31 gennaio 2008

Beetlejuice (Tim Burton, 1988)

Beetlejuice - Spiritello porcello (Beetle Juice)
di Tim Burton – USA 1988
con Alec Baldwin, Geena Davis
**

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Non amo molto Tim Burton, regista limitato e sopravvalutato, beniamino di una certa critica chiusa in sé stessa (soprattutto europea) che lo considera autore "visionario" per eccellenza, quando invece i veri visionari di oggi sono i Gilliam e i Greenaway, i Lynch e i Kitano. L'immaginario di Burton è invece un incrocio fra quelli di Disney e Fellini (altro autore per cui non impazzisco), mentre i suoi temi e i suoi personaggi "trasgressivi" puzzano di ipocrisia: l'american way of life esce dalla porta per rientrare dalla finestra, come testimoniano i finali dei suoi film, che vedono regolarmente ristabiliti lo status quo e i valori della morale, della famiglia, del matrimonio, come nemmeno Spielberg sa fare. Gli riconosco un certo talento visivo, comunque, e infatti le cose migliori delle sue pellicole sono spesso le scenografie e i costumi. Il suo lavoro più bello, non a caso, è l'unico che non ha personalmente diretto: "Nightmare before Christmas".

Ho però deciso di riguardarmi alcuni (se non tutti) i suoi film, forse per dargli un'altra opportunità. Ho cominciato dal secondo lungometraggio, quello in cui ha iniziato a collaborare con il suo primo attore "feticcio", Michael Keaton (in attesa di Johnny Depp). E devo dire che mi è piaciuto di più della prima volta. La trama è semplice: una coppia appena deceduta in un incidente vorrebbe scacciare dalla propria casa la nuova famiglia che è venuta ad abitarvi. Ma dopo numerosi fallimenti, è costretta a chiedere l'aiuto di un "bio-esorcista", Betelgeuse, che si rivelerà decisamente inaffidabile. I due attori protagonisti non brillano affatto, mentre sono molto meglio i comprimari, a partire da Keaton (il cui ruolo è ingigantito dal titolo del film). Ottimi, in particolare, i membri della famiglia "invasore", fra i quali spiccano Jeffrey Jones (l'indimenticabile imperatore di "Amadeus") e la giovane Winona Ryder nei panni della figlia amante del macabro. Fra una citazione in chiave comica de "L'esorcista" e numerosi mostriciattoli animati in stop motion (gli effetti speciali sono tutti "artigianali", senza uso di computer grafica, il che li rende più gradevoli), il film procede senza scosse riuscendo anche a strappare qualche risata (vedi l'aldilà burocratizzato, peraltro non troppo originale, o la possessione al ritmo di Harry Belafonte durante la cena).

30 gennaio 2008

Maschere e pugnali (Fritz Lang, 1946)

Maschere e pugnali (Cloak and dagger)
di Fritz Lang – USA 1946
con Gary Cooper, Lilli Palmer
**

Visto in DVD.

Qualche anno prima della fine della guerra, temendo che i nazisti stiano per mettere a punto la bomba atomica, i servizi segreti americani inviano in Europa un fisico nucleare con il compito di mettersi in contatto con i cervelli che lavorano al progetto tedesco. L'uomo si reca dapprima nella neutrale Svizzera e poi in Italia, dove viene aiutato dalla resistenza a far uscire dal paese uno scienziato italiano e si innamora di una bella partigiana. Un Lang decisamente minore e meno riuscito di altri, anche se ha i suoi buoni momenti. Come scienziato "d'azione", il protagonista è piuttosto improbabile, anche se il bel combattimento contro la spia dell'OVRA è teso e realistico. Ma il lungo inserto romantico nella seconda parte rallenta un po' la storia e fa calare la tensione. La produzione censurò il finale inizialmente previsto da Lang, nel quale il protagonista pronunciava parole di condanna verso l'utilizzo dell'energia atomica a fini bellici (era il 1946!). Il pensiero dell'autore risulta comunque evidente: all'inizio Cooper afferma che "la società non è degna dell'energia atomica", mentre il professore italiano è convinto che l'unica buona scienza sia "una scienza libera e al servizio dell'umanità". Il doppiaggio italiano d'epoca non è eccelso: addirittura per due volte si parla di fisica "nucleolare"!

29 gennaio 2008

I padroni della città (F. Di Leo, 1976)

I padroni della città
di Fernando Di Leo – Italia 1976
con Harry Baer, Al Cliver, Vittorio Caprioli
**1/2

Visto in DVD, con Martin.

Il giovane Tony, che riscuote crediti per conto del padrone di una bisca, scatena con una bravata l'ira del malavitoso Jack Palance, detto "lo sfregiato". Ma con l'aiuto di un anziano e saggio rapinatore e quello di un misterioso individuo che ha un conto da regolare con il boss, riuscirà a sgominare l'intera banda. Forse non all'altezza dei migliori film di Di Leo (il capolavoro "Milano calibro 9" resta inarrivabile), è un onesto e divertente poliziottesco (senza poliziotti, però) ambientato nel sottobosco della mala romana e caratterizzato da un tono spensierato e simpatico, che non a caso è piaciuto molto a Quentin Tarantino. Bella l'atmosfera, gli ambienti, le donne, la musica di Bacalov. Inutile, troppo lunga e anticlimatica, invece, la sequenza finale.

28 gennaio 2008

Hot fuzz (Edgar Wright, 2007)

Hot fuzz (id.)
di Edgar Wright – Gran Bretagna 2007
con Simon Pegg, Nick Frost
**1/2

Visto in DVD, con Hiromi, Maddalena e Giuseppe.

Dopo l'ottimo "L'alba dei morti dementi", che prendeva in giro i film di zombie alla Romero, il regista Edgard Wright e l'attore Simon Pegg (sempre co-sceneggiatori) ci riprovano prendendo stavolta di mira i film d'azione stile "Die hard" e "Arma letale". Anche stavolta, più che una semplice parodia, si tratta di un sentito omaggio per il genere, come testimonia il personaggio di Nick Frost (il compagno di pattuglia del protagonista) che cita in continuazione le scene dei suoi film preferiti. Pegg interpreta un super poliziotto che i suoi superiori trasferiscono da Londra a uno sperduto paese di campagna per evitare con la sua abilità metta troppo in ombra i colleghi. Ma anche nel suo nuovo posto di lavoro, dove non sembra mai accadere nulla, l'agente riuscirà a sventare un diabolico piano criminale. La sparatoria finale, che coinvolge l'intero villaggio, è forse troppo esagerata per essere davvero coinvolgente, e si perde un po' di quell'ironia intelligente che aveva reso un gioiellino il precedente film, ma il divertimento comunque non manca. Pur essendo slegati gli uni dagli altri, il film forma con il precedente (e il successivo "La fine del mondo") una sorta di trilogia: dei tre questo è quello che ha avuto il maggior successo al botteghino, ma forse il meno ispirato artisticamente, anche se rimane comunque una pellicola divertente e godibilissima.

27 gennaio 2008

My summer of love (P. Pawlikowski, 2004)

My summer of love (id.)
di Paweł Pawlikowski – Gran Bretagna 2004
con Nathalie Press, Emily Blunt
***

Visto in divx.

Durante un'estate trascorsa in un paesino di campagna nello Yorkshire, nei primi anni ottanta, la giovane Lisa (detta "Monna" perché le piace dipingere) incontra la coetanea Tamsin e se ne innamora, illudendosi di aver trovato un'anima a lei affine. Le due ragazze sono piuttosto diverse fra loro (Lisa è orfana e proletaria, e vive con il fratello, ex galeotto diventato predicatore; Tamsin è ricca e raffinata, va a cavallo, legge Nietzsche e suona il violoncello) ma hanno in comune l'odio per le ipocrisie e per il mondo che le circonda. Almeno in apparenza... Inizia come un film di Rohmer e prosegue come un incrocio fra "Creature del cielo" e "Fucking Åmål", svelando poi nel finale come il suo vero tema sia quello dell'inganno e della manipolazione. I verdi paesaggi, la bella atmosfera, la storia d'amore al femminile (mai morbosa), la spontaneità delle due giovani attrici, la regia semplice ma elegante contribuiscono a farne un film davvero gradevole, e che cresce molto nei giorni successivi alla visione. Bella anche la colonna sonora, dove spicca "La foule" di Edith Piaf. Pawlikowski, regista nato in Polonia ma trasferitosi nel Regno Unito in tenera età, in precedenza aveva diretto per lo più celebrati cortometraggi.

26 gennaio 2008

Blood brothers (Chang Cheh, 1973)

Blood brothers (Ci ma)
di Chang Cheh – Hong Kong 1973
con David Chiang, Ti Lung
**

Visto in DVD.

Classico film della Shaw Brothers, la compagnia hongkonghese che dominò il mercato con i suoi film di arti marziali negli anni sessanta e settanta. Si tratta però di film che, rivisti oggi, scontano un'eccessiva ingenuità che mi impedisce di godermeli fino in fondo. Questo, comunque, è interessante per la presenza di un giovane e prestante Ti Lung, allora star del genere e oggi ricordato soprattutto perché co-protagonista del capolavoro "A better tomorrow" di John Woo (che figura qui nei credits come assistente alla regia). Il film si apre con un celebre evento della storia della dinastia Ching, l'uccisione del generale Ma da parte del suo luogotenente Zhang (David Chiang). L'assassino, subito catturato, rilascia una confessione scritta che, illlustrata in flashback, occupa quasi l'intera durata della pellicola. Zhang racconta della profonda amicizia che lo legava con Ma, del quale si considerava fratello di sangue, al punto da seguirlo fedelmente nella sua ambizione e sete di potere quando decise di diventare ufficiale dell'esercito imperiale. Ma non è l'ambizione a perdere lo spietato Ma, bensì l'amore: invaghito della cognata di Zhang, ne fa uccidere il fratello suscitando così il suo profondo odio. I tipici temi del genere (l'amicizia, il tradimento, la vendetta) acquistano spessore grazie alla sottotrama romantica, mentre i combattimenti e le scene d'azione risultano inevitabilmente datati (ridicoli, per esempio, gli eccessivi contorcimenti degli uomini feriti a morte). Il duello finale, comunque, è spettacolare.

24 gennaio 2008

American gangster (R. Scott, 2007)

American gangster (id.)
di Ridley Scott – USA 2007
con Denzel Washington, Russell Crowe
**

Visto al cinema Plinius, con Hiromi.

La storia vera di Frank Lucas, che da ex autista di un boss di Harlem all'inizio degli anni settanta diventa uno dei principali capibanda di New York (e uno dei pochi neri in grado di rivaleggiare con le famiglie mafiose italiane), dedicandosi soprattutto al traffico di eroina. Come un vero "imprenditore" americano, sbaraglia la concorrenza importando direttamente la materia prima dal Triangolo d'Oro del sud-est asiatico senza intermediari e facendola entrare nel paese a bordo degli aerei militari di ritorno dalla guerra del Vietnam, a volte addirittura dentro le bare dei soldati caduti. La possibilità di offrire droga più pura e a prezzi inferiori gli fa rapidamente conquistare il "mercato", ma nonostante il successo continuerà a mantenere un basso profilo, lavorando insieme ai suoi fratelli e cugini senza dare nell'occhio. L'unica volta che si concederà un comportamento vistoso, sfoggiando all'incontro di boxe fra Alì e Frazier un pelliccione kitsch regalatogli dalla sua fidanzata, attirerà su di sé l'attenzione della polizia che comincerà a indagare su di lui o – nel caso degli agenti corrotti – a chiedere mazzette. Il secondo personaggio principale del film è il detective Richie Roberts (un buon Crowe al suo terzo film con Scott dopo "Il gladiatore" e "Un'ottima annata"), aspirante avvocato, onesto e incorruttibile nonostante amicizie non proprio limpide, che come un mastino indaga sul traffico di droga fino a incastrare sia Lucas sia i numerosi poliziotti corrotti (notevole il personaggio carogna interpretato da Josh Brolin). Al tirar delle somme, i due uomini – che curiosamente non si incrociano praticamente mai prima del finale del film – scopriranno però di avere molti punti in comune: entrambi a modo loro sono integerrimi e fanno "quel che deve essere fatto", al punto che dopo l'arresto Lucas collaborerà con Richie (che diventerà il suo avvocato difensore) per spazzare via il marcio dalla polizia. La pellicola è lunga, bella nella sua ambientazione d'epoca (automobili, vestiti, acconciature anni settanta... quanti baffoni, per esempio!), solo a tratti avvincente ma a suo modo epica. Qualcuno, esagerando, l'ha paragonata a "Il padrino" (forse per il tema della famiglia, o per il climax dell'arresto all'uscita della chiesa), a me è sembrata invece più simile a "Scarface" nel delineare l'ascesa e la caduta di un gangster, la sua determinazione e le sue qualità morali. Bravo Washington. La struttura del doppio protagonista (che in parte rappresenta lo scontro fra il bene e il male, in parte le due facce di una stessa medaglia) sembra diventata particolarmente di moda nei film noir/poliziesco/gangsteristici: si pensi a "The heat", "The departed" o persino "The prestige". La regia di Scott non offre sorprese, cita molti classici del passato ("The french connection" addirittura esplicitamente), insiste su molte riprese attraverso i parabrezza delle automobili e punta su una fotografia meno patinata del solito, forse per adattarsi a un film dal tono più realistico e dal ritmo meno frenetico.

22 gennaio 2008

The Darwin Awards (Finn Taylor, 2006)

The Darwin Awards (id.)
di Finn Taylor – USA 2006
con Joseph Fiennes, Winona Ryder
*1/2

Visto in DVD, con Albertino.

I Darwin Awards sono un riconoscimento goliardico, nato su internet, assegnato a coloro che sono morti compiendo azioni così incredibilmente stupide (e, soprattutto, senza lasciare eredi) tali da far ritenere la loro dipartita un miglioramento del pool genetico dell'umanità. Spesso le loro vicende sono ai limiti della leggenda urbana: si va dall'appassionato di automobili che ha innestato un motore di jet sulla sua macchina, al pescatore che ha lanciato un candelotto di dinamite per poi vedere il suo cane riportarglielo indietro. Questo film, tratto da un libro che passava in rassegna molti di questi "incidenti", ne racconta alcuni innestandoli sulla storia di un metodico psicologo della polizia, esperto nel tracciare profili di personalità criminali e abile osservatore come Sherlock Holmes, che gira per gli Stati Uniti in compagnia di una giovane agente assicurativa per raccogliere esempi di stupidità estrema. Come dice il protagonista: "Studiando le persone ho imparato una cosa: il coraggio e la stupidità non sono caratteristiche reciprocamente esclusive". Ma la pellicola, che oltre ai due attori principali può vantare su un interessante cast di comprimari e di cameo (da Chris Penn, al suo ultimo film, a David Arquette, a Juliette Lewis) è fondamentalmente una stupidaggine e soffre per una sceneggiatura non eccelsa che non sa sfruttare a dovere lo spunto di partenza. Vorrebbe far ridere ma raramente ci riesce, si dilunga troppo in alcuni punti, è spesso noiosa e risulta addirittura pretenziosa quando introduce l'inutile e onnipresente personaggio del giovane regista (detto "sanguisuga") che riprende tutto il viaggio dei due protagonisti con la sua videocamera e che non interviene mai in loro aiuto perché ha deciso che il suo "occhio invisibile" deve rimanere neutrale. Una curiosità: è il secondo film ispirato da un sito internet che vedo (il primo era stato "The yes men").

21 gennaio 2008

20.000 visite!

Questo blog ha appena superato i 20.000 visitatori unici... Grazie a tutti! Per arrivare a 10.000 ci aveva messo quindici mesi: per raddoppiare, soltanto sette!

20 gennaio 2008

Les affaires publiques (R. Bresson, 1934)

Affaires publiques, aka Les affaires publiques
di Robert Bresson – Francia 1934
con Béby, Andrée Servilanges, Marcel Dalio
**

Visto su YouTube, in originale.

Innamorata del cancelliere (Béby) della rivale repubblica di Crogandie, la principessa (Servilanges) del regno di Miremie parte in aereo per raggiungerlo, innescando un incidente diplomatico fra le due nazioni. La prima pellicola realizzata da Robert Bresson (a lungo ritenuta perduta, ma di cui negli anni ottanta è stata ritrovata una copia – in condizioni non proprio ottime – negli archivi della Cinémathèque Française) è un cortometraggio comico-surrealista, lontano anni luce dalla cifra stilistica sobria e drammatica che caratterizzerà i suoi lungometraggi nel dopoguerra. Si tratta infatti di una farsa scatenata, colma di gag che si prendono gioco della pomposità e delle cerimonie di stato (si passa dall'inaugurazione di una statua talmente noiosa da far addormentare tutti, all'esercitazione in una caserma di pompieri imbranati e pasticcioni, per terminare con il varo di una nave che affonda non appena lascia il porto). Che Bresson abbia scelto di esordire alla regia con una commedia (anche la sceneggiatura è sua, sia pure con la collaborazione di André Josset e Paul Weill) non deve però sorprendere: il cineasta francese era infatti un grande ammiratore di Charles Chaplin, e probabilmente si è ispirato anche a Max Linder, a René Clair e ai fratelli Marx. Gran parte dei ruoli comici sono affidati a Marcel Dalio, che interpreta ben quattro parti: lo speaker radiofonico, lo scultore, il comandante dei pompieri e l'ammiraglio navale. L'immagine della donna aviatrice, assai popolare in quegli anni (si pensi anche alla Katharine Hepburn de "La falena d'argento" o alla Dolores Del Rio di "Carioca"), è senza dubbio ispirata ad Amelia Earhart. Béby (vero nome Aristodemo Frediani) era un clown di origini italiane. Fra le numerose comparse ci sono i pagliacci del Cirque d'Hiver e le ragazze del Teatro Pigalle e delle Folies Bergère. La colonna sonora è di Jean Wiéner, con cui Bresson collaborerà anche negli anni sessanta.

19 gennaio 2008

Il mio corpo ti scalderà (H. Hughes, 1943)

Il mio corpo ti scalderà (The Outlaw)
di Howard Hughes – USA 1943
con Jack Buetel, Jane Russell
**

Visto in DVD.

Questo western è forse più celebre per la storia della sua realizzazione che per la pellicola in sé. Prodotto dal magnate Howard Hughes, venne iniziato nel 1940 da Howard Hawks: ma i due HH litigarono dopo solo due settimane, Hawks se ne andò e Hughes decise di dirigere il film in prima persona (fu il suo secondo e ultimo film come regista dopo "Angeli dell'inferno"). La pellicola, nonostante abbondi di personaggi "classici" (Pat Garrett, Billy the Kid e Doc Holliday, i cui miti vengono peraltro rivisitati), servì soprattutto come veicolo di lancio per l'esordiente Jane Russell: i suoi seni "prorompenti", inquadrati con dovizia di particolari dal regista (che aveva disegnato personalmente il suo reggiseno), scatenarono l'ira della commissione di censura. Ma Hughes stesso (si veda la scena in "The aviator" di Martin Scorsese) combatté contro la commissione in difesa del film, che venne infine distribuito nel 1943 in una versione accorciata a 95 minuti. Negli anni successivi ne uscirono poi diverse riedizioni, compresa quella più lunga di 121 minuti nel 1950. Il dvd italiano che ho visto, comunque, durava solo 111 minuti (ma presentava alcune sequenze in originale con sottotitoli). Il film è tutto incentrato su quattro personaggi e sulle dinamiche cangianti di amore/odio e amicizia/rivalità fra di loro. I fuorilegge Billy "il" Kid (Buetel) e Doc Holliday (un ottimo Walter Huston) si contendono in continuazione un cavallo, una borsa di tabacco e la donna, mentre lo sceriffo Pat Garrett (Thomas Mitchell) è invece geloso della nuova amicizia fra Holliday e Billy: il suo personaggio, fra il ridicolo e il patetico, sfiora l'omosessualità. In mezzo agli scontri fra i tre uomini, la Russell sembra quasi fuori posto: sia Billy sia Doc sembrano molto più interessati al cavallo che a lei, che è spesso inquadrata da sola, oltre che trattata in modo davvero misogino dallo sceneggiatore. Il titolo italiano nasce dalla scena in cui Jane Russell si introduce nel letto di Billy, ferito da Pat Garrett. Curiosa la colonna sonora: un brano della sesta sinfonia di Tchaikowsky compare dapprima sui titoli di testa in versione originale, per poi essere riarrangiata più volte.

18 gennaio 2008

Sorelle della scena (Xie Jin, 1965)

Sorelle della scena (Wutai jiemei, aka Two stage sisters)
di Xie Jin – Cina 1965
con Xie Fang, Cao Yindi
**1/2

Visto in VHS, in originale con sottotitoli.

Mi sono finalmente visto questo film che avevo registrato da "Fuori orario" anni fa e poi lasciato da parte. Si tratta di uno dei più celebri e importanti esempi di cinema di propaganda della Cina comunista, e racconta la storia di due giovani attrici e cantanti dell'Opera di Shanghai dagli anni trenta fino agli anni cinquanta. Le due protagoniste non sono veramente sorelle: Yuehong, che interpreta ruoli maschili, fa parte di una compagnia di attori itineranti che si esibiscono presso fiere e villaggi, mentre Chunhua, che interpreta ruoli femminili, fugge dal suo destino di "sposa-bambina" e si rifugia presso la stessa compagnia, che era di passaggio nel suo paese. Ben presto le due ragazze diventano inseparabili, sulle scene come nella vita (c'è persino chi ha azzardato una lettura della pellicola in chiave lesbica, che mi pare francamente esagerata). Ma devono fare i conti con un mondo di ingiustizie, una società oppressiva e lo sfruttamento da parte di padroni e impresari, che giocano a piacimento con le vite e le carriere degli artisti (indicativo, in tal senso, l'episodio dell'anziana attrice – della quale prendono il posto come star – che finisce col suicidarsi). Nella seconda parte, il film passa dal melodramma alla politica. Mentre cominciano a sentirsi le prime avvisaglie della guerra civile, le due sorelle si separano e prendono strade differenti: la frivola Yuehong, attratta dal lusso e dall'agiatezza, sposa il crudele impresario e abbandona le scene, mentre l'impegnata Chunhua scopre la lotta di classe e si dedica alla rappresentazione di opere a sfondo sociale che denunciano la condizione delle donne contadine e lo sfruttamento delle masse. "Il vero palcoscenico è la società", spiega. "Ora abbiamo un teatro composto da migliaia di contadini, soldati e operai". Nemmeno minacce e attentati riusciranno a farla tacere: unirà tutte le compagnie del paese ("miglioreremo noi stesse e canteremo sempre opere rivoluzionarie") e nel finale, ovviamente, l'infelice Yuehong non potrà che pentirsi e riconoscere di aver fatto la scelta sbagliata. Narrativamente meccanico ma registicamente scorrevole e interpretato da due buone attrici che si prodigano in scene caricatissime e melodrammatiche, spesso recitando con gli occhi umidi di lacrime, è un film forse più interessante dal punto di vista storico-sociale che bello artisticamente. Ha qualche similarità con "Vivere!" di Zhang Yimou, che ho visto pochi giorni fa, anche se naturalmente il fatto che sia stato girato negli anni '60 fa una certa differenza: questo è decisamente più schierato. Inizialmente le attrici, soprattutto quella che interpreta Chunhua, mi sono sembrate troppo adulte per la parte, e infatti non c'è bisogno di trucco ma solo di un cambio di acconciatura per mostrarle invecchiate, vent'anni dopo. Il regista, che era in sentore di "scomunica" da parte del regime, fu costretto ad accentuare i toni propagandistici della seconda parte del film rispetto alle sue intenzioni originali. Ma nonostante questo, il film venne vietato e lui addirittura incarcerato durante i primi anni della Rivoluzione Culturale.

15 gennaio 2008

Spartacus (Stanley Kubrick, 1960)

Spartacus (id.)
di Stanley Kubrick – USA 1960
con Kirk Douglas, Laurence Olivier
**1/2

Rivisto in DVD.

Il più lungo e il meno personale fra tutti i film di Kubrick è anche quello che ho sempre ritenuto il meno bello. Rivedendolo, però, l'ho apprezzato molto più della prima volta, anche se naturalmente lo stile del grande regista è quasi del tutto assente, sommerso dalle esigenze narrative di un kolossal (che però, a parte la durata – oltre tre ore –, il tono epico e le grandi scene di battaglia nel finale, è più intimo, più minimalista e meno sfarzoso rispetto alla media del genere) il cui progetto era già in uno stato avanzato quando il giovane Kubrick è stato chiamato a dirigerlo, sostituendo Anthony Mann che aveva litigato con i produttori (e fu l'unico lavoro su commissione di tutta la sua carriera), forse su suggerimento di Douglas con il quale aveva lavorato in "Orizzonti di gloria". Spartaco, lo schiavo divenuto prima gladiatore e poi comandante di una rivolta in nome della libertà, viene descritto come un personaggio forte, sensibile e fuori dal tempo: la sua lotta contro la schiavitù, destinata al fallimento come ci rivela all'inizio della pellicola la voce di un narratore che poi scomparirà dal film, può essere letta in chiave moderna, così come gli interessanti intrighi politici sullo sfondo (la rivalità fra Gracco, senatore corrotto e vizioso ma amante della libertà e difensore della plebe, cui va la simpatia dello sceneggiatore blacklisted Dalton Trumbo, e il freddo e ambiguo Crasso, militare patrizio che aspira alla dittatura) riflettono la dicotomia fra gli schieramenti odierni. Devo ammettere che proprio le scene nel senato di Roma mi sono sembrate le più interessanti della pellicola. Ottimo e grandioso il cast: più che Douglas e Olivier, però, spiccano Peter Ustinov nei panni del mercante di gladiatori e Charles Laughton in quelli del sarcastico Gracco. Ci sono anche Tony Curtis (lo schiavo cantore Antonino, una cui scena in compagnia di Crasso nella quale si alludeva all'omosessualità di quest'ultimo – in maniera po' ridicola, a dire il vero, con i suoi discorsi sulle lumache e le ostriche – era stata tagliata all'epoca e reintegrata soltanto di recente), Herbert Lom (il pirata arabo) e Woody Strode (il gladiatore nero). Dimenticabile invece l'interpretazione di Jean Simmons, la moglie di Spartaco, che gli mostra il figlio "nato libero" mentre lui sta morendo sulla croce, anche se il tema musicale che la accompagna mi è piaciuto molto. Curiosamente, i romani "civilizzati" sono interpretati da attori inglesi (Olivier, Laughton), mentre schiavi e gladiatori dai più "rozzi" americani. Quattro premi Oscar (record per un film di Kubrick, ex aequo con "Barry Lyndon"): fotografia, scenografie, costumi e attore non protagonista (Ustinov). Il film comprende anche una "ouverture", con schermo nero e musica per quasi quattro minuti prima dei titoli di testa, e un "intermezzo" di altri due minuti: residui e testimonianza di un tempo in cui gli spettatori potevano permettersi di giungere al cinema anche a film già cominciato.

14 gennaio 2008

Shiri (Kang Je-gyu, 1999)

Shiri (Swiri)
di Kang Je-gyu – Corea del Sud 1999
con Han Suk-kyu, Kim Yun-jin
**

Visto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Due agenti speciali sudcoreani indagano su un gruppo di terroristi del nord che hanno trafugato un nuovo tipo di esplosivo sperimentale e minacciano di far saltare in aria lo stadio dove si sta svolgendo una partita di calcio amichevole fra le nazionali delle due Coree, alla presenza dei rispettivi capi di stato. Uno dei film che ha contribuito a rinnovare e rendere estremamente popolare il cinema d'azione coreano, a dire il vero soprattutto in Asia: la combinazione fra fantapolitica, "palpabile realtà" e scene spettacolari ha avuto come risultato quello di incassare forti somme al box office. In effetti, tecnicamente il film non ha nulla da invidiare a prodotti statunitensi 'fracassoni' dello stesso genere (anche se è generalmente più cruento nella messa in scena della violenza e più profondo nella psicologia dei personaggi). La pellicola si apre mostrando i crudeli addestramenti dei terroristi e si dipana poi in una prima parte piuttosto noiosa e poco originale, fra botti, inseguimenti e scene d'azione girate in maniera confusa. Ma poi l'intreccio spionistico (che si ravviva quando i due agenti protagonisti, consapevoli della presenza di una "talpa" cominciano a sospettarsi a vicenda) si fonde in maniera tipicamente orientale con una sottotrama romantica non banale: mentre uno dei due agenti nasconde alla sua fidanzata il suo reale lavoro, in realtà proprio lei è la spietata killer oggetto della sua ricerca. Interessante anche il personaggio del terrorista interpretato da Choi Min-sik (l'attore di "Old boy"), che vuole eliminare tutti i politici "corrotti", di entrambe le nazioni, responsabili delle divisioni fra le due Coree e colpevoli a suo dire di non aver mai davvero voluto la riunificazione. E di fronte all'atto d'accusa del "cattivo" ("Come potete voi, cresciuti mangiando hamburger e bevendo Coca-Cola, capire cosa provano i vostri fratelli che stanno morendo di fame?") nemmeno il "buono" sa cosa rispondere. Peccato per il più scontato dei finali, con la bomba che viene fermata quando mancano pochi istanti alla sua attivazione, e per il confronto fra i due amanti che forse voleva rievocare "Duello al sole", ma ha ben meno intensità. Alcuni critici hanno paragonato il film a "Nikita" di Luc Besson, per il personaggio del killer femminile che deve fare i conti con la propria natura e che sogna una vita normale. Le sue due personalità, così diverse fra loro (Hee e Hyun), rappresentano in un certo senso le due Coree.

13 gennaio 2008

Umberto D. (Vittorio De Sica, 1952)

Umberto D.
di Vittorio De Sica – Italia 1952
con Carlo Battisti, Maria Pia Casilio
****

Visto in DVD.

È uno dei capolavori del neorealismo e forse il suo canto del cigno, visto che segna la fine di quella che ancora oggi rimane una delle stagioni più memorabili del cinema italiano, ed è considerato da molti critici l'esempio più compiuto della poetica di Cesare Zavattini (autore di soggetto e sceneggiatura). Ma è anche un film straordinario sulla vecchiaia, la povertà, la solitudine e la mancanza di mezzi. Ambientato a Roma nell'Italia post-bellica (ma l'umanità che tratteggia è senza tempo e senza luogo), si apre con una manifestazione di anziani che chiedono un aumento delle pensioni. Fra di loro c'è il protagonista della pellicola, Umberto Domenico Ferrari, che vive in una stanza in affitto in compagnia dell'amato cagnolino Flaik. I soldi non gli bastano per arrivare a fine mese, soprattutto perché è indebitato con l'insensibile padrona di casa che vorrebbe sfrattarlo e trasformare la sua stanza in un salone da ricevimenti. Fra decine di scene indimenticabili (il pranzo alla mensa dei poveri; il ricovero in ospedale per risparmiare sul vitto; la "tentazione" di mendicare, subito sopraffatta dalla dignità e dall'orgoglio con la mano protesa a chiedere la carità che di colpo – in una scena quasi chapliniana – viene girata come se stesse cadendo qualche goccia di pioggia), la disperazione di Umberto cresce fino a fargli meditare il suicidio. Ma quando proverà a gettarsi sotto un treno, sarà proprio il suo cagnolino a evitargli di compiere il passo estremo, fuggendo via all'ultimo istante prima che il convoglio passi sui binari: e forse, nel finale (aperto e non risolutivo, ma che sublima tutto e che ha molto in comune con quello di "Ladri di biciclette"), dopo un istante di sconcerto per il gesto del suo padrone, l'animale riacquisterà la sua fiducia e gli restituirà la speranza. Proprio il rapporto fra Umberto e il cagnolino è uno degli elementi centrali della pellicola: entrambi reietti e rifiutati da tutti (quando l'uomo cerca di lasciare il cane in una pensione o di affidarlo a un'altra famiglia incontra soltanto delusioni), si salvano la vita reciprocamente: in precedenza infatti, in una delle scene più intense e strazianti del film, Umberto era andato a cercare Flaik – fuggito di casa in sua assenza – al canile municipale: e lo sguardo disperato di fronte alla camera a gas dove gli animali indesiderati vengono eliminati non può non far riflettere sul destino degli emarginati della società, soprattutto se si pensa che pochi anni prima, durante la guerra, anche molti esseri umani avevano fatto quella fine. La pellicola forse sfiora il patetismo, ma non diventa mai troppo accondiscendente o compassionevole, o peggio ancora ricattatoria, grazie a una narrazione fredda e distaccata, quasi documentaristica, che colpisce nel segno tanto più perché è realistica nella sua descrizione di un mondo cinico e senza pietà, dove i pochi gesti di solidarietà avvengono soltanto fra poveri (gli unici che mostrano amicizia o affetto per il protagonista sono la servetta Maria Pia, a sua volta nei guai perché incinta di uno dei suoi "fidanzati", e l'uomo conosciuto all'ospedale, mentre – al contrario – la padrona di casa, il ricco amico incontrato per strada e il "commendatore" non accennano minimamente a volerlo aiutare). Molti degli attori, compresi i due principali (Umberto e Maria Pia) non erano professionisti. Carlo Battisti, in particolare, era un docente universitario in pensione. Il film è famoso anche per aver scatenato l'ira di Giulio Andreotti, allora sottosegretario allo spettacolo, convinto che "i panni sporchi si devono lavare in casa". Curiose alcune scene, che sembrano quasi degli "inserti" ma che aggiungono profondità all'insieme: mi riferisco a quella in cui la servetta prepara il caffè (lunga, muta, quasi alla Tsai Ming-Liang) e ai diversi incontri di Umberto con la donna che tradisce il marito, e che alla fine ritrova nel parco in compagnia del figlioletto.

12 gennaio 2008

Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre (A. Kurosawa, 1945)

Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre (Tora no o wo fumu otokotachi)
di Akira Kurosawa – Giappone 1945
con Denjiro Okochi, Kenichi Enomoto
**1/2

Rivisto in DVD, con Martin.

Con la seconda guerra mondiale non ancora conclusa, Kurosawa avrebbe dovuto dirigere un film storico chiamato "La spada sguainata": il progetto venne sospeso per mancanza dei cavalli necessari nelle scene di battaglia, tutti requisiti dall'esercito. Al suo posto, il regista girò questo piccolo film (dura meno di un'ora), tratto da un celebre testo del teatro kabuki e ambientato nel dodicesimo secolo, che racconta della fuga del principe Yoshitsune Minamoto e dei suoi seguaci, guidati dal samurai Benkei, attraverso un posto di blocco fra le montagne. Travestiti da monaci, i samurai vengono accompagnati da un portatore, l'unico personaggio umoristico della pellicola, interpretato dal comico Enoken (Kenichi Enomoto), la cui mimica facciale ricorda a tratti addirittura quella di Totò. Ma la presenza di questo character così kurosawiano spiazzò il pubblico, che non apprezzò il tono picaresco dato a un episodio così importante e drammatico della storia feudale giapponese. Accompagnato da alcuni suggestivi cori del teatro No, il film affascina per il rigore della messa in scena e la compostezza dei personaggi (eccetto, naturalmente, Enoken): la forza e il vigore di Benkei, la grazia e la sensibilità di Yoshitsune, la nobiltà dello stesso "cattivo" Togashi, che forse addirittura riconosce il travestimento dei suoi rivali ma li lascia passare per premiare il loro coraggio. Nonostante il ruolo preponderante di Enoken, Benkei mi è sembrato il personaggio più importante del film, un samurai per il quale "l'uomo vale più delle regole astratte" (come dice Aldo Tassone) e che arriva al punto di percuotere il suo stesso padrone pur di far credere che si tratti soltanto di un servitore. A guerra conclusa, il film fu vietato perché accusato di essere portatore dei valori del Giappone feudale, e uscì nelle sale soltanto nel 1952.

11 gennaio 2008

Nightmare detective (S. Tsukamoto, 2006)

Nightmare detective (Akumu tantei)
di Shinya Tsukamoto – Giappone 2006
con Ryuhei Matsuda, Hitomi
*1/2

Visto in DVD, con Martin.

Un misterioso individuo, contattato via cellulare da alcune persone che intendono togliersi la vita, entra nei loro incubi e li uccide in maniera cruenta. Per indagare su questi misteriosi "suicidi", una giovane detective di polizia chiede aiuto a un ragazzo che lavora come "investigatore dell'incubo" ed è in grado di penetrare nei sogni altrui. Noioso, confuso e deludente horror soprannaturale, è appena un gradino sopra alla media del genere grazie al talento visivo e registico di Tsukamoto, del quale rimane comunque il peggior film fra tutti quelli che ho visto finora. Piatto e privo di tensione, si snoda tra effettacci sonori, una fotografia fredda, personaggi senza un minimo di spessore (se si esclude il fatto che tutti, coscientemente o meno, vogliono suicidarsi) e una trama che ruba a piene mani da "Nightmare" di Wes Craven, fondendone le suggestioni con i vari "The cell" e "The ring". Ma il genere evidentemente continua ad avere i suoi fan, visto che quest'anno è prevista l'uscita di un sequel, sempre diretto dal regista di "Tetsuo". In ogni caso qualcosa nella seconda parte del film, quella più visionaria e (è proprio la parola giusta!) onirica, si salva.

10 gennaio 2008

Duello mortale (Fritz Lang, 1941)

Duello mortale (Man hunt)
di Fritz Lang – USA 1941
con Walter Pidgeon, Joan Bennett
***1/2

Visto in DVD.

L'inizio è folgorante: un uomo con un fucile si aggira per una foresta in Baviera, nel 1939. Si apposta nei pressi una residenza di montagna e prende di mira... nientemeno che Adolf Hitler! Ma quando preme il grilletto, non c'è nessun colpo in canna. Si tratta di Alan Thorndike, aristocratico britannico e provetto cacciatore, che dopo aver effettuato safari e battute di caccia in tutto il mondo ha deciso di dimostrare a sé stesso di essere in grado di stanare la preda più ambita, l'uomo più pericoloso del pianeta. Ma da cacciatore si trasforma a sua volta in preda quando viene inseguito dalla Gestapo e da un minaccioso ufficiale in monocolo (un grande George Sanders), a sua volta appassionato di caccia, che vorrebbe costringerlo a firmare la confessione di aver tentato di sparare a Hitler con l'approvazione del governo inglese. Il documento servirà a giustificare la dichiarazione di guerra della Germania: siamo infatti poco prima dell'invasione della Polonia. Aiutato prima da un ragazzino, mozzo su una nave, e poi da una gentile prostituta (che, in ossequio al codice Hays, Lang è costretto a spacciare per una sarta, mettendo in bella evidenza una macchina per cucire nel suo appartamento), il protagonista riesce a raggiungere la nebbiosa Londra, dove però continuerà a essere braccato dai nazisti. Dopo un inseguimento e un duello nel tunnel della metropolitana (che evocano molti film successivi), Thorndike si rifugerà in una grotta in campagna: qui, "in the wilderness" come all'inizio del film, avverrà lo scontro decisivo fra i due contendenti. Nel finale, dopo lo scoppio della guerra, Thorndike si arruolerà nella RAF e si farà paracadutare su Berlino con un fucile di precisione e l'intenzione di compiere veramente l'attentato a Hitler. Film d'avventura e thriller spionistico di alto livello, con tre ottimi interpreti (Pidgeon è simpatico, la Bennett è adorabile), offre molti spunti interessanti: Thorndike è un personaggio che crede di avere la situazione sotto controllo ma è trasportato dagli eventi, come capita spesso ai protagonisti di Lang, ed è costretto a una fuga quasi hitchcockiana. Lo scontro fra i due cacciatori, il lord e il nazista, che si scambiano continuamente i ruoli, è da antologia. Se l'inglese afferma di provare piacere soltanto nello stanare la preda e mai nell'ucciderla, il tedesco ribatte che ogni uomo "può diventare un assassino", e lo svolgersi degli eventi gli darà ragione. Fondamentale la spilla a forma di freccia che adorna il berretto della ragazza e che si rivelerà poi l'arma decisiva nella soluzione del conflitto, tornando addirittura nel finale (è dipinta sulla carlinga dell'aereo che porta Thorndike a Berlino). Ottima la fotografia in bianco e nero, fra ombre, pioggia e nebbia tipicamente europee che offrono un perfetto mix fra i film tedeschi e quelli americani del regista.

Anche i boia muoiono (Fritz Lang, 1943)

Anche i boia muoiono (Hangmen also die!)
di Fritz Lang – USA 1943
con Brian Donlevy, Anna Lee
***

Visto in DVD.

Nella Praga occupata dai tedeschi, il gerarca nazista Reinhard Heydrich (soprannominato "il boia" per la sua crudeltà) viene ucciso in un attentato. Il responsabile, un chirurgo membro della resistenza, è introvabile e le indagini della Gestapo non portano a nulla, anche perché l'intera popolazione della città sembra aiutarlo, boicottando in ogni modo le ricerche. Gli invasori rispondono allora instaurando un regime di terrore: tutti gli intellettuali e i dissidenti vengono arrestati e ogni giorno alcuni di loro vengono fucilati nel tentativo di intaccare la compattezza della popolazione. Ma la resistenza riuscirà a far incriminare dell'attentato nientemeno che una spia tedesca che, frammista a loro, faceva il doppio gioco. "È un complotto", cerca di difendersi questa. "Non dica sciocchezze", ribatte il capo della Gestapo, "Vorrebbe farci credere che tutta Praga stia congiurando contro di lei?". Lungo e complesso, tortuoso e ambiguo, "Anche i boia muoiono" è un lungometraggio che in mano a un regista meno abile di Lang nel creare un'atmosfera intrigante avrebbe potuto degenerare nel solito film di propaganda: invece è l'intenso ritratto di un popolo ostinato e coraggioso, pronto a "morire forse, arrendersi mai", come recitano i versi di una canzone composta da uno degli ostaggi. La commissione di censura per il codice Hays non apprezzò la scelta di "presentare ogni ceco – implicitamente – come un mentitore", e accusò il film di "giustificare la menzogna". Il clima è cupo e ossessivo, le scenografie espressioniste come quelle dei film tedeschi di dieci-venti anni prima, i numerosi personaggi (la pellicola è praticamente corale, soprattutto nella seconda parte) carismatici e ben costruiti: oltre all'attentatore, il dottor Svoboda, combattutto fra il desiderio di costituirsi per salvare le vite degli ostaggi e quello di non cedere al ricatto nazista, spicca su tutti la giovane Nasha, che lo accoglie nella propria casa e che pur di salvarlo mette a rischio il proprio fidanzamento, fingendo che l'uomo sia il suo amante; ma anche la famiglia della ragazza, con il vecchio padre rivoluzionario e il fratellino; l'ispettore Gruber della Gestapo, brillante detective e ostinato mastino al servizio del male (non così diverso dai tanti investigatori "buoni" di altri film); la patetica spia, che viene smascherata perché scoppia a ridere ascoltando una barzelletta su Hitler raccontata in tedesco, dimostrando così di comprendere l'idioma dei nemici che aveva sempre negato di conoscere; i crudeli agenti della Gestapo, pronti a torturare e a uccidere inermi civili, come la donna che vende la frutta al mercato. La storia è ispirata da un fatto realmente accaduto (pare che Bertolt Brecht – al suo unico lavoro per Hollywoood – e Lang stesero il soggetto solo dieci giorni dopo la vera morte di Heydrich). C'è una particina per Lionel Stander, il tassista che all'inizio deve occuparsi della fuga dell'attentatore.

9 gennaio 2008

The game (David Fincher, 1997)

The game – Nessuna regola (The game)
di David Fincher – USA 1997
con Michael Douglas, Sean Penn
*1/2

Rivisto in DVD, con Marisa.

David Fincher, più di altri registi, alterna film belli ad altri molto brutti, quasi senza vie di mezzo. Questo, purtroppo, appartiene alla seconda categoria. "Che cosa regalare a un uomo che ha già tutto?", si chiede Sean Penn, fratello scapestrato dell'affarista Michael Douglas, prima di proporgli di partecipare a un misterioso "gioco" dalle regole sconosciute. Il protagonista si trova così immerso in un oscuro complotto, e costretto a lottare per difendere la propria vita, fino a una serie di colpi di scena finali. Peccato che dopo mezz'ora la sospensione dell'incredulità dello spettatore sia già evaporata, e che l'inverosimilità degli eventi che si succedono non provochi nessun interesse né alcun tipo di coinvolgimento. Tutto è talmente implausibile, sia perché siamo sempre consapevoli che si tratta, appunto, di un "gioco", sia perché gli snodi della sceneggiatura richiedono da parte dei personaggi un comportamento così imprevedibile da rendere davvero poco credibile che tutto sia preordinato. Nemmeno l'atmosfera, se si eccettua l'inizio e – in parte – la fine del film, si salva. Per quanto riguarda la recitazione, Sean Penn è sprecato: Douglas invece non se la cava male.

Palle al balzo (R. M. Thurber, 2004)

Palle al balzo (Dodgeball: A true underdog story)
di Rawson Marshall Thurber – USA 2004
con Vince Vaughn, Ben Stiller
**1/2

Rivisto in DVD, con Hiromi.

La palestra diretta dall'inespressivo Vince Vaughn, chiamata Average Joe's (tradotto con "Pinco Pallino" in italiano), è sull'orlo del fallimento e sta per essere acquistata dalla concorrente Globo-Gym del borioso Ben Stiller, che intende farne un parcheggio. Per guadagnare il denaro necessario a salvarla, Vaughn si iscrive con i suoi unici cinque clienti al campionato nazionale di Dodgeball (la cara vecchia "palla prigioniera"), un evento in grande stile organizzato dalla ADAA (American Dodgeball Association of America) e trasmesso in diretta televisiva su ESPN 8, "The ocho". Basterebbe questo per capire come il film prenda in giro il gigantismo degli sport americani (oltre al fanatismo per le palestre e la cura del corpo). Il resto della pellicola è stupido, certo, e devo ammettere che al cinema mi aveva fatto ridere di più: ma alcune battute volgari, la verve di Ben Stiller – nei panni del cattivo, per una volta – e la demenzialità di certi personaggi (su tutti l'allenatore paralitico, il cui motto è "Se puoi schivare una chiave inglese, allora puoi schivare una palla") strappano più di un sorriso. Divertente anche il filmato d'epoca (del 1938!) con il quale vengono insegnate le regole del Dodgeball. Comparsate, fra gli altri, per Chuck Norris e Lance Armstrong. L'intenzione originale del regista era quella di concludere il film con la sconfitta dei buoni, ma poi il pubblico degli screen test insorse e pretese il solito riscatto dei perdenti.

8 gennaio 2008

La storia di Qiu Ju (Zhang Yimou, 1992)

La storia di Qiu Ju (Qiu Ju da guan si)
di Zhang Yimou – Cina 1992
con Gong Li, Liuchun Yang
***

Visto in DVD.

Qiu Ju, la testarda moglie di un contadino che vive fra le montagne, vorrebbe che il capo del villaggio si scusasse con lui per avergli dato un calcio "nelle parti basse" (una lite che non ci viene mostrata, perché avvenuta prima dell'inizio del film). La sua ostinazione si scontra con quella dell'uomo, che non intende mostrarsi debole e perdere la propria autorità, e che accetta di rifondere le spese mediche ma non di fare autocritica: la donna si rivolge dunque alle autorità giudiziarie, compiendo – anche incinta – una serie di lunghi e difficili viaggi prima in paese, poi al distretto di polizia e in seguito nella lontana e grande città. Ma alla fine, quando la giustizia verrà finalmente fatta, le lascerà l'amaro in bocca. Primo film di Zhang con un'ambientazione contemporanea e un tono neorealistico, vinse il Leone d'Oro al Festival di Venezia (e il trionfo fu completato con la Coppa Volpi per la miglior attrice a Gong Li, qui imbruttita e infagottata sotto stracci e cappotti). La pellicola ha poi ispirato altre successive opere del regista: l'ostinazione femminile e l'opposizione fra campagna e città si vedranno anche in "Non uno di meno", mentre il rapporto con la giustizia e il tema delle riconciliazioni delle liti verranno poi rivisitati in "Keep Cool". A margine dell'incontro fra Cina antica (vedi le celebrazioni per il capodanno, con le danze tradizionali) e moderna, spicca l'ambientazione rurale e il contrasto fra la gente semplice di campagna e il caos della città piena di insidie: il film venne comunque gradito anche dalle autorità cinesi, perché sottolineava la presa di coscienza sociale dei cittadini. E anche se la fiducia nelle istituzioni a volte traballa, i funzionari appaiono comunque solerti, giusti e coscienziosi. Interessante il tema, qua e là accennato, del controllo delle nascite. Qualcuno ha paragonato l'inquadratura finale del volto di Gong Li a quella di Jean-Pierre Léaud ne "I quattrocento colpi" di Truffaut.
Pessimo il DVD italiano della BIM: il formato dell'immagine è sbagliato (1:33 anziché 1:85), la durata è accorciata (97' anziché i 116' segnati sull'etichetta: ma l'IMDb indica una durata di 101') e soprattutto manca la lingua originale.

7 gennaio 2008

Vivere! (Zhang Yimou, 1994)

Vivere! (Huozhe, aka To live)
di Zhang Yimou – Cina/Hong Kong 1994
con Ge You, Gong Li
**1/2

Visto in VHS.

Le vicissitudini di una coppia di coniugi, fra i drammi privati e i grandi eventi pubblici che hanno segnato le tappe della Cina moderna (dal "Grande balzo in avanti" alla Rivoluzione Culturale), raccontate attraverso quarant'anni di storia del paese e sullo sfondo della diffusione del comunismo: pur essendo il film più "patriottico" e inquadrato della carriera di Zhang Yimou, è però tutt'altro che un film di propaganda e presenta un personaggio, quello di Ge You, per il quale le ideologie contano poco, sicuramente meno dell'amore per la vita e per la sua famiglia, il che potrebbe spiegare come mai la pellicola (pur presentando un tono quasi agiografico nei confronti delle istituzioni) sia stata vietata in patria. Fra le righe, inoltre, non mancano accuse verso le epurazioni degli intellettuali, le condanne sommarie dei dissidenti, e il culto della personalità di Mao. La storia inizia negli anni '30, quando il ricco possidente Fugui dissipa il patrimonio di famiglia con il gioco d'azzardo. Rimasto povero e dovendo mantenere la figlioletta e la moglie incinta, si trasforma in artista di strada dedicandosi al tradizionale "teatro delle ombre cinesi". Lo scoppio della guerra civile lo costringe all'arruolamento forzato: prima nelle fila dell'esercito nazionalista, poi in quello popolare di Mao: grazie al suo nuovo stato di "povero", che lo protegge dalle condanne a morte che vengono comminate ai capitalisti, lui e la moglie si integrano facilmente nella nuova Cina comunista, e fra alti e bassi riescono a sopravvivere con una sempre immutata fiducia nel futuro, nonostante la tragica perdita di entrambi i figli. La pellicola si chiude con la certezza che "la vita diventerà ancora migliore". Curiosamente il titolo è lo stesso di un celebre film neorealista di Kurosawa (anche se in italiano c'è un punto esclamativo in più). La volontà di vivere e di sopravvivere a ogni costo è in effetti la molla che spinge il protagonista ad andare avanti e a superare le molte difficoltà, adattandosi alle circostanze dopo aver superato le debolezze del passato.

La triade di Shanghai (Zhang Yimou, 1995)

La triade di Shanghai (Yao a yao yao dao waipo qiao)
di Zhang Yimou – Cina/Francia 1995
con Gong Li, Wang Xiaoxiao
**

Visto in DVD.

Shanghai, anni trenta: Il piccolo Shuisheng viene condotto in città dallo zio affinché entri al servizio della signorina Bijou, la "regina di Shanghai", amante del boss di una delle maggiori organizzazioni criminali del paese. Ingenuo e innocente, il ragazzo entra così in contatto con un mondo di amore, morte, potere e tradimento, meccanismi che fatica a comprendere e che gli sono del tutto estranei. Quando, dopo essere scampato a un attacco a tradimento, il capo della banda si trasferirà con i suoi uomini più fidati e con la donna in un'isola semideserta ai margini della città, il protagonista si ritroverà unico testimone della sua crudele vendetta. Raffinato e curato nella ricostruzione d'epoca, il film affascina dal punto di vista visivo anche se narrativamente non è del tutto riuscito: diviso in due parti quasi separate, è descrittivo nella prima (quella ambientata in una città notturna che rimane sullo sfondo e di cui non si vede quasi nessuna strada: la maggior parte delle scene si svolgono nella casa di Gong Li o nel cabaret della Triade dove la donna si esibisce come cantante), mentre è più ricco di azione nella seconda, che mi è piaciuta di meno. I personaggi vengono esibiti esteriormente ma non caratterizzati a sufficienza interiormente: il ragazzo, per esempio, rimane un testimone muto e impassibile nel quale non è facile immedesimarsi. Resta comunque un film piacevole da vedere, con una buona dose di ambiguità. È stata la prima pellicola di Zhang Yimou coprodotta con l'occidente: durante la lavorazione, il regista si separò sentimentalmente da Gong Li, fino ad allora attrice in tutti i suoi film. Lei, comunque, è come sempre favolosa e di una bellezza splendente: canta anche in prima persona le varie canzoni d'epoca che si ascoltano nel locale (e che ricordano quelle che cantava Anita Mui in "Miracles" di Jackie Chan).

6 gennaio 2008

La prossima vittima (J. Schlesinger, 1996)

La prossima vittima (Eye for an eye)
di John Schlesinger – USA 1996
con Sally Field, Kiefer Sutherland
*1/2

Visto in TV, con Hiromi.

Quando l'uomo che ha violentato e ucciso sua figlia viene prosciolto da ogni accusa per un cavillo, una madre decide di farsi giustizia da sola. L'ho visto per caso in televisione: è uno dei tanti film americani che puntualmente affrontano questo tema, fra poliziotti con le mani legate e normali cittadini che si trasformano in giustizieri (vedi, quest'anno, "Il buio nell'anima" di Neil Jordan). Pur non dicendo praticamente nulla di nuovo sull'argomento (come al solito, alla base dell'insano desiderio di vendetta c'è l'incapacità di elaborare il lutto), può però contare su una discreta atmosfera (non male la scena iniziale dove la donna è testimone impotente dell'aggressione, attraverso il telefonino, mentre è imbottigliata nel traffico) e su buone interpretazioni, soprattutto da parte della protagonista Field e di Ed Harris (il marito), mentre Sutherland non si sforza troppo nel tratteggiare una figura piuttosto stereotipata di balordo criminale.

5 gennaio 2008

L'amico della mia amica (E. Rohmer, 1987)

L'amico della mia amica (L'ami de mon amie)
di Éric Rohmer – Francia 1987
con Emmanuelle Chaulet, Sophie Renoir
***

Rivisto in DVD.

Ultimo film della serie "Commedie e proverbi" del regista francese, prende spunto dal detto "Gli amici dei miei amici sono miei amici" e lo sviluppa quasi vertiginosamente in una vicenda di cui le simmetrie e le geometrie sono il punto di forza. Blanche, la protagonista, stringe amicizia con Lea (molti film di Rohmer cominciano nello stesso modo, con un incontro casuale che si trasforma rapidamente in una forte amicizia: vedi per esempio "Reinette e Mirabelle") e fa conoscenza anche con il suo ragazzo Fabien e con l'amico Alexandre. Nonostante una cotta iniziale per quest'ultimo, è di Fabien che poi si innamora (ricambiata), dopo averlo frequentato con regolarità approfittando di un periodo di vacanza dell'amica. Non sa bene come comportarsi: anche se il rapporto fra Lea e Fabien non è poi così idilliaco, lui è pur sempre "l'amico della sua amica". E si domanda tristemente "Non capisco perché una non debba star bene con un innamorato come quando sta con un amico". Ma poiché Lea si innamora a sua volta di Alexandre, alla fine tutto si aggiusterà. Commedia sentimentale estremamente leggera (il regista si limita a mostrare la "superficie dei sentimenti", senza scavare più di tanto nel profondo dei personaggi), è caratterizzata dalla sua forte ambientazione: lo scenario è infatti quello dei quartieri di Clergy-Pontoise, una delle tante "ville nouvelle" nei dintorni di Parigi, città moderna costruita ex novo, le cui architetture quasi astratte riflettono le dinamiche amorose dei protagonisti e ne scandiscono il ritmo di vita (gli edifici offrono ogni sorta di intrattenimento per il tempo libero, e la vita sociale è organizzata attraverso feste e incontri immancabilmente a casa "di amici di amici"). Proprio come nel "Così fan tutte" di Mozart, altra opera "geometrica" per eccellenza, le coppie si smontano e si ricompongono fino a raggiungere nel finale la struttura ideale per ciascuno dei personaggi. Completamente priva di musica, la pellicola fa un forte uso dei costumi e del colore: si veda, per esempio, nella scena finale l'accoppiamento dei colori degli abiti dei quattro protagonisti (due azzurri, due verdi). Simpatici gli attori, e in particolar modo le giovani attrici. Come suo solito, Rohmer fa ricorso a interpreti sempre inediti: l'unica che ritorna da un film precedente, in un ruolo minore, è Anne-Laure Meury, che era stata vista bambina in "La moglie dell'aviatore".

4 gennaio 2008

Il maschio e la femmina (J.L. Godard, 1966)

Il maschio e la femmina (Masculin féminin)
di Jean-Luc Godard – Francia 1966
con Jean-Pierre Léaud, Chantal Goya
**1/2

Visto in DVD.

"Questo film potrebbe chiamarsi 'I figli di Marx e della Coca-Cola'. Chi ha orecchie per intendere intenda". Così recita uno dei numerosi cartelli che inframezzano con pensieri, frasi, titoli di giornali, aforismi e citazioni le sequenze di una delle pellicole fondamentali per comprendere il Godard degli anni sessanta e la direzione che il suo cinema (e quello di gran parte della Nouvelle Vague) stava prendendo: girando quasi senza sceneggiatura (ma ispirandosi ad alcuni racconti di Maupassant), il regista osserva come un entomologo il mondo che lo circonda e ne riproduce la quotidianità e la banalità. Non a caso il protagonista Paul, interpretato da un Léaud forse alla sua prima parte "adulta" dopo "I quattrocento colpi", lavora come sondaggista per cercare di tracciare un quadro dei giovani moderni (di cui egli stesso fa parte) e del loro rapporto con il sesso, l'amore, la politica e la società della Francia di quel periodo. Il film si propone così di descrivere il mondo culturale, i miti e i sogni (Madeleine che vuol diventare cantante), il consumismo (il bowling, il cinema) e lo sfuttamento sociale della gioventù francese prima del '68. Il sottotitolo del film recita "15 fatti precisi", anche se poi la narrazione procede in maniera quasi dispersiva raccontandoci l'incontro e il corteggiamento di Paul nei confronti di Madeleine, molto più superficiale di lui (così come le sue due amiche: il film è leggermente misogino nel mettere a confronto l'impegno politico e la sensibilità dei ragazzi con la leggerezza e la spensieratezza delle ragazze: vedi per esempio l'intervista a "miss sorriso"). Fra riferimenti ai temi sociali e politici di quegli anni (prima su tutti la guerra in Vietnam) e osservazioni di costume (le canzonette, il cinema, la moda), la pellicola divaga in tutte le direzioni per arrestarsi bruscamente con una conclusione assurda e inaspettata, anticipata qua e là da situazioni e momenti "violenti" (la donna che spara a suo marito, l'uomo che si accoltella, il dimostrante che si dà fuoco fuori campo). Anche i cartelli e le frasi che separano le diverse sequenze sono accompagnate dal suono di spari che potrebbero uscire da un film western. Se Madeleine è interpretata da una giovane cantante "yè-yè", ci sono piccole apparizioni anche per Brigitte Bardot e per Françoise Hardy. Non manca nemmeno un "film nel film", quello – quasi muto – che offre al cinefilo Léaud l'occasione per protestare contro il proiezionista per l'errato uso del mascherino (si tratta di un adattamento del racconto "Le signe" di Maupassant, da cui lo stesso Godard aveva tratto uno dei suoi primi cortometraggi, "Une femme coquette").