28 novembre 2007

Il grande caldo (Fritz Lang, 1953)

Il grande caldo (The big heat)
di Fritz Lang – USA 1953
con Glenn Ford, Gloria Grahame
***

Rivisto in DVD, con Albertino.

Di tutti i film americani di Lang, questo è forse il più celebre anche se non è il mio preferito: mi piacciono di più, per fare qualche esempio, "Furia", "La donna del ritratto" o "Strada scarlatta". In ogni caso si tratta di un ottimo poliziesco duro e violento, dal ritmo serrato e coinvolgente, che presenta alcune situazioni oggi diventate ormai stereotipate, come quelle del detective che rinuncia al distintivo per battersi da solo contro il sistema corrotto e il crimine organizzato. Indagando sul suicidio di un collega e sulla morte di una donna che affermava di conoscerlo, l'agente Dave Bannion si trova a fronteggiare enormi pressioni, sia dai suoi capi sia da anonimi gangster, affinché rinunci all'indagine. Dopo che un attentato dinamitardo ucciderà addirittura sua moglie, Bannion non si fermerà più fino a quando non riuscirà a incastrare i responsabili: l'atmosfera di corruzione che regna in città è palpabile, così come la malvagità dei gangster (la scena in cui il braccio destro del boss sfregia il volto della sua stessa donna con il bricco del caffè bollente fece parecchio scalpore all'epoca) anche se al film manca forse quel tocco di torbidezza in più che lo avrebbe reso un noir perfetto. Il che, in ogni caso, è anche un pregio, visto che evita alla pellicola di mitizzare il protagonista: non si tratta di un eroe cinico e tormentato alla Dashiell Hammett o alla Raymond Chandler, ma di un poliziotto onesto e integrato nella società che tuttavia non abbassa mai la testa e non rinuncia alla lotta nemmeno quando viene coinvolto in prima persona.

25 novembre 2007

La terra trema (L. Visconti, 1948)

La terra trema – Episodio del mare
di Luchino Visconti – Italia 1948
con Antonio Arcidiacono, Nelluccia Giammona
***

Visto in DVD, con sottotitoli.

'Ntoni e i suoi fratelli fanno i pescatori ad Acitrezza, ma il loro lavoro è sfruttato dai grossisti e dai mercanti di pesce che acquistano a pochissimo prezzo il risultato delle loro dure fatiche. Intenzionato a cambiare le cose, 'Ntoni ipoteca la casa per mettersi a lavorare in proprio, ma una tempesta distruggerà la sua barca e farà piombare la sua famiglia nella miseria più nera, costringendolo a chinare la testa e a tornare a lavorare dai "padroni". Ispirandosi ai "Malavoglia" ma discostandosi parzialmente dalla visione di Verga (anziché lottare contro il fato o la natura, i personaggi lottano contro altri uomini, ovvero contro un ben preciso sistema di oppressione economica e classista), Visconti realizza un film neorealista con toni da documentario: interpretato non da attori professionisti ma dai veri abitanti del luogo, il progetto si prefiggeva infatti di descrivere le dure condizioni di vita di una Sicilia ancora arretrata dal punto di vista sociale. Come suggerisce il sottotitolo, nelle intenzioni del regista il film doveva rappresentare il primo capitolo di una trilogia sulla Sicilia (gli episodi successivi sarebbero stati quelli dello zolfo e della terra, per raccontare lo sfruttamento dei minatori e dei contadini), poi non proseguita per lo scarso interesse del pubblico. L'opera venne anche boicottata dai benpensanti e dai politici dell'isola, che non apprezzavano il ritratto peggiorativo che a loro dire ne sarebbe uscito (erano gli anni in cui Andreotti affermava che "i panni sporchi si lavano in famiglia"). Il risultato è comunque molto espressivo e potente: i volti, i paesaggi, gli ambienti risaltano anche grazie all'ottima regia e alla maestosa fotografia. Parlato in siciliano stretto (ho dovuto guardarlo con i sottotitoli) ma accompagnato dalla didascalica voce di un narratore che illustra in italiano gli snodi più importanti, è la cronaca di un desiderio di riscatto sociale che fallisce non perché sia sbagliato in sé ma perché è frutto di una ribellione individuale e non collettiva.

24 novembre 2007

Faster, pussycat! Kill! Kill! (R. Meyer, 1966)

Faster, pussycat! Kill! Kill! (id.)
di Russ Meyer – USA 1966
con Tura Satana, Haji, Lori Williams
**1/2

Rivisto in DVD.

"Signori e signore, benvenuti alla violenza!": il film più celebre di Russ Meyer nonché probabilmente il suo capolavoro, entrato nella leggenda anche per il colorito titolo, comincia con questa frase fuori campo che preannuncia al malcapitato spettatore quel che lo aspetta. Tre procacissime ballerine si divertono a scorrazzare in auto nel deserto: dopo aver sfidato e ucciso un pilota di passaggio, ne sequestrano la giovane fidanzata e trovano rifugio in una fattoria desolata, dove vive un anziano paralitico con due figli, il primo ritardato e il secondo debole e inetto. Il loro intento è quello di scoprire dove il vecchio nasconde una grande somma di denaro. Ma le tensioni e le pulsioni fra i personaggi faranno precipitare la situazione. In bilico fra Eros e Thanatos e caratterizzato da tre character forti e indimenticabili (Tura Satana in particolare, vestita in pelle nera, diventerà una vera e propria icona del genere), a differenza di altri film di Meyer non presenta vere e proprie scene di sesso ma è comunque permeato dalla morbosità e dalla trasgressione: fece scalpore per aver reso protagoniste tre donne malvage e senza scrupoli, anche se con sfumature diverse: Varla, interpretata da Tura Satana, è una dominatrice in tutto e per tutto; Rosie è completamente sua succube; la bionda Billie è più solare e indipendente. Le tre donne dominano ogni inquadratura e le loro forme prorompenti sembrano solleticare, più che gli altri protagonisti della storia, gli spettatori stessi. Ma Meyer è ben di più di un semplice regista di exploitation: oltre all'indiscusso talento visivo, si vede in lui una profonda convinzione di voler "rompere gli schemi" e una passione per i suoi personaggi. Proprio questa intensità rende il film decisamente superiore alle numerose rivisitazioni e omaggi che gli hanno fatto seguito, compreso il deludente "Grindhouse – A prova di morte" di Tarantino (di cui costituisce una delle principali fonti di ispirazione). Se il film di Meyer fa parte a pieno diritto della storia dei costumi di quegli anni, quello di Quentin al confronto non è altro che l'inutile gioco di un fan che vuole divertirsi. Non eccezionale il doppiaggio italiano: in alcuni casi le voci sono addirittura sovrapposte a quelle originali.

Lungo la valle delle bambole (R. Meyer, 1970)

Lungo la valle delle bambole (Beyond the Valley of the Dolls)
di Russ Meyer – USA 1970
con Dolly Read, John La Zar
**

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Primo dei due unici film girati da Meyer per una major hollywoodiana (la Fox), nelle intenzioni dei produttori avrebbe dovuto essere un sequel de "La valle delle bambole", una pellicola mediocre ma di discreto successo commerciale uscita tre anni prima. Dopo aver bocciato alcune sceneggiature dell'autrice del film precedente, però, si preferì realizzare un'opera nuova di zecca che avesse con la precedente soltanto qualche spunto in comune: a scriverla venne chiamato il critico Roger Ebert, che suggerì di affidare la regia all'emergente Meyer, e un disclaimer all'inizio sottolinea l'assenza di ogni collegamento con il "Valley of the dolls" originale. La storia è incentrata su un gruppo rock formato da tre giovani ragazze che giungono a Los Angeles in cerca di fortuna. La zia di una di loro, magnate della moda, le introduce al decadente mondo hollywoodiano: attraverso le feste organizzate dall'impresario gay "Z-Man" Barzell (un eccellente La Zar, il migliore del cast, in un ruolo che non è più riuscito a scrollarsi di dosso), le tre protagoniste troveranno il successo e l'amore, ma poi la vicenda assumerà toni drammatici e ai limiti dell'horror. Le atmosfere degli anni sessanta e settanta, le ambientazioni colorate, i toni barocchi e irriverenti salvano una pellicola che per altri versi è un po' confusa e non riuscitissima: molti dei variopinti personaggi, per esempio, vengono smarriti lungo la via. Il montaggio mi è sembrato molto rapido (esemplare la sequenza iniziale del viaggio verso L.A.), al punto da rendere difficile in certi momenti leggere i sottotitoli e soffermarsi anche sulle scene (persino quelle di nudo o di sesso durano pochissimo!). Sotto i titoli di testa scorrono curiosamente le immagini della sequenza conclusiva, anche se fra la penombra e i bizzarri costumi dei personaggi si fa fatica a capire cosa stia succedendo. Da notare l'utilizzo creativo della musica, un poutpourrì di Wagner, Ponchielli, la Marsigliese e l'inno della Fox, e il personaggio del maggiordomo nazista, un cliché presente in tutti i film di Meyer che il regista vedeva come un riferimento a suo padre, con il quale aveva un rapporto pessimo. Non ho gradito la voce finale che fa la morale ai vari personaggi. Nonostante le critiche, Meyer era considerato un regista "femminista", perché nei suoi film i personaggi più attivi erano proprio le donne, mentre gli uomini erano deboli o passivi.

22 novembre 2007

La leggenda di Beowulf (R. Zemeckis, 2007)

La leggenda di Beowulf (Beowulf)
di Robert Zemeckis – USA 2007
animazione digitale
**

Visto al cinema Colosseo, con Hiromi.

Come il precedente "Polar Express", anche questo nuovo film di Zemeckis è realizzato con la tecnica della performance capture, ovvero dell'animazione in computer grafica che "ricalca" la recitazione degli attori (Ray Winstone, Brendan Gleeson, Anthony Hopkins, Robin Wright Penn, John Malkovich e Angelina Jolie), le cui fattezze restano riconoscibilissime. Dal punto di vista estetico si tratta di uno stile che vorrebbe risultare estremamente realistico (simile a quello del film "Final Fantasy") ma che nei volti e nei movimenti non riesce a non sembrare fasullo, e che mi ha convinto ben poco, al punto da chiedermi perché il film non sia stato realizzato direttamente con gli attori in carne e ossa, riservando la CGI ai soli effetti speciali. Per di più non capisco perché a fare queste sperimentazioni tecniche debba essere un regista premio Oscar, con una discreta carriera e una buona reputazione alle spalle (anche se i suoi ultimi tre-quattro film la stanno un po' ridimensionando), anziché, come dovrebbe essere, qualche giovane affiancato dai tecnici degli studi di animazione. In ogni caso il film, ispirato all'antico e omonimo poema epico britannico, è meno brutto di quanto mi aspettassi. La storia è stata cambiata quel tanto che basta per renderla più vivace e interessante, e soprattutto nella seconda parte i personaggi acquisiscono profondità. Beowulf è un eroico guerriero che si offre di liberare il territorio di re Hrotgar dal mostruoso demone che lo tormenta, Grendel, ma dopo averlo ucciso deve vedersela anche con la sua affascinante madre. Lo scontro finale con il drago dorato è spettacolare. Pare che il film sia stato realizzato anche in una versione da guardare in tre dimensioni, ma naturalmente nelle (per ora) inadeguate sale italiane è stata distribuita soltanto quella nel tradizionale 2D. Piacevole la musica. La sceneggiatura è nientemeno che di Neil Gaiman e Roger Avary, ma non si direbbe.

15 novembre 2007

Baciami, stupido (B. Wilder, 1964)

Baciami, stupido (Kiss me, stupid)
di Billy Wilder – USA 1964
con Ray Walston, Kim Novak, Dean Martin
***

Visto in DVD.

Una divertente e sofisticata commedia della coppia Wilder/Diamond (suo sceneggiatore di fiducia), che alla sua uscita non riscosse il meritato successo forse perché fin troppo audace nel mettere in scena l'adulterio senza alcuna condanna morale, andando ben oltre le concessioni del codice Hays, al punto da chiedersi come abbia fatto il regista a farsi approvare la sceneggiatura dalla casa produttrice. Walston è un insegnante di piano che abita in uno sperduto paesino del Nevada, dove compone canzoni in coppia con un amico benzinaio senza però mai riuscire a pubblicarle o a venderle. L'occasione d'oro gli capita quando Dino, un celebre cantante di origini italiane, si ferma nel loro paese per un guasto alla macchina ed è costretto a pernottare a casa sua. Dino è però un incallito dongiovanni: per evitare che possa sedurre sua moglie, il protagonista la sostituisce per una notte con una prostistuta, Polly, che cercherà letteralmente di gettare fra le braccia del cantante, salvo pentirsene più tardi. Pare che i ruoli di Walston e della Novak (bravissimi) fossero stati pensati in origine per Peter Sellers e Marylin Monroe. Dean Martin fa praticamente la parodia (piuttosto spinta) di sé stesso, mentre sono ottime anche le prove di Felicia Farr (la moglie del protagonista) e di Cliff Osmond. Tratto da una commedia italiana ("L'ora della fantasia", di Anna Bonacci), il film ha tutta la perfezione delle opere mature di Wilder ed è pieno di piccole perle di sceneggiatura e di regia: dal "mezzo pompelmo" con cui Walston vorrebbe cacciar via la moglie, al diamante nell'ombelico di Kim Novak, dal motivetto musicale che sottolinea immancabilmente la gelosia del marito, alle magliette con il volto di Beethoven. Perché oggi non si fanno più film così?

14 novembre 2007

Sunshine (Danny Boyle, 2007)

Sunshine (id.)
di Danny Boyle – GB/USA 2007
con Cillian Murphy, Chris Evans
**1/2

Visto in DVD, con Albertino e Ghirmawi.

2057: il Sole si sta spegnendo, e per riaccenderlo parte una navicella con la quale otto uomini dovranno trasportare una bomba e scagliarla contro la stella. Si tratta della seconda missione di questo tipo: ma della prima, precedente di sette anni, non si è saputo più nulla. Film di fantascienza vecchio stile, ipnotico e suggestivo, forse fin troppo ambizioso, che maschera una trama non particolarmente originale (e decisamente non verosimile) con echi da "Alien" e soprattutto da "2001 Odissea nello spazio", compreso il computer senziente e il finale psichedelico-metafisico. Lasciando da parte le incongruenze scientifiche (ma almeno la sceneggiatura ha il pregio di restare sul vago, senza addentrarsi in spiegazioni tecniche che non consentirebbero allo spettatore la necessaria sospensione dell'incredulità), rimane un thriller spaziale di buona fattura, con attori sorprendentemente adeguati (oltre al bravissimo Cillian Murphy e a Chris "Human Torch" Evans c'è anche Michelle Yeoh, a dire il vero un po' sacrificata). In fin dei conti non è altro che una pellicola da totomorti: rispetto a quelle omologhe degli anni '80, però, è vestita a nuovo grazie agli effetti speciali e ad alcuni dei temi new age tanto cari al regista.

12 novembre 2007

Un'altra giovinezza (F. F. Coppola, 2007)

Un'altra giovinezza (Youth without youth)
di Francis Ford Coppola – USA/Romania/Italia 2007
con Tim Roth, Bruno Ganz
**1/2

Visto al cinema Apollo.

Dopo dieci anni di inattività (se si eccettua la parentesi di "Supernova"), Coppola torna al cinema con un film assurdo e complesso, affascinante e diseguale, con echi di Lynch e di Greenaway, che mi è piaciuto abbastanza anche se non sempre ne ho colto il senso ultimo e intimo. Tratto da un racconto di Mircea Eliade, celebre storico delle religioni, narra di uno studioso orientalista rumeno che a 70 anni, quando è ormai sull'orlo del suicidio, viene colpito da un fulmine che incredibilmente lo rigenera e lo ringiovanisce, gli dona poteri paranormali e un'ampliamento della memoria e della conoscenza, oltre a sviluppare la nascita di un suo "doppio". Siamo nel 1938, e anche gli scienziati nazisti si interessano a lui. Ma dopo che si è rifugiato nella neutrale Svizzera, la sua vicenda prosegue negli anni '60 quando conosce una ragazza che a sua volta ha subito un'esperienza simile, regredendo sempre più indietro nel tempo e vivendo tutta una serie di incarnazioni precedenti. L'incontro fra i due, tra un viaggio in India e uno a Malta, potrebbe consentire allo studioso di svelare le origini del linguaggio, la nascita della coscienza umana e l'inizio della storia. Nel mediocre "Jack", Coppola aveva presentato un personaggio giovane che invecchiava precocemente. Qui fa il contrario, realizzando con tecnica, calore e passione un film sul tema del tempo, della morte e della rinascita quasi unico nel suo genere, che vive di suggestioni mistiche e metaforiche e che potrebbe degnamente rappresentare il suo testamento artistico. Belli i titoli di testa, "vecchio stile", che elencano attori e staff prima dell'inizio del film e non dopo la conclusione.

11 novembre 2007

Die hard - Vivere o morire (L. Wiseman, 2007)

Die hard – Vivere o morire (Live free or Die hard)
di Len Wiseman – USA 2007
con Bruce Willis, Justin Long
**

Visto con Hiromi, al cinema Colosseo.

Un'organizzazione di terroristi informatici (di cui fa parte anche Maggie Q) attacca i sistemi di sicurezza degli Stati Uniti, mandandoli in tilt. A risolvere la situazione, nonostante di computer e telecomunicazioni ci capisca ben poco, è ancora una volta l'indistruttibile Bruce Willis, che stavolta deve anche proteggere l'incolumità di un giovane hacker e della propria figlia. Registicamente mediocre, il film (quarto di una serie di cui ho visto solo il primo) mi ha ricordato le pellicole di cui proprio McTiernan (il regista del primo "Die Hard") si prendeva gioco in "Last Action Hero". Sono passati quindici anni, ma un certo tipo di cinema d'azione non sembra aver fatto molti passi in avanti. La tensione e il ritmo reggono fino alla fine, ma di nuovo, di intelligente o di interessante c'è davvero ben poco. Particina per Kevin Smith nella parte di un hacker appassionato di "Guerre stellari".

Una storia americana (J.L. Godard, 1966)

Una storia americana (Made in U.S.A.)
di Jean-Luc Godard – Francia 1966
con Anna Karina, Laszlo Szabo
*1/2

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Girato, montato e presentato quasi in contemporanea con "Due o tre cose che so di lei", è uno dei film del primo periodo di Godard che mostrano più la corda, risultando a tratti brutto e insensato: una pellicola che gioca con il cinema di genere, immersa però in un'atmosfera fasulla e fumettistica (gli stessi personaggi lo definiscono "un film di Humphrey Bogart realizzato da Walt Disney"). In una città americana forse immaginaria, e comunque chiamata Atlantic Cité, una misteriosa ragazza in impermeabile e armata di pistola indaga sulla recente morte del suo (ex?) amante Dick, attivista politico di sinistra, il cui cognome viene sempre coperto – ogni volta che un personaggio lo pronuncia – da rumori di fondo (squilli di telefono, suoni del traffico, rombi di aeroplani). La trama, che prende spunto dal caso dell'assassinio del politico marocchino Ben Barka da parte dei servizi segreti francesi, procede stancamente fra frasi metaforiche prive di vero significato, discussioni filosofiche sulla guerra e sulla politica, contorsionismi narrativi: nella prima mezz'ora non si capisce nemmeno cosa stia accadendo, poi la sceneggiatura si sviluppa in tutta un'inutile catena di omicidi e sparatorie. Si salva giusto l'uso brillante del colore negli ambienti e nei costumi. Numerose come al solito le citazioni cinefile, che strizzano l'occhio soprattutto al cinema americano classico, con cui però la pellicola si pone stilisticamente in netta contrapposizione: alcuni dei numerosi personaggi si chiamano Mizoguchi, Preminger, Aldrich, Widmark, Siegel (ma ci sono anche Robert McNamara e Richard Nixon), mentre una didascalia in apertura dedica il film "a Nick e Samuel", ossia (presumibilmente) a Nicholas Ray e Samuel Fuller, autori assai amati da Godard.

10 novembre 2007

L'eclisse (M. Antonioni, 1962)

L'eclisse
di Michelangelo Antonioni – Italia 1962
con Monica Vitti, Alain Delon
***

Visto in DVD.

Nel terzo film della trilogia dell'alienazione, Antonioni torna a raccontare l'eclisse dei sentimenti, l'insensatezza dell'amare, il vuoto dell'esistenza. Forse la pellicola è un po' più debole delle due precedenti ("L'avventura" e "La notte"), ma è comunque di grande impatto, soprattutto dal punto di vista cinematografico ed estetico. La Vitti interpreta stavolta una ragazza che esce da una faticosa relazione soltanto per entrare lentamente, senza troppa convinzione, in un'altra con un giovane operatore della Borsa di Roma. Proprio le scene del mercato azionario, lunghi inserti che sembrano un po' corpi estranei nella struttura slegata del film e caratterizzate da una grande "confusione organizzata" (nella quale risalta in maniera quasi comica il minuto di silenzio osservato in memoria di un defunto, con gli operatori che commentano "qui un minuto di silenzio costa miliardi di lire"), si contrappongono a quelle degli scenari urbani di una Roma fredda e depressa. La leggerezza del personaggio di Monica Vitti, onirica ed eterea, si oppone alla concretezza di quello di Alain Delon (che ha a che fare con crisi economiche, furti di automobili, suicidi). E alla fine la città si svuota, in immagini di grande suggestione, quasi documentaristiche. I luoghi dove erano passati (e avevano vissuto) i personaggi, ora appaiono vuoti e inerti. Ma tutto il film brilla per bellissime inquadrature, soprattutto quelle che incorniciano il volto di Monica Vitti, enigmatico e fascinoso in ogni scena, vera e propria "musa" del regista in quegli anni. La musica sui titoli di testa è un twist cantato da Mina.

9 novembre 2007

Tin cup (Ron Shelton, 1996)

Tin Cup (id.)
di Ron Shelton – USA 1996
con Kevin Costner, Rene Russo
**

Rivisto in TV, con Hiromi.

Roy McAvoy (Costner), detto “Tin cup”, è un ex giocatore di golf che ha buttato via la sua promettente carriera per aver sempre compiuto, con testardaggine e impulsività, le scelte sbagliate. Incapace di “giocare corto” e alla continua ricerca del colpo ad effetto, ha sempre ignorato i saggi consigli del suo caddie Romeo (Cheech Marin), osando troppo e più del necessario e mandando all'aria ogni occasione. Ora si guadagna da vivere gestendo uno squallido campetto di allenamento nel deserto del Texas. Innamoratosi della psicologa Molly Griswold (Russo), fidanzata del suo acerrimo rivale David Simms (Don Johnson), decide di iscriversi allo US Open per dimostrarle di essere ancora un campione. Lei stessa lo aiuterà a tenere a freno i propri eccessi e a recuperare quell'equilibrio mentale necessario per competere ad alti livelli. Ma alla fine il suo saper rimanere sé stesso lo aiuterà a conquistare, se non la vittoria nel torneo, almeno la stima del pubblico e l'amore della bella Molly, che capirà di preferirlo a un fidanzato ipocrita e noioso (a differenza di Roy, David non corre mai rischi e punta sempre al “par”). Vivace film di ambientazione sportiva, senza infamia e senza lode, che si lascia guardare grazie alla buona prova del protagonista (nel ruolo di un antieroe fallito e trasandato, spaccone e arrogante) e all'assenza, nel finale, della conclusione scontata che ci si aspetterebbe, con una sceneggiatura che non insegue a tutti i costi il mito del successo e della vittoria. La sceneggiatura rivista con ironia diversi luoghi comuni della mitologia del golf (per esempio lo “shank”, sorta di blocco mentale che impedisce di colpire bene la palla). Brevi cameo per molti celebri golfisti e commentatori sportivi che interpretano sé stessi.