30 novembre 2021

Il gusto del sakè (Yasujiro Ozu, 1962)

Nota: salvo errori di calcolo, questo è il 4000° film di cui scrivo su questo blog!

Il gusto del sakè (Sanma no aji)
di Yasujiro Ozu – Giappone 1962
con Chishu Ryu, Shima Iwashita
***1/2

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli.

L'amico Kawai (Nobuo Nakamura) mette in guardia l'attempato Shohei Hirayama (Chishu Ryu): se non lascerà che la figlia ventiquattrenne Michiko (Shima Iwashita) si sposi, farà la fine del loro vecchio professore Sakuma (Eijiro Tono), rivisto dopo tanto tempo a una riunione di classe, la cui figlia (Haruko Sugimura) è rimasta in casa prendersi cura di lui dopo che era rimasto vedovo, con il risultato che l'uomo ora è un vecchio ubriacone e la figlia una zitella sfiorita. Deciso a impedire che Michiko sacrifichi la propria vita per la famiglia nello stesso modo, Shohei si decide dunque a spingerla verso il matrimonio... L'ultimo film di Yasujiro Ozu (il regista morirà l'anno successivo per un tumore alla gola, nel giorno del suo sessantesimo compleanno) ripropone ambientazioni, personaggi e temi di molte sue pellicole precedenti, tanto da poter essere considerato quasi un remake (o una combinazione) di "Tarda primavera" e "Tardo autunno". Nonostante l'apparente mancanza di originalità, però, la sceneggiatura (di Ozu insieme al fidato Kogo Noda) continua a mostrare quella fortissima attenzione alla psicologia dei personaggi e alle dinamiche sociali e famigliari che hanno reso grandi i film precedenti, concentrandosi in particolare da un lato sulla figura del vecchio padre (è sempre lui al centro della vicenda, molto più della figlia stessa, di cui solo a tratti intravediamo la personalità e i sentimenti) e dall'altro sui vari aspetti della vita matrimoniale, per esempio attraverso il rapporto del figlio maggiore di Shohei, Koichi (Keiji Sada), con la propria consorte Akiko (Mariko Okada), i cui battibecchi sono osservati con divertita curiosità dalla stessa Michiko. Proprio di un amico del fratello, Miura (Teruo Yoshida), la ragazza finisce con l'innamorarsi: ma quando scopre che questi è già fidanzato, accetta di incontrare il ragazzo propostogli dal padre nell'eventualità di un matrimonio combinato (Shohei, a onor del vero, le dice che non deve sentirsi obbligata: "È giusto sposare chi si ama per essere felici"; in generale, nel film non si percepisce mai un'aura di costrizione o di oppressione, se non in senso lato, ovvero dal punto di vista della società). Evidentemente il promesso sposo le andrà a genio (o forse, a quel punto, non le importerà più), visto che il matrimonio verrà celebrato, anche se noi spettatori (proprio come capitava in "Tarda primavera") non avremo mai il privilegio di vederlo.

Le ultime inquadrature del film, e dunque di tutto il cinema di Ozu, sono riservate al padre (ossia all'attore feticcio del regista, Chishu Ryu) che, rimasto solo in casa, piange per il suo destino. È un finale forse inaspettatamente malinconico, che fa sentire tutto il peso di quel mono no aware, il sereno senso di accettazione – a volte venato di rimpianto e nostalgia, ma mai di rabbia o ira – dei mutamenti del destino e delle cose della vita, che ha sempre permato i lavori di uno dei più grandi registi della storia del cinema. Un regista che anche nel suo ultimo lungometraggio mette in mostra uno stile ormai giunto a livelli di assoluta perfezione, attento a ogni inquadratura e ogni sfumatura, abile nelle ellissi e nei raccordi, parsimonioso nell'uso dei colori (la tavolozza cromatica è, come al solito, limitata ed essenziale) e refrattario ai movimenti di camera. Ma che proprio per questo motivo risulta impeccabile: sarebbe impossibile indicare un solo elemento fuori posto o che andrebbe modificato, tanto a livello estetico che contenutistico. Shinikiro Mikami è Kazuo, il figlio minore di Yoshio. Piccoli ruoli per altri habitué di Ozu (Ryuji Kita è il collega che ha sposato una ragazza molto più giovane di lui, ovvero Michiyo Tamaki, cosa per cui viene preso in giro; Daisuke Kato è il commilitone che si chiede cosa sarebbe successo se il Giappone avesse vinto la guerra; Kyoko Kishida è la barista; Kuniko Miyake la moglie di Kawai). E a proposito di cast, una curiosità: Mariko Okada, che interpreta appunto la moglie di Koichi e che per Ozu aveva già recitato in "Tardo autunno", è la figlia di Tokihiko Okada, celebre attore degli anni trenta, morto a soli 31 anni per tubercolosi e protagonista di ben cinque pellicole dell'allora giovane regista giapponese (fra cui "Il coro di Tokyo"). Il titolo originale significa "Il gusto della costardella": quest'ultima (nota anche come luccio sauro) è un pesce dell'Oceano Pacifico che giunge sulle coste del Giappone in estate e dunque viene consumato soprattutto nel periodo autunnale. Come in molti film di Ozu, dunque, il titolo è un riferimento temporale (la stagione dell'autunno), da collegare al momento della vita dei personaggi. Non a caso, in inglese, la pellicola è nota come "An Autumn Afternoon".

26 novembre 2021

The Lego Movie 2 (Mike Mitchell, 2019)

The Lego Movie 2 - Una nuova avventura
(The Lego Movie 2: The Second Part)
di Mike Mitchell [e Trisha Gum] – USA/Danimarca 2019
animazione digitale
***

Visto in TV (Netflix).

Era difficile fare un seguito all'altezza di "The Lego Movie", uno dei più brillanti film di animazione degli ultimi anni, ma Phil Lord e Christopher Miller (che stavolta lasciano la regia nelle competenti mani di Mike Mitchell, limitandosi ai ruoli di sceneggiatori e produttori) ci sono riusciti. E visto che il finale del lungometraggio precedente ne svelava la reale natura (si trattava soltanto del gioco di un bambino con i pezzi del suo Lego), è proprio da lì che si riparte. Stavolta il piccolo Finn deve vedersela con sua sorella minore Bianca, che vuole giocare con lui. E così gli alieni fatti di Duplo invadono il suo mondo e ne "rapiscono" alcuni personaggi, portandoli con sé nel Sistema Sorellare. Naturalmente Emmet parte al loro salvataggio, aiutato dall'avventuriero spaziale Rex (una parodia di tutti i personaggi interpretati dal doppiatore Chris Pratt), mentre Wyldstyle, Batman, Unikitty e gli altri amici si trovano ad affrontare creature bizzarre e glitterate, cercando al contempo di evitare che si verifichi il catastrofico Armammageddon (ovvero la rabbia della mamma che metterà fine al gioco se i due figli litigheranno troppo)... Anche se le carte sono più scoperte, con numerose scene girate in live action che punteggiano la pellicola (Maya Rudolph è la madre, mentre del padre – Will Ferrell – si sente solo la voce fuori campo), l'avventura e il divertimento continuano a non mancare, soprattutto perché le dinamiche del gioco (e quelle fra fratelli) non smettono di guidare una narrazione che non si prende mai sul serio e che stavolta viene creata da due immaginazioni che si scontrano fra loro – cambiando continuamente la prospettiva e le carte in tavola – anziché da una sola. Anzi, è interessante notare le differenze fra il modo di giocare di Finn, che vorrebbe essere duro, adulto e post-apocalittico, e quello "femminile" della sorella (che essendo più piccola, non si fa problemi a contaminare l'universo Lego con altri giocattoli o materiali, come adesivi e brillantini). I temi a questo giro sono quelli della crescita, della cooperazione, dell'accettare una parte diversa di sé (non sempre essere cupi e cool a oltranza è la scelta giusta), e che "non tutto è meraviglioso" (ribaltando, o aggiornando, il messaggio-tormentone del primo film). A tratti ci si commuove persino (come quando la frase "Avete cominciato voi" acquista improvvisamente un nuovo significato). Quanto al lato citazionistico, da segnalare la comparsata di Bruce Willis, i riferimenti ai film sui viaggi nel tempo e quelli a tutti gli attori che hanno interpretato Batman. Orecchiabili (e spassosissime) le canzoni, come "La canzone che ti resta in testa" e, soprattutto, quella della Regina "Non cattiva". All'inizio del film, una frase ("Batman è partito per un'avventura per conto suo") fa riferimento allo spin-off ("Lego Batman - Il film") uscito nel frattempo.

24 novembre 2021

Dramma della gelosia... (Ettore Scola, 1970)

Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca)
di Ettore Scola – Italia 1970
con Marcello Mastroianni, Monica Vitti, Giancarlo Giannini
**

Visto in TV (RaiPlay).

In un'aula di tribunale "immaginaria" (non si vede mai: di fatto i personaggi parlano agli spettatori), i protagonisti di un fatto di cronaca ne rievocano le vicende. Il muratore romano Oreste (Mastroianni) si innamora della fioraia Adelaide (Vitti), e per lei lascia la moglie (che non amava). Ma quando la donna – indecisa su chi ama più dei due – inizia una relazione anche con il pizzaiolo toscano Nello (Giannini), scatta la sua gelosia... Da un soggetto di Age & Scarpelli, sceneggiatori insieme al regista, un film che, sin dal (lungo) titolo, pare voler ironizzare su quel tipo di stampa scandalistica e voyeuristica che mette in piazza la vita privata, i drammi passionali e le tragedie delle persone comuni. La storia, in sé, è alquanto banale (un triangolo d'amore, amicizia e tradimento, senza troppe sorprese), così come i tre protagonisti, che non escono da ruoli stereotipati o monodimensionali, anche se la narrazione pare a tratti voler allargare gli orizzonti, tirando in ballo questioni sociali (tutti e tre sono proletari), politiche (Oreste è simpatizzante comunista e incontra Adelaide a una Festa dell'Unità, Nello è un anarchico contestatore), civiche (ci si lamenta della sporcizia e della trascuratezza in cui versa Roma) e di costume (Adelaide si sente dire dalla psicanalista "Lei, amando due uomini, è al di sotto della media"; e il trio tenterà, senza successo e con poca convinzione, di instaurare un ménage à trois), con toni che vanno dal drammatico al malinconico, dal comico (le macchiette come il macellaio, interpretato dal wrestler Hercules Cortes, o la zingara chiromante) all'esistenzialista, fino a sfociare nel surreale (tutto l'impianto della pellicola, con i personaggi che si rivolgono in camera agli spettatori, prefigurando una trovata che Scola ripeterà, per esempio, in "C'eravamo tanto amati" e che comunque aveva precedenti illustri nella commedia americana brillante di Wilder e Lubitsch) e infine nella follia di Oreste. Peccato che l'insieme, salvo brevi momenti, sia poco incisivo. A salvare il film sono soprattutto gli interpreti, in particolar modo una Vitti splendida come sempre e un Mastroianni stralunato (per la prima volta diretto da Scola, e che per questo ruolo vinse a Cannes il premio come miglior attore) nei panni di un uomo dimesso e trasandato, con "un trucco da Memorie dal sottosuolo o da Tragedia della miniera" (come scrisse Rondi). Musiche di Armando Trovajoli.

22 novembre 2021

Il buco (Jacques Becker, 1960)

Il buco (Le trou)
di Jacques Becker – Francia 1960
con Marc Michel, Jean Keraudy
***1/2

Visto su YouTube.

Nella prigione de La Santé, a Parigi, il giovane Gaspard (Marc Michel) – in attesa di processo – viene trasferito di cella, e scopre che i suoi quattro nuovi compagni stanno progettando la fuga. Si unirà a loro, scavando un "buco" sul pavimento che porta ai sotterranei del carcere, e di lì, attraverso le fognature, verso la libertà... Da un romanzo di José Giovanni (co-sceneggiatore insieme al regista), ispirato a un fatto realmente accaduto nel 1947 (di cui fu protagonista proprio uno degli attori, Jean Keraudy, che interpreta sé stesso nei panni di Roland, l'ideatore del piano di fuga: è lui a introdurre la vicenda, rivolgendosi agli spettatori e spiegando: "Buongiorno. Il mio amico Jacques Becker ha ricostruito in tutti i dettagli una storia vera, la mia"), una pellicola bella e serrata, per certi versi simile al capolavoro di Bresson "Un condannato a morte è fuggito". Anche se qui la prospettiva è più corale e meno individuale, come in quello assistiamo meticolosamente alla lavorazione e messa in atto del progetto dei protagonisti, con lunghe inquadrature dei detenuti che martellano il pavimento, segano le sbarre e picconano i muri, il tutto mentre cercano di evitare di essere notati dai secondini e dalle guardie. La partecipazione dello spettatore è notevole, tanto da identificarsi come non mai con i criminali. Con molta inventiva e tante risorse, e nonostante i pochi mezzi a disposizione (per esempio, si costruiscono una clessidra artigianale per tenere conto del passare del tempo), i cinque arriveranno a un passo dalla libertà: a tradirli sarà la componente umana, e proprio l'aspetto psicologico (con l'analisi dei rapporti di amicizia, delle tentazioni e dei tradimenti) contribuisce a elevare il film dai limiti del suo genere. Ottima l'ambientazione, la fotografia in bianco e nero (di Ghislain Cloquet) e le interpretazioni: gli altri tre compagni di cella sono Philippe Leroy (il rude Manu), Raymond Meunier (l'estroso "Monsignore") e Michel Constantin (il tormentato Geo). Leroy e Costantin, in particolare, erano all'esordio. Piccole parti anche per André Bervil (il direttore del carcere), Jean-Paul Coquelin (il brigadiere) e Catherine Spaak (Nicole, la ragazza che fa visita a Gaspard). Da notare che, a parte Gaspard, non viene svelato il motivo della prigionia degli altri detenuti. È l'ultimo lavoro di Becker: il regista morì per una malattia genetica, a soli 54 anni, prima che il film potesse essere proiettato al festival di Cannes.

20 novembre 2021

Sir Gawain e il cavaliere verde (D. Lowery, 2021)

Sir Gawain e il cavaliere verde (The Green Knight)
di David Lowery – USA 2021
con Dev Patel, Alicia Vikander
***

Visto in TV (Prime Video).

Per dare prova di valore, il giovane cavaliere Gawain (Dev Patel), nipote del re (Artù, anche se il suo nome – come quelli di Merlino, Excalibur, ecc. – non viene mai pronunciato), accetta la sfida postagli dal misterioso cavaliere verde che giunge alla corte di Camelot nel giorno di Natale: potrà colpirlo a suo piacimento, senza che lui si difenda, ma a un anno di distanza dovrà recarsi nella "cappella verde" situata nel lontano nord e accettare che gli venga restituito lo stesso colpo. E poiché Gawain, con la spada del re, decapita il cavaliere (che però, essendo una creatura magica, recupera la propria testa come se nulla fosse), il suo viaggio l'anno successivo – punteggiato peraltro da numerose avventure – si trasformerà in un cammino verso la (probabile) morte. Tratto da un poema cavalleresco del quattordicesimo secolo, appartenente al ciclo arturiano e reso popolare nella versione curata da J.R.R. Tolkien, il nuovo film di Lowery (già regista del bellissimo "Storia di un fantasma") è un fantasy cupo e austero, caratterizzato da un palpabile "realismo magico" che permea con la sua atmosfera tutta l'ambientazione medievale. Il protagonista – il cui nome in Italia è noto anche come Galvano – è costantemente al centro di un'avventura in cui deve misurarsi, più che con misteriosi nemici soprannaturali, soprattutto con sé stesso: con le sue paure, le sue insicurezze, le tentazioni, i suoi doveri di lealtà e di coraggio, e inevitabilmente con la morte. Il "cavaliere verde", creatura selvaggia e ultraterrena (il verde, ovviamente, è il colore della natura, ma anche quello del decadimento che ricopre ogni cosa), lo mette alla prova in una sorta di gioco che si riveste di innumerevoli significati (come tante sono le interpretazioni del poema originale). Al fascino del film contribuiscono le scenografie spoglie e la fotografia che le ammanta di mistero, mentre Gawain è alle prese con fantasmi, giganti, streghe o animali parlanti. Notevole anche la sequenza conclusiva, muta (a parte la musica), in cui il giovane cavaliere "vive" in un solo momento tutta la sua vita futura. Nel cast Sean Harris (il re), Kate Dickie (la regina), Alicia Vikander (in due ruoli: Essel, la compagna di Gawain, e la dama del castello), Joel Edgerton (il signore del castello: curiosamente, nel film "King Arthur" del 2014, Edgerteon aveva interpretato proprio Galvano), Barry Keoghan (il saccheggiatore), Erin Kellyman (Winifred) e Erin Kellyman (il cavaliere verde, il cui aspetto pare uscire da un film di Del Toro). Da notare i multipli titoli (che dividono la pellicola in capitoletti). Il poema era già stato portato al cinema due volte (nel 1973 e nel 1984).

18 novembre 2021

Notre Dame (William Dieterle, 1939)

Notre Dame (The hunchback of Notre Dame)
di William Dieterle – USA 1939
con Charles Laughton, Maureen O'Hara
**1/2

Visto in TV (RaiPlay).

Nella Francia di re Luigi XI (Harry Davenport), in un momento di passaggio dall'oscurantismo del medioevo all'era moderna (caratterizzata dalla libertà di parola, qui rappresentata dall'invenzione della stampa), il gran cancelliere Frollo (Cedric Hardwicke) si innamora della zingara Esmeralda (Maureen O'Hara) e, da lei rifiutato, la fa condannare a morte. Sarà salvata da Quasimodo (Charles Laughton), il campanaro della cattedrale di Notre Dame, gobbo e orrendamente deforme. Forse il più popolare e iconico adattamento cinematografico del romanzo di Victor Hugo, soprattutto per l'impressionante make up che trasforma Laughton in un vero mostro (surclassando persino la tanto celebrata versione con Lon Chaney del 1923), tanto da aver ispirato direttamente – almeno a livello estetico – anche la versione a cartoni animati della Disney del 1996. In realtà deve essere considerato un remake sonoro del film muto precedente, di cui conserva praticamente la struttura e le modifiche al testo originale (a partire dallo "sdoppiamento" di Frollo in due personaggi opposti, il buon arcidiacono Claude e il perfido giudice Jehan, oltre al lieto fine per Esmeralda). L'impianto della storia resta comunque corale, con il poeta saltimbanco Gringoire (Edmond O'Brien) a tratti eletto a protagonista, e il tema "politico" della libertà del popolo contro i soprusi dei nobili che sopravanza quasi quello individuale dei personaggi. E mentre alla fine la vittoria del popolo giunge grazie alle parole (il libello scritto da Gringoire) anziché alla forza (l'assalto alla cattedrale guidato da Clopin), Quasimodo rimane fra le statue dei gargoyle della cattedrale a interrogarsi sul proprio destino ("Ma perché non son fatto di pietra come te?"). Buone la regia e le scene di massa: per via degli enormi set, il film fu uno dei più costosi prodotti dalla RKO. L'irlandese O'Hara era al debutto a Hollywood: Laughton la scelse dopo aver lavorato con lei ne "La taverna della Giamaica". Il cast è completato da Thomas Mitchell (Clopin, il re dei mendicanti), Alan Marshal (il capitano Febus) e Walter Hampden (l'arcidiacono). Le musiche (nominate all'Oscar) sono di Alfred Newman, mentre al montaggio ha collaborato il futuro regista Robert Wise. La versione su RaiPlay è colorizzata.

17 novembre 2021

Regeneration (Raoul Walsh, 1915)

Regeneration
di Raoul Walsh – USA 1915
con Rockliffe Fellowes, Anna Q. Nilsson
**1/2

Visto su YouTube, con cartelli in inglese.

Il gangster Owen (Fellowes, che assomiglia incredibilmente a un Marlon Brando da giovane!), cresciuto nei bassifondi di New York dopo essere rimasto orfano a soli dieci anni, medita di cambiare vita per amore della bella Marie (Nilsson), che gestisce un istituto di beneficienza nel quartiere. Ma il senso di lealtà verso uno dei suoi complici gli complicherà le cose. Primo importante film di Walsh come regista, dopo alcune esperienze come attore e come assistente di D.W. Griffith (in "Nascita di una nazione"): e la lezione di quest'ultimo è evidente nell'uso consapevole del linguaggio cinematografico, in particolare nel montaggio alternato (si pensi alla scena in cui assistiamo contemporaneamente alla lotta nel covo dei banditi e alla polizia che arriva dall'esterno), nella regia dinamica e nella varietà delle inquadrature, che mescolano campi lunghi e primi piani (occasionalmente anche con la camera in movimento). Di fatto, nonostante i limiti del muto, è un cinema già moderno, caratterizzato fra l'altro da un significativo realismo nella messa in scena. Il soggetto (adattato da Walsh e Carl Harbaugh) è tratto dal libro autobiografico di Owen Kildare, "My Mamie Rose", che lo stesso autore (insieme a Walter C. Hackett) aveva anche trasposto in un dramma teatrale, intitolato appunto "The Regeneration". Notevole per l'uso degli esterni (fu interamente girato nel Lower East Side di New York) e per la recitazione, che comprende anche veri abitanti del quartiere usati nelle scene di massa (gangster, prostitute, senzatetto), il film è stato la prima produzione importante dei neonati studi Fox, che vent'anni dopo, fondendosi con un'altra compagnia, daranno vita alla 20th Century Fox. I critici lo considerano uno dei primi gangster movie della storia (almeno nel campo del lungometraggio). Da sottolineare la spettacolare sequenza dell'incendio a bordo della nave che ospita l'evento di beneficienza, con la fuga dei passeggeri in preda al panico: si ispira all'incendio e all'affondamento della General Slocum nell'East River, nel 1904, in cui (a differenza che nel film) morì un migliaio di persone. A lungo creduta perduta, la pellicola è stata ritrovata negli anni Settanta.

15 novembre 2021

Viaggio verso Agartha (Makoto Shinkai, 2011)

Viaggio verso Agartha, aka I bambini che inseguono le stelle
(Hoshi wo ou kodomo)
di Makoto Shinkai – Giappone 2011
animazione tradizionale
**

Visto in TV (Netflix).

Dopo aver incontrato un misterioso giovane che proviene dal leggendario mondo sotterraneo di Agartha, la curiosa Asuna, ragazzina introversa che vive in un paese fra le montagne boscose, andrà alla sua esplorazione in compagnia del suo insegnante Morisaki, membro di un'organizzazione che da anni studia in segreto i misteri di Agartha e che intende riportare in vita la propria moglie defunta grazie alla magia che, si dice, è nascosta nel luogo più segreto e inaccessibile del sottosuolo... Il terzo lungometraggio animato di Makoto Shinkai è quello che più degli altri tradisce il suo debito verso Hayao Miyazaki e, più specificatamente, "Laputa" e "Nausicaä", film dai quali provengono numerosi elementi, sia narrativi che estetici. Per il resto, la vicenda di base – ispirata a svariati miti legati ai mondi sotterranei e alla possibilità di far tornare in vita le persone amate: si pensi a quello di Orfeo ed Euridice, o a quello giapponese, citato espressamente, di Izanagi e Izanami – si dipana come un racconto d'avventura che procede in maniera lineare, accatastando una situazione dopo l'altra in modo quasi improvvisato. A ogni svolta, infatti, saltano fuori nuovi personaggi e situazioni che poi escono di scena senza un motivo (Shun, il "gatto" Mimi, la bambina Mana), mentre il finale non completa l'arco narrativo della protagonista ma solo quello del professor Morisaki. E dunque, nonostante una parte iniziale (ambientata però nel mondo di superficie!) ricca di poesia e di fascino, che sembrava promettere molto di più, la pellicola – lunga ed estremamente densa – procede poi stancamente, a tratti persino annoiando, e delude in un finale fuffoso ed esoterico, dove le caratterizzazioni non convincono e temi importanti come la solitudine e l'accettazione della morte sono trattati in modo superficiale e raffazzonato. Persino l'interessante ambientazione, Agartha, rimane soltanto accennata (i suoi regni e villaggi, il declino, gli abitanti, le dinamiche interne) ma mai davvero sfruttata se non come sfondo e con aspetti incoerenti (qual è, per esempio, la fonte di luce?). Ottimi gli scenari, i paesaggi e i fondali, mentre il character design è un po' semplicistico (e molto, troppo, è di derivazione miyazakiana: vedi anche i mostri guardiani, le rovine, i cristalli magici). Esistono due versioni italiane, di cui la prima ha un pessimo doppiaggio: meglio la seconda, quella intitolata "I bambini che inseguono le stelle".

12 novembre 2021

Eternals (Chloé Zhao, 2021)

Eternals (id.)
di Chloé Zhao – USA 2021
con Gemma Chan, Richard Madden
**

Visto al cinema Colosseo.

Gli Eterni, razza di alieni immortali dotati di straordinari poteri, vengono inviati in tempi antichi sulla Terra dai loro colossali padroni, i Celestiali, affinché proteggano l'umanità dai mostruosi Devianti. E nel corso dei millenni, vivendo sul nostro pianeta (e affezionandosi ai suoi abitanti), ne fanno avanzare l'evoluzione tecnologica e culturale, dando fra l'altro origine a svariati miti e leggende. Ma quando, ai giorni nostri, scopriranno la vera natura della loro missione, saranno costretti a prendere una decisione drastica... Pur avendo anche avuto l'onore, in Italia, di una collana a fumetti personale di grande formato ai tempi dell'Editoriale Corno, gli Eterni sono sempre stati un gruppo di personaggi minori della Marvel, benché alcuni di essi (Sersi, Gilgamesh) abbiano fatto parte occasionalmente persino dei Vendicatori. Creati da Jack Kirby a metà degli anni Settanta, erano stati inizialmente immaginati come abitanti di un mondo a parte, separato dal resto dell'Universo Marvel: i temi grandiosi ed epici delle loro storie, con riferimenti alle religioni e alle antiche civiltà, ma anche la narrazione confusa, psichedelica e fin troppo ambiziosa, mal si accordava con le vicende degli altri supereroi, generando incoerenze (per dirne una: la presenza dei "veri" déi dell'Olimpo nelle storie di Thor) che autori successivi – da Roy Thomas a Neil Gaiman – hanno cercato di sanare. La scelta di affidare la regia del film a loro dedicato a Chloé Zhao, finora nota per pellicole d'autore intimistiche e documentaristiche (gli ottimi "The rider" e "Nomadland"), sembrava voler mitigare questi aspetti, riducendo almeno in parte la grandiosità della visione di Kirby e donando maggiore umanità e spessore ai personaggi. Peccato che la missione sia fallita: alla resa dei conti, "Eternals" (come al solito il titolo rimane in inglese, per questioni di marketing: nel doppiaggio, però, vengono chiamati "Eterni") è il solito polpettone supereroistico, lungo e pesante, a base di noiose scazzottate fra tizi con superpoteri (e con occasionali battutine forzate o riferimenti autoreferenziali al MCU che sembrano fuori posto in una storia per lo più "seria" e a sé stante); un film che mentre lo si guarda può anche coinvolgere: ma una volta terminato, se si riflette, ci si accorge di non aver assistito a niente di particolarmente innovativo o memorabile. È un prodotto fatto a tavolino, con ingredienti soppesati uno a uno, anche interessanti ma mal amalgamati.

I dieci Eterni di cui seguiamo le vicende, alternandoci fra il presente e i flashback ambientati nelle diverse epoche (dall'antica Mesopotamia al crollo dell'impero azteco) sono Ikaris (Richard Madden), dai poteri simili a Superman (cosa sottolineata nei dialoghi!), la trasmutatrice Sersi (Gemma Chan), la guaritrice Ajak (Salma Hayek), la guerriera Thena (Angelina Jolie), il forzuto Gilgamesh (Don Lee), la creatrice di illusioni nonché eternamente giovane Sprite (Lia McHugh), il manipolatore mentale Druig (Barry Keoghan), la velocista Makkari (Lauren Ridloff), il lanciatore di proiettili di energia Kingo (Kumail Nanjiani) e il creatore di armi e tecnologia Phastos (Brian Tyree Henry). In molti casi, i loro nomi lasciano capire a quali divinità o leggende hanno dato origine (Icaro, Circe, Atena, Mercurio, ecc.). Poco rimane però della caratterizzazione originale del fumetto, come dimostra il caso di Sersi, la vera e propria protagonista della pellicola, che perde tutti gli elementi che la rendevano unica e particolare come personaggio (nei comics era maliziosa e manipolatrice). L'ossessione hollywoodiana di questi tempi per l'inclusività, poi, porta a cambiamenti di sesso (Ajak e Makkari sono donne) e alla presenza di eroi neri, asiatici, indiani (Kingo, che si diletta come attore di Bollywood!), e persino gay (Phastos, il "primo supereroe dichiaratamente omosessuale della Marvel") o affetti da handicap (Makkari è muta). La cosa si è ritorta contro la stessa Marvel: per un motivo o per l'altro, il film è stato bandito o boicottato in Cina e in molti paesi del Medio Oriente. Nel complesso, come tentativo di "film Marvel d'autore", è un fallimento: il Thor di Kenneth Branagh e l'Hulk di Ang Lee avevano bilanciato meglio le esigenze del cinecomic con lo stile e la creatività dei rispettivi registi. Della Zhao restano l'uso dei paesaggi (gran parte della pellicola è stata girata in esterni), la fotografia naturalistica, e l'attenzione agli elementi etnici e globali. Nonostante il cast non brillante (fra i migliori: Keoghan, McHugh e sì, la Jolie) e le caratterizzazioni un po' semplicistiche dei protagonisti, è da apprezzare il fatto che questi supereroi/divinità sono imperfetti, al punto da dividersi in fazioni, combattersi fra loro o persino scegliere di ritirarsi dalla lotta. Nel finale, a sorpresa e a beneficio dei Marvel fan, ci sono apparizioni per Eros/Starfox e Pip il Troll, nonché per Dane Whitman/Cavaliere Nero (Kit Harington): agganci per un possibile sequel o semplicemente per altri film ambientati nel MCU.

10 novembre 2021

La sposa cadavere (Burton, Johnson, 2005)

La sposa cadavere (Corpse bride)
di Tim Burton, Mike Johnson – USA 2005
animazione a passo uno
**1/2

Rivisto in TV (Netflix).

Il giovane Victor, promesso sposo a Victoria (si tratta di un matrimonio combinato dalle rispettive famiglie, il che non impedisce ai due giovani di innamorarsi l'uno dell'altra a prima vista), si ritrova per errore sposato invece con... un cadavere, quello di Emily, che lo trascina con sé nel regno dei morti. Il secondo lungometraggio in animazione stop motion di Tim Burton (ma il primo da lui diretto, sia pure insieme a Mike Johnson, visto che la regia del precedente "Nightmare before Christmas" non era sua ma di Henry Selick) è una fiaba dark e romantica ambientata in epoca vittoriana (il che si riflette nei nomi dei due promessi sposi: Victor e Victoria) e ispirata a una leggenda del folklore russo di origine ebraica. Con il film su Jack Skeletron condivide parecchie cose: dal gusto per il macabro all'aspetto deforme e inquietante dei personaggi, dalle scenografie espressioniste (da notare, in particolare, l'uso dei colori: se nel mondo reale la tavolozza è del tutto smorta, quasi monocromatica, il regno dei morti invece è variopinto e colorato) alla struttura musicale (con canzoni e musiche di Danny Elfman, a dire il vero non proprio memorabili). Ma nonostante il buon riscontro critico e il mood generalmente accattivante, la trama semplicistica, le gag scialbe, la debole caratterizzazione dei personaggi di contorno (alcuni dei quali, come i genitori, scompaiono di scena senza un motivo a metà film) e le idee riciclate dai lavori precedenti (vedi il cagnolino scheletro) lo rendono più povero del precedente, lasciando l'impressione di aver assistito – complice anche la breve durata – non a un lungometraggio, ma a un cortometraggio "gonfiato". Anche il doppiaggio italiano non è all'altezza di quello di "Nightmare before Christmas", soprattutto per quanto riguarda le parti cantate. In originale le voci sono di Johnny Depp, Helena Bonham Carter ed Emily Watson, mentre lo stesso Elfman canta nel ruolo dello scheletro jazzista. L'animazione a passo uno appare molto fluida e ripulita, tanto da lasciare il sospetto che sia stata generata al computer (in realtà si tratta del primo film in stop motion girato con camere digitali). Da notare le citazioni per Ray Harryhausen (il cui nome è inciso sul pianoforte) e "Via col vento".

6 novembre 2021

I giorni contati (Elio Petri, 1962)

I giorni contati
di Elio Petri – Italia 1962
con Salvo Randone, Regina Bianchi
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Visto in divx.

Dopo aver assistito casualmente sul tram alla morte per infarto di un uomo della sua stessa età, Cesare (Salvo Randone, in uno dei suoi rari ruoli da protagonista), idraulico ultracinquantenne e vedovo, comincia a interrogarsi sul senso dell'esistenza e si convince di avere anche lui "i giorni contati". Decide così di smettere di lavorare per prendersi una sorta di "vacanza" e mettere ordine nella propria vita, con grande sconcerto dell'amico Amilcare (Franco Sportelli). Vagherà per Roma, entrando in contatto con personaggi e realtà a lui estranee (una mostra d'arte, dove conosce il mercante Vittorio Caprioli; l'aeroporto, dove guarda gli aerei decollare e sogna di viaggiare lontano; lo stabilimento balneare, affollato da giovani che si divertono; il tribunale, dove assiste ad arringhe e processi di sconosciuti); cercherà di riallacciare i legami col suo passato, rintracciando Giulia (Regina Bianchi), sua ex fiamma ormai sposata, o facendo una breve visita al paese di origine, ormai spopolato e abitato solo da vecchi e cani randagi; si confronterà con i giovani, in particolare con Graziella (Angela Minervini), figlia della sua padrona di casa, che a insaputa della madre fa la mantenuta; e quando il denaro inizierà a scarseggiare (l'età della pensione è ancora distante), sarà tentato di farsi coinvolgere da un ex apprendista poco di buono (Paolo Ferrari) in un "impiccio", ovvero una truffa all'assicurazione, per tirarsi indietro solo all'ultimo momento. Il secondo lungometraggio di Petri – che alcuni critici hanno paragonato al "Posto delle fragole" di Bergman! – è al tempo stesso una riflessione sulla vecchiaia e la morte (la visita al cimitero), un confronto con i giovani (Graziella, il bambino sulla spiaggia) e, naturalmente, visto l'autore, un'analisi sociale e culturale di un'epoca (l'uomo va nello spazio: "Tra poco le ferie le passiamo sulla Luna") e un paese che cambia. Non mancano infatti tocchi socio-politici (le proteste degli abitanti dei quartieri popolari, o quelle dei contadini contro i grossisti) e critiche alla vita moderna ("Tutti corrono, s'affannano, hanno fretta, una fretta di arrivare..., ma a che cosa? A una triste vecchiaia carica di rimpianti per ciò che si è sacrificato e perduto", ha detto il regista), anche se il focus dell'attenzione è sempre sul personaggio singolo, un lavoratore che si scopre filosofo ("Il suo è un problema squisitamente moderno: lei senza neanche saperlo è un esistenzialista", gli dice il mercante d'arte), ossessionato dalla morte che può giungere all'improvviso, anche se non la si era mai presa in considerazione. La lezione del neorealismo viene dunque contaminata dall'alienazione (come in Antonioni) e dallo stile della Nouvelle Vague (la sequenza finale sul tram, in mezzo al frastuono, alle voci, alle immagini e alle luci, è quasi godardiana). La fotografia è di Ennio Guarnieri. Randone aveva già recitato per Petri nel precedente "L'assassino", basato – come questo – su un soggetto del regista e di Tonino Guerra. Piccola parte per Lando Buzzanca, nel ruolo del figlio.

3 novembre 2021

Madres paralelas (Pedro Almodóvar, 2021)

Madres paralelas (id.)
di Pedro Almodóvar – Spagna 2021
con Penélope Cruz, Milena Smit
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Visto al cinema Colosseo, con Marisa.

La quarantenne Janis (Penélope Cruz), fotografa di moda, e la minorenne Ana (Milena Smit), entrambe single, partoriscono lo stesso giorno, nello stesso ospedale. Ma a loro insaputa le neonate vengono scambiate. Quando Janis se ne accorge, e dopo aver saputo che la bambina affidata ad Ana è morta in culla, sarà tentata di non rivelare la verità a nessuno... Due storie "parallele", appunto (almeno fino a un certo punto, visto che le esistenze delle due donne finiscono inevitabilmente per incrociarsi di nuovo), di maternità molto diverse fra loro: se per Ana è stato un "incidente" non voluto, per Janis, vista l'età, è forse l'ultima occasione per coronare un sogno (il che spiega la sua esitazione a rivelare la verità, nel timore di non avere un'altra possibilità). Il che porta a un altro "parallelo", quello fra Janis e Teresa (Aitana Sánchez-Gijón), la madre di Ana, che a sua volta ha l'ultima occasione per coronare un sogno in tarda età, ovvero diventare attrice teatrale, anche a costo di lasciare la figlia da sola in una situazione difficile. Se lo spunto di partenza (lo scambio di neonati) può ricordare "Father and son" di Hirokazu Koreeda, gli sviluppi e l'approccio scelto da Almodóvar sono diversi: innanzitutto perché la vicenda è letta in chiave esclusivamente femminile (e femminista, tanto che la Cruz sfoggia a un certo punto una maglietta con su scritto "We should all be feminist"), con donne/madri/figlie/nipoti che vivono da sole, per scelta o per obbligo, e persino con un condimento lesbico (che forse era superfluo, ma è di Almodóvar che stiamo parlando...). Ma poi c'è altro: se i bambini rappresentano il futuro, anche il passato torna a fare capolino attraverso la sottotrama della fossa comune, con le vittime della guerra civile (parenti e antenati) che l'antropologo forense Arturo (Israel Elejalde), il padre della figlia di Janis, è incaricato di riesumare. Parentele future e passate (nonché vissuto privato e pubblico/politico) si toccano e si influenzano a vicenda, dunque, con numerosi "paralleli" anche in questo caso (donne costrette a restare da sole; il conflitto fra il bisogno di sapere e l'innocenza del vivere nell'ignoranza; lo stesso test del DNA che viene usato con obiettivi diversi: per chiarire i dubbi sulla maternità in un caso, per identificare i corpi dei parenti nel secondo). Penélope Cruz ha vinto a Venezia la Coppa Volpi come miglior attrice. Il cast comprende anche habitué almodovariane come Rossy de Palma (l'amica caporedattrice) e Julieta Serrano (la vecchia zia). Tipici del regista spagnolo (che si sbizzarrisce in un paio di scene, come quella del flashback che parte nel momento in cui Janis va ad aprire la porta ad Arturo) anche i colori della fotografia e delle scenografie. Nella colonna sonora spicca "Summertime" (una ninna nanna, simbolo del legame fra una madre e il suo bambino!) cantata da Janis Joplin (a cui il personaggio interpretato dalla Cruz deve il suo nome).