, dove si trovava il campo di addestramento degli australiani), il film di Weir mostra attraverso lo sguardo di due persone comuni uno degli eventi più importanti, ancorché tragici, della breve storia australiana, forse la prima occasione in cui il paese sviluppò una "coscienza nazionale". Nel 1915 l'Australia era infatti un paese ancora giovane (proprio come i due protagonisti, che dunque lo rappresentano alla perfezione) e molto legato alla sua "madrepatria", l'Impero Britannico, al punto da inviare spontaneamente le proprie truppe di volontari a combattere al suo fianco in un conflitto che non la riguardava per nulla: nella prima parte del film è esemplare lo scambio di battute fra i due protagonisti e l'uomo che incontrano nel deserto, che non capisce a quale scopo gli australiani debbano andare a combattere contro i tedeschi o i turchi. Del film rimangono in mente soprattutto le sequenze finali, quelle del sanguinoso e inutile attacco alle trincee nemiche, e naturalmente il fermo immagine conclusivo che "congela" il momento in cui Archie viene colpito. Interessante il commento musicale: gran parte della colonna sonora è costituita dall'Adagio in sol minore di Albinoni (in realtà di Remo Giazotto) e dalla musica elettronica di Jean-Michel Jarre (dall'album "Oxygéne").

11 aprile 2010

Einstein junior (Yahoo Serious, 1988)

Einstein junior (Young Einstein)
di Yahoo Serious – Australia 1988
con Yahoo Serious, Odile Le Clezio
*

Visto in divx, con Giovanni.

1905: il giovane Albert Einstein vive in Tasmania, nella fattoria dei genitori, dove trascorre il tempo raccogliendo mele e inventando nuove teorie fisiche. Dopo aver scoperto come aggiungere le bollicine alla birra (spaccando un "atomo di birra" con uno scalpello), si trasferirà a Sydney dove, fra le altre cose, si innamorerà di Marie Curie, inventerà il surf e il rock and roll (e il violino elettrico), ma finirà anche in manicomio. Infine si recherà a Parigi per ricevere il prestigioso Science Academy Award dalle mani dell'anziano Charles Darwin. Il primo film del comico Yahoo Serious (anche sceneggiatore e compositore) è una scemenza infantile senza capo né coda, ricca di anacronismi, inaccuratezze storiche e battute talmente stupide da non crederci (e, peggio, che raramente strappano un sorriso). Ha almeno il pregio di non essere pretenzioso e di infilare qua e là persino qualche spunto scientifico, come quando Einstein spiega a Marie la teoria della relatività.

27 agosto 2009

Le nozze di Muriel (P.J. Hogan, 1994)

Le nozze di Muriel (Muriel's wedding)
di P. J. Hogan – Australia 1994
con Toni Collette, Sophie Lee
**

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

La ventunenne Muriel, bruttina, sovrappeso e disoccupata, ha un unico sogno nella vita: sposarsi, non importa con chi, e nemmeno se ci sia o meno l'amore. Vive con la famiglia in un paesino sulla costa australiana, dove è continuamente umiliata dal padre (un politico locale che non perde occasione per rinfacciarle la sua mediocrità) e derisa dalle ex compagne di scuola (perché del tutto fuori moda per gusti, vestiario e stile di vita). Si trasferisce allora a Sydney con l'intenzione di cominciare una nuova vita e, magari, di trovare l'uomo giusto per farsi portare all'altare. Il regista de "Il matrimonio del mio migliore amico" (e di un bel "Peter Pan") si è fatto conoscere proprio con questa commedia vivace, agrodolce e spigolosa, a volte fin troppo sopra le righe, condita da una forte dose di cinismo e travestita da satira di costume. I toni sono tragicomici e grotteschi, e le ipocrisie e le bugie dei personaggi si scontrano con un retroterra culturale che sembra uscito da "Schegge di follia". La colonna sonora è completamente a base di canzoni degli Abba, di cui Muriel e l'amica Rhonda (l'unica con cui la protagonista si trova in sintonia) sono grandi fan.

27 aprile 2009

Dove sognano le formiche verdi (W. Herzog, 1984)

Dove sognano le formiche verdi (Wo die grünen Ameisen träumen)
di Werner Herzog – Germania/Australia 1984
con Bruce Spence, Wandjuk Marika
***

Rivisto in DVD, con Marisa e altra gente.

Un geologo che lavora per una compagnia mineraria nel deserto australiano deve interrompere il proprio lavoro perché un gruppo di aborigeni non vuole che il terreno venga devastato dagli esplosivi: quello, sostengono, è infatti il luogo "dove sognano le formiche verdi" e al quale la loro tribù è legata da tempi immemorabili. La causa in tribunale che ne consegue – fondata sulla legge inglese – non può che dar ragione alla compagnia, ma il geologo sarà ormai entrato in contatto con un mondo che non conosceva e questo lo costringerà a ripensare la propria vita...
Con la sua consueta commistione tra fiction e documentario (la vicenda è ispirata a un caso reale), Herzog realizza un film suggestivo, anche se un po' didascalico e "a tema", che parla delle radici ancestrali dell'umanità, dello scontro fra culture e fra i diversi modi di concepire l'esistenza, dell'impossibilità di comunicare (come nel caso dell'aborigeno "muto", chiamato così perché nessuno è in grado di comprendere la sua lingua essendo l'ultimo discendente della propria tribù), del legame indissolubile fra l'uomo e la terra, dall'incompatibilità di determinati individui con la tecnologia occidentale (l'ascensore che si guasta o l'orologio che impazzisce in presenza degli anziani tribali), del ruolo dei canti e dei sogni nel dare forma alla realtà (indimenticabile la scena in cui un gruppo di aborigeni prega all'interno di un supermercato, nel reparto dei detersivi, perché quello è il luogo sacro dove si trovava l'unico albero della regione e dove da millenni gli uomini vanno a "sognare i propri figli"): un film da abbinare alla lettura de "Le vie dei canti" di Bruce Chatwin. Le formiche verdi (e le loro caratteristiche, illustrate sullo schermo da un bizzarro entomologo) sono frutto della fantasia del regista, che ha preferito inventarsi un animale totemico di sana pianta anziché proporre sullo schermo un mito reale (allo stesso modo in cui gli oggetti sacri della tribù non possono essere mostrati ad estranei, o i nomi dei morti non possono essere pronunciati per diversi anni). Lo spilungone Spence, che assomiglia vagamente a Donald Sutherland, era già apparso nei film della serie "Mad Max".