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4 maggio 2023

The lighthouse (Robert Eggers, 2019)

The Lighthouse (id.)
di Robert Eggers – USA/Canada 2019
con Robert Pattinson, Willem Dafoe
***

Visto in TV (Netflix).

Alla fine dell'Ottocento, due uomini giungono su un'isola brulla e lontana dalla costa: dovranno rimanerci per un mese, a guardia del faro che lì si trova. La convivenza si dimostra subito difficile: il più anziano dei due (Willem Dafoe) assume per sé il comando e si arroga l'accesso esclusivo alla "luce", ovvero la lanterna del faro (con cui ha una relazione quasi mistica), relegando il più giovane (Robert Pattinson) a faticose incombenze e lavori di manutenzione. Col passare del tempo, per via della fatica, della solitudine, e mentre una tempesta scuote l'oceano e la barca che avrebbe dovuto dar loro il cambio non arriva, la salute mentale del giovane si deteriora sempre più, tanto da perdere la cognizione del tempo e da essere soggetto a sogni bizzarri e visioni di sirene e di strane creature. Il secondo lungometraggio di Robert Eggers, sceneggiato insieme al fratello Max (che inizialmente voleva ispirarsi a un racconto incompiuto di Edgar Allan Poe noto appunto come "Il faro"), è in realtà una rilettura del mito di Prometeo, come testimonia la scena finale: i due protagonisti (unici personaggi in tutto il film, se non contiamo la sirena – interpretata da Valeriia Karamän – che appare nelle visioni del giovane) rappresentano rispettivamente Zeus, la divinità che custodisce gelosamente la "luce" (ma con evidenti aspetti anche di Proteo, divinità marina, profetizzante e mutaforma), e Prometeo, o se vogliamo l'intero genere umano, che la agogna come la conoscenza per risollevarsi dalle fatiche in terra. Girato in un rigoroso bianco e nero e in formato 4:3, il film è cupo, austero, apparentemente enigmatico: lo sostengono, oltre all'eccellente prova dei due interpreti (in particolare Dafoe), l'elegante regia e l'espressiva fotografia (di Jarin Blaschke, candidata all'Oscar), benché lo stile sia a tratti un po' calcato e pretenzioso. Oltre ai sottotesti mitologici/religiosi, notevoli anche quelli psicologici, dal gaslighting al rovesciamento dei rapporti di forza nel finale, dalla rimozione del passato ai sensi di colpa che affiorano mediante i sogni (Eggers ha affermato di essere stato influenzato sia da Freud sia da Jung), nonché quelli legati alla sessualità (nella scena in cui Pattinson si masturba, il faro stesso diventa un simbolo fallico).

9 gennaio 2023

Siberia (Abel Ferrara, 2020)

Siberia (id.)
di Abel Ferrara – Italia/Germania/Messico 2020
con Willem Dafoe, Dounia Sichov
**

Visto in TV (RaiPlay).

Un uomo (Dafoe), isolatosi dal mondo per sfuggire ai fantasmi di morte del proprio passato, gestisce una baita sperduta in mezzo a un paesaggio innevato. Perseguitato da allucinazioni e visioni di vario genere, parte – con la slitta trainata dai suoi cani – per un viaggio che è soprattutto mentale, attraversando una natura impervia e ostile (che rappresenta il suo subconscio) e cercando di fare i conti con la propria vita. Incontrerà il proprio alter ego, rivedrà i genitori defunti, l'ex moglie, il figlio, passando per scenari freddi e cupi e altri insoliti e surreali (compreso un deserto africano e un pascolo primaverile). Un film bizzarro, surreale, onirico, pieno di non sequitur e salti narrativi, come la psiche del protagonista: ha però un suo strano fascino, che ne sostiene la visione fino in fondo, nonostante alcuni passaggi a vuoto nei (pochi) dialoghi (vedi quello con l'ex moglie, pieno di luoghi comuni come "L'unica mia colpa è quella di amarti troppo"). Ferrara, che ha scritto la sceneggiatura insieme al terapista Chris Zois, si sarebbe ispirato al "Libro rosso" di Carl Gustav Jung, ma è difficile capire come. Per il sempre ottimo Dafoe si tratta della sesta collaborazione con il regista italoamericano: nella versione italiana del film ha un accento molto marcato, essendosi doppiato da solo. Le riprese sono state effettuate per lo più in Alto Adige (e infatti i paesaggi di montagna non ricordano affatto la Siberia, che d'altronde è un luogo mentale più che reale).

21 settembre 2022

La fiera delle illusioni (Guillermo del Toro, 2021)

La fiera delle illusioni - Nightmare Alley (Nightmare Alley)
di Guillermo del Toro – USA/Messico 2021
con Bradley Cooper, Cate Blanchett
**1/2

Visto in TV (Disney+), con Sabrina.

All'inizio degli anni quaranta, il truffatore Stan Carlisle (Bradley Cooper) mette a frutto le tecniche di mentalismo e chiaroveggenza che ha appreso negli anni trascorsi come imbonitore in un circo itinerante per spillare soldi ai membri dell'alta società, proponendosi come medium e spiritista, con la complicità di una subdola psicanalista (Cate Blanchett) che gli rivela i segreti dei suoi ricchi clienti. Ma quando tenterà il colpo grosso ai danni di Grindle (Richard Jenkins), un milionario recluso che soffre di sensi di colpa per la morte della ragazza che ha amato in gioventù, le cose non andranno come previsto... Il nuovo film di Del Toro, dopo il successo de "La forma dell'acqua", è un originale thriller psicologico tratto dal classico romanzo di William Lindsay Gresham che era già stato portato sul grande schermo da Edmund Goulding nel 1947 con Tyrone Power (la cui figlia Romina ha qui un breve cameo nella scena dell'esibizione di Stan al ristorante). Il protagonista, ambizioso imbonitore da fiera con un misterioso e tragico passato (svelato poco a poco), è al centro di una vicenda in cui è convinto di poter manipolare facilmente le persone intorno a sé – che si tratti delle sue "vittime", della ragazza che ama, Molly (Rooney Mara), fuggita con lui dal circo, o della subdola femme fatale Lilith (una Blanchett in versione dark lady) – salvo infilarsi in una spirale di autodistruzione che lo porterà, tormentato a sua volta dai sensi di colpa, a finire nel peggiore dei modi, in un cerchio che si chiude. Ben recitato e molto bello visivamente, il film è purtroppo debole narrativamente: la storia e le sue svolte non lasciano incantati come il precedente (e più romantico) "La forma dell'acqua", né stupefatti come un altro film su truffe e illusioni per certi versi simile, quale "The prestige" di Nolan. Da elogiare però l'ottima confezione, con regia, fotografia e scenografie all'altezza degli altri lavori di Del Toro, e un'accattivante ricostruzione ambientale, tanto nella parte legata alla fiera (la prima ora di film), tanto in quella negli ambienti più altolocati (la seconda ora). Il ricco cast comprende anche Willem Dafoe (Clem, il direttore del circo), Toni Collette e David Strathairn (i due "maghi" da cui Stan apprende i segreti del mestiere), Ron Perlman (il forzuto Bruno), Peter MacNeill, Mary Steenburgen e Holt McCallany. Quattro nomination agli Oscar (per film, fotografia, scenografie e costumi) ma nessuna statuetta vinta. In alcune sale è circolata una versione in bianco e nero che ne accentua le sfumature noir.

22 luglio 2022

Spider-Man: No way home (Jon Watts, 2021)

Spider-Man: No way home (id.)
di Jon Watts – USA 2021
con Tom Holland, Zendaya, Willem Dafoe
**1/2

Visto in TV (Now Tv).

Avendo Mysterio rivelato a tutto il mondo la sua identità segreta al termine del precedente "Spider-Man: Far from home" (si noti come tutti e tre i film di Spider-Man finora coprodotti dalla Marvel abbiano la parola "home" nel titolo), Peter Parker (Holland) scopre che la propria vita – sia quella da supereroe che quella privata – si è fatta ormai molto difficile, e lo stesso vale per i suoi amici più cari (MJ e Ned). Decide così di chiedere aiuto al Dottor Strange (Benedict Cumberbatch), affinché cancelli con un incantesimo la sua identità segreta dalla memoria di tutti. Per un errore, però, l'incantesimo produce un effetto ben diverso, attirando dal Multiverso (l'insieme di dimensioni alternative che compongono l'universo Marvel) tutti i personaggi che, in un modo o nell'altro, sono a conoscenza del fatto che Peter Parker è l’Uomo Ragno. Fra questi, in particolare, una serie di "cattivi" visti nelle incarnazioni precedenti della franchise, molti dei quali strappati al loro continuum un attimo prima della morte per opera dei rispettivi Peter: rivediamo così il folle Goblin (Willem Dafoe, dallo "Spider-Man" di Sam Raimi del 2002), il Dottor Octopus (Alfred Molina, da "Spider-Man 2"), l'Uomo Sabbia (Thomas Haden Church, da "Spider-Man 3"), Lizard (Rhys Ifans, da "The amazing Spider-Man" del 2012) ed Electro (Jamie Foxx, da "The amazing Spider-Man 2", con un aspetto ridisegnato). Inizialmente Peter proverà ad aiutarli o a farseli amici, ma quando gli si rivolteranno contro (Goblin in particolare, che provoca la morte di zia May) dovrà affrontarli con l'aiuto delle proprie controparti, vale a dire gli Spider-Man interpretati da Tobey Maguire (nei film di Sam Raimi usciti dal 2002 al 2007) e Andrew Garfield (in quelli di Marc Webb usciti nel 2012 e 2014). Enorme successo commerciale (è stato il film con i maggiori incassi al botteghino in epoca di pandemia) per la pellicola del personaggio forse più grandiosa e ambiziosa nelle sue intenzioni, che recupera e fonde insieme le più recenti incarnazioni del Tessiragnatele (rivelando che ogni reboot costituisce un universo alternativo, un concetto con cui i lettori dei fumetti Marvel erano già familiari, fra retcon e "What if...") ispirandosi forse al successo del film d'animazione "Spider-Man: Un nuovo universo" che era basato su un'idea simile. E naturalmente è un'occasione ghiotta per rivedere alcuni dei migliori attori delle pellicole precedenti (su tutti Dafoe e Molina) e per far interagire in una serie di imbarazzanti siparietti (che vorrebbero essere comici) i tre attori che hanno incarnato Peter Parker nel ventunesimo secolo (confermando, se ce n'era bisogno, che Holland è di gran lunga il migliore dei tre). Tutto ciò, però, rende inevitabile il fatto che il film non sia godibile a sé stante: per apprezzarlo appieno bisogna essere un "Marvel zombie", o quantomeno un nerd che si sia sciroppato tutti i film precedenti, non solo quelli del Marvel Cinematic Universe (vedi anche i mille riferimenti a Daredevil, Nick Fury, gli Avengers o Thanos) ma addirittura quelli fuori continuity. Se ci aggiungiamo qualche svolta un po' forzata, troppe strizzatine d'occhio e un brusco rallentamento nella parte centrale, il risultato è tutt'altro che perfetto, per quanto resti godibile (gli Spider-Man sono comunque superiori alla media degli altri film Marvel). Per la prima volta, anche in questo universo, abbiamo la celebre frase "Da un grande potere derivano grandi responsabilità", che dona all'intera trilogia finora realizzata il sapore della origin story. Il reset finale, che consentirà alla franchise, se lo vorrà, di ripartire ancora una volta (quasi) da zero, ricorda invece certe retcon proposte anche nei fumetti e spesso male accolte dai lettori (come il famigerato "Soltanto un altro giorno", One More Day, di Straczynski e Quesada). Nella scena mid-credits, apparizione a sorpresa del Venom interpretato da Tom Hardy (il che non ha senso: Eddie Brock non conosceva l'identità di Spider-Man!), che lascia un pezzo di simbiota nel MCU. Nel cast, tornano dai film precedenti Marisa Tomei (May), Zendaya (MJ, che in questo universo sta Michelle Jones e non per Mary Jane), Jacob Batalon (Ned, con il cognome Leeds confermato), Jon Favreau (Happy Hogan), mentre J.K. Simmons, senza bisogno di salti dimensionali, è J. Jonah Jameson.

18 ottobre 2021

American psycho (Mary Harron, 2000)

American Psycho (id.)
di Mary Harron – USA 2000
con Christian Bale, Chloë Sevigny
***

Visto in TV (Netflix).

Patrick Bateman (uno straordinario Bale), giovane broker di Wall Street e quintessenza dello yuppie newyorkese durante gli anni Ottanta (si vede Reagan in televisione), è segretamente un serial killer. Ha continuamente il bisogno di commettere omicidi violenti, un bisogno che sfoga su prostitute e senzatetto, ma anche – occasionalmente – sui propri colleghi, come nel caso di Paul (Jared Leto), che fa a pezzi con un'ascia. Dal romanzo cult di Bret Easton Ellis, uno dei ritratti più cinici, immorali e nichilisti (ma con toni da black comedy, bizzarramente accattivanti) del lato oscuro del capitalismo e del sogno americano, attraverso la figura di uno psicopatico sui generis che incarna una delle figure chiave dell'economia statunitense, il gestore di fondi d'investimento. Dedito alla cura del proprio corpo, all'edonismo e al narcisismo, ammiratore di Donald Trump (ma anche di Ted Bundy), fa sfoggio di ricchezza, frequenta ristoranti alla moda (o millanta di farlo), veste abiti firmati e confronta lo stile dei propri biglietti da visita con quelli dei colleghi: ma se questi sono semplicemente vuoti e superficiali, lui è anche misogino, sadico, violento e perverso. Narrata con uno stile così lucido da sembrare quasi astratto, la storia in sé è alquanto lineare (Bateman è sempre al centro dell'attenzione, non seguiamo altri personaggi all'infuori di lui, tanto da invitare quasi a una sorta di "partecipazione" ai suoi delitti), anche se nel finale si colora di ambiguità, suggerendo che tutto si svolga nella sua folle immaginazione: a questo proposito anche il romanzo lasciava intendere che Bateman fosse un narratore inaffidabile. Ciascuno dei delitti è abbinato a un diverso brano musicale (di Huey Lewis and the News, Phil Collins, Whitney Houston e i Genesis) che Patrick ascolta su CD, spiegandolo e introducendolo alla propria vittima. Frase tormentone (che contribuisce al collocamento temporale della vicenda): "Devo restituire delle videocassette". Chloë Sevigny è Jean, la segretaria di Bateman. Willem Dafoe è il detective della polizia. Nel cast anche Justin Theroux, Bill Sage, Josh Lucas, Reese Witherspoon, Samantha Mathis e Cara Seymour. Pur dividendo il pubblico e suscitando controversie per le scene di sesso e violenza, il film è stato accolto con favore dalla critica. Il titolo, forse involontariamente, rievoca il classico di Hitchcock "Psycho". "Le regole dell'attrazione", uscito nel 2002, ne è uno spin-off.

5 luglio 2020

John Wick (Chad Stahelski, 2014)

John Wick (id.)
di Chad Stahelski [e David Leitch] – USA 2014
con Keanu Reeves, Michael Nyqvist
**

Visto in TV.

Ex sicario ritiratosi a vita privata, John Wick torna in azione dopo la morte della moglie per vendicarsi di una gang di mafiosi russi che, ignorando la sua identità, gli hanno rubato l'auto e ucciso il cane. Un plot semplicissimo e non troppo originale, un personaggio visto mille volte (il killer inarrestabile che da solo affronta centinaia di avversari), scene d'azione ripetitive che sembrano uscite da un videogioco (a un certo punto, a sottolineare la cosa, uno sparatutto in prima persona compare davvero sullo schermo), cattivi che fanno sempre la scelta sbagliata: nonostante tutto, però, ci si diverte, perché – vivaddio – il film non si prende sul serio e non aspira a essere nulla più di quello che è, senza sovrastrutture filosofiche o rimandi all'attualità. La cosa più interessante sono i piccoli particolari che ampliano il mondo attorno al protagonista e ai suoi "colleghi": un universo dove fare il killer è un lavoro come un altro e i sicari seguono un proprio codice, si radunano presso l'hotel Continental (una sorta di "porto franco" dove potersi rifugiare, rilassare, o incontrare i propri clienti), si fanno pagare in "monete d'oro" e hanno a propria disposizione una serie di servizi per le questioni più pratiche, come ripulire le scene delle sparatorie dai cadaveri che hanno seminato. Keanu Reeves è in gran forma nel ruolo dell'assassino freddo ed elegante (veste sempre di nero), carismatico e inespressivo, che combatte per una vendetta personale senza lasciar trapelare più di tanto le proprie emozioni. Michael Nyqvist è il boss mafioso russo, Alfie Allen il figlio arrogante e stupido che ha scatenato l'ira del protagonista, Ian McShane il misterioso proprietario del Continental, John Leguizamo il garagista Aurelio, mentre Willem Dafoe e Adrianne Palicki sono due "colleghi" di John, rispettivamente un alleato e un'antagonista. Da notare le traduzioni dal russo che appaiono sullo schermo come fossero le didascalie di un fumetto. Opera prima della coppia di ex stuntmen Chad Stahelski (regista) e David Leitch (produttore), sceneggiata da Derek Kolstad, la pellicola ha riscosso un inatteso successo di pubblico che ha portato alla realizzazione di vari sequel, dando così vita a una fortunata franchise (attualmente sono in lavorazione anche una serie televisiva e degli spin-off).

20 maggio 2020

Cuore selvaggio (David Lynch, 1990)

Cuore selvaggio (Wild at heart)
di David Lynch – USA 1990
con Nicolas Cage, Laura Dern
**1/2

Rivisto in DVD, con Sabrina.

Sailor Ripley (Nicolas Cage), delinquente di piccolo calibro appena uscito di prigione, e la sua fiamma Lula Fortune (Laura Dern) sono in fuga dal North Carolina verso la California per sfuggire alla madre di lei, la gelosissima Marietta (Diane Ladd). Questa però sguinzaglia sulle loro tracce sia un detective privato, Johnnie Farragut (Harry Dean Stanton), che il gangster di cui è l'amante, Marcelles Santos (J.E. Freeman), il quale a sua volta assolda alcuni killer per eliminare Sailor e il rivale Johnnie: si tratta del subdolo Bobby Peru (Willem Dafoe) e delle sorelle Perdita e Juana Durango (Isabella Rossellini e Grace Zabriskie). Il quinto lungometraggio di David Lynch è un'originale e romantica fiaba on the road, violenta e barocca, talmente ricca di elementi bizzarri e di personaggi grotteschi e sopra le righe da risultare quasi random (molti di essi avrebbero meritato un maggiore approfondimento, anziché darsi il cambio solo per far numero). Nonostante ciò, la trama è più lineare di quanto possa sembrare e affonda le sue radici nell'immaginario pop e retrò, e a volte kitsch, degli Stati Uniti del sud: vedi le numerosissime citazioni da "Il mago di Oz", Nicolas Cage con la giacca di serpente che canta le canzoni di Elvis Presley, il viaggio attraverso luoghi caratteristici come New Orleans e il Texas. Lynch, come fa spesso, narra la vicenda come se si trattasse di un ininterrotto flusso di coscienza e riesce a rendere vivi e plausibili personaggi in realtà assurdi e surreali. Alcune situazioni sembrano addirittura anticipare certe cose di Tarantino, anche se la visionarietà lynchiana rende il tutto più una fiaba moderna che una pellicola "pulp". Quello in cui i due amanti si barcamenano, cercando di ribellarsi alle difficoltà mantenendo il proprio amore come unico punto di riferimento, è – per dirla con le parole di Lula – "un mondo cattivo, senza pietà, che racchiude dentro di sé un cuore selvaggio". Un mondo in cui sesso, violenza e rock'n'roll giocano un ruolo importante, e dove la morte è sempre in agguato (si pensi ai tanti incidenti stradali che i due protagonisti incrociano sulla loro strada). Da sottolineare, come detto, la ricca colonna sonora, usata spesso in maniera diegetica, e i continui riferimenti a "Il mago di Oz": dalle scarpette rosse di Lula (e quelle nere e attorcigliate, da strega appunto, della madre) ai colori stessi della fotografia che ricordano il technicolor del film del 1939, fino all'apparizione salvifica della "strega buona" (interpretata da Sheryl Lee) nel finale. Ispirato a un romanzo di Barry Gifford (di cui Lynch cambiò la conclusione), il film vinse la Palma d'Oro al Festival di Cannes e confermò una volta di più il talento visionario del regista, che ormai cominciava a debordare senza freni dalle sue opere. Curiosità: Laura Dern (già presente, come la Rossellini, nel precedente lavoro di Lynch, "Velluto blu") è figlia di Dane Ladd anche nella vita reale. Nel cast anche W. Morgan Sheppard (il signor Reindeer), Sherilyn Fenn, Crispin Glover e Pruitt Taylor Vince.

5 aprile 2020

Assassinio sull'Orient Express (K. Branagh, 2017)

Assassinio sull'Orient Express (Murder on the Orient Express)
di Kenneth Branagh – USA 2017
con Kenneth Branagh, Michelle Pfeiffer
**

Visto in TV.

Fra un caso (il delicato furto di una reliquia al Santo Sepolcro di Gerusalemme) e un altro (il film si chiude con l'aggancio a un'altra celebre avventura di Poirot, "Assassinio sul Nilo", di cui è in lavorazione una trasposizione cinematografica che conferma come siamo di fronte a una vera e propria serie), l'investigatore belga Hercule Poirot (Kenneth Branagh) sale a bordo dell'Orient Express, il treno di lusso che da Istanbul si inoltra fino al cuore dell'Europa. Con il convoglio momentaneamente bloccato nei Balcani dalla neve, il detective dovrà risolvere un intricato caso di omicidio. Il losco mercante d'arte Ratchett (Johnny Depp) viene infatti trovato morto nella sua cabina: e tutti i passeggeri del vagone, per un motivo o per l'altro, sembrano aver avuto un legame con lui e con il suo torbido passato (Ratchett infatti non era colui che dichiarava di essere)... Nuovo adattamento del romanzo di Agatha Christie, che nel 1974 godette già di una popolare versione cinematografica diretta da Sidney Lumet, di cui questa è a tutti gli effetti un remake. Il principale difetto è che la nuova versione non aggiunge in fondo nulla di nuovo, a parte dei visual teatrali e spettacolari e un tono più (melo)drammatico che da commedia. Chi già conoscesse la storia tramite il libro o il film precedente non avrà sorprese: è la stessa, pur con qualche sforbiciata nei dialoghi (che eliminano indizi e allusioni, come il riferimento alla giuria di dodici persone) e l'aggiunta di un paio di fugaci scene d'azione. La sequenza migliore è forse quella che mostra in flashback l'omicidio, girata in bianco e nero e con il solo accompagnamento musicale. A spiccare in negativo ci sono invece i fondali digitali un po' farlocchi (vedi il passaggio del treno a Istanbul o fra le montagne). Resta il piacere di vedere all'opera un ricco cast di celebrità (con nomi del calibro di Michelle Pfeiffer, Penélope Cruz, Willem Dafoe, Judi Dench, Derek Jacobi, Daisy Ridley, Olivia Colman), anche se non tutti apportano qualcosa di particolare al proprio personaggio, limitandosi a svolgere il compitino. Notevole invece lo spazio riservato al protagonista: Branagh dà vita a un Poirot megalomane ("Voi raccontate bugie e pensate che nessuno lo scoprirà, ma ci sono due persone che lo faranno, il vostro Dio... e Hercule Poirot"), ossessionato da equilibri e simmetrie, convinto che esistano "solo il giusto e lo sbagliato", senza vie di mezzo, che però dovrà mettere in discussione le proprie certezze di fronte a un caso diverso da tutti quelli che ha risolto in passato. Un Poirot tormentato e senza autoironia, che sovrasta e mette in ombra – nel bene e nel male – tutti gli altri personaggi, lontano dunque dalle caratteristiche del detective di un whodunit classico.

27 gennaio 2020

Un sogno chiamato Florida (S. Baker, 2017)

Un sogno chiamato Florida (The Florida Project)
di Sean Baker – USA 2017
con Brooklynn Prince, Bria Vinaite, Willem Dafoe
**

Visto in TV.

La giovane Halley (Bria Vinaite) abita con la figlia di sei anni Moonee (Brooklynn Prince) in un motel alla periferia di Orlando, in Florida, non lontano dai parchi di divertimenti di Disney World. Mentre la bambina passa il tempo a correre in giro con i suoi amici, combinando piccoli e grandi guai e facendo spesso infuriare il direttore del motel, Bobby (Willem Dafoe), e gli altri residenti, la madre cerca in ogni modo di guadagnare il denaro necessario al suo mantenimento e a pagare l'affitto della stanza. Come nei precedenti lavori di Baker ("Starlet" e "Tangerine"), oltre ai personaggi la vera protagonista è l'ambientazione, in questo caso le strade e le periferie disagiate a pochi passi dal lusso e dai divertimenti di Disney World, che nel film non si intravedono mai se non da lontano. La struttura è comunque episodica, con una pronunciata attenzione verso il realismo e lo "slice of life": è il tipico film dove conta più l'atmosfera che circonda i personaggi che non la trama, quasi inesistente. Per molti versi ricorda "Last resort" di Pawlikowski, che comunque era migliore. Man mano che procede, infatti, si fa più melodrammatico e comincia a sembrare finto, fra luoghi comuni e personaggi troppo "costruiti". Ma forse per apprezzarne maggiormente la spontaneità (molte scene sono state improvvisate, lasciando ampio spazio ai giochi dei bambini, oppure – come quelle della vendita dei profumi – girate in strada con una videocamera nascosta) bisognerebbe vederselo in lingua originale: la versione italiana è infatti funestata da un pessimo adattamento, pieno di calchi dall'inglese e di falsi amici, accompagnato da un altrettanto pessimo doppiaggio (fastidiose, in particolare, le voci impostate e sempre urlanti dei bambini).

9 luglio 2019

Aquaman (James Wan, 2018)

Aquaman (id.)
di James Wan – USA 2018
con Jason Momoa, Amber Heard
*1/2

Visto in TV.

Figlio di un abitante della superficie e di una regina del regno sommerso di Atlantide, e dunque "ponte fra terra e mare", il forzuto Arthur Curry (Jason Momoa) è il supereroe noto come "Aquaman" (già apparso nel film del 2017 "Justice League", appartenente come questo al cosiddetto DC Extended Universe). Per impedire al suo fratellastro Orm (Patrick Wilson) – che aspira a unificare tutte le tribù sottomarine sotto il ridicolo nome di "Ocean Master" – di dichiarare guerra alla superficie, Arthur è costretto a rivendicare il trono di Atlantide: e a questo scopo, con l'aiuto della principessa Mera (Amber Heard), si lancia alla ricerca del leggendario tridente di re Atlan. Dal fumetto della DC Comics creato da Mort Weisinger e Paul Norris, un film che può contare su tanti effetti speciali, su spettacolari scene sottomarine (a tratti con "vibrazioni" che ricordano il "Ponyo" di Miyazaki: ma la sensazione di assistere a una pellicola d'animazione può far venire in mente anche il "Nemo" della Pixar) e su un protagonista dall'innegabile carisma fisico (stendiamo un velo pietoso invece sulla caratterizzazione psicologica). Peccato però che soggetto, sceneggiatura e dialoghi siano a livelli più che basilari e che in due ore manchi la minima sorpresa (con l'unica eccezione, forse, della scena legata alle origini del villain minore Black Manta). Tutto sembra già visto: l'origine del personaggio, la quest, le prove che deve superare, lo scontro finale con il cattivo (ma non troppo: c'è una sorta di riconciliazione finale). I pochi temi che avrebbero meritato un approfondimento (l'inquinamento dei mari da parte degli esseri umani, la ricerca di vendetta di Black Manta) sono soltanto abbozzati, e il grande sfoggio di tecnica e di budget non aiuta a superare la noia. Fra le location spicca una Sicilia più idilliaca che realistica. Willem Dafoe è Vulko, il mentore dell'eroe; Nicole Kidman è la regina Atlanna, sua madre; Dolph Lundgren è Nereus, il padre di Mera.

21 settembre 2018

Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità (J. Schnabel, 2018)

Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità (At eternity's gate)
di Julian Schnabel – USA/Francia 2018
con Willem Dafoe, Rupert Friend
**

Visto al cinema Colosseo, con Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Gli ultimi anni di vita di Vincent Van Gogh, ovvero il soggiorno nella "casa gialla" ad Arles, il ricovero nell'istituto psichiatrico di Saint-Rémy e l'ultimo periodo ad Auvers-sur-Oise. Ma a differenza di pellicole biografiche come "Brama di vivere", questo film è meno interessato a fornire una rappresentazione fedele degli eventi della vita del pittore (anzi, si prende parecchie libertà, dando corpo a "leggende" come il fatto non sia morto suicida, bensì ucciso per errore da due ragazzini che giocavano con un fucile), e più invece a rappresentare visivamente sullo schermo il suo febbrile stato d'animo e la frenesia della sua pittura (si spiega così la macchina da presa a mano, spesso ondeggiante, ai limiti del fastidioso). E soprattutto vuole leggere la figura di Van Gogh in chiave mistica e cristologica, con tanto di paragone con Gesù, anch'egli "incompreso" in vita. Un paragone che fa il pittore stesso, in modo esplicito e consapevole, nella scena – la più importante del film, ma forse anche quella con i dialoghi più brutti – in cui conversa con un prete (Mads Mikkelsen) mentre è ricoverato nell'istituto. Addirittura, al momento del funerale, Schnabel ci mostra gli invitati che, in presenza del suo cadavere, cominciano già lo "sciacallaggio" dei suoi dipinti. Se in primo piano c'è dunque l'arte di Van Gogh e la tecnica pittorica, viste come un mezzo per "raggiungere e rappresentare il divino" (ricordiamo che il regista stesso è un pittore, il che spiega l'attenzione a certi dettagli), il film sembra invece rinunciare a scavare nell'uomo: la discesa della follia non è spiegata o lasciata nel vago, e la rimozione del suicidio è gravemente indicativa, visto che annulla il senso di colpa e svuota di significato i rapporti con gli altri (da Gauguin alle donne al fratello Theo). Al limite Schnabel indugia a lungo nel mostrare il pittore che cammina per la campagna o che dipinge, portando così lo spettatore a perdersi nei propri pensieri (con il rischio di giocarsi spesso la loro attenzione). Tanta forma, dunque, ma poca sostanza: si pensi anche agli artifici visivi (la visione in soggettiva distorta) e uditivi (i dialoghi ripetuti e sfasati), che lasciano il tempo che trovano. Insomma, la pellicola non convince. Bravo comunque Dafoe, premiato a Venezia con la Coppa Volpi come miglior attore: ma Kirk Douglas, come Van Gogh, era decisamente più somigliante. Nel cast anche Oscar Isaac (Paul Gauguin), Rupert Friend (Theo), Mathieu Amalric (il dottor Gachet) ed Emmanuelle Seigner (madame Ginoux).

26 gennaio 2018

The great wall (Zhang Yimou, 2016)

The Great Wall (id.)
di Zhang Yimou – USA/Cina 2016
con Matt Damon, Jing Tian
**

Visto in TV.

La Grande Muraglia non è stata costruita soltanto per delimitare i confini della Cina: un millennio fa serviva anche a difendersi dai periodici attacchi di una razza di mostri ancestrali, i Taotié, usciti dalle viscere della Terra per cibarsi di carne umana. Almeno è quanto racconta questo kolossal fantasy, coproduzione fra Cina e Stati Uniti e film più costoso mai girato in lingua inglese nel paese asiatico. Sfarzoso nella messa in scena, nei colori e nell'utilizzo della computer grafica (ovviamente in sala è uscito in versione 3D), il lungometraggio sfoggia un cast internazionale (fra gli altri: Willem Dafoe, Andy Lau, Zhang Hanyu) ma alla resa dei conti resta un'avventura banalotta e mai veramente stimolante. William (Matt Damon) e Tovar (Pedro Pascal) sono due mercenari europei che si recano in Cina alla ricerca della leggendaria "polvere nera" (ovvero, polvere da sparo), ma resteranno coinvolti nella guerra fra i membri dell'Ordine senza Nome (un esercito appositamente addestrato per affrontare questo nemico) e i mostruosi Taotié, creature animalesche simil-Alien (con tanto di regina madre da cui dipendono: ovvio che basterà uccidere questa per sconfiggerli tutti). Zhang Yimou dà il meglio di sé con la messa in scena e le coreografie, suoi punti di forza nonché di tutto il cinema orientale (dai paesaggi alle scene di battaglia, dai costumi alle scenografie, anche se l'estetica è più quella di un videogame fantasy – si nota in particolare nel personaggio del comandante Lin, interpretata da Jing Tian – che non di un affresco storico), ma contenuti, storia, personaggi e nemici sono del tutto generici, e le svolte narrative prevedibili. Nonostante il grande sforzo produttivo, gli incassi non sono stati particolarmente cospicui né in America né in Cina.

14 agosto 2015

L'ombra del vampiro (E. Elias Merhige, 2000)

L'ombra del vampiro (Shadow of the Vampire)
di E. Elias Merhige – USA/GB/Lux 2000
con John Malkovich, Willem Dafoe
**

Rivisto in divx alla Fogona.

Per recitare nel ruolo del conte Orlock, protagonista del suo nuovo film “Nosferatu”, il regista tedesco Friedrich W. Murnau assolda – all'insaputa dei produttori e della troupe – un autentico vampiro, promettendogli in cambio dei suoi servigi il sangue della prima attrice, Greta Schröder. Giocando sul mistero che ha sempre circondato Max Schreck, interprete del capolavoro dell'espressionismo tedesco del 1922, il regista Merhige e lo sceneggiatore Steven Katz realizzano un immaginario making of che – visto il tema, è la parola giusta – “vampirizza” lo stesso film di cui intende narrare la lavorazione. Un grande Dafoe dona brividi e spessore alla figura di Schreck, mentre Malkovich abbozza un Murnau schiavo delle proprie ossessioni ma con pochi legami con la realtà: ma nel complesso la pellicola gira a vuoto e dice poco di nuovo sul rapporto che da sempre lega il mondo del cinema al tema del vampirismo, un cinema che si nutre della linfa vitale dei suoi interpreti e dei suoi autori, e che può donare loro l'immortalità a scapito dell'anima. Ne risulta un lungometraggio più interessante per cinefili e storici del cinema (nonostante anacronismi e incongruenze) che non per gli spettatori comuni, magari in cerca di un horror dall'ambientazione insolita.

16 settembre 2014

Pasolini (Abel Ferrara, 2014)

Pasolini (id.)
di Abel Ferrara – Italia/Francia/Belgio 2014
con Willem Dafoe, Ninetto Davoli
**

Visto al cinema Arlecchino, con Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Girare un film su una figura sfaccettata e complessa come quella di Pier Paolo Pasolini, decisamente unica e per certi versi "inafferrabile", senza banalizzarne le idee, la poetica e il personaggio stesso, è un'impresa difficile a dir poco. Altri registi in passato (come Marco Tullio Giordana in "Pasolini, un delitto italiano") hanno preferito evitare le insidie focalizzandosi sul mistero della sua morte, scandagliando dunque la società intorno a lui più che PPP stesso. Ferrara invece vuole portare sullo schermo proprio lo scrittore, tanto nel vissuto quanto nelle sue visioni personali. La scelta, felice, è stata quella di concentrarsi sul suo ultimo giorno di vita (il primo novembre 1975) e di ricostruire sullo schermo, a fianco degli eventi quotidiani, frammenti delle sue ultime opere: il romanzo incompiuto "Petrolio" e il film mai realizzato "Porno-Teo-Kolossal", che sarebbe stato il secondo capitolo della cosiddetta "trilogia della morte". Seguiamo così Pasolini (interpretato da un convincente Willem Dafoe), reduce da un viaggio a Stoccolma e in attesa del visto di censura per "Salò" (che avrebbe debuttato a breve nelle sale), trascorrere alcune ore con la famiglia e gli amici, dedicarsi al lavoro, concedere l'ultima intervista a Furio Colombo de "La Stampa", girare per Roma, raccontare i suoi futuri progetti, e infine trovare la morte sul Lido di Ostia (Ferrara dà qui credito alla "seconda versione" di Pelosi, secondo cui Pasolini sarebbe stato ucciso da tre teppisti di destra). Anche se non mancano qua e là accenni alla situazione socio-politica dell'epoca, il film non ha l'intenzione di contestualizzare eccessivamente la vita e la morte dello scrittore, quanto piuttosto quella di ritrarlo come un personaggio a tutto tondo, anche contraddittorio, ma altamente sensibile e creativo. Dove la pellicola fallisce è nell'assumere una forma o un aspetto coerente, sempre che questo fosse l'intento, visto che le singole parti prevalgono sull'insieme e sembra mancare un significato complessivo: a fianco di sequenze suggestive, anche perché derivate direttamente dagli scritti di Pasolini – l'intervista con Colombo, le immagini di "Porno-Teo-Kolossal" con le sue allegorie e la graditissima apparizione di Ninetto Davoli che interpreta Eduardo De Filippo (che avrebbe dovuto esserne il protagonista; il ruolo dello stesso Davoli nella finzione è invece affidato a Riccardo Scamarcio), i frammenti di "Petrolio" (Roberto Zibetti è Carlo, Andrea Bosca è Andrea Fago) – ci sono scelte non sempre felici (come l'utilizzo, completamente a sproposito, della cavatina di Rosina dal "Barbiere di Siviglia" nel finale, sulla morte del protagonista e sui titoli di coda: va bene che Maria Callas era grande amica di PPP, ma non si poteva scegliere un altro brano?). Straniante è anche, nella versione in lingua originale, l'utilizzo di più idiomi, con il passaggio dall'italiano all'inglese quando è in scena Dafoe: la versione doppiata, per una volta, sarà auspicabile. Nel cast anche Maria De Medeiros (Laura Betti), Adriana Asti (la madre di PPP), Giada Colagrande e Valerio Mastandrea.

7 maggio 2014

Nymphomaniac (Lars von Trier, 2013)

Nymphomaniac (id.)
di Lars von Trier – Danimarca/UK/D/B 2013
con Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård
**1/2

Visto al cinema Uci Bicocca, con Sabrina.

Charlotte Gainsbourg, l'unica attrice "sopravvissuta" a più di un film con Lars von Trier (è infatti già alla sua terza collaborazione con il regista danese, mentre le varie Emily Watson, Björk, Nicole Kidman, Bryce Dallas Howard e Kirsten Dunst non hanno "retto" oltre la prima prova), interpreta la nifomane Joe, che dopo essere stata ritrovata pesta e sanguinante in un vicolo dal mite e colto Seligman (Stellan Skarsgård) gli racconta – come in un'unica e lunga seduta di psicanalisi, o come davanti a un prete nel confessionale – i retroscena della propria vita "peccaminosa": dalla scoperta della sessualità in età acerba, all'utilizzo di questa per "collezionare" più uomini possibili; dal rapporto con il padre (Christian Slater), che le ha insegnato l'amore per la natura, a quello con Jerome (Shia LeBeouf), l'unico uomo che abbia mai davvero amato; dai tentativi di trovare nuove strade per risvegliare il piacere sessuale, fino alla serie di eventi che l'hanno condotta fin lì. Distribuito nelle sale cinematografiche diviso in due parti (denominate "Vol. I" e "Vol. II", come in "Kill Bill", ma in questo caso più propriamente come due tomi di un romanzo, per la precisione un Bildungsroman), a loro volta divise in "capitoli" (otto in totale, cinque nel primo film e tre nel secondo: 5 e 3 sono numeri ricorrenti), il terzo film della cosiddetta "trilogia della depressione" di LVT (dopo "Antichrist" e "Melancholia") ha apparentemente un solo filo conduttore: la vita sessuale della protagonista. La sua ninfomania è un po' una scelta consapevole e un po' una dipendenza, come quelle dall'alcol o dal fumo, e a tratti sembra quasi un pretesto per imbastire una serie di variazioni sul tema che sfiorano tutti i tipi di perversione sessuale (dal sadomadochismo alla pedofilia, passando per il sesso interrazziale o il lesbismo). Ma Von Trier, lo sappiamo, è un furbone, abituato da sempre a giocare con lo spettatore, a stimolarne le attese e poi a spiazzarlo scompigliando le carte. E con "Nymphomaniac" sembra aver dato il meglio di sé, a partire dalla campagna di marketing e dalle locandine che presentavano il film come estremamente scandaloso, facendo credere di trovarsi di fronte a un "porno d'autore", salvo poi permettere che nelle sale giungesse una versione "censurata e ridotta" (ma cosa potranno aggiungere, a livello di significato, le eventuali scene di sesso che sarebbero state tagliate?). In realtà, come già in "Dogville" e in generale in tutti i film del buon Lars, il vero senso del film sta nei suoi sottotesti, più o meno nascosti: quello religioso (il finale, come ha fatto notare marco c. in un commento sotto questo post, può legare il lungometraggio al precedente "Antichrist", con la donna che torna nel suo ruolo diabolico di corruttrice dell'innocente) o quello sociale (ancora una volta la donna è una vittima della società: Seligman commenta giustamente come il nostro giudizio sulle sue vicende sarebbe diverso se lei fosse stata un uomo e le sue conquiste fossero state femminili).

Nel primo volume la narrazione di Joe è accompagnata – più che da un progressivo approfondimento del personaggio – da metafore talmente esplicite (la pesca alla mosca, la polifonia di Bach) da essere persino illustrate sullo schermo a più riprese. Il risultato ricorda quasi un film di Peter Greenaway: le sovrimpressioni di numeri e di diagrammi, le ricorrenze (i suddetti 5 e 3), gli split screen, le divagazioni colte (Poe, Bach, i numeri di Fibonacci), l'elenco degli amanti (quasi tutti i personaggi – con la notevole eccezione di Jerome – sono indicati soltanto con la lettera iniziale del nome: B, G, H, ecc.) e in generale la "catalogazione" degli episodi della propria vita (episodi significativi ma non "formanti": spesso Joe sottolinea che i vari eventi non l'hanno cambiata e che la sua natura è sempre stata la stessa sin dall'inizio) sono però elementi che in Greenaway sovrastano la storia, spesso solo un pretesto, mentre in questo caso siamo di fronte all'esatto contrario. Nel secondo volume, poi, LVT abbandona gradualmente queste distrazioni (la stessa Joe, dopo l'ennesima divagazione di Seligman, afferma: "Questa è stata una delle sue disgressioni più deboli") e guida lo spettatore più a fondo nel personaggio, che si barcamena fra visioni mistiche, crisi personali e vani tentativi di autoanalisi. Probabilmente il modo migliore per gustarsi "Nymphomaniac" sarebbe quello di guardarlo tutto di fila, visto che più si accumulano i capitoli e gli episodi raccontati e più l'insieme acquista "spessore" e fisionomia: è come se il suo valore fosse "quantitativo", ovvero dato dalla somma delle parti (proprio come Joe sente di aver avuto in fondo un solo amante, la somma di tutti gli uomini che ha conosciuto). Al di là del marketing, la scelta di dividere la pellicola in due parti risulta dannosa (è come interrompere a meta un romanzo, appunto, o un amplesso). La fotografia, in cui dominano il beige e i toni smorti (il quarto capitolo è addirittura tutto in bianco e nero), dona all'insieme un sapore vetusto e polveroso come i libri di Seligman (significativa è anche l'assenza di una precisa collocazione temporale delle vicende). Nella colonna sonora ricorrono il valzer di Shostakovich (già usato da Kubrick nel suo "Eyes Wide Shut") e l'hard rock dei Rammstein. Quanto al comparto attoriale, è da ammirare la prova di Stacy Martin (che interpreta Joe da giovane, e dunque vera protagonista del Vol. I), mentre la struttura episodica del racconto lascia spazio qua e là a numerosi comprimari: nel primo volume spiccano Uma Thurman, Sophie Kennedy Clark, Hugo Speer e vari attori danesi (fra i quali Jens Albinus e Jesper Christensen), nel secondo Jamie Bell, Jean-Marc Barr, Udo Kier, Mia Goth e Willem Dafoe. Le scene di sesso sono simulate, mediante l'utilizzo di controfigure (fra cui attori porno), di protesi e persino di effetti digitali. Fra i ringraziamenti finali, spicca quello a Tarkovskij, del quale non mancano alcune citazioni (l'icona di Rublëv, il titolo "Lo specchio").

11 giugno 2013

Strade di fuoco (Walter Hill, 1984)

Strade di fuoco (Streets of fire)
di Walter Hill – USA 1984
con Michael Parè, Diane Lane
**

Rivisto in TV.

Tom Cody (Michael Paré), ex soldato di ventura e delinquente, fa ritorno nella città dove è nato e che aveva abbandonato anni prima, richiamato dalla sorella Reva (Deborah Van Valkenburgh): dovrà salvare la sua ragazza di un tempo, la cantante rock Ellen (Diane Lane), che è stata rapita da una banda di motociclisti, i Bombers, guidati dal malvagio Raven (Willem Dafoe). Lo aiuteranno, fra gli altri, la soldatessa McCoy (Amy Madigan) e l'impresario Billy Fish (Rick Moranis). Terminata l'impresa, Cody se ne andrà via un'altra volta. Girato da Hill subito dopo "I guerrieri della notte", ne ricalca parecchi elementi (l'ambientazione urbana e notturna, le bande, l'esistenza ribelle e anarchica dei protagonisti) ma tralascia ancor di più la verosimiglianza per ammantare il tutto di un'irreale patina "fiabesca" (non a caso il sottotitolo della pellicola è "Una favola rock"). La città immaginaria dove si svolge l'azione è un misto di New York, Chicago e Los Angeles, e i personaggi sono quasi archetipi: l'eroe ribelle, la ragazza in pericolo, il cattivo, cui si aggiungono figure come il manager chiacchierone, la groupie e la donna soldato: tutte personaggi che non hanno altra caratterizzazione se non quella strettamente utile ai fini della trama, e che non ci immaginiamo possano vivere al di fuori della pellicola stessa. Hill dichiarò di aver voluto realizzare quello che da teenager avrebbe definito "il film perfetto", mettendoci dentro cose come "auto truccate, baci sotto la pioggia, neon, treni nella notte, inseguimenti ad alta velocità, risse, rock star, motociclette, battute dette in situazioni difficili, giubbotti di pelle e questioni di onore". Pur permeato da un'atmosfera anni '80 (in gran parte dovuta alla colonna sonora di Ry Cooder e Jim Steinman, mentre le canzoni di Ellen – in stile Bonnie Tyler – sono in realtà una combinazione fra le voci di Laurie Sargent e Holly Sherwood), la vera anima del film è anni '50, come risulta evidente da automobili, locali, abbigliamenti e capigliature retrò. I produttori Lawrence Gordon e Joel Silver e il co-sceneggiatore Larry Gross avevano lavorato con il regista già in "48 ore". Gli interpreti non sempre in parte (meglio il giovane Dafoe e Moranis che gli spaesati Parè, Lane e Madigan) e una sceneggiatura che fatica a ingranare (almeno fino al bel combattimento finale) "zavorrano" una pellicola che, pur godibile, lascia l'impressione di un'occasione sprecata. Fascinosa la fotografia notturna e colorata di Andrew Laszlo. Il titolo proviene da una canzone di Bruce Springsteen che avrebbe dovuto essere usata in apertura e in chiusura di film, ma venne poi rimpiazzata da "Tonight is What it Means to be Young". Nelle intenzioni di Hill, la pellicola avrebbe dovuto essere la prima di una trilogia: ma l'insuccesso al box office gli impedì di realizzare i sequel (anche se nel 2008 ne è uscito uno apocrifo, "Road to Hell").

27 maggio 2013

Il paziente inglese (A. Minghella, 1996)

Il paziente inglese (The english patient)
di Anthony Minghella – USA/GB 1996
con Ralph Fiennes, Juliette Binoche
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Rivisto in TV.

Mentre gli alleati avanzano in Italia durante gli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale, un uomo gravemente ferito, dal volto sfigurato e privo di memoria (Ralph Fiennes), viene affidato alle cure della giovane infermiera canadese Hana (Juliette Binoche), che se ne prende cura fra i ruderi di un monastero abbandonato nella campagna toscana. Conosciuto solo come "il paziente inglese", l'uomo riacquista pian piano i suoi ricordi: si tratta in realtà di un avventuriero ungherese, il conte Laszlo de Almásy, che prima della guerra lavorava come cartografo e pilota per la Reale Società Geografica nel deserto del Sahara. La sua vicenda, dominata dalla tragica passione per Katherine (Kristin Scott Thomas), moglie dell'agente inglese Geoffrey Clifton (Colin Firth), viene narrata alternandola in parallelo con le sequenze ambientate in Italia, nelle quali a far compagnia al ferito e alla sua infermiera giungono il misterioso ladro morfinomane Caravaggio (Willem Dafoe), che aveva già conosciuto Almásy al Cairo e lo sospetta di essere una spia tedesca, e l'artificiere sikh Kip (Naveen Andrews), di cui Hana si invaghisce. Da un romanzo di Michael Ondaatje (che ha collaborato alla sceneggiatura), un polpettone patinato che, nonostante la bellezza dei luoghi in cui è girato (l'entroterra senese – il monastero si trova presso Pienza – e il deserto egiziano), l'intensità dei personaggi e la drammaticità degli eventi, alla resa dei conti si rivela abbastanza... palloso. Potrà non dispiacere ai cultori del romanticismo tragico e disperato (dove le vicende private e sentimentali si intrecciano inevitabilmente con quelle della guerra, e i tradimenti coniugali fanno passare in secondo piano quelli nazionalisti), e ha di certo le sue buone carte da giocare dal lato della tecnica cinematografica (più la fotografia – che nelle scene egiziane si rifà pedissequamente allo Storaro de "Il tè nel deserto" – e il montaggio che la regia, abbastanza piatta), ma è francamente difficile sostenerne una seconda visione, anche perché è fin troppo lungo per la storia che racconta. Fra gli spunti da ricordare: il libro di Erodoto (colmo di lettere, appunti e disegni) da cui Almásy non si separa mai; e la bellezza della "caverna dei nuotatori" che gli esploratori scoprono nel deserto del Sahara, che fa da contraltare alle pareti della chiesa toscana che Kip porta Hana ad esplorare ("imbragandola" con delle funi e facendola ondeggiare lungo le pareti alla luce di una torcia: la scena più bella e memorabile del film) durante la loro permanenza in Italia. Fiennes recita per metà film con il volto sfigurato, anticipando in un certo senso quello che sarà il suo aspetto nei panni di Voldemort nei film di Harry Potter. Vincitore di ben nove premi Oscar, incluso quelli per miglior film, regia e attrice non protagonista (la Binoche).

21 settembre 2011

4:44 Last Day on Earth (A. Ferrara, 2011)

4:44 Last Day on Earth
di Abel Ferrara – USA 2011
con Willem Dafoe, Shanyn Leigh
*1/2

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

“Al Gore aveva ragione”, dice uno speaker in televisione. Lo strato d’ozono si è talmente assottigliato e l'inquinamento ha raggiunto livelli tali che la catastrofe ecologica è ormai inevitabile. Tutti attendono la fine del mondo, prevista con assurda precisione per le 4:44 (ora di New York) della notte seguente. In un appartamento, una coppia trascorre insieme le ultime ore della propria esistenza, fra sesso e tenerezze, angosce e litigi, creazioni artistiche (lei è una pittrice) e chiamate via Skype ai propri cari, rabbia e rassegnazione, mentre sugli schermi impazzano improbabili guru e vengono riproposte interviste al Dalai Lama (e a Joseph Campbell) e vetuste partite di football. Girando in relativa economia di mezzi (gran parte del film si svolge in una stanza e coinvolge solo due persone, mentre gli effetti speciali che illustrano la catastrofe si limitano a qualche luce nel cielo che ricorda un'aurora boreale), con una commistione fra tecnologia e intimismo che in certi momenti ricorda il cinema di Wenders (gli schermi televisivi, la comunicazione, l’apocalisse vista dall’intimità) e di Herzog (l'utilizzo di filmati di repertorio, la multiculturalità), Ferrara sforna un film ambizioso ma non troppo riuscito, più noioso che commovente, più sterile che sofferto, a tratti persino irritante. A parte alcune imbarazzanti scene madri, infastidiscono l’ecologismo d’accatto, il qualunquismo mistico e il mancato approfondimento dei temi scientifici e ambientali, trattati con banalità e fin troppa disinvoltura. La parte migliore è il finale, con gli ultimi minuti di vita del pianeta, spazzato via da una luce che pervade ogni cosa (la dissolvenza conclusiva è in bianco). Willem Dafoe è al suo terzo film con Ferrara, Shanyn Leigh (mostrata senza pudore nella sua nudità, con la macchina da presa a pochi centimentri dalla sua pelle) è l’ex compagna del regista.

13 luglio 2010

The aviator (Martin Scorsese, 2004)

The aviator (id.)
di Martin Scorsese – USA 2004
con Leonardo DiCaprio, Cate Blanchett
**1/2

Rivisto in DVD, con Ilaria, Ginevra ed Eleonora.

Nel raccontare la vita del magnate Howard Hughes, e in particolare gli anni che vanno dal 1927 al 1947 (Hughes morì poi nel 1976), Scorsese realizza uno dei suoi film più "grandi", programmaticamente parlando, e bigger-than-life. Come "Quarto potere", è un monumento alla genialità, alla megalomania e alla follia di un personaggio straordinario, tipicamente americano, che – fra le altre cose – ha lasciato la sua impronta indelebile nei campi dell'aviazione militare e civile e della produzione cinematografica (e non è facile immaginare che proprio il suo ruolo in quest'ultimo settore sia stato il motivo che ha attirato in primo luogo l'interesse del regista, da sempre innamorato del cinema statunitense classico degli anni trenta e quaranta, come sa bene chi ha visto lo splendido documentario "Viaggio nel cinema americano"). Industriale, ingegnere, pilota, appassionato di film (da produttore – "Scarface" di Howard Hawks – e da regista – "Gli angeli dell'inferno" e "Il mio corpo ti scalderà": tutte pellicole eccessive e di forte impatto) e di volo (oltre ad aver stabilito numerosi recordi di velocità, ha costruito apparecchi innovativi – come il mastodontico "Hercules" – ed è stato il proprietario della TWA, che ha aperto alle rotte internazionali), Hughes è diventato celebre presso il grande pubblico per i suoi numerosi flirt con grandi dive del cinema (su tutte Katharine Hepburn e Ava Gardner, nel film interpretate rispettivamente da Cate Blanchett e Kate Beckinsale; ma pare che abbia frequentato anche Bette Davis, Gene Tierney, Faith Domergue, Linda Darnell, Joan Fontaine, Olivia De Havilland e altre ancora: un uomo fortunato!), e successivamente per il suo stile di vita eccentrico: ossessionato dall'igiene, finì con l'isolarsi dal mondo e trascorse i suoi ultimi anni da recluso nelle proprie tenute, in preda a disturbi di natura ossessiva-compulsiva. L'episodio in cui rimane chiuso per quattro mesi nella sala proiezioni del suo studio è realmente accaduto. L'ottimo DiCaprio interpreta il personaggio calandosi nella parte senza freni ed esibendone tutte le manie di grandezza e di protagonismo, ma anche la sincera passione per quello che fa e l'inarrestabile ostinazione che lo spinge a battersi in prima persona contro ogni ostacolo (esemplari le scene in cui si impegna a far valere le proprie ragioni prima contro la commissione di censura cinematografica e poi contro il senatore che vuole impedirgli di espandere l'attività delle sue linee aeree). L'abile regia di Scorsese, dal canto suo, si sbizzarrisce con le spettacolari scene di volo (notevole quella dell'incidente durante il collaudo dell'aereo-spia, che quasi costò la vita a Hughes) e con una ricostruzione storica piena di fascino e di amore per un periodo "mitico" della storia di Hollywood e degli Stati Uniti in generale (basti citare, su tutte, la scena dell'incontro fra Hughes e la Hepburn sul set di "Il diavolo è femmina", con una brevissima apparizione di Cukor e Grant). Fra le numerose partecipazioni all'interno di un cast vasto ed eterogeneo, sono da segnalare quelle di Gwen Stefani (nei panni della platinata Jean Harlow), Jude Law (in quelli di Errol Flynn), Ian Holm (l'anziano meteorologo, costretto da Hughes a dimostrare "matematicamente" ai censori come le tette di Jane Russell non fossero più oltraggiose di quelle di attrici che l'avevano preceduta), John C. Reilly (il tuttofare di Hughes), Alec Baldwin (il presidente della Pan Am, suo acerrimo rivale per i voli transcontinentali), Alan Alda (il senatore Brewster, che lo mette sotto inchiesta), Willem Dafoe (un giornalista scandalistico), Brent Spiner (il presidente della Lockheed). Una scena in cui sarebbe dovuta apparire anche l'aviatrice Amelia Erhart (interpretata da Jane Lynch) è stata tagliata in fase di montaggio.

10 novembre 2009

L'ultima tentazione di Cristo (M. Scorsese, 1988)

L'ultima tentazione di Cristo (The Last Temptation of Christ)
di Martin Scorsese – USA 1988
con Willem Dafoe, Harvey Keitel
***1/2

Visto in DVD, con Giovanni.

Mentre sta per morire sulla croce, dopo un'esistenza trascorsa dapprima nel tentativo di ignorare il richiamo di Dio (suscitando l'ira del suo amico d'infanzia Giuda, che lo voleva più attivo nella resistenza contro i romani) e poi a diffonderne la parola attraverso predicazioni e miracoli, Gesù viene sottoposto a un'ultima tentazione da parte di Satana: spacciandosi per un angelo custode, il diavolo gli rivela infatti che il suo sacrificio non è più necessario. Gesù può così scendere dal Golgota e vivere finalmente come ha sempre desiderato, ovvero come un uomo normale, senza doversi fare carico della salvezza dell'umanità: può sposarsi (con Maddalena), avere figli e raggiungere una serena vecchiaia. Tratto dal libro-scandalo di Nikos Kazantzakis (autore anche di "Zorba il greco"), è una delle opere più controverse e sottovalutate di Scorsese, circondato com'è da un'aura da "film maledetto" che, a ben vedere, non ha in realtà molta ragion d'essere. Il Cristo ritratto dal cattolicissimo regista italo-americano (e interpretato da uno straordinario Willem Dafoe) è forse – è vero – il più "umano" mai visto sullo schermo (ha desideri carnali, incertezze, dubbi e timori), ma proprio per questo il suo sacrificio finale (quando si rende conto di aver "tradito" la propria missione, supplica Dio di riportarlo sulla croce) finisce con l'avere ancora maggior valore. Dopo aver inserito nei suoi lavori precedenti tante figure cristologiche e aver abbondantemente affrontato temi come la colpa e la redenzione, con questo film Scorsese va direttamente "alle fonti" e si occupa dell'argomento senza più metafore o giri di parole. All'uscita della pellicola ci furono picchetti di integralisti cristiani fuori dalle sale cinematografiche(*), la Commissione Episcopale Italiana invitò i periodici cattolici a non recensirlo, e tuttora alcuni ottusi bigotti lo considerano un film blasfemo: ma viene il dubbio che chi lo critica non lo abbia nemmeno visto, o lo abbia fatto molto distrattamente. Molto interessante, in particolare, la lettura che la sceneggiatura di Paul Schrader fa della figura di Giuda (Harvey Keitel), che si rivela in realtà il discepolo più fedele e devoto a Gesù, e che accetta malvolentieri l'ingrato compito di tradirlo pur di servire un bene più grande. Curiosamente, a un certo punto è proprio Giuda ad accusare Cristo di essere un traditore. Altra ironia, all'inizio, sta nel fatto che proprio il falegname Gesù è colui che fabbrica le croci che i romani usano per i condannati a morte (e le trasporta sulle proprio spalle, per autopunirsi di questa collaborazione e per tentare di scacciare la voce di Dio). Notevole, infine, la scena in cui l'anziano Gesù incontra Paolo (Harry Dean Stanton) che sta predicando la sua nuova religione, quella che diventerà il cristianesimo e in cui il Cristo non si riconosce affatto. Ottimo il cast, dove brilla Barbara Hershey nella parte di una sensuale Maria Maddalena, mentre David Bowie è Ponzio Pilato. La confezione è superba sotto ogni aspetto: la regia ipnotica ed elegante, la fotografia dominata dal rosso e dai colori caldi, le scenografie bellissime e minimaliste (il film venne girato in Marocco), la musica "africana" di Peter Gabriel. L'unico grave difetto che mi sento di segnalare non è dovuto al film stesso ma dipende dai maledetti Monty Python: da quando ho visto "Brian di Nazareth" non riesco a evitare di sghignazzare (e ad immaginarmi uomini vestiti da donna che chiedono "un cartoccio di ghiaia per il ragazzo") durante scene come quella della lapidazione. Una curiosità: l'ultima inquadratura, con la pellicola che diventa bianca, è dovuta a un guasto della macchina da presa che provocò una sovraesposizione che Scorsese decise di lasciare nel film.

(*) In Italia il film venne anche denunciato per vilipendio alla religione: ma fu assolto dal tribunale di Venezia con questa magnifica sentenza, che è quasi meglio di ogni recensione cinematografica.