30 luglio 2018

Solaris (Andrej Tarkovskij, 1972)

Solaris (id.)
di Andrej Tarkovskij – URSS 1972
con Donatas Banionis, Natalya Bondarchuk
***1/2

Rivisto in divx.

Lo psicologo Kris Kelvin (Donatas Banionis) viene inviato a bordo della stazione spaziale che orbita attorno a Solaris, pianeta ricoperto per intero da un misterioso oceano i cui vortici e le cui correnti lo fanno somigliare a un gigantesco cervello (tanto che c'è chi suppone che sia "pensante"). Gli scarsi progressi ottenuti nel corso degli anni dalla "solaristica", la scienza che studia le strane proprietà del pianeta, stanno spingendo i burocrati verso lo smantellamento della stazione, che dalle decine di scienziati che ospitava un tempo è ora ridotta a soli tre occupanti, Sartorius (Anatolij Solonitsyn), Snaut (Jüri Järvet) e Gibarian (Sos Sargsyan). E in effetti il compito di Kelvin è proprio quello di valutare l'opportunità di mantenerla in funzione. Ma l'uomo scoprirà che nei suoi corridoi e nelle sue stanze appaiono strane presenze, che il pianeta materializza dai ricordi e dalla coscienza dei suoi occupanti. Kelvin ritrova così Hari (Natalya Bondarchuk), la sua giovane moglie che si era avvelenata dieci anni prima... Tratto dal romanzo omonimo di Stanislaw Lem, il terzo lungometraggio di Tarkovskij è un film di fantascienza, sì, ma decisamente sui generis. Pubblicizzato in occidente come "la risposta sovietica a '2001: Odissea nello spazio'", appartiene – come il capolavoro di Kubrick – al genere della fantascienza filosofica, ed è una pellicola che esplora i temi della conoscenza, della memoria, dell'inconscio e del significato stesso di umanità. In Italia venne "adattato" da Dacia Maraini, che lo mutilò di quasi un'ora, compresi i quaranta minuti introduttivi, aggiunti da Tarkovskij rispetto al romanzo originale e ambientati sulla Terra, in cui Kelvin – alla vigilia della sua partenza – riceve nella casa del vecchio padre (Nikolai Grinko) la visita di Benton (Vladislav Dvorzhetsky), pilota in pensione che anni prima aveva riferito strani avvistamenti sopra l'oceano di Solaris. Questa prima parte è importante perché in essa Kelvin, che si mostra scettico di fronte alle parole di Benton, lascia intendere che non vedrà più il padre, evidentemente troppo vecchio per essere ancora lì ad aspettarlo al suo ritorno (i tempi dei viaggi spaziali, si sa, possono essere lunghi: non viene mai specificato quando distante sia il pianeta, né i dettagli della tecnologia dei voli interstellari). E tutto ciò darà un particolare significato alla scena finale. Le parti tagliate in Italia saranno poi reintegrate (con sottotitoli) nel DVD.

L'oceano di Solaris è un'entità vivente, che si nutre dei ricordi degli uomini della stazione e comunica con loro generando dei simulacri immortali, "fantasmi" o "ospiti" (come vengono definiti) che in alcuni casi – come in quello di Hari – possono arrivare a ritenersi essi stessi umani. Lento ma ragionato, misterioso e metafisico, il film avvolge lo spettatore con le sue immagini legate all'acqua e alla vita (dalla prima inquadratura, quella delle alghe sommerse nello stagno, alle ripetute sequenze del vasto oceano di Solaris, con i suoi vortici, le onde e la schiuma), le riflessioni sui ricordi e la nostalgia (i sogni di Kelvin di sé stesso bambino, che gioca nella neve in compagnia della madre (Olga Barnet), una donna bellissima che finisce col confondersi con la stessa Hari), quello della conoscenza (che risalta dalla contrapposizione di vedute fra gli scienziati: c'è chi è disposto a distruggere l'oggetto studiato pur di comprenderlo, come lo sprezzante e arido "razionalista" Sartorius, e chi invece preferisce distruggere sé stesso, come fa Gibarian, che si suicida prima dell'arrivo di Kelvin; chi vuole proseguire nella sua eterna ricerca rivolta all'esterno, ancora Sartorius, e chi, come lo smarrito Snaut, afferma che prima di tutto "l'uomo deve conoscere l'uomo. Non abbiamo bisogno del cosmo ma di uno specchio", citando non a caso il titolo del film successivo del regista). Prima di studiare pianeti extrasolari, non sarebbe meglio proteggere e contemplare il nostro, con i suoi miracoli legati alla vita (umana, animale, vegetale)? Alcuni critici hanno parlato di "riflessione sui limiti del razionalismo e del cognitivismo umano". Di certo la sceneggiatura si domanda anche cosa significhi essere umani (Hari prova dolore ed amore, e sviluppa una sensibilità e una coscienza che gli altri simulacri non avevano mostrato, tanto che Kelvin si innamora nuovamente di lei ed è tentato di rimanere sulla stazione per sempre, forse anche per espiare i sensi di colpa dovuti al suo suicidio: dei tre scienziati Kelvin è l'unico che accetta il mistero di Solaris, quasi come un atto di fede). A differenza del romanzo, invece, Tarkovskij non sembra interessato più di tanto a una questione assai cara a Lem, quella del tentativo degli uomini di comunicare con una forma di vita aliena (di cui certifica la totale incapacità e inadeguatezza).

Se dunque come contenuti è tutt'altro che una pellicola di fantascienza convenzionale, anche stilisticamente "Solaris" è un film con un ritmo e un linguaggio tutto suo. La fotografia alterna in continuazione scene in bianco/nero e a colori, in maniera apparentemente casuale (ma non sono forse così anche i ricordi?), così come fonde immagini della realtà e quelle prodotte dalla coscienza (memorie, sogni, emozioni). Tarkovskij lo considerava un fallimento perché non era stato in grado di "trascendere il genere" (come farà, invece, con "Stalker") a causa della necessità di inserire frasi di dialogo "tecnologico" ed effetti speciali. Eppure il cuore della pellicola non sta in queste: le spiegazioni scientifiche sulla natura dei "fantasmi" creati dall'oceano sono ridicole (sarebbero composti di neutrini anziché di atomi, stabilizzati dal campo magnetico del pianeta), e le scenografie della stazione spaziale mostrano un ambiente decadente, degradato, tutt'altro che all'avanguarda tecnologica. I veri temi del film sono esistenzialisti, psicologici e soprattutto tarkovskiani fin nel profondo, al punto che molte scene o immagini evocano o addirittura anticipano elementi di tutte le altre pellicole del regista, passate e future (il bambino fra gli alberi nella neve ricorda "L'infanzia di Ivan"; a un certo punto si intravede l'icona della Trinità di Andrej Rublev, per non parlare del cavallo al galoppo; l'oceano di Solaris legge i pensieri e l'anima degli uomini, e ne esaudisce i desideri nascosti, come la Zona di "Stalker", tanto che Kelvin si domanda cosa accadrebbe se inconsciamente desiderasse che Hari muoia; il flusso di ricordi d'infanzia, la fusione di opere d'arte e immagini della famiglia evocano "Lo specchio" e "Nostalghia", senza contare che Snaut afferma esplicitamente "Non abbiamo bisogno del cosmo ma di uno specchio", ovvero di studiare e riflettere su noi stessi; in Hari, che si sacrifica per amore, c'è infine in nuce quel tema del sacrificio che darà il titolo all'ultimo film del regista). Ed è da ricordare la sala centrale della stazione, ricolma di libri, quadri, statue ed esempi dell'arte e della cultura umana, molti dei quali rimandano alle memorie o alle esperienze dei suoi occupanti: in particolare il "Don Chisciotte" di Cervantes e i dipinti di Pieter Bruegel il Vecchio (soprattutto "I cacciatori nella neve" con il suo paesaggio invernale, che riflette i ricordi d'infanzia di Kelvin e che sarà ripreso anche ne "Lo specchio").

A parte le scenografie della stazione spaziale (disegnata da Mikhail Romadin) e le immagini dell'oceano, gli effetti speciali si limitano alla bella ma brevissima sequenza dell'assenza di peso a gravità zero. Per evocare una città futuristica, nella lunga scena in cui Benton guida in autostrada, il regista ha fatto ricorso a immagini girate in Giappone, nel distretto di Akasaka a Tokyo, evidentemente considerate sufficientemente all'avanguardia per l'epoca (il progetto originale era di riprendere le strutture dell'Expo del 1970 a Osaka, ma non si fece in tempo). Sia la confusa e moderna città che l'asettica stazione spaziale contrastano visivamente e tematicamente con la campagna e i dintorni della casa paterna (lo stagno, le alghe, il cane, il cavallo). Sarà proprio questo ambiente che ritroveremo nel suggestivo ed enigmatico finale. Dapprima sembra che Kelvin sia tornato sulla Terra, ritrovando al tempo stesso il padre, il proprio passato e sé stesso, un ritorno che simboleggia la fine di un viaggio (forse anche a questo si deve il paragone con "2001"? quella di Kelvin è una vera e propria "odissea nello spazio") e la riappropriazione di tutto ciò cui aveva detto addio (dimenticando la moglie morta o bruciando le proprie cose nel falò prima di partire per la stazione). Ma c'è qualcosa di strano: piove all'interno della casa, e in precedenza un dialogo con il padre ci aveva lasciato intendere che il lungo viaggio interstellare gli avrebbe impedito di tornare in tempo per vedere il genitore ancora vivo. Le immagini ci rivelano poi che questo ambiente è riprodotto, come una sorta di microcosmo da preservare, su una delle isole che sorgono spontaneamente nell'oceano di Solaris ("la coscienza galleggia sull'inconscio collettivo come un'isola sul mare", ha scritto Jung). Una forma di esilio volontario, per espiare le proprie colpe, o per abbracciare fino in fondo il mistero del pianeta? Al fascino generale esercitato dal film contribuisce anche la colonna sonora, che oltre alla musica elettronica di Eduard Artemyev (poco più di un rumore ambientale) comprende il preludio corale "Ich ruf' zu dir, Herr Jesu Christ" di Johann Sebastian Bach. Nel cast, dove Tarkovskij ricorre ad alcuni attori con cui aveva già lavorato in "Andrej Rublev" e "L'infanzia di Ivan" (Solonitsyn e Grinko), spicca la bella Natalya Bondarchuk – dal volto enigmatico e dalle pose leonardesche – nel ruolo di Hari, per il quale il regista aveva inizialmente pensato a sua moglie Irma Raush, e poi alla bergmaniana Bibi Andersson. Il film vinse il Gran Premio speciale della Giuria al Festival di Cannes. Nel 2002 Steven Soderbergh ne ha realizzato un remake americano, più breve e meno complesso e affascinante, con George Clooney come protagonista.

29 luglio 2018

Tatjana (Aki Kaurismäki, 1994)

Tatjana (Pidä huivista kiinni, Tatjana)
di Aki Kaurismäki – Finlandia 1994
con Matti Pellonpää, Mato Valtonen
**1/2

Rivisto in divx.

Il sarto Valto (Valtonen), un uomo taciturno che consuma caffè in continuazione, e l'amico meccanico Reino (Pellonpää), che invece ha la parlantina sciolta e beve solo vodka, partono in macchina senza una meta precisa. Daranno un passaggio a due donne, l'estone Tatjana (Kati Outinen) e la russa Klaudia (Kirsi Tykkyläinen), dirette a Helsinki per prendere il traghetto per Tallinn. Durante il viaggio, Reino si innamora di Tatjana e decide di rimanere con lei. Valto, invece, torna alla vita di un tempo. Uno strano, piccolo film (dura solo un'ora), girato da Kaurismäki in bianco e nero, con la sua solita atmosfera nostalgica e on the road, fra alberghetti, bar e ristoranti di provincia o periferia. Nella sua breve durata, non si fa mancare nulla: tocchi di humour surreale (prima di partire, Valto rinchiude la madre in uno sgabuzzino, dal quale la farà uscire al suo ritorno come se non fosse accaduto nulla), di poetica visionarietà (nel finale Valto si immagina di entrare in locale con tutta l'automobile, fracassando la vetrina: ma è soltanto un modo per uscire dal proprio guscio con la fantasia), di laconica espressività. Tutti i personaggi sono legati dalla solitudine e dalla dipendenza da qualcosa (le bevande, la musica, le abitudini), ed è tenerissimo vedere come Reino e Tatjana si avvicinino poco a poco: nella scena in cui i due si adagiano l'una sull'altro, non servono nemmeno le parole. Elina Salo è l'impiegata dell'albergo. Nella colonna sonora, tante canzoni dei Renegades e alcuni estratti della sesta sinfonia di Ciajkovskij.

27 luglio 2018

La strada (Federico Fellini, 1954)

La strada
di Federico Fellini – Italia 1954
con Anthony Quinn, Giulietta Masina
****

Rivisto in divx.

La giovane Gelsomina (Giulietta Masina), proveniente da una famiglia povera e numerosa, viene venduta dalla madre a Zampanò (Anthony Quinn), rozzo artista di strada che gira per i paesini di provincia dell'Italia centrale, esibendosi in prove di forza e numeri da circo (come spezzare una catena con i muscoli del petto). La ragazza diventa così la sua assistente e la sua compagna: e nonostante le sue maniere rudi e sgarbate, finisce con l'affezionarcisi, anche se a un certo punto sarà tentata di abbandonarlo per fuggire via con un altro saltimbanco, più giovane e affabile: l'equilibrista chiamato Il Matto (Richard Basehart)... Da un soggetto scritto da Fellini insieme al fedele collaboratore Tullio Pinelli (e sceneggiato con Ennio Flaiano), un film fiabesco e fuori dal tempo, forse la quintessenza della poetica fellinana (che infatti dichiarò a più riprese trattarsi del film che meglio lo rappresentava, a cui era affezionato nonostante le tante difficoltà durante la sua realizzazione), che innesta una vena tenera, comica e visionaria (il mondo dei clown e dei saltimbanchi) sugli scenari e gli elementi del neorealismo (la povertà, il patetismo, la durezza della strada), creando qualcosa di originale e completamente nuovo, che parla di fantasia e di solitudine, di speranza e di malinconia. Il finale, soprattutto con il drammatico epilogo, aggiunge spessore all'insieme e arricchisce ulteriormente la caratterizzazione dei personaggi. I produttori Dino De Laurentiis e Carlo Ponti avevano insistito per scritturare attori internazionali (Quinn e Basehart), guardando già al mercato estero (dove in effetti il film riscosse un grande successo, donando notorietà anche al regista), mentre Fellini lottò per imporre la propria moglie come protagonista. I risultati sono straordinari, al punto che si faticherebbe a pensare a questi personaggi interpretati da qualcun altro (come Alberto Sordi o Silvana Mangano, che furono presi inizialmente in considerazione). Ottima, in particolare, la prova di Quinn (doppiato in italiano da Arnoldo Foà), ma è soprattutto la Masina, con la sua faccia da clown triste, i suoi silenzi e le movenze da Charlie Chaplin (specialmente quando ne indossa la bombetta), a diventare immediatamente una memorabile icona del cinema italiano e felliniano (per non parlare di Basehart, con la finta lacrima sul viso). Il tema musicale, usato in funzione diegetica (viene suonato dal Matto e poi ripreso da Gelsomina) è firmato da Nino Rota. Il mondo degli artisti girovaghi, anche se si trattava di attori di teatro e non di saltimbanchi, era già stato descritto da Fellini nel suo primo lavoro, "Luci del varietà", girato in coppia con Lattuada. Il film vinse il Leone d'Argento al Festival di Venezia (scatenando una polemica con coloro, come Zeffirelli, che sostenevano invece "Senso" di Visconti) e soprattutto, nel 1957, l'Oscar per il miglior film straniero, il primo di quattro per Fellini (nonché il primo come categoria ufficiale). Enormemente influente: fra le tante imitazioni e parodie, da ricordare una storia di Topolino disegnata da Giorgio Cavazzano.

25 luglio 2018

I vitelloni (Federico Fellini, 1953)

I vitelloni
di Federico Fellini – Italia 1953
con Franco Interlenghi, Franco Fabrizi, Alberto Sordi
***

Visto in divx.

In una citta costiera di provincia (il film è stato girato a Ostia e Fiumicino, ma idealmente è ambientato sulla riviera adriatica), cinque giovani sfaccendati – Fausto (Franco Fabrizi), Alberto (Alberto Sordi), Leopoldo (Leopoldo Trieste), Moraldo (Franco Interlenghi) e Riccardo (Riccardo Fellini) – rifiutano di crescere e di assumersi le responsabilità della vita adulta, e bighellonano senza lavoro, fra donne, chiacchiere, giochi e sogni di fuga che non metteranno mai in atto. Sceneggiato da Fellini con i fidi Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano, parzialmente autobiografico e in quanto tale antesignano di "Amarcord" nel raccontare i piaceri e le frustrazioni legati alla crescita in una piccola città di provincia, il film ha una struttura libera, corale ed episodica, sgangherata e disarticolata come i suoi protagonisti, che favorisce l'atmosfera sopra le convenzioni narrative cinematografiche e accatasta scenette e momenti senza una vera trama. Un filo conduttore comunque c'è, ed è quello fornito dalle vicissitudini del donnaiolo Fausto, che non rinuncia alle avventure galanti nemmeno dopo essere stato costretto a sposare Sandra (Leonora Ruffo), la sorella di Moraldo, per averla messa incinta. Dal canto suo, il sensibile Moraldo è forse l'unico del gruppo a sviluppare una certa coscienza (e infatti nel finale sarà il solo a partire in cerca di una nuova vita), mentre gli altri non imparano mai dai propri errori e non provano sensi di colpa, se si eccettuano quei brevi momenti di lucidità e di consapevolezza dei propri fallimenti (come la scena che mostra Alberto ubriaco e piagnucolante al termine della festa di Carnevale). Leopoldo è l'intellettuale, aspirante drammaturgo i cui sogni di gloria non saranno mai realizzati, Alberto è l'impertinente sempre pronto agli scherzi (è diventata iconica la scena in cui irride un gruppo di operai stradali: "Lavoratori... Prrr!"), Riccardo è – insieme a Moraldo – l'alter ego dello stesso Fellini (non a caso è interpretato da suo fratello).

Il titolo, poi entrato nell'uso comune, è una parola forse inventata dallo stesso Fellini o da Flaiano, che definisce – per usare le parole del regista – "i disoccupati della borghesia, i figli di mamma", quelli che "brillano nei tre mesi della stagione balneare la cui attesa e i cui ricordi occupano tutto il resto dell'anno". E infatti i cinque amici, descritti con affetto e indulgenza, ma anche crudeltà e realismo, sono personaggi senza aspirazioni serie e senza particolari qualità, eterni scapestrati che vivono in un limbo che appare immobile, ma che in realtà è sospeso fra il passato di un'Italia che si appoggiava ai sacrifici e al duro lavoro (rappresentata qui dai genitori) e il futuro di un paese che sarà fondato sul boom economico e sullo svago. Proprio per questo, nonostante il carattere autobiografico e nostalgico, il film è lucido a modo suo nel riflettere i cambiamenti in atto nella società italiana agli inizio degli anni cinquanta. Riscosse un buon successo, anche all'estero (con una nomination all'Oscar per la sceneggiatura), e (ri)lanciò le carriere di Fellini e di Sordi dopo il flop de "Lo sceicco bianco". Con un tono agrodolce e malinconico (evidente, per esempio, nelle passeggiate invernali sulla spiaggia), e in mezzo ad elementi reminescenti del neorealismo (il bambino che lavora come ferroviere, fin troppo maturo per la sua età, con cui Moraldo si confida), sono presenti già sequenze prettamente felliniane: la suddetta festa di Carnevale, per esempio, fra pagliacci, figure di cartapesta (fra cui Totò ed Eta Beta) e un Sordi clownesco vestito da donna, ma anche il furto della statua dell'angelo o brevi momenti come la corsa dei seminaristi sulla spiaggia o il sacerdote arrampicato sull'albero. Carlo Romano e Lída Baarová sono il proprietario del negozio di articoli religiosi (per il quale Fausto lavora brevemente) e sua moglie. Enrico Viarisio e Paola Borboni sono i genitori di Moraldo e Sandra. Il ruolo dell'anziano e famoso attore omosessuale (Achille Majeroni) era stato pensato per Vittorio De Sica.

24 luglio 2018

Timecrimes (Nacho Vigalondo, 2007)

Timecrimes (Los cronocrímenes)
di Nacho Vigalondo – Spagna 2007
con Karra Elejalde, Candela Fernández
**

Visto in divx.

Hector, un uomo che si è appena trasferito con la moglie nella sua nuova casa in campagna, guardando con il cannocchiale in direzione del bosco intravede una ragazza che si sta spogliando. Incuriosito e avvicinatosi, viene aggredito da un misterioso individuo con il volto bendato. Per sfuggirgli si rifugia in un vicino edificio, che si rivela essere un laboratorio scientifico al cui interno è in costruzione una macchina del tempo. Questa lo proietta indietro di qualche ora: Hector scoprirà di essere lui stesso l'uomo bendato, e soprattutto che sarà necessario un ulteriore viaggio nel passato (di fatto "triplicandosi") per evitare una terribile sciagura... Il primo lungometraggio (dopo una serie di corti e di lavori per la TV) del regista spagnolo Nacho Vigalondo, specializzato in pellicole di fantascienza, è un'onesta storia sui viaggi nel tempo, che non inganna lo spettatore ed è coerente con sé stessa. Costruito come un thriller ed evidentemente a basso costo, il film impiega solamente quattro attori (Karra Elejalde è il protagonista Hector, Candela Fernández sua moglie Clara, Bárbara Goenaga la ragazza nel bosco, lo stesso Vigalondo è lo scienziato nel laboratorio), è privo di effetti speciali e punta le sue carte sulla tensione e sui colpi di scena. Siamo anche in assenza di paradossi temporali, visto che ogni viaggio di Hector fa sì che accadano quelle stesse cose che erano accadute la prima volta (benché lui non fosse consapevole di esserne la causa), e alla fine tutto si incastra. Nulla di particolarmente nuovo, dunque, ma a volte è piacevole vedere un film su questo argomento che non sia troppo complicato o cerebrale.

22 luglio 2018

I compari (Robert Altman, 1971)

I compari (McCabe & Mrs. Miller)
di Robert Altman – USA 1971
con Warren Beatty, Julie Christie
***

Rivisto in divx.

Un western insolito che – com'è tipico di Altman – più che sulla storia o sui personaggi si concentra sulla descrizione di un ambiente: quello delle città americane di frontiera che sorgevano nel giro di pochi giorni nei pressi delle miniere fra le montagne e si popolavano rapidamente di disperati pronti a tutti pur di fare fortuna. Il protagonista, John McCabe (un Beatty che, con il barbone, assomiglia quasi a Kris Kristofferson), ex giocatore d'azzardo professionista e forse ex pistolero, vede l'occasione di emergere mettendo in piedi qualcosa che alla comunità manca ancora: un bordello. L'impresa, grazie anche alla consulenza e alla collaborazione di una "professionista" del settore come la signora Miller (Julie Christie), ha rapidamente successo. Ma quando un'importante compagnia intende rilevare la sua attività, tira troppo la corda e si ritrova costretto a difendere la propria vita con le armi. Violenza, cinismo, opportunismo, prevaricazione: questa era la giovane America nell'ottocento. Il film ne ricrea bene il panorama, grazie anche alla fotografia d'atmosfera di Vilmos Zsigmond, cupa nel ritrarre tanto gli esterni (mostrandoci una cittadina fredda, sporca e perennemente sferzata dalla pioggia, dal vento e dalla neve: il climax finale si svolge proprio sotto una copiosa nevicata) che gli interni (illuminati fiocamente e con colori caldi). Ne risulta un western del tutto atipico, antiromantico e che va volontariamente contro le convenzioni del genere (dall'eroe tutto d'un pezzo al setting asciutto e soleggiato), illustrando un mondo dimenticato da Dio (significativa la chiesa che brucia nel finale) e dalla legge. Alcuni personaggi di contorno avrebbero potuto essere caratterizzati di più o avere maggior spazio nella vicenda (il barbiere nero, la giovane sposina), ma nel complesso si tratta di un film originale e "di rottura", giustamente celebrato. Nel cast anche René Auberjonois, John Schuck, Shelley Duvall e Keith Carradine. Interessante la colonna sonora, con tre canzoni di Leonard Cohen ("The Stranger Song", "Sisters of Mercy" e "Winter Lady").

21 luglio 2018

Gli amici di Peter (K. Branagh, 1992)

Gli amici di Peter (Peter's Friends)
di Kenneth Branagh – GB 1992
con Stephen Fry, Emma Thompson
**1/2

Rivisto in divx.

Dopo anni di lontananza l'uno dall'altro, Peter (Stephen Fry) invita gli amici di un tempo a trascorrere tre giorni insieme, in occasione del capodanno, nella villa di campagna che ha ereditato dal padre. La reunion, iniziata all'insegna della nostalgia, porterà alla luce imbarazzi e paure, rancori e rimpianti, crisi nascoste e questioni irrisolte, ma permetterà anche di riattivare l'antico legame di amicizia... Il terzo film da regista di Kenneth Branagh è una commedia sul tema della rimpatriata fra amici (nello spirito de "Il grande freddo", di cui è quasi una versione in chiave british, meno cinica e più affettuosa nei confronti dei suoi personaggi), con una buona sceneggiatura e soprattutto un notevole cast: i cinque amici di Peter, ex compagni di bagordi e di spettacoli di cabaret, sono Andrew (lo stesso Branagh), che nel frattempo si è sposato con Carol (Rita Rudner, co-sceneggiatrice del film insieme a Martin Bergman), salutista diva della televisione americana; Maggie (Emma Thompson), rimasta single, frustrata e insicura di sé; Roger (Hugh Laurie) e Mary (Imelda Staunton), il cui matrimonio è in crisi per la morte di uno dei loro gemellini, che ha reso la donna eccessivamente apprensiva verso il figlio rimasto; e Sarah (Alphonsia Emmanuel), che passa da un fidanzato all'altro, e che ha portato alla festa la sua ultima fiamma, il grezzo e volgare Brian (Tony Slattery). Gli onori di casa, oltre che da Peter, sono fatti dall'anziana cuoca Vera (Phyllida Law), quasi una figura materna, e dal giovane valletto Paul (Alex Lowe), suo figlio. Nel finale, dopo che litigi, incomprensioni e chiarimenti avranno mescolato le carte in tavola (portando alla "rottura" fra Andrew e Carol, e fra Sarah e Brian, ma anche alla riconciliazione fra Roger e Mary), Peter confesserà a tutti il motivo per cui ha voluto rivederli dopo tanti anni: è sieropositivo. La vita, l'arte, l'amore, il sesso, le relazioni di coppia ai tempi dell'AIDS e degli anni novanta, con uno sguardo nostalgico rivolto al passato (la colonna sonora saccheggia la musica del decennio precedente, con tante hit da Cindy Lauper ai Queen, da Eric Clapton a Bruce Springsteen, passando per "Everybody Wants to Rule the World" dei Tears for Fears). Forse non originalissimo, ma comunque un film gradevole e ricco di momenti interessanti. L'impanto complessivo della pellicola, con la sua ambientazione quasi tutta all'interno della casa, è ovviamente teatrale, anche se stavolta non c'è Shakespeare di mezzo. Gran parte degli attori erano amici, familiari, conoscenti o collaboratori anche nella vita reale: in particolare Stephen Fry e Hugh Laurie recitavano in coppia come comici già da molti anni, e si erano conosciuti all'università grazie alla comune amica Emma Thompson, figlia di Phyllida Law e allora moglie di Kenneth Branagh.

20 luglio 2018

Al fuoco, pompieri! (Miloš Forman, 1967)

Al fuoco, pompieri! (Hoří, má panenko)
di Miloš Forman – Cecoslovacchia 1967
con Jan Vostrčil, Josef Sebánek
**

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

In una piccola cittadina fervono i preparativi per l'annuale ballo dei pompieri, al quale sono invitati gran parte degli abitanti del villaggio. Ma nulla va per il verso giusto: il comitato locale dei vigili del fuoco fa fatica a selezionare le ragazze per il concorso di bellezza per eleggere la reginetta del ballo, un incendio scoppia in paese distruggendo la casa dove vive un anziano, e i premi della lotteria che per solidarietà sarebbero dovuti andare a quest'ultimo vengono rubati prima dell'estrazione finale. E alla fine scompare anche il regalo che i pompieri avevano preparato per il loro capo in pensione. Il terzo lungometraggio di Forman, nonché il suo primo film a colori, pur ricordando in parte alcune sequenze dei lavori precedenti ("L'asso di picche" e "Gli amori di una bionda"), quelle appunto incentrate su balli e feste di paese, è nel complesso essenzialmente una farsa di impianto corale, ricolma di scenette e gag comiche che si prendono gioco in maniera anarchica un po' di tutto e di tutti. Forman dichiarò di aver voluto realizzare semplicemente una commedia, e che eventuali messaggi o metafore erano lasciati all'intepretazione degli spettatori. In effetti il film non piacque agli apparati statali, che vi lessero una cinica allegoria del paese (in balia di una classe politica incapace o disonesta), ma nemmeno ai veri vigili del fuoco, che lo videro letteralmente come una presa in giro dei propri reparti. Venne invece più apprezzato all'estero, forse perché la leggerezza e l'ironia, proveniendo da un paese dell'Europa dell'Est, furono salutati con piacere. Il titolo originale significa letteralmente "Fuoco, ragazza mia". Si tratta dell'ultimo film girato da Forman in patria: il regista si trovava a Parigi, in trattativa con alcuni distributori, quando i sovietici invasero Praga, e decise di rimanere in esilio.

18 luglio 2018

Cleo dalle 5 alle 7 (Agnès Varda, 1962)

Cleo dalle 5 alle 7 (Cléo de 5 à 7)
di Agnès Varda – Francia 1962
con Corinne Marchand, Antoine Bourseiller
***1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Due ore (in realtà un'ora e mezzo: si comincia alle 17.00 e si termina, a dispetto del titolo, alle 18.30) della vita di Cléo (Corinne Marchand), giovane cantante parigina, seguita in tempo reale – compresi tempi morti, spostamenti, momenti di riflessione, sguardi e conversazioni apparentemente banali – con tanto di didascalie in sovrimpressione che dividono la vicenda in 13 capitoletti e indicano il minutaggio e il personaggio chiave di ogni sequenza (ma senza mai stacchi netti: tutto fluisce senza soluzione di continuità, come la vita vera). La storia si svolge nel tardo pomeriggio del 21 giugno 1961, giorno del solstizio d'estate. La ragazza, preoccupata perché in attesa di conoscere l'esito di un esame medico (e sospetta che si tratti di un tumore maligno), visita una cartomante che conferma i suoi timori (nella sequenza di apertura, l'unica a colori di un film per il resto tutto in bianco e nero), fa shopping insiema alla sua domestica Angèle (Dominique Davray), torna a casa in taxi, riceve la visita del suo sfuggente amante e poi quella di due musicisti (compositore e paroliere) che gli propongono nuove canzoni, esce a fare due passi, osserva la gente in un caffé (ed è osservata a sua volta dai passanti per la strada), va a trovare un'amica modella (Dorothée Blanck), si addentra nel parco Mountsouris dove conosce un militare in procinto di partire per la guerra in Algeria (Antoine Bourseiller), e infine si fa accompagnare da questi in ospedale per incontrare il medico... Il secondo film di Agnès Varda è uno dei piú significativi della cosiddetta "rive gauche" della Nouvelle Vague, della quale mette in pratica quasi alla lettera gli intenti di descrivere la vita quotidiana e di girare nelle strade, in mezzo alla gente. Ma soprattutto offre uno sguardo e un'attenzione al mondo tutta femminile (riflettendo per esempio sul modo in cui le donne, soprattutto se giovani e belle come Cléo, sono perepite dalla società). Dietro il minimalismo e l'apparente leggerezza della vita della protagonista, interprete di canzonette e ossessionata dalle apparenze, si sfiorano temi esistenziali come la morte e la malattia, la vita e l'amore, la bellezza e la pudicizia, l'arte e la società, l'immagine di sé e l'opinione degli altri.

Una sensazione di malinconia e di paura (dovuta al timore della malattia, certo) accompagna tutta la sua giornata, condizionando il suo rapporto con sé stessa (il senso di inadeguatezza), quello con gli altri (amici o sconosciuti, collaboratori di lavoro o semplici passanti), quello con il suo lavoro (chiede alla tassista di spegnere la radio quando è in onda una sua canzone, ma ne fa partire una lei stessa nel jukebox del caffè), e in generale con il mondo (spicca la sua forte superstizione, che carica di significati ogni evento e ogni oggetto). La sua immagine di bambola (bionda e angelica nella prima parte del film, quando veste di bianco; triste e malinconica nella seconda parte, quando veste di nero) nasconde un'anima tormentata, insicura e infelice, che cerca continuamente conforto o approvazione negli altri: e infatti basterà l'incontro con uno sconosciuto sensibile e sincero a sollevarla dalle preoccupazioni. La sceneggiatura, che pare quasi improvvisata, è in realtà densa di rimandi, dettagli e particolari interessanti: per esempio, il fatto che la storia si svolga il primo giorno d'estate può indicare il passaggio della protagonista (il cui vero nome, scopriremo, è Florence: la flora è il simbolo della primavera) verso la maturità, ma allude anche alla sua malattia (il sole passa nel segno del cancro). A dire il vero, l'intenzione originale di Agnès Varda era quella di filmare il 21 marzo ("per catturare il passaggio meraviglioso di Parigi dall'inverno alla primavera"), ma per motivi di budget non poté cominciare che tre mesi più tardi. Nel dialoghi è però rimasto il riferimento al fatto che siamo di martedì (il 21 marzo 1961 era effettivamente martedì, ma il 21 giugno era mercoledì: consideriamola una licenza poetica). Jean-Luc Godard, Anna Karina, Eddie Constantine e Jean-Claude Brialy sono gli interpreti dei "Les fiancés du Pont MacDonald", il cortometraggio muto, poetico e burlesque che Cléo e la sua amica Dorothée guardano dalla cabina del proiezionista. Il compositore Michel Legrand, autore della colonna sonora, interpreta il pianista Bob: fra le sue canzoni spicca la triste "Sans toi", su testi della stessa Varda, che Corinne Marchand canta guardando in macchina.

16 luglio 2018

Il corridoio della paura (S. Fuller, 1963)

Il corridoio della paura (Shock corridor)
di Samuel Fuller – USA 1963
con Peter Breck, Constance Towers
**1/2

Rivisto in DVD.

Per risolvere un caso di omicidio avvenuto all'interno di un ospedale psichiatrico, Johnny Barrett (Breck), ambizioso giornalista che sogna di vincere il premio Pulitzer, ignora i timori della fidanzata (Towers), si finge pazzo e si fa ricoverare in quello stesso istituto. Riuscirà a svelare l'enigma, ma perderà la sanità mentale. Antesignano di "Qualcuno volò sul nido del cuculo", un film celebre per il ritratto angosciante e claustrofobico del mondo delle turbe mentali, di cui porta sullo schermo le origini e i sintomi con immagini potenti: se la pellicola è girata in un espressionistico bianco e nero, le visioni, i ricordi e le allucinazioni degli alienati sono invece a colori (e con una distorsione del formato). All'epoca scosse molti spettatori, visto oggi mostra invece tutti i suoi limiti e le sue ingenuità nella descrizione dei malati e dei processi della schizofrenia, per non parlare del ritratto degli psichiatri, che si lasciano ingannare troppo facilmente dalla finzione del protagonista, coadiuvato dalla fidanzata che simula di essere sua sorella, molestata da lui sin da piccola. Non mancano cliché o situazioni sopra le righe (l'assalto delle ninfomani, per esempio), e il crescendo della follia del giornalista è poco verosimile. Ma la tensione è ben costruita e l'intensità emotiva della pellicola è innegabile, anche perché sfiora molteplici temi socio-politici e legati all'attualità (la guerra, il razzismo, la paura del nucleare). Fra i pazienti dell'ospedale psichiatrico, infatti, oltre al gigantesco Pagliacci (Larry Tucker), obeso cantante d'opera, spiccano i tre testimoni che Johnny deve interrogare approfittando dei loro brevi momenti di lucidità: un soldato della guerra di Corea che ha disertato per passare ai comunisti e che crede di essere un generale sudista (James Best), uno studente nero che inneggia al razzismo e al Ku Klux Klan (Hari Rhodes), e un fisico atomico regredito all'età di sei anni (Gene Evans). John Matthews è il dottor Cristo (!), direttore dell'istituto. Fuller aveva scritto il soggetto per Fritz Lang già negli anni quaranta. In apertura e chiusura del film c'è una citazione di Euripide: "Colui che gli dei vogliono distruggere, per prima cosa viene reso pazzo".

15 luglio 2018

L'uomo che vide l'infinito (Matt Brown, 2015)

L'uomo che vide l'infinito (The Man Who Knew Infinity)
di Matt Brown – GB 2015
con Dev Patel, Jeremy Irons
*1/2

Visto in divx.

All'inizio del ventesimo secolo, e alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale, il matematico britannico G. H. Hardy (Irons) invita al Trinity College di Cambridge l'autodidatta indiano Srinivasa Ramanujan (Patel), che da Madras gli aveva inviato alcuni suoi appunti, ricolmi di teoremi e di idee rivoluzionarie ma esposte in maniera confusa. Scoprirà che Ramanujan ha un talento puro e unico per la matematica e le connessioni fra i numeri, ma anche che la mancanza di formalismo, di rigore e di linguaggio comune (oltre che, ovviamente, la sua provenienza) rischiano di impedirgli di essere accettato come quel genio che è. Un biopic alquanto piatto e convenzionale, che non rende giustizia a un personaggio straordinario come è stato Ramanujan. Come quasi tutti i film sui matematici, si concentra piu sul lato umano del protagonista che non sull'oggetto dei suoi studi, descritti in modo vago e generico, e non riesce a far capire allo spettatore non solo la bellezza della matematica o la magia della teoria dei numeri (di cui si vede ben poco, solo pochi concetti buttati lì senza approfondimenti, con l'unica eccezione di un accenno alla formula delle partizioni) ma nemmeno l'eccezionalità del personaggio. E così ci si limita al ritratto dell'indiano "fuori posto" in Inghilterra (dove il fatto che sia un matematico anziché qualsiasi altra cosa ha poca importanza) e al dualismo fra la sua fiducia in un'intuizione quasi divina ("Un'equazione non significa nulla per me se non esprime un pensiero di Dio") e l'esigenza di un formalismo rigoroso (basato sulle dimostrazioni) da parte del suo mentore ateo. Le ottime prove attoriali di Dev Patel e (soprattutto) di Jeremy Irons sono le cose migliori di un film che per il resto è convenzionale nella regia, patinato nella fotografia, melenso nella musica e sfilacciato nella sceneggiatura (le parti con la moglie e la madre, rimaste in India, distraggono da quello che in fondo è l'argomento centrale: non la vita o l'opera di Ramanujuan ma il suo rapporto con Hardy e con l'Inghilterra). Toby Jones è John Edensor Littlewood, Jeremy Northam è Bertrand Russell, Stephen Fry è sir Francis Spring.

14 luglio 2018

Carne trémula (Pedro Almodóvar, 1997)

Carne trémula (id.)
di Pedro Almodóvar – Spagna 1997
con Liberto Rabal, Francesca Neri, Javier Bardem
**1/2

Visto in divx.

Il giovane Victor (Liberto Rabal), puro, ingenuo e senza esperienza nella vita, si invaghisce al primo incontro della bella Heléna (Francesca Neri), figlia di un diplomatico italiano, e provoca senza volerlo una colluttazione nella quale il poliziotto David (Javier Bardem) rimane ferito alla spina dorsale da un colpo di pistola. Dopo aver trascorso sei anni in prigione, Victor scopre che David (diventato un campione di basket in carrozzella) ed Heléna si sono sposati. E ancora una volta, senza un reale intento maligno, torna nelle loro vite per cambiarle completamente... Dal romanzo "Carne viva" di Ruth Rendell (ma chissà perché il titolo del film è rimasto in spagnolo), un intenso melodramma con sfumature da thriller romantico e psicologico, che parla di colpa e tradimento, di espiazione e di riscatto, di amore vero e per compassione. La pellicola, una delle poche di Almodóvar a presentare un punto di vista più maschile che femminile, è costruita su una ragnatela di relazioni e rapporti incrociati fra i personaggi – oltre a Victor, Heléna e David, ci sono anche Sancho (José Sancho), il violento compagno di pattuglia di David, e sua moglie Clara (Ángela Molina), un tempo amante di David e ora di Victor – causata più dal destino e dalle coincidenze che dalle loro azioni. E sotto questa luce possono leggersi anche alcuni elementi apparentemente pretestuosi o spuri (come l'incipit che ci mostra la nascita di Victor a bordo di un autobus, per esempio, o i sottotesti sociali e politici). Ottima l'atmosfera (che attraversa varie epoche della storia di Spagna), la fotografia e la prova degli attori, in particolare quella di un Bardem alle prime armi (che per Almodóvar aveva già recitato in una piccola parte in "Tacchi a spillo"). Penélope Cruz è la madre di Victor nel prologo. Il film che Heléna sta guardando in tv quando arriva Victor è "Estasi di un delitto" di Buñuel.

12 luglio 2018

Lo sceicco bianco (F. Fellini, 1952)

Lo sceicco bianco
di Federico Fellini – Italia 1952
con Brunella Bovo, Alberto Sordi
***

Visto in divx.

La giovane sposina Wanda (Brunella Bovo), giunta a Roma dalla Sicilia in luna di miele con il marito Ivan Cavalli (Leopoldo Trieste), è una grande appassionata dei fotoromanzi di avventura esotica (allora incredibilmente popolari in Italia), in particolare quelli con protagonista Fernando Rivoli (Alberto Sordi) nei panni dello "Sceicco bianco", al quale scrive lettere di ammirazione e dedica ritratti. Allontanatasi di nascosto dal marito per visitare la redazione del fotoromanzo, finirà col trascorrere l'intera giornata (e nottata!) fuori dall'albergo, sul set della nuova avventura del suo eroe preferito, rimanendone delusa quando scopre che dietro il costume si cela una persona qualunque, anzi un mediocre seduttore da strapazzo. E nel frattempo, Ivan avrà il suo da fare per mantenere nascosta la fuga della moglie (che ne comprometterebbe l'onore) ai parenti con i quali avrebbe dovuto visitare Roma (in programma c'è persino un'udienza papale!). Sceneggiato da Fellini insieme a Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano da un soggetto di Michelangelo Antonioni (che inizialmente avrebbe dovuto dirigerlo di persona, ma si dichiarò insoddisfatto del trattamento di Fellini e Pinelli; Antonioni aveva già affrontato il tema dei fotoromanzi come "fabbrica di sogni" nel cortometraggio "L'amorosa menzogna"), il film segnò così l'esordio del regista riminese da solo dietro la macchina da presa (in precedenza aveva co-diretto con Alberto Lattuada "Luci del varietà"). Antonioni avrebbe voluto dare alla storia un taglio fortemente satirico, mentre Fellini sceglie di mettere in scena la fascinazione di una ragazza provinciale e ingenua per una vita da sogno, migliore persino della "vita vera", che scoprirà però non esserne altro che una caricatura. Il contrasto fra l'immaginazione e la fantasia (personaggi con abiti esotici, scenari da favola, avventure romantiche) e la realtà prosaica (le periferie romane, il litorale laziale che dovrebbe simulare il deserto africano, i dialetti e le volgarità) contribuisce a dare spessore a una commedia originale e già tipicamente felliniana, non priva di momenti di affettuosa tenerezza oltre che di ironia. Sordi, a tratti, è irresistibile, mai sopra le righe, anche quando fa il verso a Rodolfo Valentino. Il personaggio della prostituta Cabiria, interpretato da Giulietta Masina in una breve scena, sarà espanso da Fellini e diventerà protagonista di un intero film, "Le notti di Cabiria". Ernesto Almirante è il regista del fotoromanzo, Ugo Attanasio è lo zio di Ivan. Musiche di Nino Rota. All'epoca la critica cinematografica stroncò la pellicola, salvo poi rivalutarla negli anni successivi.

11 luglio 2018

La regina Elisabetta (Mercanton, Desfontaines, 1912)

La regina Elisabetta (Les amours de la reine Élisabeth)
di Louis Mercanton, Henri Desfontaines – Francia 1912
con Sarah Bernhardt, Lou Tellegen
*1/2

Visto su YouTube.

Muto francese in quattro rulli (circa 44-50 minuti) sulla presunta relazione di Elisabetta I d'Inghilterra con il suo favorito Robert Devereux, conte di Essex. Un amore infelice, visto che lei stessa, scoprendolo infedele (ma anche per via degli intrighi dei suoi nemici), lo condannerà a morte per tradimento. Il maggior motivo di interesse sta nell'interprete principale, nientemeno che la celebre attrice teatrale Sarah Bernhardt, che all'epoca aveva 64 anni (e che comunque non era alla prima esperienza cinematografica). Condensato da un omonimo dramma teatrale, il film fu co-finanziato dal produttore americano Adolph Zukor, che ottenne in cambio i diritti per la distribuzione negli Stati Uniti. Proiettata nei teatri di Broadway, dove riscosse un grande successo, la pellicola contribuì a "sdoganare" l'industria cinematografica agli occhi di chi, soprattutto impresari e attori teatrali, fino ad allora la guardava dall'alto in basso (il cinema, in particolare negli Stati Uniti, era ancora considerato come una curiosità rivolta agli strati meno acculturati della popolazione: la presenza della Bernhardt fece cambiare idea a molti). Il successo aiutò inoltre Zukor a lanciarsi nella realizzazione di pellicole di lunga durata e altamente spettacolari attraverso la casa di produzione da lui fondata, la Famous Players, che diventerà la Paramount Pictures. Detto questo, rivisto oggi "La regina Elisabetta" è tutt'altro che un film memorabile, e (durata a parte) non sembra rappresentare un passo avanti rispetto a quanto si era visto negli anni immediatamente precedenti. Abbiamo una successione di lunghe scene d'insieme (precedute da didascalie che ne anticipano il contenuto) di impostazione teatrale, senza primi piani, dettagli di inquadratura o stacchi di montaggio. Certo, allora questa era ancora la consuetudine: ma in un periodo in cui il cinema stava facendo passi da gigante anno dopo anno nell'evoluzione del proprio linguaggio (tanto che Porter e Griffith stavano già muovendosi in direzioni più sofisticate), questo film sembra l'ultimo fuoco di un passato in via di estinzione più che un'anticipazione del futuro. Belli comunque i costumi sfarzosi.

10 luglio 2018

Young adult (Jason Reitman, 2011)

Young adult (id.)
di Jason Reitman – USA 2011
con Charlize Theron, Patton Oswalt
**1/2

Visto in divx, con Sabrina.

La trentasettenne Mavis Gary (Charlize Theron), scrittrice di romanzi per adolescenti e con un matrimonio fallito alle spalle, decide di tornare all'improvviso nella cittadina dove è nata e cresciuta (e che aveva abbandonato per seguire i propri sogni di gloria) con l'obiettivo di "riconquistare" la sua fiamma del liceo, Buddy Slade (Patrick Wilson), che nel frattempo si è sposato e ha appena avuto una bambina. I risultati non saranno quelli sperati, e Mavis dovrà rendersi conto che il tempo è passato anche per lei... Seconda collaborazione (dopo "Juno") di Jason Reitman con Diablo Cody, che ha scritto la sceneggiatura cercando di prendere in giro soprattutto sé stessa. Il titolo, oltre a fare riferimento al target dei romanzi che la protagonista scrive (di cui peraltro non è che la ghost writer), descrive alla perfezione quelle persone che rifiutano di entrare nell'età adulta, con tutte le sue responsabilità, per continuare a vivere l'illusione di un'eterna e spensierata adolescenza (e dunque vediamo spesso Mavis trasandata nel vestire e nel mangiare, ma anche con una maglietta di Hello Kitty indosso e con un cagnolino/gadget nella borsa). Certo, trattandosi di un personaggio parzialmente autobiografico, la sceneggiatura della Cody guarda a Mavis con una certa simpatia (nonostante i suoi difetti), e il film non lancia un messaggio di "crescita" a tutti i costi, celebrandone anzi l'unicità e l'indipendenza. Ma in questo modo sembra quasi voler tenere i piedi in due scarpe, condannando e celebrando al tempo stesso la fuga dalla realtà, e risultando un po' furbetto e ruffiano. Resta comunque un ottimo studio psicologico di un personaggio figlio dei nostri tempi, e può contare su un'interprete perfettamente in parte, una Theron cinica e indisponente. A tratti è pure divertente, specie quando scimmiotta i cliché della commedia romantica (in stile "Il matrimonio del mio miglior amico"), benché in generale il tono sia più sul deprimente e sull'amaro che non sul brillante. Patton Oswalt è Matt, l'amico disabile nonché il "confidente" di Mavis. Elizabeth Reaser è la moglie di Buddy.

9 luglio 2018

L'ultimo Apache (R. Aldrich, 1954)

L'ultimo Apache (Apache)
di Robert Aldrich – USA 1954
con Burt Lancaster, Jean Peters
**

Visto in divx.

Nel 1886, quando il capo apache Geronimo e le sue truppe si arrendono all'esercito americano, il giovane guerriero Massai (Lancaster) rifiuta di sottomettersi e farsi deportare insieme a loro in una riserva in Florida. Orgoglioso e ribelle, una volta fuggito si dà alla macchia e ad azioni di guerriglia, nella speranza di stimolare il suo popolo alla ribellione. Ma i tempi sono cambiati: e le molte avversità – oltre che l'amore della bella Nalinle (Peters) – lo convinceranno che un'altra strada è possibile, quella di diventare contadino e di vivere in pace con l'uomo bianco. Il primo western di Aldrich, al suo terzo film, ha la caratteristica "progressista" (e allora ancora inusuale) di raccontare la storia dal punto di vista dell'indiano anziché da quello dei bianchi che gli danno la caccia. Tanto basta per renderlo degno di nota, nonostante le ingenuità, il whitewashing (l'utilizzo di attori bianchi nei ruoli dei pellerossa) e il fatto che sia implausibilmente incruento (ma il lieto fine fu imposto dai produttori: sia Aldrich che Lancaster avrebbero preferito un finale meno ottimista). In ogni caso, il film sa raccontare un momento chiave della storia americana con attenzione sia alla psicologia dei personaggi che al loro rapporto con l'ambiente (emblematiche le scene di Massai che si aggira sperduto in mezzo alla "civiltà" dei negozietti di St. Louis, prima di tornare fra le sue montagne). Fra gli attori c'è anche Charles Bronson, accreditato con il suo vero nome di Charles Buchinsky, nel ruolo di Hondo, il rivale del protagonista.

7 luglio 2018

Sabrina (Billy Wilder, 1954)

Sabrina (id.)
di Billy Wilder – USA 1954
con Audrey Hepburn, Humphrey Bogart
***

Rivisto in DVD.

Un classico della commedia romantica, che ha cementato l'astro di Audrey Hepburn subito dopo "Vacanze romane". Sabrina Fairchild è l'umile figlia dell'autista della ricca famiglia Larrabee, del cui giovane rampollo David (William Holden) è da sempre innamorata. Ma questi, playboy impenitente e distratto dalle dame dell'alta società, non la degna di uno sguardo. E perciò, dopo un maldestro tentativo di suicidio, la ragazza preferisce cambiare aria, trasferendosi per due anni a Parigi per seguire un corso di cucina. Ne tornerà trasformata, più elegante e sofisticata: a questo punto David non potrà non notarla, suscitando la preoccupazione del resto della famiglia e in particolare del fratello maggiore Linus (Humphrey Bogart) – Larry nel doppiaggio italiano – che puntava sul matrimonio di David con una ricca ereditiera per concludere un affare da milioni di dollari. Per "distrarre" Sabrina e spingerla a dimenticare David, lo stesso Linus comincia così a corteggiarla a sua volta: e prima che se ne rendano conto, i due si scopriranno innamorati... Un cast perfetto (anche nei comprimari: Walter Hampden è il padre di Linus e David, John Williams quello di Sabrina, Martha Hyer la promessa sposa di David), la regia elegante di Wilder, la fotografia d'atmosfera di Charles Lang, una sceneggiatura (da una commedia teatrale di Samuel A. Taylor) che fonde magistralmente momenti drammatici, comici, sentimentali e di analisi sociale, una colonna sonora in cui ricorrono le canzoni "Isn't it romantic?" (da "Amami stanotte", già usata da Wilder in "Frutto proibito" e "Scandalo internazionale") e "La vie en rose", peraltro sfruttate in funzione diegetica, e tanto, tanto romanticismo. Illuminata dal volto e dalla figura minuta della Hepburn (splendida sia negli abiti "quotidiani" di Edith Head che in quelli d'alta moda di Hubert de Givenchy: il film vinse l'Oscar per i migliori costumi e ottenne in tutto sei nomination), Sabrina passa dalla cotta adolescenziale per lo scapestrato David a quella, più matura e dunque più autentica, per Linus, un uomo più grande di lei e che all'inizio considerava "grigio e noioso", apparentemente interessato solo alla finanza e agli affari. Lo stesso Linus scoprirà un lato di sé stesso che fino ad allora ignorava. Bogart sostituì all'ultimo minuto Cary Grant, che si ritirò una settimana prima delle riprese. L'incipit (con la voce narrante della stessa Sabrina) dona alla pellicola una patina fiabesca (e infatti non è difficile riconoscervi le stigmate di "Cenerentola"). Un inutile remake nel 1995, con Julia Ormond e Harrison Ford. Curiosità: in una scena, Linus chiede alla sua segretaria di comprare dei biglietti per la commedia teatrale "The seven year itch", che sarà il soggetto del successivo film di Wilder, "Quando la moglie è in vacanza".

6 luglio 2018

1941 - Allarme a Hollywood (S. Spielberg, 1979)

1941 - Allarme a Hollywood (1941)
di Steven Spielberg – USA 1979
con Bobby Di Cicco, John Belushi
*

Rivisto in TV.

Nel dicembre del 1941, pochi giorni dopo l'attacco giapponese a Pearl Harbor, negli Stati Uniti c'è panico e paranoia per una probabile nuova offensiva nipponica. E in effetti un sottomarino del Sol Levante si avvicina in segreto alle coste della California con l'intenzione di assaltare Hollywood. Peccato che l'equipaggio a bordo sia composto da inetti, così come altrettanto stupidi sono i soldati americani preposti alla difesa... Sceneggiato da Robert Zemeckis e Bob Gale, nella vena comica, demenziale e anarchica dei loro primi lavori, forse il peggior film della carriera di Steven Spielberg (che pure giungeva subito dopo "Lo squalo" e "Incontri ravvicinati del terzo tipo", e immediatamente prima de "I predatori dell'arca perduta" ed "E.T."). Visti i talenti in gioco, stupisce quanto poco ci sia da salvare in questa farsa scatenata, scollacciata e confusa, colma di gag che non fanno mai ridere, e in ogni caso più simile a certe cose di John Landis, del "Saturday Night Live" o della "National Lampoon" (come indicano anche alcuni degli interpreti, quali John Belushi, Dan Aykroyd, John Candy) che non alle pellicole escapiste dello stesso Spielberg. La vicenda è corale e pare quasi improvvisata, senza un vero personaggio centrale ma con numerose sottotrame che si intrecciano nell'arco di una serata. Il fatto che tutto avvenga sullo sfondo della seconda guerra mondiale e in un periodo drammatico della storia americana, peggiora le cose invece che migliorarle. Il cast, ricchissimo di nomi noti, unisce comici televisivi e grandi stelle del cinema classico, con alcune guest star inaspettate. Lo sbruffone Loomis Birkhead (Tim Matheson) cerca di conquistare la bella segretaria Donna Stratton (Nancy Allen) millantandosi pilota e sfruttando la passione di lei per il volo. Ma i due, a bordo di un aereo, vengono scambiati per giapponesi dal capitano Wild Bill Kelso (John Belushi), un asso dell'aviazione fuori di testa. Nel frattempo il cuoco ballerino Wally (Bobby Di Cicco) e il prepotente caporale Stretch (Treat Williams), rivali a causa della giovane Elizabeth (Dianne Kay), si sfidano durante una gara di boogie-woogie, provocando una rissa gigantesca. Toshiro Mifune è il comandante del sommergibile giapponese, Christopher Lee l'ufficiale nazista a bordo dello stesso. Nel cast, in ruoli più o meno minori, anche Robert Stack (il generale che trascorre la serata al cinema a vedersi "Dumbo" di Walt Disney), Ned Beatty, Lorraine Gary, Warren Oates, Slim Pickers, Lionel Stander, e tanti altri. Nell'incipit (con la ragazza che nuota nuda in mare e rimane aggrappata all'asta del sommergibile) Spielberg gioca a rievocare – con tanto di tema musicale di John Williams – il suo "Lo squalo".

5 luglio 2018

I prevaricatori (Cecil B. DeMille, 1915)

I prevaricatori (The cheat)
di Cecil B. DeMille – USA 1915
con Fannie Ward, Sessue Hayakawa
***

Visto su YouTube, con cartelli in inglese.

Quando il marito Richard (Jack Dean) – che ha investito tutto il proprio denaro in una speculazione in borsa – le taglia le spese, la viziata e vanitosa Edith (Fannie Ward) non esita a sottrarre diecimila dollari dalla raccolta dei fondi per la Croce Rossa di cui è la tesoriera. Per restituirli, è costretta a chiedere un prestito a Hishuru Tori (Sessue Hayakawa), un facoltoso commerciante giapponese, che in cambio pretende che trascorra una notte con lui. Al suo rifiuto, l'uomo la marchia sprezzamente con il proprio simbolo, lo stesso che appone su tutti gli oggetti d'arte che acquista ("Significa che appartiene a me", le aveva spiegato). Edith gli spara, ma sarà il marito ad assumersi la colpa e ad essere processato in tribunale, salvo venire assolto quando verrà alla luce tutta la verità. Forse il più noto dei primissimi film della carriera di DeMille, un torbido dramma altoborghese di passione e ricatto che non ha nulla da invidiare a "Proposta indecente", anzi ne è probabilmente la fonte di ispirazione. Sfrondato dai sottotesti razzisti (l'uomo orientale che tratta la donna bianca come una schiava), il soggetto – feroce anche nel descrivere il mondo dell'alta società newyorkese, dove gli affari e i rapporti sentimentali sono trattati allo stesso modo, come giochi di potere – è reso sullo schermo al massimo delle sue potenzialità, in gran parte grazie al fascinoso Hayakawa, la cui recitazione ambigua e misurata, pur in un ruolo da cattivo, lo rese immediatamente una star. La sua lunga carriera culminerà nel 1957 con la candidatura all'Oscar per "Il ponte sul fiume Kwai". Fannie Ward e Jack Dean erano moglie e marito anche nella vita reale. La regia di DeMille è da ricordare per l'utilizzo delle luci e delle ombre: da qualche mese il cineasta aveva cominciato a mettere in pratica alcune tecniche di illuminazione che aveva appreso quando lavorava in teatro con l'impresario David Belasco. L'uso delle luci per illuminare solo alcuni dettagli nelle scene notturne o in penombra, ma anche per ottenere effetti drammatici di contrasti e di chiaroscuro o persino espressionistici (si pensi alle ombre delle persone dietro al paravento, o a quello delle sbarre della prigione proiettate sul muro della cella di Richard), influenzò pesantemente tutta l'industria cinematografica, spingendo gli studios ad attrezzarsi con lampade di vario tipo, ed è probabilmente uno dei più importanti lasciti di DeMille al "linguaggio" della settima arte. Nel 1918 il film venne rieditato con una modifica: il commerciante giapponese Hishuru Tori diventa ora Haka Arakau, un "re dell'avorio" birmano. Questo perché la comunità nipponica negli Stati Uniti si era lamentata, ma soprattutto perché il Giappone era diventato un alleato degli USA. Svariati i remake: nel 1923 (con Pola Negri), nel 1931 (con Tallulah Bankhead) e nel 1937 (girato in Francia da Marcel L'Herbier, con lo stesso Hayakawa a riprendere il proprio ruolo). Alquanto strano il titolo italiano declinato al plurale: chi sono "i prevaricatori"? I predatori sessuali, gli squali della finanza, o gli asiatici in generale?

4 luglio 2018

Confusi e felici (M. Bruno, 2014)

Confusi e felici
di Massimiliano Bruno – Italia 2014
con Claudio Bisio, Anna Foglietta
*1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Lo psicoanalista romano Marcello (Claudio Bisio) piomba nella depressione quando gli viene diagnosticata una grave malattia agli occhi, una maculopatia che lo renderà cieco nel giro di pochi mesi. Su suggerimento della sua segretaria Silvia (Anna Foglietta), saranno i suoi stessi pazienti – lo spacciatore Nazareno (Marco Giallini), in preda ad attacchi di panico anche per via di un figlio in arrivo; il telecronista sportivo Michelangelo (Rocco Papaleo), soggetto a scatti d'ira per via del tradimento della moglie; l'autista di bus Pasquale (lo stesso regista Bruno), eterno bambino e dipendente dalla madre; la ninfomane Vitaliana (Paola Minaccioni); la coppia formata da Enrico (Pietro Sermonti) e Betta (Caterina Guzzanti), coniugi con problemi di sesso – a coalizzarsi per cercare di risollevargli il morale e a fargli vincere le sue paure, compresa quella di sottoporsi a una pericolosa operazione che potrebbe salvargli la vista. E nel frattempo, naturalmente, anche i pazienti sapranno superare i propri problemi grazie a questa "terapia di gruppo". I personaggi discretamente abbozzati (benché un po' macchiettistici) e un certo pathos di fondo sono i punti di forza di una commedia non del tutto scontata e con alcuni buoni momenti, ma complessivamente di stampo televisivo, con una sceneggiatura sfilacciata e non proprio indimenticabile. Breve cameo per Max Gazzè, Niccolò Fabi e Daniele Silvestri nella scena della serenata.

2 luglio 2018

Il sacrificio del cervo sacro (Y. Lanthimos, 2017)

Il sacrificio del cervo sacro (The killing of a sacred deer)
di Yorgos Lanthimos – Irlanda/GB/USA 2017
con Colin Farrell, Nicole Kidman
***

Visto al cinema Colosseo, con Marisa.

Nella vita del cardiochirurgo Steven Murphy (Colin Farrell, al secondo film con Lanthimos dopo "The lobster"), felicemente sposato con Anna (Nicole Kidman) e padre di due figli (Raffey Cassidy e Sunny Suljic), entra prepotentemente il sedicenne Martin (Barry Keoghan), figlio di un paziente morto due anni prima durante un'operazione per una sua negligenza. Il ragazzo, come scopriremo, è in cerca non tanto di vendetta quanto di giustizia: e spiega a Steven che se non ucciderà uno dei suoi familiari per "compensare" la sua colpa, tutti e tre si ammaleranno e moriranno (in maniera inspiegabile alla scienza: siamo di fronte a una giustizia quasi "divina"). Dopo "Dogtooth", il regista greco continua ad affidarsi ai miti classici per raccontare drammi familiari e sociali con un taglio simbolico e surreale. Questa volta l'ispirazione è data dalla tragedia di Ifigenia (citata anche nei dialoghi): e se i rimandi alle metafore e alla mitologia (la catarsi, il sacrificio...) sono forse sin troppo espliciti (sin dal titolo!), ciò non toglie che resta un film assai intrigante, originale e disturbante (comincia con le immagini di un intervento a cuore aperto!), con ottime interpretazioni di attori che hanno dovuto "trattenere" (ma non reprimere) le proprie emozioni. Il modo di rapportarsi e di relazionarsi dei personaggi, infatti, avviene con un linguaggio asettico (anestetizzato?) e formale, a tratti persino ieratico, che rende naturale parlare in maniera diretta anche di argomenti delicati e privati (come le mestruazioni della figlia, la masturbazione o i peli corporei) ed evita scene madri nei momenti più tragici (quando ci si aspetterebbero scenate o scoppi di pianto), forse proprio perché emozioni così forti, anche nel teatro greco, dovevano essere necessariamente stemperate (per spersonalizzarle e renderle così universali). L'analisi dei rapporti familiari va comunque in profondità, mostrando per esempio come anche i legami più sinceri e affezionati siano soggetti a istanze di egoismo o a tentativi di compiacere il prossimo con la logica o l'adulazione pur di ottenere un vantaggio (i vari familiari di Steven tentano a turno di accattivarselo). Notevole anche la colonna sonora, con le sonorità inquietanti di Ligeti e i canti sacri di Schubert e Bach. Alicia Silverstone è la madre di Martin. Il film che Steven guarda a casa del ragazzo è "Ricomincio da capo" con Bill Murray (altra pellicola dove accade qualcosa di misterioso e "karmico"). Premio a Cannes per la migliore sceneggiatura.

1 luglio 2018

L'assassinio del Duca di Guisa (A. Calmettes, 1908)

L'assassinio del Duca di Guisa (L'assassinat du duc de Guise)
di André Calmettes – Francia 1908
con Charles Le Bargy, Albert Lambert
**1/2

Visto su YouTube.

Il re Enrico III di Valois complotta per assassinare il suo rivale Enrico di Lorena, Duca di Guisa, protetto dalla marchesa di Noirmoutier, di cui è l'amante. Con uno stratagemma lo convoca al Castello di Blois il 23 dicembre 1588 e lo fa pugnalare dalle sue guardie. Questo episodio storico è il soggetto di un film assai importante e significativo per l'epoca, il primo realizzato dalla neonata casa di produzione Le Film d'Art, fondata quello stesso anno su sollecitazione dei membri della Comédie-Française (e che per questo motivo, a differenza delle rivali Pathé e Gaumont, impiegava attori teatrali già affermati e noti al pubblico). Il film ebbe grande successo anche all'estero e, in particolare, influenzò la nascente industria cinematografica italiana, ispirandola a dedicarsi a soggetti di natura storica, epica o letteraria. Diviso in sei quadri (il quarto dei quali presenta alcuni stacchi di inquadratura) per una durata di due rulli (circa 18 minuti), il film è notevole per la composizione della scena, la collocazione delle figure all'interno di essa (pur con la camera fissa, i personaggi entrano ed escono dall'inquadratura), la cura dei costumi e degli scenari, e anche la qualità della recitazione, che pare più naturale con movimenti più misurati e meno enfatici rispetto alla media dell'epoca, il che permette di caratterizzare bene i personaggi (il Duca, talmente sicuro di sé da risultare quasi sfacciato, e il Re, perfido e codardo, che ha timore del nemico anche da morto). Pare che questa sia stata una scelta consapevole dell'attore Charles Le Bargy (che recita nei panni del re Enrico III e che fu responsabile della direzione degli attori, mentre Calmettes è accreditato della messa in scena), che preferì concentrarsi sulle espressioni del volto anziché sul gesticolare tipico delle pantomime, imponendo anche al resto del cast dei movimenti "lenti, misurati ed espressivi" (a volte restando quasi immobile, come in un dipinto). Albert Lambert è il Duca di Guisa, Gabrielle Robinne è la marchesa. La sceneggiatura, assai attenta al contesto e alla ricostruzione storica, è di Henri Lavedan. Da segnalare inoltre la colonna sonora originale, forse la prima mai composta appositamente per un film, opera nientemeno che di Camille Saint-Saëns (fu pubblicata poi come Op. 128 per corde, piano e harmonium).