30 settembre 2018

Venezia e Locarno 2018 - conclusioni

Una rassegna senza guizzi, capolavori o titoli davvero memorabili, forse anche perché mancavano i film che a Venezia hanno ricevuto i premi principali (a partire dal Leone d'Oro "Roma"). Le cose migliori sono state il Pardo d'Oro di Locarno ("A land imagined" di Yeo Siew Hua), "Tramonto" dell'ungherese Lászlo Nemes e "Il fiume" del kazako Emir Baigazin. Gradevoli, benché leggerini, anche i lavori di Assayas ("Il gioco delle coppie"), Gipi ("Il ragazzo più felice del mondo") e Duprat ("Il mio capolavoro"). Gli asiatici non hanno deluso, ma soprattutto per gli aspetti estetici e stilistici: sia "Killing" di Tsukamoto che "Shadow" di Zhang Yimou aggiungono ben poco, come contenuti, alle rispettive filmografie. Mi aspettavo di più dalla pattuglia hollywoodiana, che ha puntato tutto sulle biografie e le storie vere: "First man" di Chazelle, "Van Gogh" di Schnabel e "BlacKkKlansman" di Spike Lee, comunque, si sono almeno dimostrati buoni prodotti d'intrattenimento, e una visione la meritavano. E poi c'è stato il recupero di "The other side of the wind", pellicola incompiuta di Orson Welles. Male, invece, "The nightingale" di Jennifer Kent, l'unico film davvero brutto fra quelli visti. Temi ricorrenti di molte pellicole: le storie vere, come detto, e in generale l'arte (la pittura de "Il mio capolavoro" e "Van Gogh", la scrittura de "Il gioco delle coppie", il cinema di "Il ragazzo più felice del mondo" e "The other side of the wind", il canto di "The nightingale", ma anche le arti marziali di "Killing" e "Shadow").

29 settembre 2018

Il mio capolavoro (Gastón Duprat, 2018)

Il mio capolavoro (Mi obra maestra)
di Gastón Duprat – Argentina/Spagna 2018
con Guillermo Francella, Luis Brandoni
**1/2

Visto al cinema Eliseo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

Arturo (Francella), proprietario di una galleria d'arte, cerca a fatica di tenere a galla il suo amico di lunga data Renzo Nervi (Brandoni), anziano pittore che non vende più un quadro, anche a causa del suo carattere burbero e scostante che lo porta a rifiutare ogni compromesso (come i lavori su commissione) o ad adeguarsi ai nuovi gusti del pubblico. Il rapporto fra i due amici si dipana fra alti e bassi, finché non hanno l'idea di fingere la morte dell'artista per far schizzare alle stelle l'interesse per i suoi dipinti (nonché il loro prezzo)... Dopo "Il cittadino illustre", Duprat presenta un'altra pellicola sul tema della creatività, dell'arte contemporanea e della percezione del suo valore. Più leggero e meno profondo del film precedente, il film diverte comunque grazie alla corrosiva satira del mondo dell'arte e per la simpatia e l'affiatamento dei due protagonisti (per non parlare di un pizzico di black comedy). I dipinti attribuiti a Renzo che si vedono nel film sono in realtà opera del pittore argentino Carlos Gorriarena. La sceneggiatura è scritta a quattro mani da Duprat con il fratello Andrés (direttore del museo nazionale delle belle arti di Buenos Aires), mentre Mariano Cohn – co-regista del lungometraggio precedente – figura solo come produttore.

28 settembre 2018

Shadow (Zhang Yimou, 2018)

Shadow (Ying)
di Zhang Yimou – Cina 2018
con Deng Chao, Sun Li, Zheng Kai
**1/2

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

Ambientato nell'epoca in cui la Cina era divisa in più regni, il film ha come protagonista Jing (Deng Chao), una "Ombra", ovvero un sosia perfetto che il comandante dell'esercito del regno di Pei utilizza come propria controfigura da quando versa in gravi condizioni di salute per via di una ferita inflittagli dal rivale Yang. Il comandante vorrebbe riconquistare la città di Jing, caduta in mano nemica, e utilizza il sosia per forzare la mano al proprio re (Zheng Ryan), che invece non intende rompere la tregua con quello che ora è un alleato. Uno spunto che ricorda il "Kagemusha" di Kurosawa (ma gli sviluppi sono differenti), complessi intrighi di corte, eleganti duelli all'arma bianca, e anche un sanguinoso finale shakespeariano in cui muoiono (quasi) tutti: nel nuovo film di Zhang Yimou c'è l'intero repertorio delle pellicole wuxiapian di ambientazione storica. Ma a rimanere impresso è lo stile estetico con cui è girato, a cominciare dalla tavolozza cromatica: se si eccettua il colorito roseo delle persone, la luce gialla delle candele e il rosso del sangue, tutto il film è praticamente in bianco e nero, una bicromia che caratterizza interni ed esterni, oggetti ed edifici, costumi e armature. Il bianco e nero richiama ovviamente la duplicità (bene/male, maschio/femmina, yin/yang), che si riflette anche nelle scenografie (i duellanti si battono sopra un enorme simbolo del tao) oltre che ovviamente nella trama, incentrata sul tema del doppio e dei tradimenti. Spettacolari, come al solito, le scene d'azione (dai duelli di addestramento fra il comandante e la sua ombra, interpretati peraltro dallo stesso attore, all'assalto alla città assediata), con combattimenti alquanto originali (l'ombrello utilizzato contro l'alabarda, i movimenti sinuosi femminili contro quelli rigidi maschili). Guan Xiaotong è l'indomita principessa, Sun Li la moglie del comandante, Wang Qianyuan il capitano Tian.

27 settembre 2018

The other side of the wind (Orson Welles, 2018)

The other side of the wind
di Orson Welles – USA/Iran/Francia 2018
con John Huston, Peter Bogdanovich
**1/2

Visto al cinema Anteo, con Daniela e Ciro, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

In occasione del suo settantesimo compleanno, un'eccentrica corte di fan, documentaristi, giornalisti, critici e collaboratori si riunisce nella villa del vecchio regista J. J. "Jake" Hannaford (John Huston). Durante la festa vengono proiettati alcuni spezzoni del suo ultimo film, "The other side of the wind", la cui lavorazione si è interrotta per mancanza di fondi e per la misteriosa scomparsa del giovane attore protagonista, John Dale (Bob Random). Orson Welles lavorò a questo film – nel quale recitano molti suoi amici e registi: non solo Huston, ma anche Peter Bogdanovich, Oja Kodar, Susan Strasberg, Norman Foster, Dennis Hopper, Paul Mazursky, Claude Chabrol, Tonio Selwart, Lilli Palmer, e tanti altri – dal 1970 al 1976, producendo oltre 100 ore di girato e cominciando a montarlo senza però mai arrivare a una versione finale. Dopo innumerevoli traversie artistiche, produttive e legali, la pellicola esce soltanto adesso – nelle sale e in tv – grazie a Netflix, con una colonna sonora di Michel Legrand e il montaggio di Bob Murawski (Welles è morto nel 1985). In parte metacinema (il personaggio di Hannaford, con le sue traversie produttive, assomiglia ovviamente allo stesso Welles, anche se il regista ha affermato di essersi ispirato a Ernest Hemingway), in parte satira (siamo di fronte a un nuovo "Hollywood party", che prende stavolta in giro la New Hollywood degli anni '70) e in parte parodia (il film nel film ricorda le atmosfere dei lavori di Antonioni, ma anche il cinema di exploitation e atmosfere surrealiste alla Dalì), la pellicola ondeggia fra la commedia, il dramma e il mockumentary, e affronta i temi della creazione artistica e dell'omosessalità repressa (quella di Hannaford che, invaghito del suo attore protagonista, nasconde le proprie pulsioni focalizzando invece il suo film sulle grazie della ragazza esotica (Oja Kodar) che lui insegue, e distraendo così – da buon prestigiatore – l'attenzione del pubblico). La molteplicità dei punti di vista si fa caotica ed espressiva, attraverso una miriade di immagini e frammenti che si fondono in un montaggio frenetico, l'alternanza fra colore e bianco e nero (nonché quella fra il widescreen, per il film nel film, e il 4:3), la camera a mano, i dialoghi incessanti e sovrapposti. L'insieme, nella sua sovrabbondanza e immensità, restituisce un affresco del frizzante e ipocrita sottobosco hollywoodiano, arricchito da immagini evocative, esplicite o simboliche: l'ultimo prodotto di un inarrivabile genio del cinema.

26 settembre 2018

The nightingale (Jennifer Kent, 2018)

The nightingale
di Jennifer Kent – Australia 2018
con Aisling Franciosi, Baykali Ganambarr
*1/2

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

Per inseguire l'ufficiale britannico (Sam Claflin) e i due soldati che l'hanno violentata e hanno ucciso suo marito e suo figlio, l'ex galeotta irlandese Clare (Franciosi) si fa guidare dall'aborigeno Billy (Ganambarr) fra i boschi della Tasmania del 1825 (che allora era una colonia penale a cielo aperto). Fra i due nascerà una sorta di solidarietà, in quanto entrambi hanno perso la propria famiglia per colpa degli inglesi. Un revenge movie forzato, melodrammatico, manipolatore e manicheo, oltre che inutilmente lungo. Anche perché la protagonista cambia idea e personalità ad ogni svolta, soltanto per rimandare l'inevitabile resa dei conti e prolungare l'inseguimento. Anche le ripetute scene di violenza e uccisioni appaiono gratuite, al solo scopo di mostrare quanto cattivi siano i cattivi. Alcuni critici americani avevano polemizzato quest'anno con la Mostra di Venezia perché in concorso c'era soltanto un film di una regista donna: ma dopo averlo visto si può ben dire che sarebbe stato meglio se non ci fosse stato nemmeno questo (che pure la giuria ha voluto premiare con un contentino). Buona comunque la parte centrale, quando sono in scena soltanto la protagonista e l'aborigeno, che in mezzo alla natura riescono a superare le rispettive diffidenze e a scoprire quanto abbiano in comune (a partire dal canto e dal soprannome: "usignolo" lei, "merlo nero" lui). Pretestuoso (e in fondo inutile) il formato 4:3.

25 settembre 2018

BlacKkKlansman (Spike Lee, 2018)

BlacKkKlansman (id.)
di Spike Lee – USA 2018
con John David Washington, Adam Driver
**

Visto al cinema Colosseo, con Daniela, in originale con sottotitoli (rassegna di Locarno).

La storia vera di Ron Stallworth (Washington), il primo poliziotto di colore assunto nel dipartimento di Colorado Springs, che negli anni '70 riuscì a entrare a far parte (ovviamente sotto copertura) della sezione locale del Ku Klux Klan, facendosi sostituire da un collega bianco, Flip Zimmerman (Driver), quando doveva incontrare gli altri membri faccia a faccia. Ispirandosi al libro di memorie scritto dallo stesso Stallworth, Spike Lee racconta la vicenda con toni da commedia, irridendo i razzisti di ieri e di oggi (presentati per lo più come psicopatici o disadattati), e concludendo addirittura la pellicola con un aggancio all'attualità (i disordini durante la marcia dei suprematisti bianchi a Charlottesville, e le frasi di Donald Trump sull'argomento). L'ambientazione negli anni settanta consente di citare esplicitamente la cultura dell'epoca, a partire dai film di blaxploitation come "Shaft", "Super Fly" o "Coffy", ma soprattutto di mostrare le tensioni razziali di una società che stava mutando rapidamente. Il registro non è sempre coerente, ondeggiando fra il realismo e la satira in maniera disuguale (vedi il montaggio in parallelo dei razzisti che si gustano "Nascita di una nazione" e i neri che rievocano un episodio di linciaggio): ma la pellicola stimola comunque riflessioni su orgoglio, appartenenza e identità. Washington (figlio di Denzel) non pare sempre a suo agio, anche perché sfoggia un'improbabile capigliatura afro, mentre il sempre bravo Driver è più convincente nel ruolo dell'infiltrato di origine ebrea. L'intera vicenda, se vogliamo, è una variazione del "Cyrano de Bergerac" (e di adattamenti come quello visto nel film "Un uomo in prestito"). Laura Harrier è Patrice, l'attivista delle Pantere Nere.

Il fiume (Emir Baigazin, 2018)

Il fiume (Ozen)
di Emir Baigazin – Kazakistan 2018
con Zhalgas Klanov, Eric Tazabekov
***

Visto al cinema Colosseo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

"Il fiume genera sempre desiderio, ma le sue acque sono pericolose". In una fattoria nella steppa kazaka, isolata e fuori dal mondo, vive una famiglia composta da padre, madre e cinque figli, tutti maschi. I ragazzi trascorrono le giornate lavorando e giocando in estrema semplicità e povertà, sotto la supervisione del maggiore di loro, Aslan, al quale il severo padre ha affidato l'educazione dei fratelli. La routine è interrotta dall'arrivo inatteso di un cugino di città, Kanat: un "extraterrestre", per come si presenta (giacca d'argento metallizzata, Segway, tablet che emette misteriosi e affascinanti suoni elettronici), o forse un diavolo (le fattezze sono androgine, dai capelli biondi agli abiti colorati e femminili), e come tale tentatore, che introduce rivalità e dissidi fra i membri della famiglia, spingendoli a stravolgere le poche regole con cui gestivano la propria vita. Nascono così nuovi desideri, delazioni, un'economia fondata sul baratto, e si perde l'innocenza. Con un grande talento visivo (il regista è anche direttore della fotografia) e uno stile sobrio, astratto e minimalista, la pellicola mette in scena un racconto di formazione metafisico e simbolico, dove il simbolo più potente di tutti è proprio l'ampio fiume che scorre in mezzo al deserto, dalle acque veloci e turbinose. Insieme ai precedenti film di Baigazin, "Lezioni d'armonia" e "L'angelo ferito", forma una sorta di trilogia. Suggestiva l'ambientazione: fino all'arrivo di Kanat, non sembra nemmeno di assistere a un film di ambientazione contemporanea, tanto sono scarne le scenografie e i costumi (muri bianchi, distese desertiche e rocciose, semplici abiti di tela).

24 settembre 2018

Killing (Shinya Tsukamoto, 2018)

Killing (Zan)
di Shinya Tsukamoto – Giappone 2018
con Sosuke Ikematsu, Yu Aoi
**1/2

Visto al cinema Eliseo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

Il ronin Mokunoshin Tsuzuki (Ikematsu), ospite di una famiglia di contadini, viene assoldato da un altro samurai senza padrone, il più anziano Sawamura (interpretato dallo stesso Tsukamoto), che intende portarlo nella capitale a combattere per lo Shogun. Ma prima che possano partire, vengono coinvolti in una sanguinosa faida con un gruppo di briganti che si sono accampati nei pressi del villaggio. E il giovane Tsuzuki, riluttante a uccidere senza motivo, dovrà fare i conti con la violenza che è insita nell'uomo, anche in quelli – come Sawamura – che sembrano all'apparenza più saggi. Con un budget bassissimo (pochi attori, una capanna e un bosco a fare da sfondo all'intera vicenda) e uno stile vibrante ed energico, ancora legato a quello dei primordi, Tsukamoto si dà al jidai-geki per riflettere sul significato della violenza e, in particolare, sull'atto dell'uccidere (a prescindere dalle ragioni). E mette in scena una tragedia universale, che comincia come "I sette samurai" ma poi prende tutt'altra piega, stravolgendo le certezze e le consuetudini del genere con lucidità e incisività. Se pure non dice nulla di particolarmente originale o di sconvolgente (che la violenza chiami altra violenza è risaputo, e anche che la ragione e il torto non sono distribuiti in maniera netta), il film riesce a trasmettere un profondo senso di inquietudine, lasciando infine lo spettatore vagare da solo in un mondo cupo e terribile. Yu Aoi è la ragazza, Tatsuya Nakamura il capo dei briganti, Ryusei Maeda il giovane contadino.

23 settembre 2018

Tramonto (László Nemes, 2018)

Tramonto (Napszállta)
di László Nemes – Ungheria 2018
con Juli Jakab, Vlad Ivanov
***

Visto al cinema Palestrina, con Sabrina, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Nel 1913, la giovane orfana Írisz giunge a Budapest con l'intenzione di farsi assumere nel prestigioso negozio di cappelli Leiter, fondato dai suoi genitori (morti in un incendio quando lei aveva solo due anni) e ora gestito dall'ambiguo signor Brill. Scoprirà di avere anche un fratello, lo sfuggente e misterioso Kálmán, bollato da tutti come un assassino e a capo di un gruppo di rivoltosi che intendono ribellarsi contro il potere austriaco, sabotando anche i festeggiamenti per l'anniversario del negozio stesso. Il secondo lungometraggio di Nemes è soltanto all'apparenza un thriller caotico e filosofico: in realtà, il piano individuale è uno specchio di quello sociale, politico e storico: e il continuo senso di smarrimento della protagonista, che non sa da che parte stare, che rimane invischiata in una ragnatela di enigmatici intrighi e che perde la propria identità (finendo per identificarsi con il fratello, anche nel ruolo di capo della rivolta), esemplifica la situazione dell'Ungheria, formalmente parte dell'impero austro-ungarico ma di fatto soggiogata ai voleri dei sovrani di Vienna (qui i regnanti e gli ufficiali di lingua tedesca fanno il bello e il cattivo tempo, e sono un concentrato della corruzione dell'etica e della moralità di fine impero). Il negozio di cappelli Leiter, espropriato e usurpato, è così una metafora della nazione magiara (sottomessa e privata delle proprie radici): per riconquistare la propria identità e la libertà sarà prima necessario spazzare via tutto con una rivolta violenta. Il continuo parallelo fra il contesto personale e quello storico arricchisce a dismisura un film già complesso di suo, ricco esteticamente e stilisticamente: c'è chi ha criticato il fatto che la regia ricalchi la trovata del lavoro precedente di Nemes, "Il figlio di Saul", che incollava la macchina da presa al protagonista (sempre in primo piano o visto di nuca, seguito con lunghi piani sequenza) e lasciava sfocati e confusi gli eventi sullo sfondo. In effetti, se lì serviva a mantenersi isolati dall'orrore, qui la scelta sembra meno giustificata, ma in realtà illustra tutta l'incertezza e lo smarrimento in un bivio epocale, il "tramonto" (come da titolo) di un mondo che dietro l'eleganza e la raffinatezza della moda e i fasti dell'impero nascondeva una tragedia pronta a scoppiare. Anzi, l'esplosivo era già piazzato, bastava soltanto accendere la miccia. Non a caso la pellicola termina mostrandoci una trincea della prima guerra mondiale, l'evento che segnerà compiutamente la fine di quel "mondo di ieri" tanto caro a Stefan Zweig: una trincea dove la stessa Írisz rivedrà forse Kálmán e si ricongiungerà finalmente con la propria parte mancante, quella parte di cui – in assenza appunto del fratello – aveva dovuto farsi carico. Forse Nemes tira troppo la corda (la lunghezza del film è un po' eccessiva), ma gli spunti, come detto, sono notevolissimi: uno su tanti, il distorcimento della fiaba di Cenerentola (il principe che sceglie la più bella delle ragazze al ballo per portarla con sé a palazzo, e le fa addirittura togliere le scarpe, anche se non certo per metterle una scarpetta di cristallo). Nella colonna sonora spicca il quartetto "La morte e la fanciulla" di Schubert.

22 settembre 2018

First man - Il primo uomo (D. Chazelle, 2018)

First man - Il primo uomo (First man)
di Damien Chazelle – USA 2018
con Ryan Gosling, Claire Foy
**1/2

Visto al cinema CityLife Anteo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

La vita di Neil Armstrong, il primo uomo sulla Luna, raccontata dal 1961 (appena prima di entrare, da pilota collaudatore e ingegnere civile, nel programma spaziale della NASA) allo storico allunaggio del 20 luglio 1969. Dopo i fasti di "La La Land", Chazelle (e Gosling) tornano "sulla terra" (si fa per dire) con una pellicola dall'impostazione decisamente classica, un film biografico senza troppi guizzi, che si trattiene proprio nel mettere in scena la figura principale. L'Armstrong interpretato da Gosling (con la sua solita inespressività) è un personaggio ai limiti dell'autistico: dedito al suo lavoro, preciso e silenzioso, incapace di stringere relazioni con coloro che lo circondano, che si tratti di superiori, colleghi o familiari. E così al film manca un vero appiglio emotivo: c'è giusto quello, fornito all'inizio, della morte per malattia della figlioletta Karen, un lutto che Neil porterà silenziosamente dentro di sé per i tanti anni a venire (e che sublimerà gettando in un cratere lunare proprio il braccialetto della bambina). Anche gli altri astronauti, peraltro, non escono brillantemente dalla sceneggiatura di Josh Singer: vedi Buzz Aldrin (Corey Stoll), per esempio, ritratto come un cazzone insensibile, mentre Mike Collins è a malapena citato. Dove invece il film ha i suoi pregi è nella rappresentazione del difficile e travagliato percorso che – attraverso le missioni Gemini e Apollo – ha portato l'uomo sulla Luna: un percorso fatto di esperimenti e fallimenti, di prove ed errori (con tanto di morti, come le tre vittime dell'incendio dell'Apollo 1), di cui la pellicola è una fedele testimonianza, a partire dall'insistenza sui materiali e le tecnologie dell'epoca (lamiere cigolanti, viti e bulloni, capsule tutt'altro che "fantascientifiche"). E dunque proprio il fascino e l'avventura dell'esplorazione spaziale sono i fattori che tengono incollato allo schermo lo spettatore, forse un po' annoiato, nelle sequenze finali dell'allunaggio e della camminata sulla superficie del satellite: "Un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l'umanità", appunto. In negativo, da mettere in conto i soliti cliché sull'ansia della moglie rimasta a casa, un tipo di personaggio di cui sembra proprio impossibile fare a meno in questo tipo di film. Non male invece (e per nulla scontata) la colonna sonora di Justin Hurwitz. Jason Clarke è Ed White, Kyle Chandler è Deke Slayton, Ciarán Hinds è Gene Kranz.

Fratelli nemici (David Oelhoffen, 2018)

Fratelli nemici – Close enemies (Frères ennemis)
di David Oelhoffen – Francia/Belgio 2018
con Matthias Schoenaerts, Reda Kateb
**

Visto al cinema CityLife Anteo, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Quando lo spacciatore Imrane (Adel Bencherif), in procinto di vendere un grosso carico di cocaina, viene ucciso a tradimento da un misterioso sicario, il suo complice Manuel (Matthias Schoenaerts) e il poliziotto della narcotici Driss (Reda Kateb) decidono di unire le forze per indagare e rintracciare i responsabili. Anche perché provenivano tutti e tre dal medesimo quartiere alla periferia di Parigi, e un tempo erano amici fraterni... Una crime story realistica e d'atmosfera, costruita come un giallo e con due protagonisti che lavorano su fronti opposti ma hanno lo stesso obiettivo. Ottimi e intensi gli attori (in particolare Schoenaerts), e buona la regia, che descrive un sottobosco cupo e desolato, ma in sostanza la pellicola ha poco di originale da offrire e si limita a intrattenere per un paio d'ore, senza particolari sbavature (il che, comunque, non è da buttar via). Da notare l'insistenza sul tema della famiglia (e, di riflesso, sui legami e sui tradimenti): tutti, dal poliziotto ai delinquenti più incalliti, hanno figli, mogli, genitori, zii o parenti cui badare o da cui dipendere, e spesso anche i rapporti di amicizia entrano prepotentemente in gioco al pari dei legami di sangue, intrecciandosi inesorabilmente con gli affari e gli obblighi "professionali".

Il ragazzo più felice del mondo (Gipi, 2018)

Il ragazzo più felice del mondo
di Gipi – Italia 2018
con Gipi, Gero Arnone, Davide Barbafiera
**1/2

Visto al cinema CityLife Anteo (rassegna di Venezia).

Il fumettista Gipi, al secolo Gian Alfonso Pacinotti, scopre che da vent'anni qualcuno – spacciandosi per un ragazzino – invia lettere scritte a mano a tutti gli illustratori italiani, chiedendo loro un disegno. E con l'aiuto degli amici Gero (Arnone), Davide (Barbafiera) e Francesco (Daniele), oltre che del cameraman Andrea (che non si vede mai), decide di girare un film per raccontare questa storia (l'intenzione è quella di recarsi a casa del "fan", per smascherarlo ma anche per portargli in visita tutti i suoi fumettisti preferiti). Metacinema e metarealtà si fondono nel secondo lungometraggio dell'autore, che parte da una storia vera (confermata dalle interviste a diversi colleghi: fra questi Laura Scarpa ed Emiliano Mammuccari) per parlare di amicizia, di sogni e di felicità. Da un lato assistiamo alle vicissitudini produttive del gruppo di amici (i cui legami sono messi a dura prova quando proprio Gipi, cedendo alle lusinghe di una ricca casa di produzione, accetta di metterli da parte), dall'altro riflette in più modi sul valore e sul significato della felicità, per esempio attraverso l'importanza della gratificazione per chi fa un lavoro come il disegnatore, che dipende dal consenso altrui (e, in epoca digitale, deve difendersi dagli attacchi gratuiti e indiscriminati degli haters dei social network). Tanta ironia e tante battute divertenti, anche se a tratti la comicità va sul volgarotto (e Gipi, come al solito, non ha timore di esporre sé stesso, con tutte le sue fisime, al pubblico ludibrio). Mitici gli amici mammoni, che a fine avventura si scambiano le mamme. Fra i numerosi camei, nel ruolo di sé stessi, il produttore Domenico Procacci, l'editore Francesco Coniglio, le attrici Kasia Smutniak e Jasmine Trinca.

21 settembre 2018

Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità (J. Schnabel, 2018)

Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità (At eternity's gate)
di Julian Schnabel – USA/Francia 2018
con Willem Dafoe, Rupert Friend
**

Visto al cinema Colosseo, con Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Gli ultimi anni di vita di Vincent Van Gogh, ovvero il soggiorno nella "casa gialla" ad Arles, il ricovero nell'istituto psichiatrico di Saint-Rémy e l'ultimo periodo ad Auvers-sur-Oise. Ma a differenza di pellicole biografiche come "Brama di vivere", questo film è meno interessato a fornire una rappresentazione fedele degli eventi della vita del pittore (anzi, si prende parecchie libertà, dando corpo a "leggende" come il fatto non sia morto suicida, bensì ucciso per errore da due ragazzini che giocavano con un fucile), e più invece a rappresentare visivamente sullo schermo il suo febbrile stato d'animo e la frenesia della sua pittura (si spiega così la macchina da presa a mano, spesso ondeggiante, ai limiti del fastidioso). E soprattutto vuole leggere la figura di Van Gogh in chiave mistica e cristologica, con tanto di paragone con Gesù, anch'egli "incompreso" in vita. Un paragone che fa il pittore stesso, in modo esplicito e consapevole, nella scena – la più importante del film, ma forse anche quella con i dialoghi più brutti – in cui conversa con un prete (Mads Mikkelsen) mentre è ricoverato nell'istituto. Addirittura, al momento del funerale, Schnabel ci mostra gli invitati che, in presenza del suo cadavere, cominciano già lo "sciacallaggio" dei suoi dipinti. Se in primo piano c'è dunque l'arte di Van Gogh e la tecnica pittorica, viste come un mezzo per "raggiungere e rappresentare il divino" (ricordiamo che il regista stesso è un pittore, il che spiega l'attenzione a certi dettagli), il film sembra invece rinunciare a scavare nell'uomo: la discesa della follia non è spiegata o lasciata nel vago, e la rimozione del suicidio è gravemente indicativa, visto che annulla il senso di colpa e svuota di significato i rapporti con gli altri (da Gauguin alle donne al fratello Theo). Al limite Schnabel indugia a lungo nel mostrare il pittore che cammina per la campagna o che dipinge, portando così lo spettatore a perdersi nei propri pensieri (con il rischio di giocarsi spesso la loro attenzione). Tanta forma, dunque, ma poca sostanza: si pensi anche agli artifici visivi (la visione in soggettiva distorta) e uditivi (i dialoghi ripetuti e sfasati), che lasciano il tempo che trovano. Insomma, la pellicola non convince. Bravo comunque Dafoe, premiato a Venezia con la Coppa Volpi come miglior attore: ma Kirk Douglas, come Van Gogh, era decisamente più somigliante. Nel cast anche Oscar Isaac (Paul Gauguin), Rupert Friend (Theo), Mathieu Amalric (il dottor Gachet) ed Emmanuelle Seigner (madame Ginoux).

20 settembre 2018

Il gioco delle coppie (Olivier Assayas, 2018)

Il gioco delle coppie, aka Non-fiction (Doubles vies)
di Olivier Assayas – Francia 2018
con Guillaume Canet, Juliette Binoche
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Pellicola corale con cui Assayas riflette sulle trasformazioni del panorama editoriale – e culturale in generale – ai tempi di internet e del digitale. Alain (Guillaume Canet) è il curatore di una storica e prestigiosa casa editrice. Leonard (Vincent Macaigne) è uno scrittore che basa tutti i suoi romanzi su episodi autobiografici. Selena (Juliette Binoche), la moglie di Alain, è un'attrice che recita da anni in una fortunata serie televisiva. Valérie (Nora Hamzawi), la compagna di Leonard, è un'attivista politica che si dà da fare per sostenere un candidato populista. La giovane Laure (Christa Théret) viene assunta per occuparsi dello "sviluppo digitale" della casa editrice. Alta densità di dialoghi (è un film essenzialmente parlato, con una successione di scenette dall'impianto quasi teatrale) e vicende che si incrociano (con molti tradimenti: Alain diventa l'amante di Laure, Selena lo è di Leonard da anni), presentate con toni leggeri e spigliati, una forte ironia di fondo che scherza sugli intellettuali (e il modo di atteggiarvisi: vedi Leonard che nel suo romanzo finge di aver avuto un'esperienza sessuale durante la proiezione de "Il nastro bianco" di Haneke, quando invece è accaduto durante un film di "Star Wars") e affronta i temi del cambiamento nella comunicazione, presentando i punti di vista di tutti senza prendere posizione (il che può essere un pregio ma anche un difetto). Non tutti i personaggi sono sviluppati adeguatamente (bene Leonard, anche se è una figura un po' caricaturale e macchiettistica; meno convincente Alain, che pure è l'alter ego del regista): in fondo sono tutti intellettuali superficiali in ogni cosa che fanno (persino nell'amore e nei tradimenti, che non sfocieranno mai in tragedia). In ogni caso un film garbato e simpatico, ironico e mai gridato, benché alla resa dei conti abbia forse le polveri bagnate e non dica nulla di veramente interessante o sconvolgente sulla rivoluzione digitale in atto. Tante le strizzatine d'occhio (l'autocitazione di Juliette Binoche) e i riferimenti letterari, cinematografici o culturali (da "Luci d'inverno" di Bergman al "Gattopardo").

A land imagined (Yeo Siew Hua, 2018)

A land imagined
di Yeo Siew Hua – Singapore/Fra/Ola 2018
con Peter Yu, Liu Xiaoyi, Luna Kwok
***

Visto al cinema Colosseo, con Marisa e Daniela, in originale con sottotitoli (rassegna di Locarno).

A Singapore, in un cantiere di land reclamation ("terra sottratta al mare", ovvero un sito dove viene creata nuova terraferma attraverso l'importazione di sabbia), un poliziotto (Peter Yu) indaga sulla misteriosa scomparsa di un operaio di origine cinese (Liu Xiaoyi). I due uomini sono in qualche modo collegati, e non solo perché entrambi soffrono di insonnia. Forse sono l'uno il prodotto dell'immaginazione dell'altro, visto che si sognano a vicenda (con sfasamento temporale). E la pellicola, che mostra in parallelo le indagini dell'agente e gli eventi dell'ultima settimana dell'operaio, catapulta lo spettatore in un'atmosfera onirica e irreale. Siamo in un "mondo di mezzo", né terra né mare, dove il suolo è artificiale e coloro che ci lavorano (migranti dalla Cina, dal Bangladesh e di altri paesi poveri del sud-est asiatico) sono come fantasmi, privi di ogni diritto (i loro passaporti vengono "trattenuti" dai datori di lavoro, che li sfruttano sottopagandoli) e destinati, da un momento all'altro, a scomparire. Sono persone virtuali, come i personaggi di un videogioco o gli avatar delle chat in internet: non a caso sia Wang, l'operaio, che Lok, il poliziotto, finiscono con il trascorrere ripetutamente le loro notti nella saletta internet vicino al dormitorio del cantiere, gestita da una ragazza (Luna Kwok) che diventa uno dei loro pochi agganci con la realtà. "Una terra immaginata", recita il titolo: è la terra dei sogni, e come tale inesistente anche quando sembra concreta. A Singapore, la "terra sottratta al mare" conta già per il 20% della dimensione originale dell'isola, e un'ulteriore espansione è in corso. L'ottima regia, coadiuvata da una bella fotografia e da un'affascinante colonna sonora, catapulta lo spettatore in un panorama desolato e ipnotico, dove il tema della denuncia sociale è accompagnato da un gusto estetico che spazia da Antonioni ("L'avventura", un'altra storia di scomparsa) a Wong Kar-Wai. Pardo d'oro al Festival di Locarno.

19 settembre 2018

Venezia e Locarno 2018

Inizia oggi la consueta rassegna milanese con una selezione dei film presentati all'ultima Mostra del Cinema di Venezia. Dal programma mancano purtroppo le pellicole che hanno ottenuto i tre premi maggiori: il Leone d'Oro ("Roma" di Alfonso Cuarón, che bisognerà vedersi necessariamente su Netflix), il Gran Premio della Giuria ("La favorita" di Yorgos Lanthimos) e il Leone d'Argento per la miglior regia ("I fratelli Sisters" di Jacques Audiard). Presenti invece i lavori di Chazelle, Assayas, Schnabel, Tsukamoto, Nemes e Zhang, che conto di vedere nei prossimi giorni, più alcune pellicole provenienti anche da altri festival, come quello di Locarno (compreso il Pardo d'Oro "A land imagined" di Yeo Siew Hua). Stay tuned!

18 settembre 2018

Brama di vivere (Vincente Minnelli, 1956)

Brama di vivere (Lust for life)
di Vincente Minnelli – USA 1956
con Kirk Douglas, Anthony Quinn
***

Visto in divx.

Biografia di Vincent Van Gogh, il grande pittore olandese che per tutta la vita lottò con la nevrosi e l'irrequietezza, quel desiderio di riprodurre in immagini e in colori la realtà che lo circondava, cogliendo l'essenza delle cose anche se trasfigurate dalla propria visione. Tormentato, sensibile, solitario, in cerca di amore ma costretto a convivere con continui fallimenti e insuccessi, sia professionali che esistenziali, Van Gogh morì suicida a soli 37 anni, prima di essere riconosciuto dal mondo intero come quel genio che era. A interpretarlo c'è un Kirk Douglas incredibilmente calato nella parte, che somiglia moltissimo anche fisicamente all'artista. Assai fedele alle vicissitudini della vita di Van Gogh (è tratto dal romanzo di Irving Stone, a sua volta basato sulle lettere che il pittore scriveva al fratello Theo), il film può forse soffrire oggi per i dialoghi un po' troppo letterari e una sceneggiatura ingabbiata dal flusso degli eventi reali, ma riesce a trasmettere tutta la sensibilità e la grande libertà creativa del protagonista, grazie anche alla qualità delle immagini, con scenari che richiamano e riproducono sullo schermo i colori, le atmosfere e le fonti di ispirazione dei suoi dipinti. Si va dal periodo trascorso nel distretto minerario di Borinage (quando Van Gogh comincia a ritrarre nei suoi disegni le difficili condizioni di vita dei minatori, come farà poi con i contadini) a quello in città (prima ad Anversa e poi a Parigi, dove entra in contatto con i pittori impressionisti), dai rapporti con i familiari (difficile quello con il padre, un severo pastore protestante, molto stretto invece quello con il fratello Theo (James Donald), mercante d'arte che lo sosterrà sempre anche economicamente) ai due anni trascorsi ad Arles, in Provenza, dove lavorerà a getto continuo e realizzerà molti dei suoi capolavori (ritratti, scene in campagna, covoni, ponti, ciliegi, girasoli, interni della sua "casa gialla"). Dopo la visita di Paul Gaguin (Anthony Quinn), da lui enormemente ammirato ma con cui finirà per litigare, avrà un crollo nervoso, culminato nel taglio dell'orecchio. E infine la progressiva discesa nella depressione e nella follia, a malapena rallentata da un soggiorno in una casa di cura e poi presso la dimora del dottor Gachet (Everett Sloane) ad Auvers-sur-Oise. Dopo aver dipinto il celebre paesaggio con i corvi su un campo di grano, si toglierà la vita. Totalmente focalizzata sul personaggio, la pellicola mostra la genesi di molti suoi quadri e disegni, e scava nel suo animo tragico, nei suoi desideri e nelle sue frustrazioni: i momenti più interessanti, però, sono quelli della convivenza di alcune settimane ad Arles con Gauguin, con tutte le dinamiche di un'amicizia impossibile fra due artisti geniali ma che vedono il mondo (e l'arte) con occhi e idee diverse. Anthony Quinn, che interpreta proprio Gaguin, vinse l'Oscar come miglior attore non protagonista: l'avrebbe senza dubbio meritato anche Douglas, che perse in favore del Yul Brynner de "Il re ed io". la pellicola ricevette anche la nomination per la miglior sceneggiatura e per la scenografia. Il regista aveva già diretto Douglas ne "Il bruto e la bella". Non accreditato, George Cukor avrebbe sostituito Minnelli nel rifacimento di almeno una scena. Se si esclude un documentario di Alain Resnais del 1948, questa era la prima volta che il grande cinema si occupava della figura di Van Gogh, che sarà poi al centro di numerose pellicole di registi importanti (da "Vincent & Theo" di Robert Altman a "Sogni" di Akira Kurosawa, fino al recente "Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità" di Julian Schnabel).

17 settembre 2018

After Earth (M. Night Shyamalan, 2013)

After Earth - Dopo la fine del mondo (After Earth)
di M. Night Shyamalan – USA 2013
con Jaden Smith, Will Smith
**

Visto in TV.

Da mille anni l'umanità ha abbandonato la Terra, ormai ritenuta inabitabile, e si è trasferita a vivere su un altro pianeta. Quando l'astronave che trasporta lui e suo padre precipita proprio sul loro mondo di origine, il giovane Kitai dovrà dimostrare tutto il proprio coraggio per salvare il genitore (rimasto gravemente ferito) e dimostrare di essere alla sua altezza. Da un soggetto dello stesso Will Smith, un survival movie prevedibile e senza particolari pregi: i cliché sulla famiglia e sul rapporto padre-figlio abbondano, la recitazione del quindicenne Jaden Smith (figlio di Will anche nella realtà) lascia alquanto a desiderare, e la regia di Shyamalan, per quanto professionale, è abbastanza anonima. Eppure, pur riconoscendo questi difetti, ho apprezzato la natura avventurosa del viaggio e ho trovato a suo modo rassicurante la sua linearità. Come in un videogioco, il giovane protagonista deve attraversare un ambiente ostile e di cui la natura si è ormai riappropriata (la Terra è diventata una giungla, popolata da animali ostili) mentre il padre lo "guida" a distanza con messaggi vocali, con tanto di tappe intermedie da raggiungere entro un determinato periodo di tempo e un mostro finale da sconfiggere (l'Ursa, una creatura aliena cieca che "fiuta" la paura dei suoi nemici). E il finale quantomeno non "sbraca" o cerca di sorprendere con un colpo di scena (caratteristica del regista) che stavolta sarebbe stato fuori luogo. Alcuni critici l'hanno definito il peggior film di Shyamalan, ma non è affatto vero: i ben più ambiziosi "Signs" e "L'ultimo dominatore dell'aria" erano peggio.

16 settembre 2018

Lanterna Verde (Martin Campbell, 2011)

Lanterna Verde (Green Lantern)
di Martin Campbell – USA 2011
con Ryan Reynolds, Blake Lively
**1/2

Visto in TV.

Hal Jordan (un Reynolds autoironico), pilota coraggioso, sbruffone e spericolato, viene scelto da un alieno morente come nuovo membro delle Lanterne Verdi, un corpo di protettori intergalattici che difendono l'Universo da ogni possibile minaccia e che traggono i loro poteri – convogliati attraverso un anello e appunto una lanterna – dall'energia (verde) della Volontà. Dopo aver fatto i conti con le proprie insicurezze, dovrà battersi contro il mostruoso Parallax, una creatura che sfrutta invece l'energia (gialla) della Paura e che minaccia di distruggere la Terra. Dal fumetto supereroistico-fantascientifico della DC Comics, una pellicola d'azione spigliata e simpatica, che intrattiene senza troppe pretese e senza tradire il personaggio e la sua implausibile mitologia (i guardiani del pianeta Oa, il "giuramento" da recitare mentre si ricarica l'anello, ecc.). In patria non ha avuto successo (e questo ha portato alla cancellazione di un previsto sequel), eppure i dialoghi più divertenti della media, l'elogio della fantasia (Hal "materializza" con il proprio anello qualsiasi cosa riesca a immaginare), la capacità di non prendersi sul serio e un feeling quasi da anni ottanta lo rendono un film decisamente più gradevole del previsto, e anche gli attori non sono male: Blake Lively è Carol, la ragazza di cui Hal è innamorato; Mark Strong è Sinestro, il capo delle Lanterne Verdi (ma destinato a diventare il loro più grande nemico, come suggerisce la scena nei titoli di coda); Peter Sarsgaard è Hector Hammond, scienziato che acquisisce poteri psichici per mezzo di Parallax; e Tim Robbins è suo padre, un senatore. Tecnicamente (proprio come i Batman di Christopher Nolan) il film non fa parte del DC Extended Universe, essendo uscito prima della sua istituzione formale nel 2013. Il personaggio dovrebbe fare la sua apparizione ufficiale nel DCEU solo con l'imminente "Green Lantern Corps", la cui uscita è prevista per il 2020.

15 settembre 2018

Monte (Amir Naderi, 2016)

Monte
di Amir Naderi – Italia 2016
con Andrea Sartoretti, Claudia Potenza
*1/2

Visto in TV.

Nel medioevo, un contadino e la sua famiglia conducono una vita dura e povera fra le montagne: la loro casa si erge infatti all'ombra di una parete di roccia che nasconde la luce del sole e rende arida la terra. Funestato dagli stenti e dalle difficoltà, ma determinato a non arrendersi, l'uomo decide allora di demolire il monte a martellate. Il regista giramondo Amir Naderi (che dopo aver lavorato nel natìo Iran, negli Stati Uniti e in Giappone, arriva ora in Italia), autore anche della sceneggiatura, del montaggio e del fondamentale sound design, realizza un film cupo e opprimente. Le riprese sono state effettuate nelle Dolomiti (sul gruppo del Latemar e nei paesi di Erto e Casso, ormai spopolati dopo la tragedia del Vajont). Ma sullo schermo, anziché la bellezza delle montagne, a prevalere è la concretezza spoglia e tangibile di terra e rocce senza vita, elementi – come la nebbia e i lupi – del tutto ostili a un uomo impegnato in una personale e continua lotta con la natura. Interessante nelle sue premesse (la potenzialità visionaria del soggetto sarebbe potuta piacere a Werner Herzog), la pellicola si fa via via più astratta ed essenziale, ma anche pesante e dalla visione faticosa. Le lunghe scene del martellamento della parete di roccia sono francamente noiose, anche se in fondo siamo di fronte più a un'allegoria che non a una situazione realistica. E l'uso dei filtri digitali per rendere i colori smorti (al punto che a volte sembra di guardare un film in bianco e nero), sia pure in funzione drammatica, è davvero eccessivo.

14 settembre 2018

Kyoto story (Yoji Yamada, T. Abe, 2010)

Kyoto story (Kyoto Uzumasa monogatari)
di Yoji Yamada, Tsutomu Abe – Giappone 2010
con Hana Ebise, Yoshihiro Usami, Sotaro Tanaka
**

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Kyoko, figlia del proprietario di una lavanderia, lavora nella biblioteca dell'Università di Kyoto ed è fidanzata con Kota, figlio di un produttore di tofu e aspirante comico televisivo di scarso successo. Un giovane ricercatore, Enoki, in città per studiare alcuni testi sugli antichi caratteri cinesi, si innamora di lei e le propone di seguirlo a Pechino, lasciandola in preda a un dilemma: abbandonare tutto per seguire i propri sogni (ha sempre amato i libri e i viaggi) o continuare a mantenersi nel rassicurante solco della tradizione, magari ereditando il lavoro dei genitori e mandando avanti l'attività di famiglia? Lo stesso dubbio ce l'hanno anche gli altri personaggi, al centro di una pellicola semplice (forse troppo!) e introspettiva, che sin dal titolo – che rimanda a Ozu – guarda al passato e al rapporto fra le generazioni, ma scegliendo il punto di vista di quelle più giovani (che, come il ricercatore di cinese, si interrogano sull'eredità di chi li ha preceduti). Se la storia è un po' esile, il film lascia però trapelare tutto l'affetto per il luogo dove questa si svolge: Uzumasa, il quartiere di Kyoto dove un tempo sorgevano gli studi cinematografici della Daiei (e dove negli anni cinquanta vennero girati capolavori come "Rashomon" di Kurosawa e "I racconti della luna pallida d'agosto" di Mizoguchi). Proprio dove c'era l'ingresso degli Studios, fanno ora bella mostra di sé i premi vinti da alcuni di quei film (il Leone d'Oro, l'Oscar). Il progetto era iniziato da una collaborazione del veterano Yoji Yamada con gli studenti della locale università per documentare la vita degli abitanti del quartiere e come questa fosse cambiata dopo la chiusura dell'industria cinematografica: soltanto in seguito è stato deciso di inserirci la storia sentimentale di Kyoko, che infatti è intervallata da interviste ai negozianti della zona, che rievocano i loro ricordi di quell'epoca. Bella la colonna sonora di Harumi Fuki.

12 settembre 2018

Effetto notte (François Truffaut, 1973)

Effetto notte (La nuit américaine)
di François Truffaut – Francia 1973
con Jacqueline Bisset, Jean-Pierre Léaud
***

Rivisto in divx.

Fra le più celebri lettere d'amore al mondo del cinema, ritratto come una grande famiglia che segue le proprie regole incurante di ogni altra cosa, il film segue dall'inizio alla fine la lavorazione (negli studi della Victorine a Nizza) di una pellicola immaginaria, il melodramma "Vi presento Pamela", raccontando la quotidianità, le peripezie, i bisticci e gli amori dell'intera troupe: dagli interpreti – l'immamorato e immaturo Alphonse (Jean-Pierre Léaud), l'attempato gay Alexandre (Jean-Pierre Aumont), la vecchia diva alcolizzata Séverine (Valentina Cortese), e la giovane star hollywoodiana Julie Baker (Jacqueline Bisset), da poco reduce da una depressione – al regista Ferrand (lo stesso Truffaut), costantemente alle prese con i problemi da risolvere e i tempi stretti, dai tecnici alle maestranze. Attraverso una narrazione episodica si succedono le piccole e grandi difficoltà giornaliere, la routine delle riprese, gli amori che nascono, evolvono e muoiono fra i vari membri della troupe. E le citazioni, i rimandi, gli omaggi a celebri lungometraggi e registi (tutti i preferiti da Truffaut) abbondano senza appesantire la pellicola, che anzi scorre sempre leggera e gradevole, incrociando abilmente le varie sottotrame con quella del film che si sta girando: si va da Orson Welles (Ferrand si sogna da bambino mentre ruba le locandine di "Quarto potere") a Jean Vigo (che dà il nome a una via), da Hitchcock a Renoir (citati indirettamente nei dialoghi), per non parlare di Dreyer, Bergman, Buñuel, Lubitsch, Rossellini, Godard, Bresson (Ferrand riceve un pacco di libri su di loro). La pellicola stessa è dedicata alle sorelle Gish, dive del muto. Anche il titolo (uno dei rari casi di una pellicola truffautiana in cui è stato tradotto adeguatamente) è significativo: la "nuit américaine" è la tecnica usata per girare una scena notturna in pieno giorno, e naturalmente intende sottolineare quanto il mondo del cinema sia menzognero e artificiale.

In questo mondo, infatti, tutto è finto: che si tratti di pioggia o di neve, di amore o di morte (Alexandre afferma di essere morto sullo schermo decine di volte ma mai in maniera naturale, e il destino finirà per confermarlo). E la realtà e la finzione spesso si confondono (basti pensare che tutti i personaggi della pellicola rispecchiano persone reali o collaboratori di Truffaut, a partire ovviamente dal regista che interpreta sé stesso). Memorabile lo sfogo della moglie (Zénaïde Rossi) del segretario di produzione: "Che cos’è questo mestiere in cui tutti vanno a letto con tutti? In cui tutti si danno del tu, in cui tutti mentono? Lo trovate normale?". Eppure Ferrand (convinto che "si può fare un film con qualsiasi cosa", come spiega leggendo i titoli di un quotidiano per prenderne spunto) si difende, affermando persino che "il cinema è più importante della vita privata" (lo conferma una delle sue collaboratrici: "Io per un film potrei piantare un uomo, ma per un uomo non pianterei mai un film"). La pellicola riscosse un grande successo (vincendo anche l'Oscar per il miglior film straniero) ma non piacque a Jean-Luc Godard, che ovviamente aveva tutta un'altra concezione del cinema, provocando un brusco scambio di opinioni fra lui e Truffaut che portò alla rottura della loro amicizia. Nel cast anche la cantante Dani (Liliane, la fidanzata con Alphonse, che lascerà per fuggire con uno stuntman), Nathalie Baye (Joëll, la script-girl), Nike Arrighi (la truccatrice), Bernard Menez (l'attrezzista), Jean-François Stévenin (l'assistente regista), Alexandra Stewart (Stacey, l'attrice incinta) e David Markham (il dottor Nelson, marito di Julie). Camei per Graham Greene (l'agente dell'assicurazione) e Claude Miller (l'ospite dell'albergo). La colonna sonora di Georges Delerue, in stile barocco, sembra anticipare quelle di Nyman per Greenaway.

11 settembre 2018

Neve rossa (Nicholas Ray, 1951)

Neve rossa (On dangerous ground)
di Nicholas Ray – USA 1951
con Robert Ryan, Ida Lupino
**

Visto in TV.

Trasferito temporaneamente fra le montagne per via dei suoi metodi troppo violenti, un detective di città (Robert Ryan), depresso e collerico, aiuta lo sceriffo locale a indagare sull'omicidio di una ragazza. Scoprirà che l'assassino è un giovane psicolabile che vive in una casa isolata con la sorella cieca (Ida Lupino) che si prende cura di lui. Non riuscirà a salvarlo dalla furia vendicativa del padre della vittima (Ward Bond), ma saprà fare chiarezza dentro di sé, accettando finalmente anche i lati oscuri del proprio lavoro. Da un romanzo di Gerald Butler, un insolito poliziesco che tenta di variare le consuete ambientazioni del genere, spostando il protagonista dalle strade urbane e notturne agli spazi vasti e innevati delle montagne. Non riesce a convincere pienamente a causa della mancanza di equilibrio: impiega troppo tempo ad entrare nel vivo (prima che il protagonista lasci la città passa mezz'ora) e non sfrutta poi abbastanza l'ambientazione montana (da segnalare giusto l'inseguimento fra la neve). Lo stesso Ray lo considerò "un'occasione mancata". Del cast, che appare a sua volta poco convinto della sceneggiatura (anche perché i temi della solitudine e della redenzione sono svolti con troppi cliché), il migliore è Bond nei panni del contadino che vuole farsi giustizia da solo. La musica di Bernard Herrmann fa ampio uso della viola d'amore nelle scene con la Lupino. Piattissimo il ridoppiaggio italiano per la televisione.

10 settembre 2018

Justice League (Zack Snyder, 2017)

Justice League (id.)
di Zack Snyder [e Joss Whedon] – USA 2017
con Ben Affleck, Henry Cavill, Gal Gadot
*1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Dopo la morte di Superman (raccontata in "Batman v Superman: Dawn of Justice", di cui questo film è letteramente il sequel), il mondo è piombato nell'incertezza e nel caos, e di questo approfitta il malvagio alieno Steppenwolf (Ciarán Hinds), che attacca la Terra con l'intenzione di distruggerla. Per opporsi a lui, Bruce Wayne/Batman (Ben Affleck) raduna una squadra di supereroi di cui fanno parte Diana Prince/Wonder Woman (Gal Gadot), l'atlantideo Arthur Curry/Aquaman (Jason Momoa), il giovane velocista Barry Allen/Flash (Ezra Miller) e l'ingegnerizzato Victor Stone/Cyborg (Ray Fisher). Dopo aver imparato a fare squadra, i cinque riusciranno anche a resuscitare Clark Kent/Superman (Henry Cavill), che li aiuterà a sconfiggere il nemico. Il supergruppo per eccellenza dei fumetti della DC Comics (che, analogamente agli Avengers della Marvel, raduna tutti gli eroi più importanti del proprio universo: mancano ancora Green Lantern, Martian Manhunter e pochi altri, ma sicuramente nei prossimi film ci sarà spazio anche per loro) viene introdotto al cinema in una pellicola formulaica e priva della minima originalità, a partire da un antagonista quanto mai generico, le cui noiosissime scene sullo schermo grondano talmente tanta computer grafica che sembra di assistere a un videogioco anziché a un film. Già sconfitto in un'era remota da un'alleanza di tutti i popoli della Terra (comprese le Amazzoni e gli Atlantidei), stavolta per fermare Steppenwolf e il suo esercito bastano sei eroi, alcuni dei quali senza poteri (Batman) o alle prime armi (Flash). Se Affleck continua a interpretare un Batman vecchio, massiccio e milleriano, per gli altri personaggi abbiamo caratterizzazioni semplicissime (Wonder Woman e Superman fanno molti passi indietro rispetto ai film precedenti) o stereotipate (Aquaman è sborone, Cyborg è antagonista, Flash è socialmente inetto). Quanto alla resurrezione di Superman, questa avviene come se nulla fosse, a parte un primo e breve disorientamento. Fra le poche battute memorabili, la risposta di Bruce Wayne a Flash: "Quali hai detto che sono i tuoi superpoteri?" "Sono ricco". Piccole parti per il cast di contorno dell'uomo d'acciaio (Amy Adams è Lois Lane, Diane Lane è Ma' Kent), del cavaliere oscuro (Jeremy Irons è Alfred, J. K. Simmons è il commissario Gordon) e di Wonder Woman (Connie Nielsen è Ippolita). Dopo il flop di critica di "Batman v Superman", giudicato troppo cupo, il film è stato alleggerito nei toni rispetto allo script iniziale (grazie all'intervento di Joss Whedon, che si è occupato anche della post-produzione e della regia delle scene aggiuntive al posto di Snyder) nella speranza di imitare la Marvel, con il risultato però di una notevole perdita di spessore (si salvano in parte le interazioni fra i vari personaggi). A questo punto, sarebbe stato forse meglio imboccare direttamente la via della commedia, magari sulla falsariga della "Justice League International" di Keith Giffen e J.M. De Matteis, che alla fine degli anni ottanta realizzarono una sequenza di albi a fumetti fortemente autoironica. Belli i titoli di testa, con una versione acustica (di Sigrid) di "Everybody knows" di Leonard Cohen. Costato uno sproposito (ben 300 milioni di dollari), il film ha deluso al botteghino facendo meno sfracelli del previsto. Nel 2021 è stata resa disponibile in TV la "director's cut" (4 ore!) di Snyder.

8 settembre 2018

Un tranquillo weekend di paura (J. Boorman, 1972)

Un tranquillo weekend di paura (Deliverance)
di John Boorman – USA 1972
con Jon Voight, Burt Reynolds
***1/2

Rivisto in divx, per ricordare Burt Reynolds.

Quattro amici di città – Ed (Jon Voight), Drew (Ronny Cox) e Bobby (Ned Beatty), guidati dal più "avventuriero" Lewis (Burt Reynolds) – partono per un weekend in canoa sul fiume, in una regione boscosa dei Monti Appalachi. L'intera vallata sta per essere ricoperta dalle acque a causa di una diga in costruzione, e questa è dunque l'ultima possibilità di godersi un angolo di natura selvaggia e incontaminata. Quella che doveva essere una spensierata vacanza si trasforma però in un incubo quando Ed e Bobby vengono aggrediti da due balordi, e gli amici si troveranno costretti a lottare per la propria sopravvivenza... Uno dei film simbolo dei primi anni settanta, che insieme ad altri capisaldi come "Easy Rider" o "Cane di paglia" (e poi ci sarà anche "Il cacciatore") contribuì a svelare il senso di malessere e l'insicurezza che si celava nella provincia americana e non solo, oltre al cambio di prospettive che stava mutando profondamente la stessa società. Notevole in particolare l'anti-retorica sul rapporto fra uomo e natura: se Lewis all'inizio rimpiange ed elogia il mondo selvaggio di un tempo, parlando per frasi fatte ("Non si batte la natura"), ben presto i quattro dovranno rendersi conto di quanto di selvaggio c'è ancora nell'uomo stesso, loro compresi (Ed, incapace di scoccare una freccia contro un cervo nel bosco, si scoprirà poi in grado addirittura di uccidere un uomo). Nonostante sin dalla partenza ci fossero stati segnali ambigui (vedi l'inquietante bambino con il banjo e con evidenti tare genealogiche, protagonista di un estemporaneo duetto – o duello – con la chitarra di Drew), l'incontro con i due balordi violentatori irrompe all'improvviso e in maniera disturbante per frantumare la spensieratezza della gita. Burt Reynolds, al primo ruolo cinematografico di successo, è carismatico e arrogante, il leader naturale dal quale i suoi amici dipendono per ogni cosa, anche se prende tutto come un gioco o una sfida. E quando rimarrà ferito nelle rapide, toccherà al più mite Jon Voight farsi carico del compito di portare a casa la pelle, diventando di fatto il protagonista della pellicola (all'inizio c'era il dubbio che potesse esserlo Drew, che – con la sua chitarra, gli occhiali e l'opposizione alle scelte degli amici – è il personaggio che maggiormente si differenzia dagli altri, il rappresentante della "controcultura"). Pellicola che peraltro si conclude proprio con gli incubi notturni di Ed: ormai cambiato per sempre, è chiaro che non riuscirà più a dormire sereno, nemmeno fra le braccia della propria famiglia. Girato sui fiumi della Georgia, con una inusuale colonna sonora, il film fece scalpore per la sua drammaticità, per la scena dello stupro nel bosco e per la violenza realistica che lo permea (ma fu anche criticato per rinforzare lo stereotipo razzista del redneck bifolco), e regge ancora numerose visioni grazie alla forte tensione e alle ottime interpretazioni. Ronny Cox e Ned Beatty erano all'esordio: gli attori girarono le scene in canoa da soli, senza controfigure. La sceneggiatura è tratta dal romanzo "Dove porta il fiume" di James Dickey, che interpreta anche lo sceriffo nel finale e che sul set fu protagonista di una celeberrima scazzottata con Boorman (ma i due rimasero amici). A suo modo, il film ispirerà forse pellicole più leggere come "Scappo dalla città" e "Stand by me".

7 settembre 2018

Il sospetto (Alfred Hitchcock, 1941)

Il sospetto (Suspicion)
di Alfred Hitchcock – USA 1941
con Joan Fontaine, Cary Grant
***

Visto in TV.

Lina (Joan Fontaine), ragazza di buona famiglia, sposa – contro il volere dei genitori – l'affascinante ma scapestrato Johnnie Aysgarth (Cary Grant), scoprendo soltanto dopo il matrimonio che l'uomo non ha un soldo e vive al di sopra delle proprie possibilità grazie a continue menzogne, prestiti (che sperpera al gioco) ed espedienti. Spinta dall'amore, la donna accetta di rimanere al suo fianco e cerca inutilmente di riportarlo sulla retta via. Ma poi inizia lentamente a sospettare che il marito intenda ucciderla per intascare i soldi dell'assicurazione... Lo spunto a base di paranoia coniugale ricorda in parte "Rebecca", il primo lavoro americano di Hitchcock (girato solo un anno prima, con la stessa Fontaine come protagonista), ma qui non siamo nel campo della favola gotica bensì in quello del thriller psicologico di ambientazione altoborghese. Il film è tratto dal romanzo "Before the Fact" di Francis Iles (ovvero Anthony Berkeley Cox), che ribaltava il tipico assunto del noir (dove di solito un uomo cade vittima del fascino di una dark lady, mentre qui è il contrario), di cui però altera il finale per scelta dei produttori. A una prima parte con toni da commedia brillante (l'incontro fra i due protagonisti, l'innamoramento e il matrimonio) segue una progressiva discesa nel baratro del sospetto. Ogni volta che Johnnie sembra cambiare e mettere la testa a posto, ecco che qualcosa rivela a Lina un nuovo "lato oscuro" del marito, facendola ripiombare nell'incertezza. Celebre la scena in cui Cary Grant sale le scale per portare un bicchiere di latte alla moglie, convinta che sia stato avvelenato: Hitchcock la girò con una lampadina nel bicchiere per far sì che questi risaltasse al massimo all'interno dell'inquadratura. Tutta la vicenda è raccontata dal punto di vista della donna, in modo da costruire la suspense in soggettiva, tanto che resta il dubbio che si tratti della proiezione delle fantasie di una donna frustrata e nevrotica sul proprio marito (all'inizio la vediamo leggere un trattato di psicologia infantile, e più volte viene sottolineato che "John è come un bambino"). In effetti la risoluzione finale può forse deludere un pubblico moderno, abituato a plot twist e colpi di scena di ogni tipo, ma mantiene comunque l'ambiguità: potrebbe trattarsi dell'ennesima menzogna di John, alle quali Lina crede ciecamente (come ha sempre fatto) perché è la scelta più rassicurante per lei. Ottimi i due protagonisti, una Fontaine occhialuta, insicura e fragile che per questa performance vinse l'Oscar per la miglior attrice, e un Grant (per la prima volta in un film di Hitchcock) a suo agio nella parte del mascalzone sfacciato e impenitente. Nigel Bruce è Beaky, l'amico sempliciotto e socio d'affari di John, Auriol Lee è la scrittrice di romanzi polizieschi, Cedric Hardwicke è il padre di Lina.

6 settembre 2018

Ototo - Suo fratello (Yoji Yamada, 2010)

Ototo - Suo fratello (Ototo)
di Yōji Yamada – Giappone 2010
con Sayuri Yoshinaga, Tsurube Shofukutei
**1/2

Visto in TV, in originale con sottotitoli.

Quando l'eccentrico zio Tetsuro di Osaka, ex attore di teatro, fratello della madre Ginko e "pecora nera" della famiglia, si presenta (non invitato) alla sua festa di nozze, la giovane Koharu (Yu Aoi) sa già che ne scaturiranno dei guai. E infatti l'uomo si ubriaca, canta, straparla e finisce col rovinare la cerimonia. Poco male, visto che quel matrimonio non era comunque destinato a durare: ma ne consegue la rottura dei legami di tutta la famiglia con il "casinista" Tetsuro, con cui vengono tagliati i ponti, nonostante lo zio sia molto affezionato alla nipote, di cui si vanta di aver scelto il nome alla sua nascita. Ma quando lo stesso scapestrato Tetsuro, in fin di vita per una grave malattia, finirà in un ricovero dove alcuni volontari assistono coloro che non hanno una famiglia, saranno la sorella e la nipote a riavvicinarsi a lui... Racconto familiare che mescola commedia e dramma, raccontato da Yamada con toni rilassati e tanto affetto per i suoi personaggi. Oltre alle vicende di Tetsuro, seguiamo quelle di Koharu, che ritrova l'amore nel più semplice e sincero Toru (Ryo Kase), giovane "aggiustatutto" di quartiere, per la felicità della madre (che gestisce una farmacia), della nonna (Haruko Kato) e degli altri negozianti della zona. All'inizio Yamada cita Tora-san, il protagonista della lunghissima serie di film che aveva diretto a inizio carriera. "Ototo" significa "fratello minore", e la pellicola è dedicata affettuosamente a Kon Ichikawa (che nel 1960 aveva realizzato un film con lo stesso titolo), scomparso da poco.

4 settembre 2018

Wonder Woman (Patty Jenkins, 2017)

Wonder Woman (id.)
di Patty Jenkins – USA 2017
con Gal Gadot, Chris Pine
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Già introdotta nel DC Extended Universe (l'universo cinematografico della DC Comics) nel precedente "Batman v Superman: Dawn of Justice", Wonder Woman, la supereroina per eccellenza (creata nei fumetti negli anni quaranta), è protagonista di una pellicola che ne racconta le origini, svelando anche il retroscena della fotografia – vista nel film precedente – che la ritraeva ai tempi della prima guerra mondiale. Rispetto alla complessità, alla cupezza e all'eccessiva drammaticità degli altri film del DC Universe, qui tutto è più leggero e lineare, ma non è affatto un difetto (anzi, consente di apprezzare la pellicola anche a sé stante, slegata dalla continuity e dai rapporti con gli altri lungometraggi). E l'ambientazione temporale durante la Grande Guerra è quanto meno originale e ben sfruttata. Diana fa parte del mitico popolo delle Amazzoni, donne guerriere che risiedono sull'isola di Themyscira nel Mar Egeo, nascosta al mondo esterno da un incantesimo di Zeus, dove si addestrano al combattimento in attesa dello scontro finale con il loro arcinemico (nientemeno che Ares, dio della guerra). Quando sull'isola, per la prima volta dopo secoli, giungono accidentalmente alcuni uomini, fra cui il soldato americano Steve Trevor (Chris Pine), portando notizie del grande conflitto in corso, la giovane Diana si convince che si tratti dell'opera di Ares. Armata di spada, scudo e del suo laccio magico, decide così – nonostante l'opposizione di sua madre, la regina Ippolita – di seguire Steve nel mondo degli uomini. Parteciperà alle vicende della prima guerra mondiale, affrontando i soldati tedeschi, il terribile Dottor Poison, e soprattutto Ares redivivo, anche se questi le spiegherà che gli uomini si battono e si uccidono per propria scelta, senza alcun bisogno del suo intervento. Osannato negli Stati Uniti come primo film di supereroi "femminista" (si noti come anche la regista sia una donna), in realtà il fatto che la protagonista sia di genere femminile è del tutto incidentale (e ha ragione James Cameron quando osserva un po' polemicamente come il film, a differenza per esempio dei suoi "Aliens" e "Terminator 2", non sia particolarmente innovativo nel rappresentare un'eroina forte ed emancipata). Il vero tema centrale è semmai quello dell'origine del male, della guerra e del libero arbitrio, e da questo punto di vista lo script ha il pregio di non banalizzare l'argomento, pur calandolo in un contesto di divertimento action ed escapista. Nel ruolo dell'eroina, la modella israeliana Gal Gadot convince molto più di quanto non avesse fatto in "Batman v Superman". Il resto del cast è adeguato, con una menzione speciale per il cattivo David Thewlis. Fra le Amazzoni si riconoscono Connie Nielsen (Ippolita) e Robin Wright (Antiope), mentre fra i compagni di missione di Diana e Steve ci sono Saïd Taghmaoui ed Ewen Bremner. Già in cantiere un sequel, ma nel frattempo Wonder Woman è apparsa (al fianco degli altri eroi DC) anche in "Justice League".

3 settembre 2018

Chloe (Atom Egoyan, 2009)

Chloe - Tra seduzione e inganno (Chloe)
di Atom Egoyan – Canada/USA/Francia 2009
con Julianne Moore, Amanda Seyfried
**

Visto in TV.

Per mettere alla prova la fedeltà del marito (Liam Neeson), professore sospettato di stringere tresche con le sue studentesse, una ginecologa (Julianne Moore) assume la giovane escort Chloe (Amanda Seyfried) affinché seduca l'uomo e le racconti poi le sue reazioni. Non ho (ancora) visto "Nathalie...", il film originale di Anne Fontaine di cui questo è un remake, ma essendo una produzione francese mi immagino che fosse più morboso, più ambiguo e meno dozzinale di questo, che pure può contare sulle ottime interpretazioni di una Julianne Moore assai in parte (come al solito) e di un'espressiva ma enigmatica Amanda Seyfried. Liam Neeson recita invece al minimo sindacale, ma il suo ruolo non richiedeva molto di più. Se lo spunto di partenza è assai intrigante, già verso metà film si comincia a mostrare la corda, con sviluppi poco convincenti che si trascinano stancamente verso un finale non certo imprevedibile. Grandi assenti, ahimè, sono la tensione e la carica erotica, ovvero gli elementi che, in teoria, il soggetto prometteva maggiormente. Anche la regia di Egoyan (per la prima volta alle prese con una sceneggiatura non scritta da lui) mi è parsa un po' svogliata, il che non ha impedito al film di ottenere un buon successo al botteghino, il migliore per il regista fino ad allora. La fotografia di Paul Sarossy rende bene gli interni caldi ma asettici e le fredde strade di una Toronto innevata.

1 settembre 2018

Le vie della città (R. Mamoulian, 1931)

Le vie della città (City Streets)
di Rouben Mamoulian – USA 1931
con Gary Cooper, Sylvia Sidney
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Figlia di un gangster al soldo di un boss che opera nel racket della birra (siamo ai tempi del proibizionismo), la giovane Nan Cooley (Sylvia Sidney) finisce in prigione per aver aiutato il padre a commettere un omicidio. Quando esce, scopre con dispiacere che anche il suo fidanzato Kid (Gary Cooper), un cowboy innocente e senza ambizioni che in precedenza lavorava al tirassegno in un luna park, è entrato a far parte della banda. Ma quando il boss, Big Fellow Maskal (Paul Lukas), mette gli occhi su di lei, il ragazzo saprà ribellarsi per proteggerla. Da un racconto di Dashiell Hammett, un intenso e originale noir a sfondo gangsteristico (un filone che in quegli anni stava entrando prepotentemente in voga, grazie a pellicole come "Nemico pubblico", "Piccolo Cesare" e "Scarface") con un'atmosfera di accerchiamento e paranoia e un nutrito gruppo di variegati personaggi. Guy Kibbee è Pop, il padre di Nan, che non esita a far finire la figlia in prigione o a darla in pasto al proprio capo pur di far carriera. Wynne Gibson è Agnes, l'amante del boss, che viene scaricata quando questi si invaghisce proprio di Nan. Se la vera protagonista è la Sidney (suo il punto di vista da cui gli spettatori seguono la storia), è comunque notevole il carisma di un giovane Gary Cooper, eroe ingenuo ma determinato. Memorabile la frase con cui il boss certifica il tradimento o la condanna a morte di coloro che gli intralciano la strada, stringendo loro la mano e dichiarando ipocritamente "Nessun rancore" ("No hard feelings"). La sceneggiatura affronta i temi dell'innocenza e del peccato con la sufficiente dose di ambiguità, anche perchè il codice Hays non era ancora entrato in vigore. Quanto alla regia di Mamoulian, al secondo film, punta molto sul montaggio, sulle inquadrature e sui dettagli, e può vantare una carrellata di perfetti volti da gangster (fra i comprimari figurano William Boyd, Stanley Fields e, non accreditata, una non ancora celebre Paulette Goddard).