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25 luglio 2023

Good night, and good luck (G. Clooney, 2005)

Good Night, and Good Luck. (id.)
di George Clooney – USA 2005
con David Strathairn, George Clooney
**

Rivisto in TV (Prime Video).

Negli anni cinquanta, il giornalista Edward R. Murrow (David Strathairn), già celebre per i suoi notiziari dal fronte durante la seconda guerra mondiale e ora conduttore di una popolare trasmissione d'inchiesta sulla CBS ("See It Now"), comincia a prendere posizione contro il maccartismo imperante e la "caccia alle streghe" condotta dal senatore McCarthy contro chiunque sia sospettato di avere simpatie per il comunismo, dapprima segnalando nella sua trasmissione casi di abusi e violazioni dei diritti civili e poi attaccando direttamente il senatore. Il film di Clooney (alla sua seconda regia, dopo "Confessioni di una mente pericolosa", e che si ritaglia per sé il ruolo di Fred Friendly, amico, collaboratore e producer di Murrow) ricostruisce l'ambiente di quegli anni dal punto di vista della redazione giornalistica, in una sorta di omaggio a Murrow e alla sua concezione della televisione, che non deve fornire solo intrattenimento fine a sé stesso ma anche informare il pubblico e denunciare le storture della politica. Girato in un bianco e nero patinato, il film è però monotono nel ritmo, ingessato nello stile e noioso nella narrazione, nonostante alcune sottotrame (il giornalista emarginato che si suicida, la coppia che finge di non essere sposata) e un tema tutto sommato "importante", legato a un periodo particolare della storia e della cultura americana nel dopoguerra. Il titolo è la frase con cui Murrow era solito chiudere ogni sua trasmissione. Nel cast anche Jeff Daniels, Frank Langella, Grant Heslov e Patricia Clarkson. Ottimo il riscontro critico, con sei nomination agli Oscar (miglior film, regia, attore, sceneggiatura, fotografia e scenografia) ma nessuna statuetta. Strathairn vinse anche la coppa Volpi a Venezia.

11 gennaio 2023

Scipione detto anche l'Africano (L. Magni, 1971)

Scipione detto anche l'Africano
di Luigi Magni – Italia 1971
con Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman
**1/2

Visto in TV (Prime Video).

Davanti al senato romano, Catone il Censore (Vittorio Gassman) accusa i fratelli Publio Scipione, detto l'Africano (Marcello Mastroianni), e Lucio Scipione, detto l'Asiatico (Ruggero Mastroianni), comandanti dell'esercito, di essersi "intascati" un ricco tributo di cinquecento talenti destinato dal re della Siria alla repubblica di Roma. Quando l'Africano, celebrato eroe di guerra (ha sconfitto i cartaginesi nella seconda guerra punica) nonché uomo onesto e incorruttibile, e come tale amato e idolatrato dal popolo, scopre che il responsabile è suo fratello, sarebbe anche pronto a denunciarlo. Non si rende conto però che Catone non è alla ricerca della verità, ma vuole solo impedire che un uomo come lui possa diventare troppo popolare, ingombrante e dunque "scomodo". Ispirato alle vicende reali dei "processi degli Scipioni", un peplum decisamente originale per temi, forma e confezione, a metà strada fra la ricostruzione storica e la satira politica (e umanistica) in chiave moderna. Caratterizzato da una teatralità quasi pasoliniana, con dialoghi e battute in romanesco e scenografie pauperistiche (è girato tutto in esterni, fra campagne e antiche rovine: le riprese sono state effettuate in gran parte a Pompei, ma anche a Paestum, nella Villa Adriana a Tivoli e presso la necropoli etrusca di Sovana), il film mette in scena i germi della decadenza di una Roma che dimentica il proprio passato, celebra ipocritamente eroi di cui non ha bisogno, si mostra cinica davanti ai valori morali ("Il più pulito c'ha la rogna"), dove gli schiavi non vogliono essere liberati e, quando ci si trova davanti a un uomo troppo grande, fedele e perfetto (dunque "non umano"), questi viene ripudiato e considerato fastidioso. Scipione stesso, pur di scendere dal piedistallo, sceglierà di autoaccusarsi e di distruggere la propria immagine pubblica, ma così facendo non otterrà che di esporre in piena luce le ipocrisie di tutti gli altri. Molto interessante il cast, con i due fratelli Mastroianni (Ruggero, celebre montatore, recita qui per l'unica volta in carriera) che interpretano a loro volta due fratelli. Silvana Mangano è Emilia, la moglie di Scipione. Turi Ferro è nientemeno che Giove Capitolino, con il quale Scipione ha una serie di conversazioni private. Woody Strode è Massinissa, re di Numidia e antico compagno d'armi del protagonista. Wendy D'Olive è Licia, la servetta "invisibile". Colonna sonora del flautista Severino Gazzelloni.

29 gennaio 2022

Benvenuto Presidente! (R. Milani, 2013)

Benvenuto Presidente!
di Riccardo Milani – Italia 2013
con Claudio Bisio, Kasia Smutniak
*1/2

Visto in TV (Now Tv), con Sabrina.

Nell'impasse per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, e non riuscendo a trovare il giusto candidato (cioè corruttibile e manipolabile), i principali partiti del parlamento italiano scelgono di votare – l'uno all'insaputa dell'altro – lo stesso nome "simbolico": Giuseppe Garibaldi. Peccato però che un cittadino eleggibile con questo nome esista veramente, un ex bibliotecario appassionato di pesca che abita in un paesino di montagna, che si ritrova così designato all'importante carica. Salito al Quirinale, con i suoi modi semplici e schietti e l'innata onestà saprà conquistarsi il favore della popolazione e risollevare le sorti del paese. Il tema dell'uomo comune che si ritrova per caso ai vertici di una nazione non è certo nuovo (dal "Prigioniero di Zenda", con tutte le sue varianti – compresa quella disneyana: "Topolino sosia di Re Sorcio" – a pellicole diversissime fra loro come "Dave - Presidente per un giorno" e "Kagemusha"), ed è sempre accattivante. Questa commedia parte bene e in modo spigliato, ma poi si adagia su un populismo semplicistico e prevedibile, anche perché quando cerca di fare qualcos'altro (vedi i momenti umoristici o la sottotrama romantica) fallisce miseramente per l'evidente mediocrità della scrittura. Alla fine la retorica populista fa il giro completo e, nel finale, diventa anti-populista (il discorso di Peppino agli italiani, in cui li accusa di essere loro il problema, prima ancora dei politici corrotti): ma di fatto è populismo anche quello, proprio come qualcuno che vuol essere anticonformista a tutti i costi è in realtà il più conformista di tutti. Kasia Smutniak è l'inflessibile vice segretario generale del Quirinale. Giuseppe Fiorello, Massimo Popolizio e Cesare Bocci i leader dei tre principali partiti (di destra, di centro e di sinistra, ma di fatto alleati e indistinguibili fra loro). Gianni Cavina è "il signor Fausto", a capo dei servizi segreti deviati. Lina Wertmüller, Pupi Avati, Gianni Rondolino e Steve Della Casa, in un cameo, sono "i poteri forti". Il film è stato girato in gran parte a Torino e in Val di Susa.

29 dicembre 2021

Don't look up (Adam McKay, 2021)

Don't Look Up (id.)
di Adam McKay – USA 2021
con Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence
*1/2

Visto in TV (Netflix), con Sabrina.

Il professore di astronomia Randall Mindy (Leonardo DiCaprio) e la sua dottoranda Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) scoprono che una gigantesca cometa, dal diametro di dieci chilometri, è in rotta di collisione con la Terra e colpirà il pianeta entro sei mesi, minacciando di estinguere ogni forma di vita. Cercano allora di lanciare l'allarme, ma il mondo è troppo stupido per capirlo. I loro tentativi si scontrano infatti con l'ottusità dei politici – a cominciare dal presidente degli Stati Uniti, Janie Orlean (Meryl Streep) – e l'indifferenza del pubblico, interessato solo a gossip e vacuità varie. Pastrocchio senza capo né coda, funestato da fastidiosissimi cambi di registro: il progetto iniziale, con ogni probabilità, era quello di fare solo una satira politica, puntata soprattutto verso l'amministrazione Trump, con i suoi slogan, la cecità (motivata da interessi e cinismo) di fronte a emergenze globali come i cambiamenti climatici, e la discutibile gestione del pubblico e del privato (nepotismo compreso: il segretario di stato (Jonah Hill) è il figlio del presidente). Ma essendosi la lavorazione del film protratta in piena pandemia di Covid-19, la satira è finita inevitabilmente per rivolgersi verso la situazione attuale, l'emergenza sanitaria appunto (basta sostituire il virus con la cometa!), con tutto il corredo di negazionisti, complottisti o semplicemente persone che prendono le decisioni sbagliate per ignoranza, incomprensione del pericolo, diffidenza verso la scienza, o desiderio di autodistruzione. Il che sarebbe anche valido, intendiamoci: ma sceneggiatura e regia, oltre a mancare di ogni sottigliezza (e rendendo così fastidiosa la divisione fra chi sa la verità e chi rifiuta di vederla, ovvero "buoni" e "cattivi"), non sembrano nemmeno capaci di mantenere lo stesso taglio per più di dieci minuti: e così si passa da momenti che sembrano uscire da "Idiocracy", dove tutti sono incredibilmente stupidi, ad altri che vorrebbero essere "seri" e toccanti, come gran parte del finale; e gli stessi personaggi (quello interpretato da DiCaprio in primis) oscillano in continuazione da un estremo all'altro, senza una personalità chiara. Il tutto ricorda un altro (brutto) film, "Mars attacks", che aveva gli stessi difetti: un mix di registri che alla lunga spiazza lo spettatore. Immaginatevi un "Dottor Stranamore" con scene toccanti o ispirazionali nel finale: che ci azzeccano? Il vasto cast – ci sono anche Mark Rylance (la parodia di Steve Jobs/Elon Musk), Cate Blanchett (la giornalista tv), Timothée Chalamet (lo skateboarder), Ron Perlman (il militare astronauta), Ariana Grande (praticamente sé stessa), Himesh Patel (l'ex di Kate) e altri ancora – serve solo a far numero: l'unico che recita intensamente è DiCaprio, gli altri sono macchiette. Il titolo del film ("Non guardate sopra" nei dialoghi italiani: perché non intitolare anche la pellicola così?) è lo slogan usato dal presidente Orlean e dei suoi seguaci per negare l'esistenza della cometa.

30 maggio 2021

Catherine (A. Dieudonné, J. Renoir, 1924)

Catherine, aka Une vie sans joie
di Albert Dieudonné [e Jean Renoir] – Francia 1924
con Catherine Hessling, Louis Gauthier
*1/2

Visto su YouTube.

Impiegata come domestica presso una famiglia alto-borghese, in una cittadina di provincia nel sud della Francia, l'orfana Catherine (Hessling) viene scacciata di casa dopo la morte del suo padrone Maurice (Albert Dieudonné), l'unico che provava affetto per lei. Vivrà di stenti e di espedienti fino a quando non sarà accolta da un politico (Louis Gauthier) che la assume come segretaria, nonostante le maldicenze che vorrebbero farla passare come sua amante, e che per lei non esiterà a mettere a repentaglio la propria carriera. Melodramma a sfondo sociale, poco più di un feuilleton dai toni patetici e morali (l'attacco è all'ipocrisia e al falso moralismo delle classi agiate), questo film muto non sarebbe altro che una curiosità se non rappresentasse l'esordio dietro la macchina da presa di Jean Renoir, figlio del pittore Pierre-Auguste, che scrisse appositamente la sceneggiatura per sua moglie Andrée Heuchling (ex modella del padre, che qui recita con un nome d'arte) e che sul set "non poteva trattenersi dall'intervenire continuamente nella regia" (come scrive lui stesso nella sua autobiografia). Molte scene sono state girate a Nizza. Renoir stesso interpreta il sotto-prefetto. Cinematograficamente è interessante la sequenza finale, anche se avulsa dal resto della pellicola, in cui la povera Catherine si trova a bordo della carrozza di un tram lanciato a tutta velocità verso un burrone. Il titolo "Une vie sans joie" è quello della riedizione del 1927, dopo che una battaglia legale aveva attribuito la paternità del film al solo Dieudonné, accreditando Renoir come aiuto regista.

15 aprile 2021

Evita (Alan Parker, 1996)

Evita (id.)
di Alan Parker – USA 1996
con Madonna, Antonio Banderas, Jonathan Pryce
***1/2

Rivisto in DVD.

Questo adattamento cinematografico dell'omonimo musical di Tim Rice (testi) e Andrew Lloyd Webber (musiche), incentrato sulla vita della leggendaria "first lady" argentina Evita Perón, colpisce innanzitutto per gli interpreti. Nelle tre parti principali (le uniche di rilievo, peraltro) troviamo la cantante pop Madonna, non nuova a prove cinematografiche (non sempre ben accolte dalla critica: per questo ruolo, invece, vinse a sorpresa il Golden Globe come attrice), e due attori che danno ottima prova di sé anche come cantanti, l'accalorato spagnolo Antonio Banderas (in un ruolo "multiplo": il musical originale lo accredita come Che Guevara, ma nel film è semplicemente un testimone ubiquo delle vicende della protagonista, alle quale assiste e che commenta – spesso con toni caustici, distaccati o critici – lungo tutto l'arco della sua vita, nei panni di volta in volta di barista, giornalista, contadino, contestatore, ecc.) e il flemmatico britannico Jonathan Pryce (nei panni di Juan Domingo Perón). Ma non è da sottovalutare l'approccio scelto dal regista Alan Parker (non nuovo ai film musicali, avendo già diretto "Saranno famosi" e "Pink Floyd – The Wall", e che ha preso il posto di Oliver Stone, inizialmente legato al progetto), che rinuncia del tutto alla via del "teatro filmato" (tipica di molte pellicole di questo tipo, basti pensare al "Jesus Christ Superstar" tratto da un altro lavoro di Lloyd Webber) in favore di quella cinematografica. "Evita" sembra un film che si svolge nelle strade e nei luoghi reali, non su un palcoscenico. E le immagini accompagnano in modo appropriato ogni cambio di mood della colonna sonora, valorizzando la musica (e venendone valorizzate a loro volta), grazie anche all'ottima ricostruzione storica, alle scene di massa, e all'eccellente fotografia (di Darius Khondji) dai colori caldi e luminosi. Come a sottolineare la natura cinematografica dell'opera, si comincia proprio nella sala di un cinema, nell'Argentina del 1952, quando la proiezione viene interrotta per dare la notizia della morte (a soli 33 anni: come Gesù!) di Evita. E dopo le immagini dell'immenso e sontuoso funerale di stato, con un flashback torniamo indietro a raccontare l'infanzia della nostra protagonista, seguita dalla sua lenta scalata verso il successo e la gloria. L'obiettivo è quello di analizzare come nasce un'icona sociale, senza tralasciare – anche se restano in secondo piano – le questioni politiche (si mostrano le proteste di piazza, la repressione, il fascismo peronista, il torbido passato della stessa ragazza).

Per molti versi Evita è una figura simile al Gesù di "Jesus Christ Superstar", con tanto di connotati religiosi (il suo popolo la venera come una santa), l'ascesa e il calvario, nonché la presenza di un personaggio (lì Giuda, qui il Che) che la osserva dall'esterno e si interroga – o fa interrogare noi spettatori – sulla sua vera natura nel grande schema delle cose, la sua personalità, i suoi desideri, le sue ambizioni. Certo, in assenza di questioni teologiche-metafisiche, la lettura qui è più semplice: la classica ragazza povera che sogna il riscatto e il successo ("La più grande arrampicatrice sociale dopo Cenerentola"), utilizzando ogni mezzo a propria disposizione e, in particolare, il fascino che esercita sugli uomini. Nella prima fase del film, dunque, assistiamo alla sua scalata sfruttando chi credeva di sfruttare lei (dal cantante Magaldi a un fotografo di moda, dal proprietario di una radio a un ufficiale dell'esercito: tutti uomini che vengono sedotti e abbandonati uno dopo l'altro), fino a raggiungere l'obiettivo finale: il colonnello Perón, che proprio grazie a lei diventerà presidente-dittatore dell'Argentina (grazie a una campagna dai toni populisti ma incredibilmente efficaci: la stessa Evita lo presenta alle masse più umili affermando "È uno di voi. Altrimenti come potrebbe amare me?", e in generale la sua salita verso il cielo è vista come il riscatto di tutti gli oppressi, i "descamisados"). La seconda parte ci narra di Evita al potere, del duro scontro con la realtà, dell'amore del popolo e dell'odio delle classi agiate, e infine della malattia e della morte (con la veglia davanti alla Casa Rosada), ricongiungendosi con l'incipit. Quasi privo di dialoghi (tanto da non essere mai stato doppiato in italiano: è uscito anche in sala semplicemente con i sottotitoli), il film si appoggia sulla bellissima colonna sonora dalla vena melodica (anche se non mancano occasionali dissonanze), con influenze latine e rock, ricca di brani iconici come la celeberrima "Don't Cry for Me, Argentina" (il cui tema è preannunciato sin dall'inizio, in "Oh, What a Circus": in generale molte melodie vengono introdotte e poi riprese più volte), "Another Suitcase in Another Hall" (che viene fatta cantare ad Evita, a differenza del musical originale dove era riservata all'amante di Perón), "I'd Be Surprisingly Good For You", "High Flying Adored", "Rainbow High". Webber e Rice hanno anche composto una canzone espressamente per il film, "You Must Love Me", che si è aggiudicata l'Oscar (l'unico vinto dalla pellicola, su cinque nomination). Curiosità: Alan Parker interpreta, in una breve scena, il regista che dirige Evita in una delle sue prove d'attrice.

11 febbraio 2021

La guerra lampo dei fratelli Marx (Leo McCarey, 1933)

La guerra lampo dei fratelli Marx (Duck soup)
di Leo McCarey – USA 1933
con Groucho, Chico e Harpo Marx
****

Rivisto in DVD.

In cambio del suo sostegno finanziario alle disastrate casse di Freedonia, la ricca vedova Gloria Teasdale (Margaret Dumont) ottiene che il primo ministro venga esautorato e che a capo del governo venga posto un "uomo forte", vale a dire il suo protetto Rufus T. Firefly (Groucho Marx). Ma l'ambasciatore Trentino (Louis Calhern) del vicino stato di Sylvania, che progetta di annettere Freedonia, cerca di screditarlo, mettendogli due spie alle calcagna, gli inaffidabili Chicolini (Chico) e Pinky (Harpo). E le frizioni personali fra Firefly e Trentino porteranno i due paesi alla guerra... Forse il capolavoro dei fratelli Marx, insieme al successivo "Una notte all'opera": come nei lavori precedenti, la loro comicità anarchica, irriverente e spiazzante prende di mira (ridicolizzandoli) ambienti istituzionali caratterizzati da formalismo, seriosità e (apparente) integrità. Questa volta è il turno del mondo della politica e della diplomazia, in un setting da operetta che allude ai governi autoritari (con tutto il contorno di retorica patriottistica, pericolosamente propedeutica alla guerra) che in quegli anni stavano prendendo piede in Europa e nel mondo (motivo per cui la pellicola venne proibita o censurata in stati come la Germania e l'Italia). La guerra vera e propria occupa invece soltanto gli ultimi dieci minuti del film (nonostante il titolo italiano la faccia salire in primo piano; quello originale, "Zuppa d'anatra", è un termine gergale americano per indicare un compito facile da eseguire, e prosegue il trend di riferimenti "animali" nei titoli dei film dei fratelli Marx dopo "Monkey business" e "Horse feathers"; da notare che il titolo "Duck soup" era già stato usato nel 1927 per un cortometraggio muto con Laurel e Hardy che proprio il regista Leo McCarey – qui alla sua unica collaborazione con i Marx – aveva supervisionato).

Ultimo film girato dal gruppo di comici con la Paramount, prima di passare alla MGM, è anche l'ultimo in cui appare Zeppo, il quarto fratello (il quinto se contiamo Gummo, che non ha mai recitato in nessun film), con un ruolo decisamente minore rispetto agli altri tre (è il segretario personale di Groucho, come già era in "Animal crackers", ma scompare per quasi tutto il film prima di riapparire nelle sequenze finali). Le trovate paradossali e le gag surreali non si contano: attorniati da personaggi irresistibilmente "seri" e perennemente vittima delle loro irriverenti trovate, i nostri eroi sono buffoni che si prendono gioco di tutti. Groucho è come sempre una fucina di battute: "Prenda una carta... Può tenerla, ne ho altre 51"; "Faccia finta di niente, ma c'è un uomo di troppo in questa stanza e penso che sia lei"; "C'è una risposta a quel messaggio?" – "No signore" – "Bene, in questo caso non lo mandare"; e la celeberrima "Guardate quest'uomo... Parla come un idiota e sembra un idiota, ma non lasciatevi ingannare: è veramente un idiota" (senza contare quelle rivolte specificatamente alla Dumont, come "Devono averla vaccinata con una puntina di grammofono", peraltro ripresa da una vecchia striscia di Topolino; oppure "La vedo già in cucina, piegata sul forno... ma non riesco a vedere il forno"). E non dimentichiamo l'assurdo indovinello "Cos'è quella cosa che ha quattro paia di pantaloni, abita a Filadelfia e non piove ma diluvia?". Chico ribatte a tratti da par suo ("Se vi trovano, siete perduti" – "Ma che dici, se ci trovano come ci perdono?"): da ricordare il suo rapporto sull'attività di spionaggio ("Martedì andiamo alla partita ma lui ci inganna: non viene... Mercoledì lui va alla partita ma l'inganniamo noi: non ci andiamo...").

Harpo, infine, nei panni del suo solito personaggio muto, punta su una comicità fisica e slapstick. A parte le innumerevoli gag sugli oggetti che tira fuori dalle tasche (fra cui una forbice con cui taglia sigari, vestiti e piumaggi troppo lunghi, e la vasta gamma di trombette con cui "comunica"), è protagonista di svariati siparietti che sembrano uscire dalle comiche mute (come gli "scontri" a base di dispetti reciproci con il venditore ambulante di limonate (Edgar Kennedy), degni degli short di Stanlio e Ollio), senza dimenticare le scene in cui guida il sidecar e quella (surreale nel vero senso della parola) in cui un cane esce dalla casetta tatuata sul suo petto. Sono assenti stavolta numeri musicali, a parte alcune canzoni: ma l'unica veramente memorabile è l'inno di Freedonia ("Hail, hail Freedonia, land of the brave and free"). Detto ciò, è quando i tre fratelli sono in scena contemporaneamente che si raggiungono vette elevatissime. La sequenza più leggendaria è quella dello specchio rotto, dopo che Chico e Harpo si sono travestiti da Groucho (in fondo bastano occhiali, sigaro e baffi finti!) per rubare i piani di guerra. Si tratta di una delle scene più esilaranti e celebri della filmografia dei Marx, anche se l'idea era già stata usata in passato da Harold Lloyd e da Max Linder (e sarà riproposta più volte in seguito, per esempio in un cartoon di Bugs Bunny o nel film "Affari d'oro" con Bette Midler e Lily Tomlin). Quanto alla "guerra lampo" che conclude la pellicola, essa è ovviamente confusa, catastrofica, nonsense e ridicola, e con un epilogo improvviso con tanto di sberleffo finale. Raquel Torres è Vera Marcal, la seducente ballerina che a sua volta è una spia al servizio di Sylvania. La sceneggiatura è opera di Bert Kalmar e Harry Ruby, ma diversi dialoghi provengono dal repertorio dei Marx (come quelli scritti da Arthur Sheekman e Nat Perrin per la trasmissione radiofonica di Groucho e Chico "Flywheel, Shyster and Flywheel").

23 dicembre 2020

The party (Sally Potter, 2017)

The party (id.)
di Sally Potter – GB 2017
con Kristin Scott Thomas, Timothy Spall
***

Visto in TV.

Per festeggiare la propria nomina a ministro ombra della salute per il partito di opposizione, Janet (Kristin Scott Thomas) invita a cena in casa propria un gruppo ristretto di conoscenti: l'amica cinica e disillusa April (Patricia Clarkson) con il marito tedesco Gottfried (Bruno Ganz), "life coach" e filosofo new age; l'attivista lesbica e femminista Martha (Cherry Jones) con la sua giovane compagna Jinny (Emily Mortimer); e la collega di partito Marianne con suo marito, il banchiere Tom (Cillian Murphy). Ma nell'attesa che Marianne (che è in ritardo) si presenti, una serie di annunci e confessioni da parte degli altri ospiti cambia repentinamente il tono della serata: dall'imminente separazione fra April e Gottfried, all'attesa di tre gemelli (grazie alla fecondazione artificiale) da parte di Martha e Jinny. Infine prende la parola Bill (Timothy Spall), il marito di Janet, colui che l'ha sempre sostenuta, che rivela di avere una grave malattia e di voler trascorrere i suoi ultimi giorni non con lei, ma con la sua amante, ovvero Marianne... Di impianto teatrale, ambientato tutto fra quattro mura e con soli sette (ottimi) attori, il film è una cinica black comedy sulle relazioni interpersonali fra un gruppo di persone, esponenti di un'elite intellettuale, che si scoprono preda di quelle passioni e quei difetti ai cui credevano di essere immuni. E così rapporti pluridecennali di amore, di amicizia, di fiducia e di rispetto si svelano fragili o si frantumano nel giro di una serata, così come valori e convinzioni politiche, sociali o religiose vengono messi alla prova in maniera crudele (non senza un po' di compiacimento da parte di una regista che si diverte ad esporre alla berlina la presunta superiorità morale di certi personaggi). Siamo dalle parti, per intenderci, del "Carnage" di Roman Polanski, verso il quale ci sono affinità stilistiche e tematiche. Curiosa ma efficace la breve durata (solo 70 minuti), che consente di mantenere i giusti tempi fino all'improvviso colpo di scena finale, nonché la scelta di uscire al cinema in bianco e nero (ma in tv passa anche una versione a colori). Il titolo (che in inglese ha un doppio senso: può significare "la festa" ma anche "il partito") è identico a quello originale di "Hollywood Party" di Blake Edwards.

14 novembre 2020

La leggenda del cacciatore di vampiri (T. Bekmambetov, 2012)

La leggenda del cacciatore di vampiri
(Abraham Lincoln: Vampire Hunter)
di Timur Bekmambetov – USA 2012
con Benjamin Walker, Dominic Cooper
*1/2

Visto in divx.

In gioventù, prima di diventare presidente degli Stati Uniti, Abramo Lincoln ha combattutto contro i vampiri a colpi di ascia d'argento per vendicare sua madre. E più tardi, durante la guerra civile, dovrà affrontarli nuovamente, anche perché si sono alleati con gli schiavisti e minacciano di scendere in campo al fianco dell'esercito sudista durante la battaglia di Gettysburg. Premessa assurda (che trasforma un eroe della nazione in un eroe d'azione) per un film sopra le righe, tratto da un romanzo di Seth Grahame-Smith (anche sceneggiatore) che gioca ad aggiungere elementi horror all'interno di storie o vicende classiche, sulla falsariga di "Orgoglio e pregiudizio e zombie" dello stesso autore, per il puro gusto di farlo. Il risultato è purtroppo molto meno divertente del previsto, dato che manca del tutto l'ironia (a meno di volerla trovare in frasi del tipo "Dobbiamo decidere se questa nazione appartiene ai vivi o ai morti"), forse per non correre il rischio di lesa maestà. Se il parallelo fra gli schiavisti e i vampiri permette di portare avanti la vicenda (la lotta contro entrambi è la fonte di motivazione per il protagonista), i dialoghi didascalici, la caratterizzazione dei personaggi e la concatenazione degli eventi sono a livello elementare, per non parlare della fusione fra temi fantastici e ambientazione storica (lontana anni luce dalle vette sofisticate, per esempio, de "Il labirinto del fauno" di Del Toro). E se passiamo sopra i riferimenti a personaggi ed eventi storici, siamo di fronte a una pellicola horror e fantastica non particolarmente coinvolgente, anche se va dato atto al regista russo (che ben conosciamo dai tempi de "I guardiani della notte", qui al secondo film hollywoodiano dopo "Wanted") di saper creare ottime atmosfere e sequenze d'azione originali e visivamente interessanti (su tutte l'incredibile lotta in mezzo alla mandria di cavalli selvaggi e il combattimento finale sul treno in corsa, nella nebbia, e poi su un ponte in fiamme). Dominic Cooper è il vampiro buono Henry Sturgess, che addestra Lincoln a diventare "cacciatore". Mary Elizabeth Winstead è la moglie Mary Todd. Nel cast anche Anthony Mackie, Jimmi Simpson e i "cattivi" Marton Csokas, Rufus Sewell ed Erin Wasson. La pellicola è prodotta, fra gli altri, da Tim Burton. Pessimo e pavido il titolo italiano, che sceglie di omettere proprio l'elemento più distintivo e interessante del film, ovvero l'identità del protagonista.

5 novembre 2020

Borat 2 (Jason Woliner, 2020)

Borat - Seguito di film cinema. Consegna di portentosa bustarella a regime americano per beneficio di fu gloriosa nazione di Kazakistan
(Borat Subsequent Moviefilm: Delivery of Prodigious Bribe to American Regime for Make Benefit Once Glorious Nation of Kazakhstan)
di Jason Woliner – USA 2020
con Sacha Baron Cohen, Marija Bakalova
**

Visto in TV (Prime Video), con Sabrina.

Dopo quattordici anni (trascorsi ai lavori forzati per aver disonorato l'immagine del Kazakistan con il suo film precedente), Borat Sagdiyev viene nuovamente inviato negli Stati Uniti d'America: questa volta non per fare un reportage, ma per consegnare un "dono" agli uomini della cerchia ristretta del presidente Trump (dapprima il suo vice Michael Pence, e poi l'avvocato Rudy Giuliani) e far entrare così il presidente kazako nelle sue grazie. Tale dono avrebbe dovuto essere "Johnny la scimmia", ma Tutar (Bakalova), la figlia di Borat, si sostituisce all'animale: e sarà dunque la ragazza ad accompagnare il protagonista nel suo viaggio. Distribuito in streaming in tempo di pandemia, il canovaccio è lo stesso del film precedente: un collage di "candid camera" in cui il finto giornalista kazako stuzzica individui e gruppi di persone con il suo comportamento offensivo e politicamente scorretto (è oltraggioso, razzista, maschilista). Problema: il personaggio di Borat e le sue fattezze sono ormai ben noti al grande pubblico (come lo stesso film fa notare), e dunque Sacha Baron Cohen deve ricorrere a ulteriori travestimenti per non farsi riconoscere, mandando avanti in qualche occasione la "figlia" a seminare scompiglio fra la gente. Inoltre, nella pellicola originale la continua presenza delle telecamere era giustificata perché si diceva che si stava girando un documentario per la tv kazaka, mentre stavolta è difficile considerare plausibile la ripresa delle scene (anche da più angolature). In alcuni casi (vedi l'episodio con Giuliani nella camera d'albergo) erano presenti telecamere nascoste o addirittura telefonini, ma in altri? Più schierato politicamente del precedente, il film fa complessivamente meno ridere, forse perché la spalla è meno indovinata ma soprattutto perché le reazioni della gente paiono più anestetizzate (se le provocazioni sono fin troppo scoperte, le idee assurde di Borat cadono nel vuoto o vengono addirittura condivise da chi gli sta di fronte), con un finale che – a parte il twist sull'origine del coronavirus, degno de "I soliti sospetti" – è all'insegna della mutata sensibilità sociale nell'epoca del #MeToo. Memorabili comunque alcune sequenze (la visita nella clinica antiabortista, la "danza della fertilità" al ballo delle debuttanti, l'irruzione al comizio di Pence con Borat travestito da Trump) e la descrizione – praticamente documentaristica – di certi ambienti della profonda provincia americana (come la "fiera" dei negazionisti del Covid). Fra le curiosità: scopriamo che il secondo nome di Borat è Margaret. A differenza del primo film, stavolta il titolo italiano è sgrammaticato come l'originale.

10 ottobre 2020

Loro (Paolo Sorrentino, 2018)

Loro (aka Loro 1 e Loro 2)
di Paolo Sorrentino – Italia/Francia 2018
con Toni Servillo, Riccardo Scamarcio
**

Visto in divx.

Dopo il film anticonvenzionale che aveva firmato su Giulio Andreotti ("Il divo", nel 2008), Sorrentino si occupa stavolta di Silvio Berlusconi, proseguendo nel portare sul grande schermo (con una "rielaborazione e reinterpretazione in chiave strettamente artistica", come sottolinea precauzionalmente la didascalia introduttiva) le figure più importanti della cronaca e della politica dell'Italia del ventesimo secolo, trasfigurandole a suo modo in chiave pulp e post-moderna. Anche in questo caso, però, l'impressione è che si badi soprattutto all'estetica e alle frasi ad effetto, e che manchi una riflessione non superficiale sul personaggio e sul suo impatto sulla società e la politica italiana (che invece c'era, per esempio, anche nel film di Nanni Moretti "Il caimano"). Berlusconi è ritratto nella sua vita privata, quasi sempre all'interno della villa di Porto Rotondo in Sardegna: siamo attorno al 2008, dunque già negli anni del suo declino, quando cominciano a filtrare i primi scandali sessuali e il matrimonio con Veronica Lario (Elena Sofia Ricci) entra in crisi. Uscito nelle sale diviso in due parti (ma come già nei casi di "Novecento" e "Nymphomaniac", si tratta a tutti gli effetti di un unico film, tanto che in seguito è stata resa disponibile una versione unificata, sia pure con qualche taglio), il lungometraggio reca un titolo curioso, "Loro". Va ovviamente contrapposto a "Lui", come è chiamato Berlusconi nella parte iniziale della pellicola da chi non vuole farne apertamente il nome, rievocando ovviamente un altro celebre "lui" della politica italiana, Benito Mussolini. "Loro" sono tutti quelli che, per lo più per interesse, gravitano attorno a Berlusconi (il titolo francese del film è ancora più esplicito: "Silvio et les autres"), ovvero l'entourage che lo circonda, una corte di "nani e ballerine" che lo sfruttano e ne vengono sfruttati in un mercimonio di potere e di sesso. Fra di essi ci sono figure reali (Mariano Apicella, Noemi Letizia, Ennio Doris, Fedele Confalonieri) e immaginarie (ma in cui si possono facilmente riconoscere personaggi autentici, come Lele Mora, Walter Lavitola, Sandro Bondi, Sabina Began o Daniela Santanché), fra cui spicca Sergio Morra (Riccardo Scamarcio), evidentemente ispirato a Gianpaolo Tarantini, imprenditore pugliese che cerca di entrare nelle grazie di Silvio sfruttando la sua passione per le donne e organizzando una festa a base di ragazze "disinibite" nella sua villa in Sardegna. Berlusconi stesso (interpretato da un sempre ottimo Servillo, vera e propria "maschera" dal perenne sorriso, che parla con cadenza brianzola e canta in napoletano) entra in scena solo dopo un'ora della prima parte (40 minuti nella versione "unificata"), relegando di colpo Scamarcio sullo sfondo e non abbandonando più il centro dell'attenzione. Siamo negli anni del declino, abbiamo detto, in cui il rapporto con Veronica si è irrimediabilmente incrinato, in cui Silvio è politicamente confinato all'opposizione (ma riuscirà a far cadere il governo di centrosinistra grazie alla compravendita di parlamentari), in cui la noia e la stanchezza sono mitigate per l'appunto dalle "cene eleganti".

Costruito su una serie di scenette episodiche e slegate l'una dall'altra (la migliore è probabilmente quella dell'incontro con Ennio Doris, interpretato anch'esso da Servillo che così dialoga con sé stesso, seguita dalla telefonata in cui Silvio – spacciandosi per l'agente immobiliare "Augusto Pallotta" – intende dimostrare a sé stesso di essere ancora il "venditore più bravo di tutti"), che accatastano personaggi macchiettistici, il film si concentra su vari aspetti del personaggio Berlusconi ma non riesce mai a scalfirne la superficie, mostrandocelo evasivo nei momenti chiave (il dialogo con Veronica, ma anche quello con la giovane Stella (Alice Pagani), l'unica che gli resiste). Sorrentino sembra quasi voler giustificare questa mancanza di analisi, dichiarando esplicitamente che in Silvio non c'è più di quello che appare ("La sinistra non riesce a mettermi a fuoco, pensa che tutto sia sempre complesso, e invece è tutto così elementare"). Eppure il regista non sembra nemmeno provarci, e si limita a mostrare la sua megalomania, la sua volgarità, la decadenza, lo sfoggio di ricchezza e potere, la sua ossessione per le donne e il sesso (anche se le ragazze – cui dona, come un marchio, il ciondolo della farfallina – sono tutte rifatte, anoressiche o grossolane, mai – con l'eccezione appunto di Stella – genuinamente "belle"). Qua e là si butta comunque un sassolino, come quando si afferma che Silvio "fa battute e pagliacciate perché afflitto da un grande complesso di inferiorità". Dopo altre scene slegate dal resto (la rielezione, il terremoto all'Aquila, l'incontro con Mike Buongiorno), il film si conclude all'improvviso, quasi random e anticlimaticamente, mostrandoci un Silvio che aziona il suo tanto celebre vulcano finto, all'interno della villa in Sardegna, quando è da solo. E Scamarcio? dimenticato. La lunghezza della pellicola, e il parallelo con personaggi ed eventi reali, può certamente lasciare qualcosa allo spettatore, ma nel complesso mi è parso un film inutile, uno sfoggio di stile che a livello artistico e tecnico, beninteso, è sempre bello o quantomeno interessante, ma che non offre nulla che non si fosse già visto nei lavori precedenti di Sorrentino (e con qualche citazione da "The Wolf of Wall Street" di Scorsese): siamo quasi di fronte a un lungo videoclip, a una sorta di portfolio o demo, con sequenze accompagnate da una colonna sonora che abbina la musica di Lele Marchitelli con varie canzoni pop (ma ci sono anche "Domenica bestiale" di Fabio Concato, cantata da lui stesso, e "Voi che sapete" da "Le nozze di Figaro" di Mozart, per non parlare delle canzoni napoletane intonate da Servillo/Berlusconi, fra cui "Malafemmena"; e non poteva mancare ovviamente "Meno male che Silvio c'è"). Un film in fondo innocuo, che infatti è passato quasi inosservato (niente scandali, sollevazioni o processi) e che, a distanza di soli due anni, già pochi ormai si ricordano. La sua colpa, forse, è anche quella di essere uscito quando ormai Berlusconi è già lentamente scivolato fuori dall'attenzione e dalla vita politica italiana, dopo una sovraesposizione multidecennale che ci ha resi tutti un po' stanchi e poco propensi a interessarci nuovamente al personaggio e a tutto ciò che lo circonda. Nel cast anche Dario Cantarelli (il maggiordomo vestito di bianco), Kasia Smutniak (Kira/Began), Euridice Axen (la moglie di Morra), Fabrizio Bentivoglio (Santino/Bondi), Roberto De Francesco (Sala/Mora), Anna Bonaiuto (Cupa/Santanché) e Ricky Memphis (Pasta/Lavitola).

18 settembre 2020

Herzog incontra Gorbaciov (W. Herzog, 2018)

Herzog incontra Gorbaciov (Meeting Gorbachev)
di Werner Herzog [e André Singer] – Germania/GB/USA 2018
con Werner Herzog, Mikhail Gorbaciov
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Documentario sulla vita e l'esperienza politica di Mikhail Gorbaciov, l'ultimo presidente dell'URSS, che contribuì in maniera fondamentale alla fine della Guerra Fredda con le sue riforme incentrate sulla perestrojka ("ristrutturazione") e la glasnost ("trasparenza"). Queste, basate sull'innovazione dell'economia e dell'agricoltura, sulla maggior apertura al mondo e alla democrazia, sullo smantellamento dell'arsenale nucleare, non si concretizzarono fino in fondo, però, per via della dissoluzione dell'Unione Sovietica, che avvenne con tempi molto più rapidi di quanto lui aveva previsto, estromettendolo di fatto da ogni carica nel 1991, quando tutte le ex repubbliche sovietiche dichiararono l'indipendenza. Il regista tedesco Werner Herzog lo ha incontrato in tre occasioni nell'arco di sei mesi per intervistarlo: e dalle loro lunghe chiacchierate, integrate con video e materiali di repertorio, nasce questo ritratto a 360 gradi che illustra l'intera vita dell'uomo politico, dalle umili origini in un villaggio di campagna alla scalata nei ranghi del partito comunista (dove si differenziava da tutti gli altri per le idee innovative, la visione allargata e le capacità di cogliere lo spirito del tempo), dal periodo delle riforme (in cui trasformò il rapporto dell'URSS con l'Occidente e gli Stati Uniti, lavorando al dialogo e al disarmo nucleare) a momenti chiave come la catastrofe di Chernobyl o il colpo di stato dell'agosto 1991, fino a un bilancio del panorama odierno, a proposito del quale l'ex capo di stato non nasconde una certa amarezza per il ritorno dei nazionalismi e l'attuale ricrescita della tensione fra USA, Russia e Cina. Herzog – che ammira Gorbaciov anche perché si deve in gran parte a lui, in fondo, la riunificazione della Germania – si fa quasi da parte, lasciando i riflettori all'ex segretario del PCUS (il titolo originale, a differenza di quello italiano, non menziona il regista) e lo rende protagonista di un ritratto che scava nell'uomo più che nel politico, tratteggiandolo come una "figura tragica": il risultato è una pellicola narrativa e umanistica prima che documentaristica o giornalistica, che ne celebra le gesta ma ne sottolinea anche il dolore per la morte della moglie o il rammarico e il pentimento per alcuni errori di valutazione commessi.

23 marzo 2020

L'ora più buia (Joe Wright, 2017)

L'ora più buia (Darkest Hour)
di Joe Wright – GB/USA 2017
con Gary Oldman, Lily James
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

L'ora più buia non è solo quella dell'Inghilterra (e dell'Europa tutta) di fronte alla minaccia nazista (il film è ambientato nel maggio 1940, durante le prime fasi del secondo conflitto mondiale), ma anche quella personale di Winston Churchill (un irriconoscibile Gary Oldman, premiato con l'Oscar), nominato primo ministro da pochi giorni e già messo sotto pressione dai membri del suo stesso partito e del gabinetto di guerra (segnatamente dall'ex premier Neville Chamberlain e soprattutto dal visconte Halifax, segretario di stato per gli affari esteri), che davanti all'inarrestabile offensiva di Hitler insistono affinché il Regno Unito accetti la proposta di mediazione italiana e intavoli colloqui di pace con il Terzo Reich. La pellicola si svolge tutta fra l'8 maggio, alla vigilia delle dimissioni di Chamberlain dalla carica di primo ministro, e il 30 dello stesso mese, quando Churchill ottiene la fiducia del parlamento e l'appoggio a continuare la guerra. In mezzo, fra le altre cose, c'è la prima grande crisi del conflitto, con i soldati britannici in suolo francese circondati dalle truppe tedesche e destinati all'annientamento: saranno salvati grazie all'Operazione Dynamo, con l'evacuazione da Dunkerque per mezzo di una flotta di imbarcazioni civili (come raccontato, di recente, nel film "Dunkirk" di Christopher Nolan). Battaglie e azioni belliche non sono però mai mostrate sullo schermo: qui la guerra è tutta vista da una prospettiva interna, attraverso gli scontri di personalità fra Churchill e i membri del suo gabinetto dalle stanze sotterranee o dal parlamento a Westminster, e mediante i timori, i dubbi e le incertezze di chi è costretto a prendere decisioni difficili e impopolari (che spesso possono costare migliaia di vite umane) ma necessarie se non si vuole capitolare davanti a un nemico spietato. Certo, il senno di poi rende facile capire chi avrà ragione e chi torto, se sia stato giusto proseguire la guerra a ogni costo e rinunciare a ogni compromesso col nemico. Non manca pertanto un pizzico di agiografia e di retorica (anche più di un pizzico in scene come quella nella metropolitana, dove Churchill interpella direttamente la gente comune). E la grande maestria registica sembra a volte nascondere uno sfoggio di stile fine a sé stesso. In ogni caso, al netto di alcune semplificazioni o concessioni alle esigenze narrative, la ricostruzione storica è ottima, così come la fotografia e il cast. Kristin Scott Thomas è la moglie Clementine, Lily James è la (nuova) segretaria Elizabeth, Stephen Dillane è Halifax, Ronald Pickup è Chamberlain, Ben Mendelsohn è re Giorgio VI (quello de "Il discorso del re"). La pellicola ebbe sei nomination agli Oscar (compreso miglior film), vincendo anche quello per il trucco. Qualche dubbio sulla qualità del doppiaggio italiano, che non rende giustizia al protagonista.

9 marzo 2020

The front runner (J. Reitman, 2018)

The Front Runner - Il vizio del potere (The Front Runner)
di Jason Reitman – USA 2018
con Hugh Jackman, Vera Farmiga
**

Visto in divx.

La (vera) storia dello scandalo che nel 1988 pose fine alla candidatura del senatore Gary Hart nelle primarie del partito democratico per la presidenza degli Stati Uniti, dove i sondaggi lo davano come il favorito ("the front runner", appunto). Dopo aver sfidato i giornalisti, che lo sospettavano di una tresca extraconiugale, a "seguirlo giorno e notte", alcuni di questi lo presero in parola, portando così alla luce una sua scappatella con una giovane avvocatessa di Miami. Nel giro di pochi giorni, Hart fu costretto a ritirarsi dalla corsa alla presidenza e la nomination passò a Dukakis, che perse poi contro Bush. Di impianto corale, il film racconta la vicenda da molteplici punti di vista: quello di Hart stesso (interpretato da Hugh Jackman), che però è sempre stato assai laconico sulla propria vita privata; quello della sua famiglia, in particolare la moglie Lee (Vera Farmiga), messa sotto assedio dalle attenzioni dei media; quello dei membri del suo comitato elettorale, guidato da Bill Dixon (J.K. Simmons); e quello dei tanti giornalisti che gli gravitano attorno. Più che sull'evento stesso, la pellicola intende lanciare una riflessione sul tema della privacy dei personaggi pubblici, in particolare dei politici, quando i pettegolezzi sulla loro vita privata diventano preponderanti, sui media, rispetto alle loro idee e al loro lavoro. Questo perché, come spiega uno dei giornalisti, la morbosità viene direttamente dal pubblico, che non perdona ai propri rappresentanti il minimo strappo all'immagine di integrità che essi stessi si sforzano con ogni mezzo di trasmettere. In tutto questo c'è naturalmente tanta ipocrisia, a partire dall'ossessione tutta americana (e dalla fobia puritana) per e contro il sesso, dove una presunta scappatella ha più risalto delle idee politiche e dei contenuti di una campagna elettorale (comunque imperniata sull'immagine: si commenta che già solo l'aspetto o il taglio di capelli di un candidato può fruttargli parecchi punti nei sondaggi). A suo modo, in fondo, è un film di denuncia. Peccato però che, a parte qualche scena o momento interessante (come quelli che riguardano A.J. Parker (Mamoudou Athie), il giovane giornalista idealista che pone ad Hart la domanda fatidica), nel complesso il film sia moderatamente piatto e noioso, incapace di scavare a fondo nella materia di cui tratta, anche perché la figura di Hart resta elusiva e anonima. Nel vasto cast anche Alfred Molina (che interpreta Ben Bradlee, il celebre direttore del "Washington Post"), Sara Paxton (Donna Rice), Mark O'Brien e Molly Ephraim.

18 novembre 2019

Z - L'orgia del potere (Costa-Gavras, 1969)

Z - L'orgia del potere (Z)
di Costa-Gavras – Algeria/Francia 1969
con Jean-Louis Trintignant, Yves Montand
***

Visto in divx, con Marisa.

In una nazione europea non precisata (ma si tratta della Grecia degli anni sessanta, appena prima dell'insediamento della dittatura dei colonnelli), un deputato dell'opposizione pacifista e di sinistra (Yves Montand) giunge in città per tenere un comizio. Nonostante avesse ricevuto minacce di morte, la polizia non fa nulla per impedire che venga colpito alla testa, in piena strada, da alcuni manifestanti di estrema destra. A indagare su quello che vuol essere fatto passare per un "incidente" è un giovane ma solerte magistrato (Jean-Louis Trintignant), che grazie anche alle tracce fornitegli da un giornalista (Jacques Perrin), e nonostante i tentativi di depistaggio e le intimidazioni, scopre una rete di complicità che coinvolge persino il generale a capo della polizia (Pierre Dux), organizzatore dell'attentato perché convinto che il paese sia minacciato da una "infezione ideologica" che deve essere combattuta preventivamente. La didascalia introduttiva annuncia: "Ogni somiglianza con avvenimenti reali, persone morte o vive non è casuale. È volontaria". E infatti la pellicola, pur non facendo nomi espliciti e mantenendo la sua ambientazione in un'ambiguità che la rende universale, racconta con dovizia di particolari gli eventi che circondarono l'assassinio del deputato Grigoris Lambrakis, avvenuto nel 1963, poco prima del colpo di stato. Quando fu realizzata, tanto lo scrittore Vasilis Vasilikos (dal cui romanzo è tratta) che il regista Costa-Gavras vivevano in esilio all'estero, mentre il compositore Mikis Theodorakis, autore della colonna sonora, era addirittura agli arresti domiciliari (e le sue musiche erano vietate in patria). Atto d'accusa contro gli abusi, le manipolazioni e l'arroganza di un potere violento e prevaricatore, ma costruito come un giallo o un thriller, non privo di suspense e nemmeno di un certo umorismo satirico, e dunque assai accattivante anche per uno spettatore poco interessato ai retroscena politici, il film – frutto di una collaborazione internazionale: fu prodotto dalla Francia ma venne girato in Algeria – vinse l'Oscar come miglior film straniero e il Premio della giuria al Festival di Cannes, e divenne uno dei lungometraggi militanti più emblematici del periodo, oltre che il lavoro più celebre di Costa-Gavras. Il cast corale comprende anche Irene Papas (la moglie del deputato, un ruolo perlopiù muto), Renato Salvatori (il guidatore del furgoncino), Charles Denner, Bernard Fresson e Jean Dasté. La voce narrante nel finale spiega il significato del titolo: la lettera "Z" si pronuncia come "È vivo" in greco antico (Wikipedia riporta che "a seguito dell'omicidio Lambrakis, la lettera veniva scritta per protesta sui muri per ricordare il deputato ucciso"). La versione italiana, forse intimorita da un titolo costituito da una sola lettera, vi aggiunge un sottotitolo (com'era già avvenuto per "M" di Fritz Lang). Christos Sartzetakis, il magistrato al quale si ispira il personaggio di Trintignant, diventerà Presidente della Grecia dopo la caduta della dittatura.

19 settembre 2019

Adults in the room (Costa-Gavras, 2019)

Adults in the room
di Costa-Gavras – Grecia/Francia 2019
con Christos Loulis, Alexandros Bourdoumis
**1/2

Visto al cinema Anteo, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Un resoconto dei primi sei mesi del governo Tsipras in Grecia (da gennaio a luglio 2015), raccontati in una docu-fiction che si concentra soprattutto sulla figura del combattivo ministro delle finanze Yanis Varoufakis (Christos Loulis) e sulle sue estenuanti trattative con i suoi omologhi europei, i membri dell'Eurogruppo e le istituzioni economiche del Vecchio Continente (la cosiddetta "Troika": Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale), nel tentativo di rinegoziare il debito ellenico e uscire dall'austerità. Comincia con la sera delle elezioni e termina con le dimissioni del ministro dopo che Tsipras accettò di firmare il memorandum d'intesa con l'Europa messo a punto dal precedente governo, nonostante il popolo greco avesse manifestato la propria opposizione con un referendum. Ma la parte principale del film illustra le negoziazioni, le trattative e gli scontri dialettici che avvengono all'interno delle stanze segrete dell'Eurogruppo, mostrando con sarcasmo e cinismo tutto il lato "nascosto" della politica, dove le dichiarazioni in privato contraddicono totalmente quelle in pubblico, dove gruppi di alleanze e di rivalità si formano e si disfano dietro le quinte, dove si dibatte per ore (se non per giorni) su una singola parola o un particolare aggettivo da inserire in un comunicato ufficiale, dove smuovere qualcuno dai propri principi ideologici sembra impossibile, dove le esigenze reali delle persone e dei popoli perdono di significato rispetto a teorie economiche senza base concreta. E nel finale, la pellicola si fa surreale con il "balletto" che viene imposto a Tsipras dai suoi colleghi: adeguarsi o morire. Era difficile rendere appetibile o accattivante un argomento di questo tipo: c'era riuscito Adam McKay con "La grande scommessa", e tutto sommato ci riesce anche Costa-Gavras (anche se in questo caso, più che di economia, si parla di politica, e più specificatamente dell'arte della contrattazione), sfornando un political thriller coinvolgente e moderno, sia pure dalla struttura un po' ripetitiva al suo interno. La regia si sofferma soprattutto sulle grandi stanze, gli enormi palazzi, i corridoi vuoti, dentro i quali si decidono le sorti dell'Europa e di popoli che spesso non hanno alcuna voce in capitolo. Il film è tratto da un libro dello stesso Varoufakis ("Adulti nella stanza. La mia battaglia contro l'establishment dell'Europa"), il cui cognome non è peraltro mai pronunciato durante la pellicola, così come quello di quasi tutti i personaggi, che vengono chiamati soltanto per nome. Compreso il "cattivo", Wolfgang (Ulrich Tukur), che naturalmente è tedesco: si trattava del ministro Wolfgang Schäuble. Alexandros Bourdoumis è Alexis Tsipras. Particina per Valeria Golino (la moglie di Varoufakis). Il titolo proviene da una frase detta da Christine (Lagarde), direttrice del FMI, durante un battibecco fra i ministri: "Servirebbero degli adulti in questa stanza".

10 luglio 2019

La Cina è vicina (M. Bellocchio, 1967)

La Cina è vicina
di Marco Bellocchio – Italia 1967
con Glauco Mauri, Elda Tattoli
**1/2

Visto in divx.

Pur di famiglia ricca e aristocratica, il professor Vittorio Gordini (Glauco Mauri) accetta di candidarsi come assessore per il partito socialista alle imminente elezioni amministrative del comune in cui risiede (mai nominato, ma il film è stato girato a Imola), fra le perplessità della sorella Elena (Elda Tattoli), che anziché alla politica preferisce dedicarsi agli affari di famiglia e ai suoi numerosi amanti, e l'aperta ostilità del fratello minore Camillo (Pierluigi Aprà), membro di una cellula clandestina maoista. Ma dietro le quinte della campagna elettorale, ribollono vicende sentimentali e interessi privati: Vittorio, non corrisposto, è invaghito di Giovanna (Daniela Surina), sua segretaria e di fatto domestica di casa, che invece ama il ragionier Carlo (Paolo Graziosi), il militante socialista al quale proprio Vittorio ha sottratto la candidatura e che, attratto dalla sua ricchezza, metterà incinta Elena nella speranza di farsi sposare. Al suo secondo film dopo "I pugni in tasca", Bellocchio (con la "collaborazione artistica" di Elda Tattoli) torna a raccontare l'intimità di una famiglia (stavolta nella provincia romagnola, anziché piacentina), mettendo sotto la lente d'ingrandimento soprattutto le numerose contraddizioni della politica, della società e della morale italiana. Le ideologie si svuotano e perdono significato (gli slogan dei giovani "cinesi" sembrano scioglilingua fini a sé stessi, le loro azioni sono poco più che goliardate), quando non votate ad ambizioni o interessi del tutto personali (il sesso, la ricchezza); destra e sinistra si confondono, il socialismo è solo una scusa per il proprio trasformismo mentre il comunismo più spinto convive con gli ambienti conservatori e clericali (Camillo fa il chierichetto e lavora per la curia; Carlo ricorre a un amico prete per impedire a Elena di abortire; Vittorio chiede alle religiosissime zie zitelle di appoggiare la propria candidatura). E mentre tutti sembrano interpretare un ruolo (soprattutto l'ipocrita e pragmatico Carlo), quelli che nella loro ingenuità sono davvero sinceri (come è in fondo Vittorio) rimangono vittime delle circostanze: alla fine si deve raggiungere un compromesso per sopravvivere (o tirare a campare). Forse meno dirompente o memorabile del lungometraggio d'esordio, il film – che vinse il premio speciale della giuria a Venezia e il cui titolo (lo slogan che Camillo e i suoi amici scrivono sui muri della sede dei socialisti) è preso in prestito da un libro del giornalista Marco Emanuelli – ha comunque molti momenti interessanti, non privi di una certa ironia: il coro dei bambini stonati per il prelato sordo, il tragicomico comizio in piazza che finisce in rissa, gli "attentati" con la bomba o con cani e gatti. A differenza del cinema politico italiano di quegli anni, non c'è attenzione per le battaglie sociali, i movimenti operai o studenteschi e, appunto, le idee maoiste nel merito, ma solo per le contraddizioni interne a un nucleo familiare (peraltro sui generis: nessun genitore ma tre fratelli, con il maggiore a fare quasi da padre per il minore). La fotografia è di Tonino Delli Colli. Fra i gli amici di Camillo si riconosce Alessandro Haber. Nella colonna sonora (di Ennio Morricone) si sentono anche le canzoni "29 settembre" di Lucio Battisti e "Poesia" di Don Backy.

20 maggio 2019

Il vento e il leone (John Milius, 1975)

Il vento e il leone (The Wind and the Lion)
di John Milius – USA 1975
con Sean Connery, Candice Bergen
*1/2

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Nel 1904, in un Marocco in cui l'autorità del sultano è destabilizzata dalle potenze coloniali straniere, il predone berbero el-Raisuli (Sean Connery) rapisce una donna americana, Eden Pedecaris (Candice Bergen), e i suoi due figli, portandoli con sé nel deserto e scatenando l'ira del presidente Theodore Roosevelt (Brian Keith), che si prende a cuore la faccenda. Mentre l'iniziale ostilità dei rapiti verso el-Raisuli si tramuta man mano in fascinazione e affetto, le truppe americane giungono in Marocco, trovandosi ingabbiate in una ragnatela di intrighi diplomatici e politici, e la tensione cresce fino all'orlo di una guerra. Tratto in parte da una storia vera (che riguardava però un uomo di origine greca, Ion Perdicaris, e non una donna), un fumettone d'avventura ingenuo ed epico ma anche assai noioso, almeno quando sono in scena il protagonista e la donna rapita, anche per via di un mood non ben definito (non si capisce mai se il tutto sia da prendere sul serio o meno) e di tante scene implausibili. Oltre alla prestanza e al carisma di Connery, a spingere Eden e i due figli a simpatizzare progressivamente per il loro rapitore è una sorta di sindrome di Stoccolma, visto che l'analisi delle sue motivazioni politiche (la lotta contro i colonialisti stranieri) è del tutto superficiale. Più interessante la dinamica del confronto a distanza fra Roosevelt e el-Raisuli (sono loro due il “vento” e il “leone” del titolo), che – pur non incontrandosi mai di persona (il presidente non lascia gli Stati Uniti, impegnato com'è nella campagna per la rielezione, nelle trattative per la costruzione del canale di Panama, e nelle sue attività venatorie) – condividono un reciproco rispetto, nonché l'amore per le armi e gli animali selvatici (come l'orso grizzly che il presidente fa impagliare e collocare allo Smithsonian). Naturalmente gli americani (anche se guerrafondai) sono buoni e i tedeschi sono cattivi. Nonostante le premesse, la violenza è sempre tenuta da Milius rigorosamente fuori inquadratura. John Huston è il segretario di stato John Hay, Steve Kanaly il capitano Jerome.

10 dicembre 2018

Il proiezionista (Andrei Konchalovsky, 1991)

Il proiezionista (The Inner Circle)
di Andrei Konchalovsky – Russia/Italia/USA 1991
con Tom Hulce, Lolita Davidovich
**1/2

Visto in divx.

Nel 1939, alla vigilia della seconda guerra mondiale, Ivan Sanchin (Tom Hulce) diventa il proiezionista privato di Iosif Stalin al Kremlino, dove avrà l'occasione di conoscere da vicino tutti gli "eroi della rivoluzione" che tanto ammira e idolatra. Rimarrà a far parte di questa "cerchia ristretta" fino al 1953, anno della morte di Stalin, quando finalmente si renderà conto della reale portata di quel "culto della personalità" che ha caratterizzato il suo paese (lui stesso, in un misto di ingenuità politica e furore patriottico, fino a poco prima affermava di amare Stalin più della propria moglie). Ispirata alla storia vera di Aleksander Ganshin, ancora vivo all'epoca in cui il film fu girato, la pellicola intreccia le vicende personali con quelle storiche, portando sullo schermo tutta l'atmosfera di paranoia e di delazione, dove ogni scusa era buona per denunciare un vicino di casa, un collega o persino un ufficiale come traditore o "nemico del popolo" (esemplare la scena iniziale in cui i Gubelmann, vicini di casa di Sanchin e della moglie Anastasia, vengono arrestati solo perché ebrei: la loro figlioletta Kayja, rinchiusa in un orfanotrofio, diventerà la ragione di vivere di Anastasia, e più avanti l'ancora di salvezza dello stesso Ivan). L'ottima ricostruzione storica e l'intensa prova di Hulce reggono fino in fondo un film al quale si può perdonare un pizzico di melodramma di troppo (nelle scene con la bambina), e che ha il merito di offrire uno sguardo inedito, umano e intimista, sulla dittatura e gli uomini che l'hanno guidata. Aleksandr Zbruyev è Stalin, Bob Hoskins è Beria, il capo del KGB. Fra i film che Stalin e gli altri membri del governo si fanno proiettare in privato da Sanchin, oltre a cinegiornali e pellicole di propaganda, ci sono soprattutto musical e commedie occidentali (come "Il grande valzer" di Duvivier).

6 gennaio 2018

Tutti gli uomini del re (R. Rossen, 1949)

Tutti gli uomini del re (All the King's Men)
di Robert Rossen – USA 1949
con John Ireland, Broderick Crawford
***

Visto in divx.

Il giornalista Jack Burden (Ireland) si lascia affascinare, come tutti, dal politico ruspante e populista Willie Stark (Crawford). Capirà troppo tardi che per Stark il fine giustifica ogni mezzo, e che il potere inevitabilmente corrompe. Da un romanzo (premio Pulitzer) di Robert Penn Warren, ispirato alla vita di Huey Long, governatore della Louisiana negli anni trenta (subito dopo la grande depressione), un lungometraggio che fece incetta di Oscar (fra cui quello per il miglior film) e conquistò la critica e il pubblico. Più che Burden, che funge semplicemente da punto di vista (anche morale) degli spettatori, al centro della pellicola c'è sempre la vitale e ingombrante figura di Stark, che da contadino semplice ma già ambizioso arriva a farsi eleggere governatore grazie alle sue crociate contro gli sprechi e agli accorati discorsi a favore del popolo. In effetti Stark è assai diverso dai suoi predecessori, e realizza molte delle sue promesse elettorali, modernizzando il paese e costruendo strade, scuole, ospedali. Ma non è esente a sua volte dalla tentazione di ricorrere a mezzi sporchi, compresi scandali e ricatti per demolire i suoi avversari, per non parlare delle amicizie particolari e dei favoritismi (impone la presenza del figlio Tom (John Derek) nella locale squadra di football, per la quale costruisce anche un nuovo stadio: proprio come Kane faceva per la moglie, cantante d'opera, in "Quarto potere"). Nonostante i suoi difetti, la sua figura resta carismatica fino in fondo, tanto da attrarre verso di sé tutti coloro che lo circondano, compresa la sua assistente Sadie (Mercedes McCambridge) e persino Anne (Joanne Dru), fidanzata di Jack, sorella del medico Alan (Shepperd Strudwick) e nipote dell'unico uomo che gli si oppone, l'integerrimo giudice Stanton (Raymond Greenleaf). Iconico ritratto del populismo e della demagogia della politica, il film (il cui titolo deriva da un verso di una nota filastrocca inglese per bambini, "Humpty Dumpty") divenne a tal punto un simbolo della corruzione del potere che il titolo stesso fu "riadattato" nel 1976 per la pellicola sul Watergate ("Tutti gli uomini del presidente"). Pare che John Wayne, al quale era stata proposta la parte di Stark, la rifiutò ritenendo la sceneggiatura antipatriottica: Crawford, che lo sostituì, vinse l'Oscar come miglior attore battendo proprio il Duca (che era stato nominato per "Iwo Jima, deserto di fuoco"). Fondamentale il contributo al montaggio di Robert Parrish, che dona coerenza, ritmo e vitalità al girato di Rossen, anche a costo di eliminare molti dettagli (furono tagliate gran parte delle sottotrame sulla vita sentimentale di Willie) e di lasciarne altri nel vago (non si esplicitano i nomi dei partiti, delle correnti politiche e persino delle località in cui si svolge la storia: la capitale dello stato è una generica "Capital City"). Anche l'esatta portata delle amicizie e della corruzione di Willie è lasciata all'immaginazione dello spettatore, che – giudizi morali a parte – potrebbe benissimo solidarizzare con lui. Rifatto nel 2006 da Steven Zaillian con Sean Penn.