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26 giugno 2021

Andremo in città (Nelo Risi, 1966)

Andremo in città
di Nelo Risi – Italia/Jugoslavia 1966
con Geraldine Chaplin, Nino Castelnuovo
***

Visto in divx, alla Fogona.

Durante la seconda guerra mondiale, la giovane Lenka (Geraldine Chaplin) vive con il fratellino cieco Mischa (Federico Scrobogna) nella campagna serba. Il padre, insegnante, è partito in guerra e poi, in quanto ebreo, è stato rinchiuso in un campo di concentramento. E nell'attesa del suo ritorno, la ragazza – innamorata di Ivan (Nino Castelnuovo), un partigiano che si rifugia con i suoi compagni nel bosco circostante – cerca di badare al fratello, promettendogli che prima o poi prenderanno uno dei treni che attraversano la regione per "andare in città" in cerca di una vita migliore. Ma ciò che il bambino cieco ignora è che quei treni trasportano i deportati verso i campi di sterminio: dapprima gli ebrei, poi gli zingari (portati via fra l'indifferenza o la rassegnazione del resto della popolazione, il che ricorda il famoso discorso di Martin Niemöller, talvolta attribuito a Bertolt Brecht: "Prima vennero..."), e infine anche i loro congiunti, come Lenka e lo stesso Mischa. Tratto dal romanzo omonimo di Edith Bruck (moglie del regista, e a sua volta sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti), adattato fra gli altri da Vasco Pratolini e sceneggiato da Cesare Zavattini una potente e crudele testimonianza della difficoltà della vita dei civili durante l'occupazione nazista. Il film si svolge in Jugoslavia, ma potrebbe ambientarsi benissimo anche in Italia. In certe cose (il modo in cui Lenka cerca di "proteggere" il fratellino dalle crudeltà del mondo che li circonda) sembra anticipare "La vita è bella" di Benigni, anche se in questo caso siamo più dalle parti del neorealismo che della commedia. Ottima la prova della giovane Chaplin (a inizio carriera e al primo ruolo da protagonista assoluta: era reduce dal "Dottor Zivago") e bella la fotografia in bianco e nero di Tonino Delli Colli. Un po' invadente invece la colonna sonora di Ivan Vandor. Aleksandar Gavric è Ratko Vitas, il padre di Lenka e Mischa. Slavko Simić è il medico.

27 gennaio 2021

Notte e nebbia (Alain Resnais, 1956)

Notte e nebbia (Nuit et brouillard)
di Alain Resnais – Francia 1956
***

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli.

Il più celebre dei tanti documentari diretti da Resnais prima di diventare regista di fiction è uno dei primi e tuttora migliori – nel senso di terribile a guardarsi – documenti di denuncia delle atrocità commesse nei campi di concentramento (e di sterminio) nazisti, realizzato soltanto dieci anni dopo la fine della guerra (il film fu sottoposto alla censura francese nel 1955 e proiettato a Cannes l'anno seguente). Girato con la consulenza degli storici Olga Wormser e Henri Michel e in collaborazione con il poeta Jean Cayrol, sopravvissuto al campo di Mathausen che ha scritto il commento di accompagnamento schietto ed evocativo (letto dall'attore Michel Bouquet), il film alterna immagini (a colori) riprese nei lager di Auschwitz e Majdanek ormai abbandonati e ricoperti d'erba, con materiale di repertorio (fotografie e filmati in bianco e nero) che mostrano dapprima la costruzione e poi l'attività nei campi. Assistiamo così alla deportazione degli Untermenschen ("Esseri inferiori") nei campi, all'organizzazione degli stessi (dalla scala gerarchica agli aspetti burocratici), alla descrizione dei vari ambienti (dalle camerate alle cliniche per gli esperimenti medici) e di come funzionavano nella quotidianità, dal lavoro forzato alle tremendi condizioni igieniche, fino a mostrare i crematori e le camere a gas, e infine impressionanti immagini di prigionieri e di cadaveri. Alla fine, un invito a non dimenticare ("Ci sono quelli che non ci credevano"). Fra i documenti d'epoca, estratti di una visita di Himmler e dei processi ai responsabili dopo la liberazione. La censura francese ebbe da ridire su una scena in cui si mostrava un soldato del governo collaborazionista di Vichy, che Resnais fu costretto ad oscurare parzialmente. La colonna sonora venne composta da Hanns Eisler, mentre Chris Marker avrebbe collaborato al montaggio dei testi. Il titolo fa riferimento al nome ("Nacht und Nebel") del decreto firmato da Hitler il 7 dicembre 1941 per la deportazione e l'eliminazione di tutti i "nemici" del terzo Reich.

15 ottobre 2020

Jojo Rabbit (Taika Waititi, 2019)

Jojo Rabbit (id.)
di Taika Waititi – USA/Nuova Zelanda 2019
con Roman Griffin Davis, Thomasin McKenzie
**1/2

Visto in TV (Now Tv), con Sabrina.

In Germania, mentre infuria la seconda guerra mondiale, il piccolo Johannes "Jojo" Betzler (Davis, al suo esordio), un bambino di dieci anni, entra a far parte della Hitler-Jugend. Pur preso in giro dai ragazzi più grandi (che gli affibbiano l'appellativo di "Jojo coniglio": ed è così che avrebbe dovuto essere tradotto il titolo del film, lasciato invece in originale), Jojo è talmente indottrinato al credo nazista da avere come amico immaginario proprio un simulacro di Adolf Hitler (interpretato dal regista stesso), che lo conforta e lo consiglia davanti a ogni difficoltà della vita. Tutto comincia a cambiare quando il bambino scopre che dietro uno scompartimento segreto della propria casa si nasconde una ragazza ebrea, Elsa (McKenzie), che sua madre Rosie (Scarlett Johansson) ha accolto a sua insaputa. Liberamente ispirato a un romanzo di Christine Leunens ("Come semi d'autunno"), il cui protagonista aveva però 17 anni, un film che affronta i temi del nazionalsocialismo e dell'olocausto con toni originali e da commedia, almeno fino a un certo punto: dopo un eccellente incipit, infatti, la pellicola smarrisce per strada la cosa più interessante e divertente, ovvero l'irriverente Hitler virtuale, per dedicarsi a un più scontato rapporto di amicizia/amore fra il piccolo nazista e la giovane ebrea (già visto con alcune varianti in parecchi film su questo tema, per esempio "Il bambino con il pigiama a righe"). E il modo in cui "Adolf" viene scacciato e letteralmente defenestrato da Jojo, nel finale, appare troppo netto ed eccessivamente enfatico (e non solo perché esso era di fatto un sostituto paterno): l'addio a un amico immaginario avrebbe dovuto essere gestito con più sfumature, ma forse ci si preoccupava troppo di aver reso il Führer simpatico e divertente (e infatti ci sono stati critici che non lo hanno apprezzato). Rimane il merito di aver mostrato la guerra, con i suoi orrori e le sue tragedie, ma anche aspetti quali la propaganda e l'indottrinamento, dal punto di vista di un bambino (anche in questo caso non mancano i precedenti, a partire da "I figli di Hitler" di Dmytryk, girato "in tempo reale" nel 1943). Nel complesso il lungometraggio è piacevole, meno originale di quanto sembri ma dal mood indovinato, che mostra i campi di addestramento come se si trattasse di campi scout, nonché i lati più visionari e infantili di un periodo storico cupo e tragico (quando la guerra arriva fino in città, siamo di fronte alla fine dell'infanzia). Nel cast brilla Sam Rockwell nei panni del bizzarro capitano istruttore Klenzendorf. Nonostante dialoghi a tratti un po' artificiali e qualche luogo comune, la sceneggiatura (dello stesso Waititi) ha vinto l'Oscar. Nell'anacronistica colonna sonora ci sono canzoni dei Beatles e di David Bowie cantate in tedesco. Ambientato in una città della Germania non meglio precisata, il film è stato girato in realtà in Repubblica Ceca. Waititi ha deciso di interpretare personalmente l'Hitler comico (accodandosi a una lista di precedenti illustri, a partire da Chaplin) perché aveva qualche difficoltà a trovare un attore famoso interessato alla parte.

21 maggio 2019

Ida (Paweł Pawlikowski, 2013)

Ida (id.)
di Paweł Pawlikowski – Polonia/GB/Fra/Dan 2013
con Agata Trzebuchowska, Agata Kulesza
***1/2

Visto in divx alla Fogona.

Polonia, anni sessanta. Pochi giorni prima di prendere i voti, la giovane novizia Anna esce per la prima volta dal convento per trascorrere qualche giorno con l'unica parente che le è rimasta: la zia Wanda, giudice comunista che vive a Varsavia. Inizialmente la donna (che appare fredda, ostile, disillusa, nonché dedita ai vizi e alla vita mondana) sembra volerla respingere. Ma poi le rivela la verità su di lei: il suo vero nome è Ida, la sua famiglia era ebrea e i suoi genitori sono stati uccisi durante la guerra. Insieme, le due partono per il villaggio dove vivevano, per scoprire come sono morti (denunciati da un vicino che si è poi impadronito della loro casa) e dove sono stati sepolti. Il doloroso viaggio, oltre ad avvicinarle, cambierà profondamente entrambe le donne. Con stile solenne ed essenziale, come un film di Bresson (è girato in bianco nero e in 4:3) o magari – vista la breve durata: un'ora e venti scarsa – un episodio del “Decalogo” del connazionale Kieslowski, Pawlikowski firma forse il suo capolavoro: un film che affronta la delicata questione della complicità dei civili polacchi nelle atrocità naziste durante la guerra, ma non solo. Formalmente elegante, intenso e toccante, nella sua semplicità affronta temi esistenziali (da diversi punti di vista) e il modo di reagire ai dolori della vita, ritirandosi da essa o tuffandocisi completamente, accettando le cose con consapevolezza e serenità oppure rifiutandole con rabbia e furore. La musica, quasi tutta diegetica, spazia dalla classica (la sinfonia “Jupiter” di Mozart, che Wanda ascolta ripetutamente) alle canzonette (fra cui “24 mila baci” e “Guarda che luna”), fino al jazz di John Coltrane suonato dal giovane sassofonista con cui Ida decide di “sperimentare” un po' di quella vita cui dovrà poi rinunciare diventando suora, accettando il consiglio di Wanda secondo cui bisogna conoscere quello che si sceglie di abbandonare, altrimenti il sacrificio non ha alcun valore. Sulle scene finali del suo ritorno in convento, si ode invece una versione per piano della cantata di Bach “Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ”. È il primo film ambientato in patria di Pawlikowski, che in precedenza aveva lavorato per lo più in Gran Bretagna (dove è cresciuto). Premio Oscar per il miglior film straniero.

26 settembre 2016

Paradise (Andrei Konchalovsky, 2016)

Paradise (id.)
di Andrei Konchalovsky – Russia/Germania 2016
con Christian Clauss, Yulia Vysotskaya
**1/2

Visto al cinema Apollo, con Sabrina e Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Folgorato dai discorsi di Hitler, il giovane e idealista aristocratico tedesco Helmut (Clauss) vende tutte le sue proprietà e si arruola nelle SS. Divenuto ufficiale, in un campo di concentramento ritroverà Olga (Vysotskaya), la contessa russa di cui si era innamorato anni prima, ora imprigionata per aver tentato di salvare due bambini ebrei. I personaggi rievocano la propria storia – e di riflesso quella della guerra, del nazismo e dell'olocausto – attraverso una serie di interviste nell'aldilà, dopo la loro morte, di fronte a un giudice invisibile (collocato dal nostro lato della macchina da presa, proprio come in "Rashomon"). Oltre a Helmut e Olga, a raccontarci le vicende c'è anche Jules (Philippe Duquesne), il poliziotto francese collaborazionista che ha arrestato la donna. Intenso, commovente ma anche ruffianamente russofilo, il film di Konchalovsky ha il pregio di mostrare l'orrore da diversi punti di vista e per mezzo di figure che si trovavano sui lati opposti della barricata, illustrandone aspirazioni, prospettive, timori, incertezze, pregi e difetti, superando la semplicistica divisione fra buoni e cattivi e mostrandoli per quello che sono: esseri umani (Olga che cede alle avances del suo aguzzino, per esempio, oppure Helmut che mette in crisi le basi su cui poggia la teoria del Superuomo). Se alla fine le porte del paradiso (quello "vero") si aprono ovviamente solo per Olga, il personaggio meglio costruito e più a tutto tondo è quello di Helmut, con il suo desiderio di veder realizzare dal nazismo "un paradiso per i tedeschi, un paradiso tedesco in terra", e poco importa se per molti altri questo significa invece l'inferno (una delle prigioniere nel campo di concentramento recita i versi dell'Inferno di Dante prima di morire). Il film, che ha vinto a Venezia il premio per la regia, è girato in bianco e nero, in formato 4:3 e ovviamente in più lingue (tedesco, russo, francese: ma c'è anche un breve flashback in Italia, con la canzone "Parlami d'amore Mariù" come sottofondo nostalgico). Il tutto contribuisce a evocare tanto cinema del passato (per dirne una, Olga con la testa rasata assomiglia alla Giovanna d'Arco di Dreyer).

27 agosto 2016

Bolero (Claude Lelouch, 1981)

Bolero (Les uns et les autres)
di Claude Lelouch – Francia 1981
con Robert Hossein, Nicole Garcia
***

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Un grande affresco sul destino e sul potere della musica, raccontato attraverso le vicende di quattro famiglie di diversa nazionalità (francese, americana, russa, tedesca) ma accomunate dalla passione per la musica e il balletto, che si dipanano dalla metà degli anni trenta all'inizio degli anni ottanta (attraversando così i grandi eventi della storia, a cominciare dalla seconda guerra mondiale). Le storie dei personaggi scorrono in parallelo, sfiorandosi e incrociandosi più volte, fino a quando il fato li farà convergere tutti in un unico punto: un concerto sotto la Torre Eiffel in cui viene eseguito il "Bolero" di Ravel con la celebre coreografia "circolare" di Maurice Béjart (in cui un solo ballerino danza all'interno di un cerchio rosso, con altri che gli ruotano intorno). E circolare è anche l'andamento della pellicola, che nonostante la lunga durata (tre ore) scorre rapidamente e senza tempi morti. Si comincia nel 1936, con la presentazione di quattro coppie: Tatiana (Rita Poelvoorde), danzatrice del Bolshoi, che sposa il suo impresario Boris Itovitch (Jorge Donn); gli ebrei francesi Anne (Nicole Garcia) e Simon Meyer (Robert Hossein), che suonano nelle orchestre dei cabaret di Parigi; il giovane pianista tedesco Karl Kremer (Daniel Olbrychski), apprezzato anche da Hitler, e sua moglie Magda (Macha Méril); il compositore americano di canzonette Jack Glenn (James Caan), leader di un'orchestrina jazz, e sua moglie Suzanne (Geraldine Chaplin). Lo scoppio del conflitto mescola le carte: Boris muore al fronte, lasciando sola Tatiana con il figlio Sergei; Anne e Simon vengono deportati (e sono costretti ad abbandonare il loro neonato, che Anne cercherà poi di rintracciare per tutta la vita); Karl viene inviato con le truppe di occupazione a Parigi, dove avrà una fugace relazione con la chanteuse Évelyne (Évelyne Bouix), dalla quale a sua insaputa nasce Édith; Jack suona con la sua banda in Europa ed è presente a Parigi il giorno della liberazione, mentre in patria lo attendono la moglie e i figli Jason e Sarah. Negli anni successivi, mentre Karl diventa un celebrato direttore d'orchestra (ma i legami con il nazismo continueranno a gettare un'ombra su di lui), l'attenzione si sposta sulla generazione successiva: Robert (sempre Hossein), il figlio di Anne, nel frattempo adottato da un parroco, combatterà la guerra in Algeria, diventerà un avvocato e avrà un figlio, Patrick (Manuel Gélin), che eredita la passione per la musica dalla nonna; Sarah (sempre la Chaplin) avrà successo come cantante pop, assistita dal fratello manager Jason (sempre Caan); Sergei (sempre Donn), celebre ballerino, fuggirà dall'Unione Sovietica per stabilirsi in occidente; Édith (sempre la Bouix), dopo alterne fortune, diventa un'annunciatrice televisiva e contribuirà a organizzare il concerto che vedrà riuniti tutti i personaggi.

Il succedersi delle generazioni ne mette in mostra gli elementi in comune (la musica in primo luogo, autentico filo conduttore del destino dei personaggi) ma anche le differenze: nonostante le difficoltà, i drammi e gli orrori della guerra, le coppie originali mantengono quella visione e quell'ottimismo che le spingono a non arrendersi mai e a cercare di sopravvivere a ogni costo, a portare avanti i propri sogni e poi quelli dei propri figli. La generazione intermedia, invece, sembra molto meno felice: si succedono malattie (Sarah), divorzi (Robert), tentati suicidi (Jason, uno degli amici di Robert). I più giovani, infine, rappresentati da Patrick, sono una pagina ancora bianca, il cui destino è tutto da scrivere. Ma è bello come, nel concerto finale, a contribuire al risultato comune ci siano rappresentanti di tutte e tre le generazioni (Karl dirige l'orchestra, Sergei danza il "Bolero", Sarah e Patrick cantano). Se la sceneggiatura (dello stesso Lelouch) cerca di dare il sufficiente spazio sotto i riflettori a tutti i personaggi (compresi quelli minori o di contorno: si pensi a Évelyne, o agli amici di Robert, compagni d'arme in Algeria), la regia è ariosa, fra movimenti circolari che seguono gli attori con il grandangolo (per esempio quando salgono o scendono le scale), lunghi piani sequenza (memorabile quello alla stazione di Parigi, alla fine della guerra, che mostra il ritorno di Anne dal campo di concentramento e, contemporaneamente, la partenza di Karl per la Germania). Bello anche, nel finale, il momento dell'incontro fra Robert (cresciuto ignaro dell'identità dei propri genitori) e sua madre Anne nell'istituto psichiatrico, accompagnato dalle prime note di quel "Bolero" che proseguirà poi sulle immagini del ballo di Sergei. La ricca colonna sonora (che naturalmente comprende molti brani di vari generi: dalla musica classica a quella leggera) è opera, fra gli altri, di Michel Legrand. I personaggi sono immaginari, ma non è difficile riconoscere le ispirazioni a celebri musicisti o figure iconiche del ventesimo secolo (Karajan, Nureyev, Edith Piaf, Glenn Miller, ecc.). Nel cast, in ruoli minori, anche Jean-Claude Brialy, Fanny Ardant, Jacques Villeret, Richard Bohringer, Alexandra Stewart, Jean-Claude Bouttier, Francis Huster e persino, non accreditata, una giovanissima Sharon Stone. I titoli di testa sono parlati. Il film vinse il Grand Prix tecnico al Festival di Cannes.

27 febbraio 2016

Remember (Atom Egoyan, 2015)

Remember (id.)
di Atom Egoyan – Canada/Germania 2015
con Christopher Plummer, Martin Landau
***

Visto al cinema Apollo.

Dopo la morte della moglie Ruth, il quasi novantenne ebreo Zev Guttman (un Plummer fenomenale) fugge dalla casa di riposo per andare alla ricerca del comandante nazista che aveva sterminato tutta la sua famiglia ad Auschwitz e che si è rifugiato in Nord America sotto il falso nome di Rudi Gurlander. Il problema è che in giro ci sono quattro Gurlander, e Zev – che fra le altre cose soffre di demenza senile, dimenticando spesso i dettagli della propria missione – dovrà rintracciarli uno dopo l'altro se vorrà ucciderlo e vendicarsi. Dopo diverso tempo Egoyan torna ai livelli dei suoi film migliori ("Exotica", "Il dolce domani", "Il viaggio di Felicia") con una pellicola che – tenendo fede al suo titolo – intreccia mirabilmente i vari temi della "memoria": quella degli eventi storici dell'Olocausto, che rischiano di essere dimenticati man mano che i protagonisti e i sopravvissuti invecchiano e muoiono ("Siamo gli ultimi a poter riconoscere il volto di quell'uomo", spiega a Zev l'amico Max Rosenbaum (Martin Landau), il suo compagno di ospizio che ha rintracciato Gurlander e gli ha fornito tutte le informazioni per raggiungerlo); ma anche quella, più semplicemente, dei ricordi del proprio passato, destinata a degradarsi con la vecchiaia. E infatti Zev, a ogni risveglio, ripiomba in un'epoca in cui la moglie era ancora viva e fa fatica a ricordarsi dove si trova o cosa sta facendo: dovrà annotarsi le informazioni più importanti sulla propria pelle (come in "Memento": ma qui, significativamente, sul braccio ha anche un'altra "annotazione" che gli ricorda il suo passato, ovvero il numero del campo di concentramento) e rileggere in continuazione la preziosa lettera di Max con le istruzioni per la sua missione. Il gioco della memoria e dei ricordi che svaniscono, fra l'altro, non è fine a sé stesso, visto che costituisce un elemento essenziale della trama e giustifica il colpo di scena finale. Grande cast di attori anziani, che oltre a Plummer e Landau comprende anche Bruno Ganz e Jürgen Prochnow (due degli uomini oggetto della "caccia" di Zev). Durante il suo viaggio, il protagonista incontrerà quattro diversi aspetti del nazismo: il soldato inconsapevole, il prigioniero "diverso" (che ci ricorda come gli ebrei non furono le uniche vittime dell'Olocausto: un tema che naturalmente sta molto a cuore a Egoyan, che è di origine armena), il fanatico entusiasta (che non ha partecipato davvero allo sterminio; e proprio questa sua mancanza fa sì che, non rendendosi pienamente conto dell'orrore, possa continuare a professare la propria ideologia) e, infine, l'autentico nazista che si è ricostruito una vita e una famiglia in America, tenendo questa all'oscuro del proprio passato. Il viaggio a tappe di Zev è scandito da incontri con persone di tutte le età, di cui significativi sono quelli con i bambini, che rappresentano l'innocenza della "non conoscenza" (come quando la bimba domanda chi siano i nazisti, e Zev le risponde semplicemente che sono "persone cattive"). Interessante anche il rapporto di Zev con la musica (Moszkowski, Mendelssohn e Wagner: i primi due ebrei, il terzo il musicista più associato – suo malgrado – al nazismo), mentre al tema della memoria e della sua cancellazione (volontaria o meno) si sovrappone quello del delicato equilibrio (non sempre contrapposizione!) fra verità e menzogna ("False verità" era il titolo di un altro film di Egoyan). Henry Czerny è il figlio di Zev, Dean Norris il poliziotto neo-nazista.

18 giugno 2015

Il figlio di Saul (László Nemes, 2015)

Il figlio di Saul (Saul fia)
di László Nemes – Ungheria 2015
con Géza Röhrig, Levente Molnár
***1/2

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Cannes).

Rinchiuso in un campo di concentramento nazista, l'ebreo ungherese Saul fa parte dei "Sonderkommando", ovvero quei prigionieri – scelti fra i più forti e robusti – cui venivano affidati i compiti di manovalanza e di "gestione" del campo: divisi in gruppi comandati dai Kapo, si occupavano fra le altre cose di far "pulizia" dei tanti corpi dopo le docce a gas. Come i suoi compagni, Saul sembra ormai anestetizzato agli orrori di cui è testimone. Ma quando riconosce fra i morti il cadavere di un ragazzino, fa di tutto per sottrarlo di nascosto ai forni crematori e per trovare un rabbino fra gli altri prigionieri in modo da poterlo seppellire nel migliore dei modi: si tratta infatti – o almeno così afferma – di suo figlio. Angosciante e claustrofobico, eppure diverso da ogni altra pellicola sull'Olocausto girata finora, sembra incredibile che si tratti di un film d'esordio. Pochi registi, anche in passato (viene da pensare addirittura a Orson Welles), hanno dimostrato già al debutto una tale padronanza tecnica, una tale originalità nella messa in scena, una tale coerenza stilistica e una tale fiducia nei propri mezzi. La macchina da presa rimane costantemente attaccata al protagonista, senza allontanarsi mai da lui di più di mezzo metro, e rinuncia alla profondità di campo, al punto che tutto l'ambiente sullo sfondo (e dunque anche gli orrori che circondano Saul) appare spesso fuori fuoco, come per proteggere il protagonista (e lo spettatore stesso) dall'inferno in cui si trova. Il tutto rappresenta alla perfezione la chiusura di Saul in sé stesso e la focalizzazione sul suo unico obiettivo (quello di dare un degno funerale al figlio), che gli impedisce di mescolarsi con chi gli sta attorno, che si tratti dei tedeschi aguzzini, dei Kapo collaborazionisti, o persino degli altri prigionieri che stanno progettando una rivolta e una fuga (cui Saul non sembra particolarmente interessato). Manca del tutto il voeyurismo, o il senso di realismo documentaristico che di solito accompagna le pellicole girate con la camera a mano, i lunghi piani sequenza o l'inquadratura che segue il protagonista. Qui la forma (dimenticavo: c'è anche il formato in 4:3 ad accrescere la sensazione di intima claustrofobicità) si sposa mirabilmente con i contenuti, senza che l'una possa essere distinta dagli altri. Ne risulta un film potente, rigoroso, austero (non c'è colonna sonora), carico di tensione, che descrive un'odissea personale prima ancora che un dramma universale, dove il contesto è lasciato abilmente sullo sfondo e dove il punto di vista "chiuso" amplifica l'esperienza emotiva dello spettatore, trascinato insieme a Saul in un inferno senza significato e senza via di scampo. I dettagli della vita nel campo di concentramento (dall'appello fatto con i numeri anziché con i nomi, alle dinamiche di interazione fra deportati che parlano diverse lingue; dai segni di riconoscimento come le croci rosse sugli abiti dei "Sonderkommando", alla consapevolezza della morte imminente, visto che anche loro vengono perdiodicamente giustiziati e sostituiti perché a conoscenza di troppi "segreti", tanto che c'è sempre qualcuno che si premura di far sì che le testimonianze – tramite scritte o fotografie "clandestine" – non vadano perdute) fanno da gelido contorno agli orrori dello sterminio, cui si può far fronte solo rimuovendo apparentemente ogni emozione e mettendo "fuori fuoco" le immagini più cruente. Meritato Grand Prix a Cannes e premio Oscar per il miglior film straniero.

4 febbraio 2014

Il giardino dei Finzi-Contini (V. De Sica, 1970)

Il giardino dei Finzi-Contini
di Vittorio De Sica – Italia 1970
con Lino Capolicchio, Dominique Sanda
***

Visto in divx, con Eleonora, Marta, Esther, Beatrice, Francesca e Fausto.

Nella Ferrara del 1938, l'inasprirsi delle leggi razziali sotto il fascismo non sembra toccare più di tanto la serenità della ricca famiglia ebrea dei Finzi-Contini, che nella loro villa circondata da un immenso giardino – da cui escono raramente – continuano a ricevere le visite di amici e conoscenti. Fra questi c'è il giovane Giorgio (Lino Capolicchio), ebreo della media borghesia cittadina, innamorato della raffinata ed enigmatica Micol (Dominique Sanda), che però non ricambia il suo affetto. I turbamenti amorosi di Giorgio andranno di pari passo con il deterioramento del clima sociale e politico, fino a quando anche la gabbia dorata dei Finzi-Contini non sarà più in grado di proteggere la famiglia dalla deportazione. Tratto dall'omonimo romanzo di Giorgio Bassani (che non volle essere coinvolto nell'adattamento), il film racconta in modo originale e intimista il dramma degli ebrei italiani appartententi alle classi sociali più elevate, dapprima illusi che nel proprio paese non si potessero raggiungere i livelli di persecuzione della Germania nazista (esemplare la scena in cui Giorgio, in visita al fratello che si è trasferito a vivere in Francia, viene improvvisamente a conoscenza dei campi di concentramento tedeschi), e poi costretti a un brusco risveglio quando era ormai troppo tardi. All'inizio, infatti, i disagi sembrano essere di poco conto (espulsi dal circolo del tennis, gli amici di Micol ed Alberto si ritrovano nella loro villa a giocare fra loro), poi si fanno via via più opprimenti (il padre di Giorgio perde il lavoro, il ragazzo non può più studiare in biblioteca o addirittura laurearsi, cosa che invece la ricca e privilegiata Micol riesce comunque a fare), e infine si sfocia nella guerra e nel disastro completo. La Sanda era apparsa quello stesso anno anche ne "Il conformista" di Bertolucci, un altro film che raccontava la vita sotto il fascismo. Nel cast anche Helmut Berger (Alberto, il fratello di Micol), Fabio Testi (Giampiero, l'amico milanese) e Romolo Valli (il padre di Giorgio), mentre un giovane Alessandro D'Alatri interpreta Giorgio da bambino in alcuni flashback. Il ritmo lento e la recitazione impostata (che lo differenziano a livello formale dai capolavori del periodo neorealista di De Sica, avvicinandolo invece ai vari Antonioni, Visconti e Bertolucci di quegli anni) non rendono il film necessariamente datato, bensì contribuiscono a creare quell'atmosfera un po' sospesa e irreale che ben descrive le illusioni e la passività dei personaggi in un contesto sociale che a sua volta doveva certamente sembrare irreale a chi ci viveva (spingendo Micol e la sua famiglia a un isolamento sempre più stretto). E l'esperienza del regista gli consente di evitare ogni trappola "intellettuale", fondendo invece mirabilmente le due anime della narrazione (i drammi amorosi e "privati" di Giorgio con quelli a più ampio spettro dovuti al fascismo). La pellicola valse al settantenne De Sica il suo quarto Oscar per il miglior film straniero (un record che condivide con Federico Fellini), nonché l'Orso d'Oro a Berlino.

27 gennaio 2014

L'uomo del banco dei pegni (S. Lumet, 1964)

L'uomo del banco dei pegni (The pawnbroker)
di Sidney Lumet – USA 1964
con Rod Steiger, Jaime Sánchez
***

Visto in divx.

Sol Nazerman (un monumentale Rod Steiger), professore universitario ebreo di origine tedesca, sopravvissuto all'Olocausto e ad Auschwitz, gestisce ora uno scalcinato banco dei pegni nel quartiere newyorkese di Harlem. Le esperienze passate lo hanno reso misantropo e impermeabile alle emozioni: svolge il suo lavoro in maniera fredda e spenta, anestetizzato e privo di qualsivoglia empatia nei confronti di coloro che lo circondano: i poveracci che si affidano al suo negozio, i gangster che lo sfruttano per riciclare denaro, una donna che cerca di scuoterlo dal suo torpore, il giovane apprendista portoricano che vuole imparare il mestiere per tagliare i ponti con i delinquenti che un tempo frequentava. Forse sente la "colpa di essere vivo", come lo accusa il genitore di un suo compagno che invece nei lager è morto; forse ha perduto ogni fede in Dio e ogni rispetto per l'umanità, come rivela al suo apprendista; o forse ha semplicemente deciso di "liberarsi di ogni emozione" nella speranza di rimuovere così anche i ricordi della perdita della sua famiglia. Ricordi che però, con rapidissimi flashback (notevole il montaggio), cominciano a tornargli davanti agli occhi sempre più di frequente, scuotendo la sua corazza e mandandolo in crisi. Primo film americano a trattare il tema dell'Olocausto dal punto di vista di un sopravvissuto e soprattutto il trauma successivo a quegli eventi (nonché, curiosità di costume, primo film hollywoodiano contenente scene di nudo – le tette della prostituta – a essere approvato sotto il regime del codice Hays), racconta la tragedia di un uomo prima ancora che quella di un popolo (di cui quasi tutti gli altri personaggi sono all'oscuro o non conoscono i dettagli: non sono pochi coloro che chiedono con curiosità al protagonista cosa significhi il numero che ha tatuato sul braccio). Lo stile (soprattutto riguardo ai flashback) è evidentemente debitore della Nouvelle Vague francese, tanto da essere stato paragonato ad alcuni lavori di Alain Resnais ("Hiroshima mon amour", "Notte e nebbia"), anche se l'uso degli ambienti (dal negozio in cui Nazerman ha scelto di "seppellirsi", perennemente immerso nell'ombra e chiuso da grate come quelle di una prigione, alle strade e ai ponti di uno dei quartieri più malfamati della città), resi ancora più grigi ed opprimenti dalla fotografia in bianco e nero, è invece tipicamente americano. Brock Peters è il gangster con cui Sol è in affari, mentre – non accreditato – Morgan Freeman fa la sua prima (piccola) apparizione sullo schermo.

14 gennaio 2014

L'allievo (Bryan Singer, 1998)

L'allievo (Apt pupil)
di Bryan Singer – USA 1998
con Brad Renfro, Ian McKellen
**1/2

Rivisto in DVD, con Sabrina.

Il sedicenne Todd Bowden scopre che un suo vicino di casa, l'anziano e apparentemente innocuo Arthur Denker, è in realtà Kurt Dussander, un criminale di guerra nazista fuggito in America sotto falso nome dopo la fine del conflitto. Spinto dalla curiosità, e minacciando di rivelare il suo segreto, comincia a frequentarlo e a farsi raccontare le sue esperienze come gerarca delle SS e responsabile di un campo di concentramento. Se da un lato il ragazzo inizia a subire gradualmente il fascino del male, dall'altro l'uomo sente risvegliare in sé istinti e ricordi che aveva cercato di dimenticare... Da un racconto di Stephen King, un'interessante pellicola sulla corruzione e sull'attrazione per il "lato oscuro" (il film si apre con l'insegnante di storia di Todd che interroga i ragazzi sui reali motivi alla base del nazismo). Il rapporto che si instaura fra Todd e Dussander è all'insegna dell'ambiguità: da un lato ricalca quello fra insegnante e allievo, o addirittura fra padre e figlio (con il vecchio che si prende a cuore i risultati scolastici del ragazzo: spacciandosi per suo nonno, si reca persino a scuola per parlare con i professori), dall'altro si sviluppa all'insegna di minacce e di ricatti, con i due personaggi che a turno tengono il coltello dalla parte del manico e "guidano" le danze. Entrambi si scoprono cambiati dall'incontro con la controparte: Todd diventa manipolatore, capace di mentire e persino di uccidere; Kurt riscopre l'orgoglio e il piacere di rivangare un passato rimosso ma mai dimenticato. Singer è bravo a trattare la spinosa materia senza scivolare nei cliché retorici o ricattatori dei film che parlano del nazismo e dell'olocausto, anzi sfruttando a pieno le atmosfere "normali" delle pellicole liceali o addirittura quelle horror (le sequenze oniriche, la scena dell'omicidio). Fra i difetti: la prova un po' piatta di Renfro (grandiosa invece quella di McKellen, già "nazista" nel Riccardo III di Richard Loncraine e futuro Magneto per lo stesso Singer) e qualche ingenuità di troppo nello sviluppo narrativo, in particolar modo nel finale, peraltro diverso rispetto al racconto originale di King (che portava la parabola di Todd fino a ben più estreme conseguenze). Comparsata per David Schwimmer nei panni del consulente scolastico.

27 gennaio 2012

Arrivederci ragazzi (L. Malle, 1987)

Arrivederci ragazzi (Au revoir les enfants)
di Louis Malle – Francia/Germania 1987
con Gaspard Manesse, Raphaël Fejtö
***

Rivisto in divx, con Marisa.

Per il Giorno della Memoria, ho rivisto questo classico film di Louis Malle, vincitore fra l’altro del Leone d’Oro al Festival di Venezia. Nell’inverno del 1943, nella Francia occupata dai tedeschi, il piccolo Julien Quentin è inviato dalla sua famiglia a frequentare un collegio religioso. Qui stringe una profonda amicizia con il coetaneo Jean Bonnet, il cui vero nome è Jean Kippelstein: si tratta infatti di un ebreo, accolto sotto falso nome dal direttore del collegio per proteggerlo dalle persecuzioni naziste. Ma sarà tutto inutile, visto che una mattina di gennaio la Gestapo farà irruzione nell’istituto e porterà via Jean insieme ad altri due ragazzi e al direttore della scuola (che saluterà gli alunni con la frase che dà il titolo alla pellicola). Ispirato a un’esperienza vissuta in prima persona dal regista (che a 11 anni fu testimone di eventi del tutto simili a quelli descritti sullo schermo), attraverso i dispetti e l’amicizia dei bambini il film fa riflettere sull’insensatezza dell’odio degli adulti e delle tragedie della storia. La cura nella descrizione delle dinamiche e delle psicologie infantili (che fa accomunare il film a tante altre pellicole francesi ambientate in scuole o collegi, da “Zero in condotta” a “I quattrocento colpi”, da “Essere e avere” al recente “La classe”) si sposa con la descrizione dell’Olocausto da un punto di vista personale e individuale, rendendo la tragedia ancora più ingiusta, assurda e incomprensibile perché osservata con gli occhi di un bambino. Da notare che si tratta di una coproduzione franco-tedesca. Malle aveva già affrontato il periodo storico e il tema del collaborazionismo nel precedente "Cognome e nome: Lacombe Lucien".

24 ottobre 2011

This must be the place (P. Sorrentino, 2011)

This must be the place
di Paolo Sorrentino – Italia/Francia/Irlanda 2011
con Sean Penn, Frances McDormand
**

Visto al cinema Colosseo.

Dopo i successi de "Le conseguenze dell'amore" (che a mio parere resta il suo lavoro migliore) e "Il divo", Sorrentino goes international e va a girare un film in inglese negli Stati Uniti (ma non di produzione americana), come molti registi europei prima di lui hanno sentito l'esigenza di fare (i paragoni che sorgono subito in mente, anche per via dei temi e dei toni da road movie, sono quelli con il Wenders di "Paris, Texas" e l'Antonioni di "Zabriskie Point"). Protagonista assoluto è un sorprendente Sean Penn nei grotteschi e ingombranti panni di Cheyenne, rock star invecchiata, annoiata e depressa, che fatica a uscire dal "personaggio" che gli aveva dato la notorietà negli anni ottanta, prima di ritirarsi dalle scene per chiudersi in un esilio dorato in Irlanda. Punk, dark (il look è ispirato a quello di Robert Smith dei Cure), infantile ("solo i bambini non sentono mai il bisogno di fumare"), effemminato (evidente il contrasto con la moglie, interpretata da Frances McDormand, che invece è fin troppo "maschile", al punto da lavorare come vigile del fuoco e da battere regolarmente il marito a pelota) e in perenne crisi artistica (come confessa a un David Byrne che, oltre a realizzare la colonna sonora del film, interpreta sé stesso in una delle scene registicamente più interessanti, quella del suo concerto a New York), eppure intellettualmente lucido e capace di improvvisi scatti di di umorismo cinico e sarcastico, Cheyenne si mette in viaggio per gli States in occasione del funerale di un padre con cui non parlava da molti anni; e per espiare il senso di colpa per la distanza che lo ha tenuto lontano da lui, si getta sulle tracce di un criminale nazista che ora vive in America e che il genitore, da questi umiliato mentre era prigioniero ad Auschwitz, aveva cercato invano di scovare. Se i temi del viaggio come metafora della ricerca di sé stesso, del rapporto con il padre da ricucire dopo la morte, e del superamento dei traumi del passato (solo nel finale Cheyenne saprà uscire dalla "maschera" che ha indossato per trent'anni, riacquistando la propria identità da adulto, chiudendo i conti con una tragedia che lo opprimeva – il suicidio di due suoi giovani fan – e permettendo a quelle che scopriamo nell'ultimissima scena essere sua madre e sua sorella di "ritrovare" il proprio caro perduto) non sono in fondo così originali, la cura nella caratterizzazione del personaggio dà i suoi frutti e proprio il finale aggiunge significato all'intera operazione. Nulla da dire invece sullo stile: sono convinto – come ho già scritto altrove – che Sorrentino sia attualmente il più dotato, dal punto di vista della tecnica, fra i registi italiani. La struttura in acciaio e vetro che si vede dietro le case nelle scene ambientate in Irlanda è il nuovo Aviva Stadium di Dublino. Il titolo del film, invece, è quello della canzone dei Talking Heads che lo stesso Cheyenne suona alla chitarra in casa di Rachel (Kerry Condon), la figlia americana dell'uomo che sta cercando. Cameo per Harry Dean Stanton (già protagonista del citato "Paris, Texas") nel ruolo dell'inventore del trolley, mentre Judd Hirsch è Mordecai Midler, il cacciatore professionista di nazisti.

14 settembre 2010

Ogni cosa è illuminata (L. Schreiber, 2005)

Ogni cosa è illuminata (Everything is illuminated)
di Liev Schreiber – USA 2005
con Elijah Wood, Eugene Hutz
**1/2

Rivisto in DVD con Giovanni, Rachele, Ilaria e Giuseppe.

Dal romanzo semi-autobiografico di Jonathan Safran Foer (che non ho letto: ma mi dicono che il film ne adatti solo una parte), Schreiber realizza un toccante racconto sul passato e sulla memoria, condito – soprattutto nella prima parte – da squarci di umorismo surreale, paesaggi, personaggi e musiche che sembrano uscite da una pellicola di Emir Kusturica. Il protagonista Jonathan (un ottimo Elijah Wood), ebreo americano di terza generazione, è un "collezionista": custodisce gelosamente oggetti di ogni tipo appartenuti ai suoi parenti, nel tentativo di conservare il ricordo delle loro vite. Incuriosito da un ciondolo e da una fotografia, si reca in Ucraina in cerca del villaggio da dove suo nonno era fuggito nel 1942 per approdare in America: spera così di trovare la donna, ritratta nella foto, che lo avrebbe salvato dai nazisti. A fargli da guida e da inteprete in un paese che gli è del tutto estraneo sarà il giovane Alex (Eugene Hutz dei Gogol Bordello), appassionato di cultura americana pop e "voce narrante" del film con il suo linguaggio sgrammaticato e divertentissimo, affiancato dal burbero nonno antisemita (che crede di essere cieco, anche se questo non gli impedisce di fare l'autista) e dalla cagnolina Sammy Davis Junior Junior. I tre uomini e il cane (ogni riferimento a Jerome K. Jerome è naturalmente casuale) si addentreranno a bordo di una Trabant azzurra – e non senza difficoltà – in un'Ucraina vasta e labirintica, fra le rovine delle centrali nucleari sovietiche e i fertilissimi campi di grano e di girasoli che la rendevano "il granaio dell'URSS", fino a riportare alla luce (la metafora dell'illuminazione pervade tutta la pellicola, a cominciare dal titolo) il proprio passato e quello delle rispettive famiglie. Ma proprio l'importanza del passato, così pervadente, tarpa un po' le ali al film nella seconda parte: personalmente preferisco storie e personaggi che guardano più al futuro, anche se mi rendo conto che si tratti di temi importanti per la cultura ebraica, che ritiene fondamentale non dimenticare le tragedie dell'olocausto. Schreiber, più noto come attore, esordisce qui come regista e come sceneggiatore. Magnifica la colonna sonora di Paul Cantelon, che include anche brani di diversi gruppi russi ska e punk (compresi gli stessi Gogol Bordello, che compaiono anche sullo schermo nella scena alla stazione). Da notare, a Odessa, un'inquadratura della famosa scalinata della "Corazzata Potëmkin".

17 giugno 2007

La question humaine (N. Klotz, 2007)

La question humaine
di Nicolas Klotz – Francia 2007
con Mathieu Amalric, Michael Lonsdale
*1/2

Visto al cinema Apollo, in v. orig. sottotitolata.
(rassegna di Cannes)

Allo psicologo aziendale di una multinazionale, già incaricato di valutare le caratteristiche dei dipendenti in vista di una forte riduzione del personale, viene chiesto di indagare sulla sanità mentale del direttore generale di una filiale: il suo comportamento bizzarro e paranoico, che in un primo tempo sembra legato a un quartetto d'archi di cui faceva parte in gioventù, dipende in realtà da alcune lettere anonime che accusano suo padre di essere stato responsabile di un campo di concentramento nazista. Il film prosegue con un forte e azzardato parallelo fra i licenziamenti nelle aziende (le "ristrutturazioni") – che prevedono l'eradicamento di tutti gli impiegati giudicati inadatti al lavoro – e le stragi delle SS nei confronti di coloro giudicati inadatti alla società. C'è persino un personaggio che sostiene che le feste aziendali assomiglino a "sepolture collettive". Temi interessanti, è vero (c'è anche un'accusa al linguaggio da ingegnere, "freddo" e "tecnico", che viene usato sia dai dirigenti aziendali sia dai nazisti nei confronti degli esseri umani), ma trattati in maniera pesante e noiosa. Oltre metà del film (che dura quasi due ore e mezza!) trascorre prima che si giunga al punto centrale e che lo spettatore inizi a capire di che cosa tratti la vicenda. Una pellicola ambiziosa che non coinvolge e che stanca quasi subito. Il protagonista è lo stesso de "Lo scafandro e la farfalla".

11 settembre 2006

Black book (P. Verhoeven, 2006)

Black book (Zwartboek)
di Paul Verhoeven – Olanda 2006
con Carice van Houten, Sebastian Koch
***

Visto al cinema Plinius, in v. orig. sottotitolata
(rassegna di Venezia)

Una giovane ebrea olandese, scampata al massacro della propria famiglia a opera delle SS, entra a far parte della resistenza e accetta di diventare l'amante di un capitano tedesco per estorcergli informazioni, ma poi finisce per innamorarsene. Verhoeven ricorre a tutta l'esperienza maturata a Hollywood per girare un romanzone storico-avventuroso coinvolgente e di ottima fattura, dove tragedie e speranze, tradimenti e complotti, sparatorie ed evasioni si succedono senza interruzione per oltre due ore. Alcuni snodi narrativi sono forse un po' esagerati, e non mancano momenti maliziosamente sopra le righe e quasi trash, ma nel complesso lo spettacolo funziona e il film mi ha tenuto con il fiato sospeso fino alla fine. Brava la protagonista, che sfoggia un look alla Jean Harlow. E bella l'ultimissima scena, che fa riflettere sulla ciclicità degli orrori della guerra e degli errori dell'uomo. Ci sono state alcune polemiche sul fatto che il regista abbia presentato i nazisti (alcuni, almeno) come esseri umani a tutti gli effetti, con pregi e difetti, così come alcuni membri della resistenza come bastardi pronti a tradire i compagni. Ho addirittura sentito accusare il film di antisemitismo: evidentemente il povero Verhoeven è destinato a essere sempre incompreso, almeno politicamente, come ai tempi di "Starship troopers".

19 giugno 2006

Volevo solo vivere (M. Calopresti, 2006)

Volevo solo vivere
di Mimmo Calopresti – Italia 2006
con attori non professionisti
**1/2

Visto al cinema Apollo (rassegna di Cannes).

Attraverso le testimonianze di alcuni sopravvissuti, il film ripercorre la storia degli ebrei italiani deportati ad Auschwitz e Birkenau dopo il 1943. Cinematograficamente non è altro che il montaggio delle loro interviste con immagini di repertorio dai campi di concentramento, ma il risultato è sufficientemente efficace per descrivere una delle pagine più tragiche e assurde della storia dell'umanità. I racconti sono interessanti e commoventi, spesso drammatici ma a volte anche alleggeriti da aneddoti o da curiosità che, in un altro contesto, sembrerebbero quasi incredibili. Alla fine resta l'indignazione non tanto per i responsabili di quelle atrocità, quanto per tutti coloro che ancora oggi si ostinano a ignorare o, ancor peggio, a negare che esse siano mai avvenute.