30 maggio 2020

Duel (Steven Spielberg, 1971)

Duel (id.)
di Steven Spielberg – USA 1971
con Dennis Weaver, Carey Loftin
***1/2

Rivisto in TV.

In viaggio per lavoro sulle strade desertiche della California (le riprese sono state effettuate nel deserto del Mojave), il rappresentante David Mann (Dennis Weaver) ingaggia suo malgrado una sfida senza esclusione di colpi con il misterioso autista di un'autocisterna che sta compiendo lo stesso tragitto. Iniziato con una serie di sorpassi e controsorpassi, il "duello" si protrae fra numerose scorrettezze, con il "bestione della strada" che cerca a più riprese di uccidere il malcapitato protagonista. Tratto da un racconto di Richard Matheson (ispirato a un episodio accadutogli davvero, ma naturalmente gonfiato a proporzioni gigantesche per esigenze drammaturgiche), un tv movie che ha fatto storia, e non solo per l'alta tensione che cresce inesorabilmente fino a un finale catartico. Non si tratta, come si dice talvolta, del primo lavoro di Spielberg, visto che il cineasta americano – allora ventiquattrenne – aveva già firmato la regia di alcuni episodi di serie televisive e in particolare di "L.A. 2017" per la serie "The Name of the Game" (in italiano "Reporter alla ribalta"). Ma "Duel", trasmesso nel novembre 1971 in tv con un grande riscontro da parte del pubblico e della critica, fu distribuito l'anno successivo anche al cinema con l'aggiunta di alcune scene girate ex novo dallo stesso Spielberg (le sequenze della telefonata di Mann alla moglie, quella dello scuolabus e quella del passaggio a livello), allo scopo di gonfiare la durata dagli originali 74 minuti ai 90 richiesti per la distribuzione nelle sale, e rappresenta perciò il suo esordio come regista cinematografico. Girato nell'arco di soli 13 giorni (più altri 10 per il montaggio) e con un budget ridottissimo, il film mette già in mostra il talento del futuro autore di blockbuster come "Lo squalo" e "I predatori dell'arca perduta" (per citare solo due titoli di una filmografia vastissima), ma sfrutta un'idea di base molto semplice per dare vita a qualcosa di archetipicamente efficace e simbolicamente potente. L'episodio, in fondo, gioca con molte paure dell'uomo comune, quelle di ritrovarsi di colpo (e senza colpa) imprigionato in una situazione di alta tensione per la quale si sente inadeguato, e dove la routine della vita quotidiana esplode nella violenza, in maniera non dissimile da altre pellicole coeve (si pensi, per esempio, al "Cane di paglia" di Sam Peckinpah). Il protagonista Mann, infatti, è una persona qualunque, non certo eroica o coraggiosa (anzi, il dialogo al telefono con la moglie, che non ha difeso la sera precedente, ci fa capire che è anche un po' codardo), persino ridicolo nei brevi momenti in cui esulta come un bambino di fronte ad esigue vittorie (l'illusione di aver seminato o essersi sbarazzato di un nemico che invece è destinato a tornare). D'altronde è un piccolo borghese, a disagio fra i camionisti che incontra nel posto di ristoro e in generale nel contatto con un mondo sporco e proletario di cui l'autocisterna, sudicia e fumante, fa parte a pieno titolo. L'avventura per lui è anche una discesa in un universo selvaggio, lontano dalla sua rassicurante quotidianità, dove ogni tentativo di dare una spiegazione razionale o di rispondere in maniera logica è destinato a fallire.

A fare paura, infatti, è anche il fatto che le motivazioni del "duello" non vengono mai spiegate esplicitamente, e che il guidatore dell'autocisterna non viene mai mostrato del tutto (se ne intravedono, in un paio di fugaci scene, giusto le braccia e gli stivali). Spielberg ha dichiarato che la trovata di non fare vedere l'autista (il pilota dell'automezzo era lo stuntman Carey Loftin, tra parentesi) rende l'autocisterna stessa il vero "cattivo" del film, un'impressione acuita dal fatto che il modello scelto (un Peterbilt 281, sporco e arrugginito, in netto contrasto con la Plymouth Valiant rossa di Mann) sembra quasi presentare le fattezze di un volto, con occhi (i parabrezza) e muso sporgente. Le numerose targhe (di stati diversi) che sfoggia potrebbero inoltre essere i trofei di "prede" precedenti. La paura dell'ignoto è una delle più forti, e non conoscere nulla del rivale acuisce il senso di terrore e di frustrazione del protagonista davanti a un nemico invincibile e inesorabile, che lo ha preso di mira e che ritorna sempre a ogni svolta. La sfida stessa, iniziata come una serie di piccoli dispetti, cresce a proporzioni straordinarie, diventa una questione di vita o di morte: è la lotta contro una forza della natura, misteriosa, ostile e irrazionale, come quella con Moby Dick (o come lo squalo del successivo lavoro – e primo grande successo cinematografico – di Spielberg). Oppure con un toro: l'idea della corrida è suggerita dal colore rosso dell'auto del protagonista, ma anche dal fatto che il nemico lo invita esplicitamente alla lotta, gli impedisce di tirarsene fuori, lo costringe a proseguire lo scontro fino alla fine. Il confronto conclusivo sulla sommità della collina, infine, può ricordare tanto un duello western (e lo suggerisce anche il titolo della pellicola) quanto, trattandosi di automezzi, una sfida di coraggio in stile "Gioventù bruciata". In ogni caso l'obiettivo finale per Mann è quello di crescere attraverso l'esperienza, di diventare un vero uomo, un traguardo che raggiunge anche grazie al suo nemico. Non mi piace invece l'ipotesi, avanzata da alcuni critici, di una natura "diabolica" dell'autocisterna, una sorta di possessione che in fondo è superflua e inutile. Concludo con alcune annotazioni: personalmente il film risuona in me ancora di più perché ho sempre avuto paura delle automobili e del fatto che, mentre guidiamo, tendiamo a "disumanizzare" le altre vetture che incrociamo sulla strada (pensiamo spesso a loro come "macchine", raramente riflettendo che contengono degli uomini al loro interno). Negli Stati Uniti, invece, le auto sono un vero mito, un'estensione quasi ineluttabile delle persone. Anche Spielberg volle che i veicoli "parlassero" per sé stessi, e per questo motivo il protagonista non ha molte linee di dialogo (da notare però il flusso dei suoi pensieri interiori, per esempio nella scena al posto di ristoro sulla strada). La colonna sonora di Billy Goldenberg anticipa in alcuni punti il celebre tema de "Lo squalo". E il regista renderà successivamente omaggio a questo suo primo lavoro in altri suoi film: per esempio Lucille Benson e la sua stazione di servizio con l'esibizione di serpenti torneranno in "1941 - Allarme a Hollywood". Per certi versi la pellicola (pensando per esempio al suo incipit, con la soggettiva della macchina che esce dal garage e attraversa la città, mentre in sottofondo si sente la radio) potrebbe aver ispirato "Locke" di Steven Knight.

29 maggio 2020

Il ricatto (Eugenio Mira, 2013)

Il ricatto (Grand Piano)
di Eugenio Mira – Spagna 2013
con Elijah Wood, Kerry Bishé
*1/2

Visto in divx.

Giovane e brillante pianista che soffre di ansia da palcoscenico, Tom Selznick (Elijah Wood) si è ritirato dalle scene dopo essersi "bloccato" durante un concerto. Ma viene convinto dalla moglie Emma (Kerry Bishé), attrice e cantante di successo, a tornare a esibirsi in un'occasione particolare: potrà infatti suonare sul pianoforte appartenuto al suo antico maestro e mentore Patrick Godureaux, scomparso da poco. Durante le prime battute del concerto, però, Tom nota una scritta in inchiostro rosso sullo spartito, che dice: "Sbaglia una nota, e morirai". E scopre di avere addosso il puntatore di un fucile di precisione... Scritto da un Damien Chazelle non ancora regista (avrebbe esordito l'anno successivo con un'altra pellicola a tema musicale, "Whiplash"), un thriller di stampo hitchcockiano potenzialmente intrigante, ma alla resa dei conti poco riuscito. Lo spunto può ricordare quello della cabina telefonica di "In linea con l'assassino", ma la vicenda è davvero troppo inverosimile per poter essere presa sul serio: basti pensare che Tom, pur avendo gli occhi di tutto il pubblico puntati addosso, parla e discute in continuazione con il killer attraverso un auricolare, abbandona lo strumento e torna più volte al suo posto mentre il resto dell'orchestra continua a suonare, e fa persino telefonate o invia messaggi durante la sua esibizione! Per non parlare delle scene d'azione e dei combattimenti dietro le quinte o sopra il teatro, o del fatto che apparentemente l'intero pubblico non si accorge se un pianista sbaglia l'ultima nota – sì, l'ultima! – di un brano. Tutto questo non può che andare a discapito della sospensione dell'incredulità e finisce per ridurre o addirittura azzerare la suspense, nonostante gli sforzi degli interpreti (i "cattivi" sono John Cusack e un redivivo Alex "Bill S. Preston" Winter). Altro punto a demerito, il fatto che i brani suonati (un concerto per pianoforte e orchestra e un pezzo per piano solo) siano originali (di Víctor Reyes), e neanche granché belli: avrebbero potuto usare almeno della vera musica classica!

28 maggio 2020

Marrakech Express (G. Salvatores, 1989)

Marrakech Express
di Gabriele Salvatores – Italia 1989
con Fabrizio Bentivoglio, Diego Abatantuono
***

Rivisto in DVD.

Quando ricevono dal Marocco un'inattesa richiesta d'aiuto da parte di Rudy, l'amico di cui non avevano più notizie da dieci anni, quattro trentenni un tempo inseparabili ma che si sono ormai persi di vista – l'ingegnere Marco (Fabrizio Bentivoglio), il venditore d'auto usate Maurizio detto "Ponchia" (Diego Abatantuono), l'insegnante Paolino (Giuseppe Cederna) e il solitario Cedro (Gigio Alberti) – decidono di partire insieme in auto per Marrakech per portargli il denaro che ha richiesto. Il lungo viaggio farà tornare alla luce i rapporti, i rancori e le incomprensioni, ma anche le complicità, i giochi e soprattutto la nostalgia per un'epoca ormai finita ("Siamo una tribù in via di estinzione, gli ultimi che avranno i ricordi in bianco e nero"). Vero e proprio cult movie generazionale, forse debitore in parte a "Il grande freddo" e a "Fandango", il terzo film di Gabriele Salvatores è il primo della cosiddetta "trilogia della fuga" (seguiranno "Turné" e "Mediterraneo"), nella quale il regista esplicita la sua miglior vena comico-indulgente e, insieme con i suoi sceneggiatori (qui Umberto Contarello, Carlo Mazzacurati ed Enzo Monteleone), guarda al passato e ai ricordi di quando, con gli amici, si facevano spensierati viaggi in giro per l'Europa e per il mondo, all'insegna della gioventù e dell'incoscienza (farsi le canne sul traghetto, rubare cibo al supermercato, dormire sotto le stelle...) prima che gli impegni e i doveri della vita adulta ci cambiassero profondamente e soffocassero la voglia di libertà. Leggero e ingenuo, riesce a risultare comunque risonante e gradevole, grazie al fascino apportato dai temi del viaggio (che, come sempre, è anche e soprattutto alla (ri)scoperta di sé) e dell'amicizia, ma pure a una colonna sonora che comprende brani vintage ("L'anno che verrà" di Lucio Dalla, "La leva calcistica del '68" di Francesco De Gregori, quest'ultima usata nella scena più celebre della pellicola, quella della partita nel deserto contro i marocchini che sarà poi citata da Aldo, Giovanni e Giacomo in "Tre uomini e una gamba"). Fra i tanti momenti memorabili, la sosta presso il villaggio western in Spagna, la visita dal dentista tedesco a Marrakech, il tatuaggio al bagno turco, l'attraversamento del deserto in bicicletta, prima che la pellicola si perda un po' nel finale: come in molti viaggi, quando si arriva alla meta tutto sembra di colpo meno interessante. Ottimi gli attori, che torneranno quasi tutti nei film seguenti del regista: a spiccare sono in particolare Cederna (nei panni del timido Paolino) e Abatantuono (Ponchia), che dopo "Regalo di Natale" prosegue a staccarsi dalla figura del "terrunciello" che lo aveva reso celebre, dimostrandosi interprete a tutto tondo. Ugo Conti è l'omosessuale Salvatore, che aiuta i nostri amici in Marocco. Massimo Venturiello è Rudy, mentre Cristina Marsillach è Teresa, la ragazza spagnola che questi manda dagli amici. Insieme ai lavori successivi avrebbe potuto forse rinnovare la stagione della commedia all'italiana: ma il filone inevitabilmente si estinguerà da solo in poco tempo, e lo stesso Salvatores cercherà altre strade.

27 maggio 2020

Super 8 (J.J. Abrams, 2011)

Super 8 (id.)
di J.J. Abrams – USA 2011
con Joel Courtney, Elle Fanning
**1/2

Visto in TV.

Nel 1979, in una cittadina dell'Ohio, una banda di ragazzini impegnata a girare un film amatoriale in Super8 sugli zombi ("Il caso", che sarà mostrato sui titoli di coda) rimane coinvolta in un'invasione aliena. Scritto e diretto da J.J. Abrams, questo lungometraggio sembra in tutto e per tutto un film di Steven Spielberg (che figura solo come produttore, ma che in realtà ha collaborato allo sviluppo della storia). Questo perché l'intera pellicola è un omaggio al tipo di film che il buon Steven realizzava all'inizio della sua carriera (con evidenti citazioni da "E.T." e "Incontri ravvicinati del terzo tipo") o che ha prodotto negli anni Ottanta (come "I Goonies" o "Gremlins"). L'idea stessa dei ragazzini cineasti rimanda alle origini di Spielberg, quando a 16 anni filmava e poi proiettava in pubblico i suoi primi lavori amatoriali, come "Firelight". E anche se la regia è competente, Abrams si dimostra (o, volendo, si conferma) incapace di elaborare una propria originalità, rifacendosi esclusivamente a un immaginario nostalgico, pieno di luoghi comuni del cinema di avventura, che condivide con i suoi coetanei (e che ricopre di una "patina" moderna). Abbiamo così un ragazzino protagonista (Joel Courtney nei panni di Joe, che nella "troupe" si occupa del trucco e degli effetti speciali), introverso, sensibile e incompreso; un extraterrestre mostruoso che alla fine si rivela essere in realtà buono; i militari cattivi; i problemi in famiglia, quasi sempre dovuti all'assenza di uno dei due genitori (nel caso di Joe, la madre è morta di recente). Rispetto ai film che prende a modello, però, questo è decisamente più fracassone (le esplosioni abbondano) e, anche se divertente, assai più prevedibile, afflosciandosi nella seconda parte dopo l'ottimo incipit. Elle Fanning, nei panni di Alice, recita meglio quando "finge di recitare" nel filmino girato dai ragazzini che nel film vero e proprio. Kyle Chandler è il padre di Joe, vicesceriffo della cittadina, Ron Eldard il padre di Alice, Noah Emmerich il "cattivo" colonnello Nelec. Fra gli amici della troupe ci sono Riley Griffiths (il regista) e Ryan Lee (l'esperto di esplosivi). In qualità di produttore, Abrams aveva già sperimentato con il mix fra fantascienza urbana e metacinema nel ben più geniale "Cloverfield".

26 maggio 2020

Casa Howard (James Ivory, 1992)

Casa Howard (Howards End)
di James Ivory – GB 1992
con Emma Thompson, Anthony Hopkins
***

Rivisto in TV.

All'inizio del Novecento, le vicende di tre famiglie inglesi di diversa estrazione sociale (e status economico) si incrociano a più riprese. Si tratta dei Wilcox, guidati dal patriarca Henry (Anthony Hopkins), ricchissimi ma dall'animo arido, fatta eccezione per la moglie di Henry, Ruth (Vanessa Redgrave); delle sorelle nubili Margaret (Emma Thompson) e Helen Schlegel (Helena Bonham Carter), mediamente abbienti, di idee aperte e progressiste e amanti dell'arte e della cultura; e dell'impiegato Leonard Bast (Samuel West), povero ma romantico e sensibile, imprigionato in un matrimonio infelice. Tutto ruota attorno a Casa Howard, la dimora di campagna che Ruth Wilcox, in punto di morte, vorrebbe lasciare all'amica Margaret: ma un piccolo atto di egoismo (il rifiuto dei figli di Henry e Ruth di ottemperare alla volontà della madre) finirà col provocare infelicità, tragedie e ingiustizie, mentre sogni e aspirazioni si scontrano con la realtà. Il terzo fortunato adattamento di un romanzo di E.M. Forster da parte di James Ivory (in coppia con il produttore Ismail Merchant), dopo "Camera con vista" e "Maurice", è uno dei suoi lavori di maggior successo critico e al botteghino. Merito certo del testo originale, che approfondisce i numerosi personaggi con grande cura psicologica (la protagonista Margaret, per esempio, cerca continuamente una mediazione fra il proprio lato romantico ed emotivo e quello più intellettuale e pratico, a differenza della sorella Helen che è invece più impulsiva, idealistica e meno incline al compromesso), ma anche delle ottime interpretazioni (il cast è composto da veri mostri sacri del cinema britannico), dei bei dialoghi, della regia elegante, della cura nelle scenografie, nella fotografia e nella ricostruzione storica. Lungo e un po' sfilacciato, ma anche spigliato e mai noioso, il film mescola tensioni sociali, dilemmi morali, relazioni sentimentali (quella fra Margaret ed Henry, quella fra Helen e Leonard), problemi domestici e contrasti famigliari. Ben nove nomination agli Oscar (comprese quelle per il miglior film e la regia) e tre statuette vinte: attrice (Emma Thompson), sceneggiatura non originale (Ruth Prawer Jhabvala) e scenografie (Luciana Arrighi). Nel cast anche James Wilby (Charles Wilcox), Joseph Bennett (Paul Wilcox), Adrian Ross Magenty (Tibby, il fratello di Margaret ed Helen), Nicola Duffett (Jacky, la moglie di Leonard) e Susie Lindeman (Dolly, la moglie di Charles). Jemma Redgrave, che interpreta Evie, l'altra figlia di Ruth, è la nipote di Vanessa Redgrave: non è l'unico caso di parentela sul set (Samuel West è il figlio di Prunella Scales, che recita nel ruolo di zia Juley, mentre Crispin Bonham Carter, uno degli amici di Charles, è il cugino di Helena). Nella colonna sonora spicca la quinta sinfonia di Beethoven. Nel 2017 il romanzo di Forster è stato riadattato per la tv dalla BBC in un serial in quattro parti.

25 maggio 2020

Il fuorilegge (Tod Browning, 1920)

Il fuorilegge, aka Così parlò Confucio (Outside the law)
di Tod Browning – USA 1920
con Priscilla Dean, Wheeler Oakman
**1/2

Visto su YouTube, con cartelli in inglese.

Molly (Priscilla Dean) è la figlia di un gangster (Ralph Lewis) che sta cercando di mettersi sulla retta via, seguendo i consigli del saggio Chang Low (E. Alyn Warren). Ma quando il padre viene incastrato dal malvagio Black Mike (Lon Chaney), che lo fa condannare per un omicidio che non ha commesso, la ragazza, disillusa, torna sul sentiero del crimine e si lascia convincere dallo stesso Mike a partecipare a un furto di gioielli. L'uomo medita di tradirla dopo il colpo, ma il suo complice Dapper Bill (Wheeler Oakman), innamorato di lei, la mette al corrente del tranello, la aiuta a nascondersi in un appartamento e la persuade a restituire la refurtiva. Ambientato nella Chinatown di San Francisco, il film ha temi (la redenzione!) molto simili a quelli del precedente "La bestia nera", di cui condivide regista e alcuni attori (Dean e Chaney). La grande novità è quella di raccontare, forse per la prima volta, una storia di gangster con personaggi simpatetici e con attenzione alla loro psicologia: in precedenza i criminali al cinema erano sempre stati ritratti genericamente come "cattivi" (come è ancora il caso per l'antagonista Black Mike), mentre qui Bill e Molly sono mostrati in preda a rimorsi di coscienza e divisi fra l'inclinazione verso il bene e quella verso il male, fra il desiderio di una vita onesta e la rivalsa verso una società ingiusta (la legge corrotta, la polizia che non crede alla possibilità di redenzione). Interessante anche il personaggio del filosofo Chang Low, che predica gli insegnamenti di Confucio (in generale tutti i cinesi sono ritratti in maniera positiva, cosa rara per un'epoca in cui il "pericolo giallo" era un luogo comune delle storie poliziesche o d'avventura). La regia di Browning si sbizzarrisce nel movimentato combattimento finale, con un montaggio serrato. Chaney dà sfoggio delle sue capacità di trucco interpretando due diversi personaggi: oltre a Black Mike è infatti anche Ah Wing, il servitore cinese di Chang Low (e in una scena spara a sé stesso!). Non accreditata, nel ruolo di una cinesina, una giovane Anna May Wong. I due protagonisti (Dean e Oakman) si sposarono quello stesso anno. La copia esistente è quella della riedizione del 1926, in cui mancherebbero alcune scene con Ah Wing. Browning ne farà un remake sonoro nel 1930, "Gli uomini della notte", con Edgar G. Robinson.

24 maggio 2020

La donna elettrica (B. Erlingsson, 2018)

La donna elettrica (Kona fer í stríð)
di Benedikt Erlingsson – Islanda 2018
con Halldóra Geirharðsdóttir, Jóhann Sigurðarson
**1/2

Visto in TV.

La quarantenne Halla (Geirharðsdóttir), direttrice di un coro, è segretamente l'eco-terrorista nota come "la donna elettrica", che compie azioni di sabotaggio ai danni delle linee elettriche e dei piloni che portano l'energia agli impianti siderurgici situati nel bel mezzo della brughiera islandese. Ma quando riceve la notizia che la sua richiesta di adottare una bambina dall'Ucraina, avanzata quattro anni prima, è stata finalmente accettata, le sue prospettive cominciano a cambiare. Con il consueto approccio "nordico" che consente di trattare di temi seri con leggerezza (o forse il contrario), il secondo lungometraggio di Erlingsson è una pellicola stralunata ma accattivante, che non pretende di mettere la protagonista in buona luce (le sue convinzioni ecologiche e le sue idee contro la globalizzazione e l'industria inquinante faranno presa solo su chi già la pensa come lei) ma ne mostra le diverse sfaccettature con toni a tratti surreali. L'eroina è una sorta di Don Chisciotte, che combatte contro i mulini a vento (i piloni dell'elettricità, i droni che le danno la caccia nelle sconfinate brughiere dell'isola), che idolatra Gandhi e Mandela, e cerca invano di incitare la popolazione alla rivolta. Proprio la leggerezza consente di passare sopra il difetto di voler accatastare troppi ingredienti e troppi elementi (il messaggio ecologista, quello esistenziale, quello politico, quello legato all'adozione e dunque al desiderio di maternità), con il rischio di non approfondire veramente nessuno di essi (lo stesso vale per alcuni personaggi minori che non aggiungono granché alla vicenda, come il cicloturista latino-americano, che ritorna dal precedente "Storie di cavalli e di uomini"). Sul versante artistico, invece, l'aspetto più interessante è quello legato alla colonna sonora, semi-diegetica, sempre suonata da qualcuno presente fisicamente sulla scena anche quando non sarebbe possibile (i "suonatori" non vengono visti dagli altri personaggi). Il risultato ricorda a tratti il surrealismo di Roy Andersson. Straordinaria la Geirharðsdóttir in un doppio ruolo: oltre a Halla, interpreta infatti anche la sorella (gemella?) Ása, insegnante di yoga e di meditazione, che infatti viene spesso scambiata con lei (e la cosa la aiuterà a cavarsi dai guai). Nella scena conclusiva, l'inondazione che sommerge la strada è quasi una metafora della natura che impazzisce (o forse, semplicemente, del fatto che non sempre la strada che vogliamo percorrere ci è resa visibile). Annunciato un remake USA, diretto e interpretato da Jodie Foster.

23 maggio 2020

Kickboxers (Corey Yuen, 1986)

Kickboxers - Vendetta personale (No retreat, no surrender)
di Corey Yuen Kwai – USA 1986
con Kurt McKinney, Jean-Claude Van Damme
**

Visto in divx.

Trasferitosi con la famiglia da Los Angeles a Seattle, dopo che il padre è stato costretto a chiudere la propria palestra di karate per pressioni della malavita organizzata, il giovane Jason (Kurt McKinney) si ritrova vittima dei bulli locali. Ma grazie al "fantasma" di Bruce Lee, che lo addestra alle arti marziali, diventerà più forte e saprà anche difendere la comunità quando gli stessi gangster cercheranno di appropriarsi della nuova palestra che frequenta, sconfiggendo sul ring il temibile lottatore russo Ivan Krushensky (Jean-Claude Van Damme) in un incontro di full contact. Primo film americano di Corey Yuen, su un canovaccio (scritto dallo stesso regista insieme al produttore Ng See-yuen) che ricorda in parte "Karate Kid" e in parte i moltissimi film hongkonghesi a base di scontri fra palestre rivali (a cominciare da alcune pellicole dello stesso Bruce Lee, qui nume tutelare del protagonista, che ne è un fan al punto da rendere omaggio alla sua tomba che si trova proprio a Seattle). Le ingenuità nella scrittura della storia e dei personaggi, abbastanza stereotipati, nonché la generale immaturità cinematografica sono compensate da una sincerità di fondo e, soprattutto, dalla buona rappresentazione dei combattimenti, che lo rendono a suo modo apprezzabile (e con un feeling molto anni Ottanta). Degna di nota, naturalmente, è la presenza di Van Damme nei panni del cattivo: per JCVD si trattava del primo ruolo significativo nel mondo del cinema dopo piccole parti come comparsa o come stuntman. Pare che sul set ebbe problemi con il regista e gli altri attori perché pretendeva di portare effettivamente a segno i suoi colpi, anziché rimanere a distanza dall'avversario. Esistono due sequel, senza alcun legame con questo a livello di trama. Il fantasma di Bruce Lee è interpretato dal coreano Kim Tai-chung, non particolarmente somigliante ma che aveva già impersonato il lottatore in alcune scene de "L'ultimo combattimento di Chen" (rimasto incompiuto alla morte di Lee) e nel suo seguito "L'ultima sfida di Bruce Lee".

22 maggio 2020

The Hobbit (Gene Deitch, 1967)

The Hobbit
di Gene Deitch – USA/Cecoslovacchia 1967
animazione tradizionale
*1/2

Visto su YouTube, in originale.

Questo misconosciuto cortometraggio di quasi 12 minuti è il primo adattamento cinematografico di un'opera di J.R.R. Tolkien. Il produttore William L. Snyder, con la sua Rembrandt Films, era entrato in possesso dei diritti su "Lo Hobbit" nel 1964, pagandoli molto poco, quando Tolkien e i suoi lavori erano ancora sconosciuti al di fuori della Gran Bretagna. L'intenzione era quella di realizzare un lungometraggio, ma non essendo riuscito a trovare un finanziatore (la 20th Century Fox si tirò indietro all'ultimo momento), pur di non perdere i diritti Snyder chiese all'animatore Gene Deitch di condensare in fretta e furia la storia in un corto. Il lavoro, che fu proiettato in pubblico una sola volta, è stato realizzato al risparmio, e si vede. Non è nemmeno veramente in animazione: i disegni sono fissi (anche se la camera è in movimento) e accompagnati da un narratore fuori campo (Herb Lass) che dà la voce anche a tutti i personaggi, come se stesse leggendo un libro. Molte, inoltre, le libertà e le modifiche rispetto al testo originale: i nani sono assenti, a parte Thorin Scudodiquercia (trasformato in un "generale"), e Bilbo è accompagnato nel suo viaggio verso la Montagna Solitaria da tre soli personaggi: Thorin, un guardiano e una principessa (che alla fine sposerà). Il drago Smaug si chiama Slag, mentre Gandalf dà il via alla vicenda ma non partecipa all'impresa. Sono presenti episodi come l'incontro con i troll (solo due, che si trasformano in alberi anziché in rocce) e con Gollum (ma senza la gara di indovinelli), mentre sono assenti gli elfi di Bosco Atro e la battaglia dei cinque eserciti. La curiosità maggiore è l'aspetto grafico: per molti versi i disegni e le iconografie sono diversi da quelli che ci aspetteremmo oggi, più simili ai libri illustrati per bambini e alle fiabe che al fantasy. Eppure hanno un loro particolare fascino, e forse non distano così tanto dal mood che Tolkien aveva in mente quando scrisse il romanzo (o comunque non più del look hollywoodiano da heroic fantasy dei film di Peter Jackson). Poco più che una curiosità, il film (completato in un solo mese) consentì a Snyder di mantenere i diritti dell'opera, diventati più appetibili da quando era esplosa la Tolkien-mania (grazie all'edizione americana del "Signore degli Anelli"), e di rivenderli (agli editori di Tolkien, che poi li cedettero alla United Artists) a un prezzo superiore a quello con cui li aveva acquistati. Negli anni a venire, prima della trilogia di Jackson, "Lo Hobbit" sarà adattato ancora una volta in animazione (la versione Rankin/Bass del 1977) e poi in live action (il telefilm russo del 1985).

21 maggio 2020

Diamanti grezzi (J. e B. Safdie, 2019)

Diamanti grezzi (Uncut gems)
di Josh e Benny Safdie – USA 2019
con Adam Sandler, Julia Fox
***

Visto in TV (Netflix), con Sabrina.

Il gioielliere ebreo Howard Ratner (Adam Sandler) ha un negozio nel Diamond District di Manhattan. "Maneggione" dai mille traffici, si barcamena fra debiti (deve una forte somma di denaro all'usuraio Arno (Eric Bogosian), che è anche suo cognato, dai cui esattori si defila in continuazione), gioco d'azzardo (è un appassionato di basket, sulle cui partite scommette senza freni), famiglia (è in fase di separazione dalla moglie Dinah (Idina Menzel) e ha tre figli che spesso ignora) e amante (la giovane Julia (Julia Fox), commessa nel suo negozio, che vive nel suo appartamento). Un giorno riesce a procurarsi un prezioso e misterioso opale grezzo dall'Etiopia, che intende vendere all'asta: ma questo attira l'interesse del superstizioso Kevin Garnett, giocatore di basket della NBA (che interpreta sé stesso), convinto che gli porti fortuna... Un film caotico e colorato, un affresco gridato e debordante su un personaggio dalla vita notturna e sregolata, che sguazza nell'inganno e nel disordine, nel kitsch e nella volgarità, sballottato dal destino avverso in una New York ostile che a tratti ricorda quella dello Scorsese di "Fuori orario" e di altri film del regista italo-americano ambientati nella Grande Mela (la fotografia di Darius Khondji aiuta di certo nell'immedesimazione). Altri punti di riferimento dei fratelli Safdie sembrano essere il Tarantino di "Pulp fiction" (per la violenza che scoppia all'improvviso, la ricchezza dei personaggi di contorno e l'incrociarsi di più fili narrativi) e l'Abel Ferrara del "Cattivo tenente" (con la sfida fra Boston e Philadelphia nelle semifinali della NBA 2012 che fa da sfondo e filo conduttore alla vicenda, proprio come in quel film capitava per una serie di playoff del baseball). Se il protagonista della pellicola è di certo sgradevole e irresponsabile, la sceneggiatura e l'interpretazione di Sandler (sorprendentemente a suo agio in una parte drammatica) riescono però a tenere agganciato lo spettatore dall'inizio alla fine e a renderlo partecipe delle sue disavventure, grazie anche una cadenza serrata (nei dialoghi, nel montaggio) che ben si sposa con il ritmo adrenalinico di chi fa dell'azzardo la propria regola di vita, fino a un finale che giunge a sorpresa ma anche con un certo grado di inevitabilità. Nel cast anche Lakeith Stanfield (l'assistente di Howard che gli procura clienti famosi), Keith Williams Richards (l'esattore di Arno), Judd Hirsch (il suocero di Howard) e Mike Francesa (l'allibratore), oltre a vari cantanti e rapper newyorkesi nelle parti di sé stessi.

20 maggio 2020

Cuore selvaggio (David Lynch, 1990)

Cuore selvaggio (Wild at heart)
di David Lynch – USA 1990
con Nicolas Cage, Laura Dern
**1/2

Rivisto in DVD, con Sabrina.

Sailor Ripley (Nicolas Cage), delinquente di piccolo calibro appena uscito di prigione, e la sua fiamma Lula Fortune (Laura Dern) sono in fuga dal North Carolina verso la California per sfuggire alla madre di lei, la gelosissima Marietta (Diane Ladd). Questa però sguinzaglia sulle loro tracce sia un detective privato, Johnnie Farragut (Harry Dean Stanton), che il gangster di cui è l'amante, Marcelles Santos (J.E. Freeman), il quale a sua volta assolda alcuni killer per eliminare Sailor e il rivale Johnnie: si tratta del subdolo Bobby Peru (Willem Dafoe) e delle sorelle Perdita e Juana Durango (Isabella Rossellini e Grace Zabriskie). Il quinto lungometraggio di David Lynch è un'originale e romantica fiaba on the road, violenta e barocca, talmente ricca di elementi bizzarri e di personaggi grotteschi e sopra le righe da risultare quasi random (molti di essi avrebbero meritato un maggiore approfondimento, anziché darsi il cambio solo per far numero). Nonostante ciò, la trama è più lineare di quanto possa sembrare e affonda le sue radici nell'immaginario pop e retrò, e a volte kitsch, degli Stati Uniti del sud: vedi le numerosissime citazioni da "Il mago di Oz", Nicolas Cage con la giacca di serpente che canta le canzoni di Elvis Presley, il viaggio attraverso luoghi caratteristici come New Orleans e il Texas. Lynch, come fa spesso, narra la vicenda come se si trattasse di un ininterrotto flusso di coscienza e riesce a rendere vivi e plausibili personaggi in realtà assurdi e surreali. Alcune situazioni sembrano addirittura anticipare certe cose di Tarantino, anche se la visionarietà lynchiana rende il tutto più una fiaba moderna che una pellicola "pulp". Quello in cui i due amanti si barcamenano, cercando di ribellarsi alle difficoltà mantenendo il proprio amore come unico punto di riferimento, è – per dirla con le parole di Lula – "un mondo cattivo, senza pietà, che racchiude dentro di sé un cuore selvaggio". Un mondo in cui sesso, violenza e rock'n'roll giocano un ruolo importante, e dove la morte è sempre in agguato (si pensi ai tanti incidenti stradali che i due protagonisti incrociano sulla loro strada). Da sottolineare, come detto, la ricca colonna sonora, usata spesso in maniera diegetica, e i continui riferimenti a "Il mago di Oz": dalle scarpette rosse di Lula (e quelle nere e attorcigliate, da strega appunto, della madre) ai colori stessi della fotografia che ricordano il technicolor del film del 1939, fino all'apparizione salvifica della "strega buona" (interpretata da Sheryl Lee) nel finale. Ispirato a un romanzo di Barry Gifford (di cui Lynch cambiò la conclusione), il film vinse la Palma d'Oro al Festival di Cannes e confermò una volta di più il talento visionario del regista, che ormai cominciava a debordare senza freni dalle sue opere. Curiosità: Laura Dern (già presente, come la Rossellini, nel precedente lavoro di Lynch, "Velluto blu") è figlia di Dane Ladd anche nella vita reale. Nel cast anche W. Morgan Sheppard (il signor Reindeer), Sherilyn Fenn, Crispin Glover e Pruitt Taylor Vince.

19 maggio 2020

Dillinger è morto (Marco Ferreri, 1969)

Dillinger è morto
di Marco Ferreri – Italia 1969
con Michel Piccoli, Anita Pallenberg
***

Rivisto in streaming, per ricordare Michel Piccoli.

Un progettista industriale (Piccoli) torna a casa dal lavoro. La moglie Anita (Pallenberg) ha mal di testa, ha preso dei sonniferi ed è già a letto. Lui si prepara la cena, guarda i filmini delle vacanze in Spagna, amoreggia con la domestica Sabina (Annie Girardot), trova una vecchia pistola arrugginita, la smonta e la ripulisce, la dipinge di rosso a pallini bianchi, uccide la moglie e se ne va via di casa. Marco Ferreri è un regista che trovo spesso ostico, ma questo è un film stranissimo che, nella sua eccentrica astrattezza, colpisce l'immaginario dello spettatore e che non si dimentica facilmente. Attraverso la rappresentazione minimalista e banale dei piccoli gesti della routine domestica, esprime tutta l'alienazione e l'assurdo che si celano nell'esistenza quotidiana. A questo proposito la chiave di lettura ci è fornita già dalle primissime scene, quelle ambientate in fabbrica, dove il protagonista ha disegnato una maschera antigas da usare sul luogo di lavoro. Un collega (interpretato da Gino Lavagetto) commenta: "L'isolamento in una camera che non debba comunicare con l'esterno, perché piena di un'atmosfera mortale, una camera quindi dove per sopravvivere è necessaria una maschera, ricorda molto le condizioni di vita dell'uomo contemporaneo". E in effetti il personaggio di Piccoli sembra proprio indossare per tutto il film una maschera che cela le sue emozioni e i sentimenti. Per via dell'assenza di una voce fuori campo che esprima i suoi pensieri (l'uomo è quasi sempre in scena da solo, e i suoi gesti sono accompagnati per lo più dalla musica della radio che ascolta), non sappiamo cosa stia elucubrando, e anche per questo la sua scelta finale ci coglie del tutto di sorpresa, visto che non ci sembrava in preda a dilemmi esistenziali o a conflitti interiori. Forse è genericamente la noia, l'insoddisfazione o l'infelicità per la routine di una vita senza significato a prendere di colpo il sopravvento sulle sue azioni, che in precedenza si erano limitate a far venire in superficie alcuni atteggiamenti curiosi o ludico-infantili. Si torna dunque allo straniamento in un mondo moderno, industriale e consumistico, dove le forme di intrattenimento (la tv, la radio) sono solo apparentemente valvole di sfogo a un bisogno di emergere, viaggiare e fuggire che le consuetudini sociali e le norme morali ostacolano ("In queste condizioni, la vecchia alienazione diventa impossibile", commenta sempre il collega). Piccoli, cui Ferreri lasciò ampia libertà nell'interpretazione del personaggio (ai limiti dell'improvvisazione), era alla prima collaborazione (di sette) con il regista. I giochi con le mani che "recitano" e danzano sono opera di Maria Perego. Il titolo del film fa riferimento al celebre rapinatore di banche John Dillinger, la cui morte è riportata nei giornali d'epoca che avvolgono la pistola: un personaggio iconico e suggestivo che faceva parte di un mondo (e un immaginario avventuroso) ormai scomparso. La pellicola fu girata nella casa romana del pittore Mario Schifano (di cui si intravedono alcuni dipinti appesi alle pareti). La cucina è invece quella di Ugo Tognazzi. L'ultima sequenza è ambientata nelle acque di Portovenere, in Liguria, dove il protagonista si imbarca romanticamente su una nave a vela diretta a Tahiti, simbolo e inizio di una nuova vita.

18 maggio 2020

La bestia nera (Tod Browning, 1919)

La bestia nera (The Wicked Darling)
di Tod Browning – USA 1919
con Priscilla Dean, Wellington A. Playter
**1/2

Visto su YouTube, con cartelli in inglese.

La ladruncola Mary Stevens (Priscilla Dean), che vive nei bassifondi arrabattandosi come può, si impadronisce della collana di perle che il ricco Kent Mortimer (Wellington A. Playter), ora caduto in rovina, aveva donato alla fidanzata Adele (Gertrude Astor) prima che questa l'abbandonasse. Innamoratasi di Kent e colpita dalla sua nobiltà d'animo anche di fronte alle difficoltà, Mary decide di cambiar vita e di trovarsi un lavoro onesto come cameriera: ma il passato, nei panni del turpe Stoop Connors (Lon Chaney), che vuole impadronirsi della collana, torna a farle visita... Questo lungometraggio girato da Tod Browning per la Universal affronta il tema, tanto caro al cinema muto, della "donna perduta", o meglio – in questo caso – della "rosa nella spazzatura", come suggerisce la metafora del fiore gettato via perché i petali sono infangati: ma pur nella spazzatura, essa rimane comunque una rosa. L'interessante ambientazione, il (relativo) realismo dei dialoghi (in particolare il linguaggio comico di Mary, pieno di slang, non acculturato e indice del suo basso livello sociale), la caratterizzazione curata anche dei personaggi minori – dal gestore del banco dei pegni (Spottiswoode Aitken) al colossale barista di cui tutti hanno paura (l'ex wrestler Kalla Pasha) – lo rendono tuttora assai gradevole. A lungo ritenuto perduto, il film è stato ritrovato negli anni novanta (una copia era infatti custodita in un museo olandese). Priscilla Dean era una diva del muto molto popolare a cavallo fra gli anni dieci e gli anni venti, la cui carriera non sopravvisse all'avvento del sonoro. Ma naturalmente il nome che spicca nel cast è quello di Lon Chaney, non ancora "uomo dalle mille facce", qui alla prima delle sue dieci collaborazioni con Browning.

17 maggio 2020

The others (Alejandro Amenábar, 2001)

The others (id.)
di Alejandro Amenábar – Spagna/USA 2001
con Nicole Kidman, Fionnula Flanagan
***1/2

Rivisto in DVD.

Nel 1945, la vedova di guerra Grace Stewart (Nicole Kidman) vive in isolamento con i figli Anne e Nicholas in una grande villa sull'isola di Jersey, nel canale della Manica. Poiché i bambini soffrono di fotosensibilità allergica, tutte le stanze della casa devono sempre essere mantenute al buio, illuminate solo dalla luce delle candele, e ogni porta viene chiusa a chiave. Abbandonata dalla servitù, Grace – che sottopone personalmente i figli a una rigida educazione religiosa – assume la governante Bertha Mills (Fionnula Flanagan), insieme a un giardiniere e una cameriera, affinché l'aiutino a badare alla casa. Ma qualcosa di strano sembra accadere: rumori sinistri, pavimenti che scricchiolano, oggetti che si spostano, e misteriose ed oscure presenze (gli "intrusi"). Il primo film in lingua inglese di Amenábar (che aveva attratto l'attenzione di Tom Cruise, marito della Kidman e produttore della pellicola, grazie al precedente "Apri gli occhi", del quale proprio Tom aveva interpretato il remake "Vanilla sky") è un'intelligente variazione sul tema della casa infestata, un luogo comune dell'horror gotico e soprannaturale, ispirato probabilmente a ghost story come "Il giro di vite" di Henry James. La suspense e l'inquietudine sono costruite soprattutto grazie all'atmosfera, senza bisogno di ricorrere a scene cruente o ad effetti speciali. Per il resto c'è tutto: la grande villa circondata dalla nebbia, l'oscurità e il silenzio che avvolgono ogni cosa, l'ambientazione concreta ma anche fuori dal tempo, la famiglia minacciata da presenze soprannaturali, il mistero di personaggi che nascondono segreti e rivelazioni... All'epoca il film fu paragonato al "Sesto senso" di Shyamalan, sia per il tema trattato (l'interazione fra i vivi e i morti) che per il twist ending, ma i paralleli fra le due pellicole (che, per inciso, trovo entrambe molto belle) finiscono qui. E anche conoscendo il colpo di scena finale che getta una luce diversa sull'intera vicenda, rivedendolo il film mantiene tutto il suo valore: merito di una regia competente e coerente, di dialoghi pieni di sottili indizi sulla reale situazione, e di ottime interpretazioni: si va una Kidman bellissima e inquietante, che offre forse una delle prove migliori della sua carriera nel ruolo di una madre ossessionata dalla religione e ai limiti della sanità mentale, a una Flanagan misurata e ambigua al punto giusto, fino ai due bambini (Alakina Mann e James Bentley) che donano personalità contrapposte ai loro personaggi. Christopher Eccleston è il padre andato in guerra, Eric Sykes e Elaine Cassidy gli altri servitori (che con la Flanagan formano un trio da "American Gothic"), Renée Asherson la medium.

16 maggio 2020

Fievel conquista il west (Nibbelink, Wells, 1991)

Fievel conquista il west (An American Tail: Fievel Goes West)
di Phil Nibbelink, Simon Wells – USA 1991
animazione tradizionale
*1/2

Rivisto in TV.

In cerca di nuove opportunità, la famiglia Toposkovich si trasferisce ulteriormente, lasciando New York per raggiungere il selvaggio west. Ancora una volta il piccolo Fievel viene separato dai suoi parenti durante il viaggio (stavolta in treno), e ancora una volta salverà tutti dal complotto dei gatti che stanno mettendo a punto una trappola per catturare i topi nella polverosa cittadina di frontiera dove si sono insediati, Green River. Messo in cantiere sull'onda del successo del primo film ("Fievel sbarca in America"), ma senza il coinvolgimento del suo creatore Don Bluth che aveva interrotto la collaborazione con il produttore Steven Spielberg, questo sequel appare semplice e derivativo, e vive di luce riflessa del prototipo, di cui ripropone la struttura senza aggiungervi molto di nuovo (stavolta, anziché di immigrati, si parla di coloni). Dei tanti comprimari che gravitavano attorno a Fievel, a parte la sua famiglia (con un ruolo maggiore per la sorella Tanya, aspirante cantante), ne ritorna solo uno, il gatto "buono" Tigre, spalla comica eletta quasi a co-protagonista. Per il resto, da segnalare il gatto latifondista Mr. Crudelio (che in originale ha la voce di John Cleese), la soubrette Miss Kitty e lo sceriffo canino Wylie Burp (doppiato in inglese da James Stewart, al suo ultimo lavoro per il cinema). La trama, oltre che poco originale, è sfilacciata, non ha senso (perché i gatti non si mangiano subito i topi?), e punta troppo sulla parodia dei luoghi comuni del western. Anche le poche canzoni sono bruttarelle, ma in una sequenza c'è "Rawhide" nella versione dei Blues Brothers. Assai dinamica invece l'animazione, mentre il mood, forse per l'assenza di Bluth, ricorda più i corti della Warner Bros, ricchi di azione e capitomboli, che non i film classici della Disney, caratteristica del lungometraggio originale. D'altronde nel frattempo era esploso il fenomeno "Chi ha incastrato Roger Rabbit", molti dei cui animatori furono messi al lavoro qui (si tratta del primo titolo prodotto dalla spielberghiana Amblimation). Uscita al cinema nello stesso giorno del disneyano "La bella e la bestia", la pellicola ebbe comunque un discreto riscontro, anche se non pari al capitolo precedente: negli anni a venire la franchise genererà una serie tv e altri due film ("Il tesoro dell'isola di Manhattan" e "Il mistero del mostro della notte"), collocati cronologicamente fra il primo e il secondo episodio, e distribuiti direttamente in home video.

Fievel sbarca in America (Don Bluth, 1986)

Fievel sbarca in America (An American Tail)
di Don Bluth – USA/Irlanda 1986
animazione tradizionale
**

Rivisto in TV.

Per sfuggire alle continue persecuzioni da parte dei gatti cosacchi, una famiglia di topolini ebrei (i Toposkovich, Mousekewitz in originale) lascia la natìa Russia per trasferirsi negli Stati Uniti (perché sono convinti che "non ci sono gatti in America"). Durante il viaggio per mare, il piccolo Fievel è separato dal resto della sua famiglia, ma riesce comunque ad approdare a New York. Qui, sempre cercando di ritrovare i propri genitori, contribuirà alla lotta dei topi contro i gatti della città (ebbene sì, ce ne sono anche in America!). Prodotto da Steven Spielberg, il secondo lungometraggio di Don Bluth dopo "Brisby e il segreto di NIMH" è ambientato alla fine dell'Ottocento (si sta completando la costruzione della Statua della Libertà) e affronta il tema dell'immigrazione dal punto di vista di animali antropomorfi. Il parallelo con le vicende degli esseri umani – con i quali vivono fianco a fianco – è evidente, anche se a differenza per esempio del "Maus" di Art Spiegelman gli aspetti storici, sociali e politici tendono a rimanere sullo sfondo, mentre in superficie ci sono le peripezie avventurose e dickensiane del piccolo protagonista, rese più accattivanti al pubblico infantile dal consueto utilizzo di canzoni e spalle comiche. Il dinamismo e lo stile morbido dei disegni, ben diverso da quello più spigoloso e stilizzato in voga negli anni settanta o in televisione, guarda senza farne segreto ai cartoni animati della vecchia scuola: Bluth e Spielberg vollero infatti recuperare l'atmosfera vintage dei film Disney degli anni quaranta, anticipando in questo il rinascimento della casa di Burbank che sarebbe stato avviato a fine decennio. Non a caso proprio Bluth è considerato colui che seppe "riempire" con i suoi lavori il gap lasciato dalla Disney negli anni ottanta, dimostrando che nel settore dell'animazione cinematografica c'era posto anche per altri produttori (la Universal, che distribuì il film al cinema, non si occupava di cartoon da vent'anni!). Il soggetto è di David Kirschner, la sceneggiatura è degli scrittori per bambini Judy Freudberg e Tony Geiss: molte scene furono però eliminate per motivi di budget, rendendo certi passaggi affrettati e togliendo spessore ad alcuni personaggi minori. Musiche e canzoni (fra cui "Somewhere Out There", che vinse il Grammy e fu nominata agli Oscar) sono firmate da James Horner. Il successo del film (all'epoca fu la pellicola a cartoni animati non Disney con il maggior incasso al botteghino) e del successivo "Alla ricerca della Valle Incantata", oltre a dare vita a sequel ("Fievel conquista il west") e serie televisive, senza però la partecipazione di Bluth, spinse lo stesso Spielberg a creare una propria casa di produzione dedicata all'animazione, la Amblimation.

15 maggio 2020

Dove la terra scotta (Anthony Mann, 1958)

Dove la terra scotta (Man of the West)
di Anthony Mann – USA 1958
con Gary Cooper, Lee J. Cobb
**1/2

Visto in TV.

L'ex bandito Link Jones (Gary Cooper), che da anni si è rifatto una vita onesta sotto falso nome, si trova malauguratamente a bordo di un treno che viene assaltato dagli uomini del suo capobanda di un tempo, il vecchio "zio" Dock Tobin (Lee J. Cobb), l'uomo che lo ha cresciuto e da cui era fuggito anni prima. Costretto a riunirsi al gruppo, ma guardato con sospetto dai nuovi complici, dovrà ingegnarsi per proteggere la giovane cantante Billie (Julie London), passeggera che è rimasta insieme a lui, facendola passare per la sua donna... Sceneggiato da Reginald Rose da un romanzo di Will C. Brown, un western sul tema della redenzione, diretto dall'esperto Mann con mano solida. Se i personaggi di contorno non sembrano particolarmente originali (il baro, la cantante, i banditi), lo stesso non si può dire per il protagonista e l'antagonista, legati da un passato comune (Dock è praticamente la figura paterna da cui Link ha voluto prendere le distanze), che li imprigiona ancora in un modo o nell'altro con catene che è difficile rompere. Link vive per espiare le colpe che ha commesso in gioventù, Dock insegue ancora sogni e obiettivi irrealizzabili (come la rapina alla banca di una cittadina ormai fantasma e abbandonata da tutti). Ignorato alla sua uscita negli Stati Uniti, il film fu molto amato in Francia da Jean-Luc Godard e con il passare del tempo ha acquisito una fama da cult movie. James Stewart, che aveva già recitato in otto film di Anthony Mann (fra cui cinque western), ci rimase male quando la parte del protagonista andò invece a Cooper, che i produttori avevano già sotto contratto. Il buon Gary aveva ben 57 anni, dieci in più di Lee J. Cobb: quest'ultimo dovette essere truccato per farlo sembrare più anziano del suo "figlioccio". Da non confondere con "L'uomo del west", film del 1940 con lo stesso Cooper.

14 maggio 2020

5 è il numero perfetto (Igort, 2019)

5 è il numero perfetto
di Igort – Italia 2019
con Toni Servillo, Carlo Buccirosso
**

Visto in TV.

In una Napoli buia, piovosa e diroccata, l'anziano "guappo" Peppino Lo Cicero (Toni Servillo con un naso finto), sicario in pensione, riprende in mano le armi e scatena una guerra fra bande per vendicare il figlio Nino (Lorenzo Lancellotti), tradito dal boss per cui lavorava. Al suo fianco l'amico di sempre, Totò o' Macellaio (Carlo Buccirosso), e l'ex amante Rita (Valeria Golino). All'esordio come regista cinematografico, il fumettista Igort (Igor Tuveri) porta sullo schermo una delle sue graphic novel di maggior successo, una storia di tradimenti, vendette e rappresaglie ambientata negli anni Settanta, con una trama fortemente debitrice ai classici del noir e alle pellicole di arti marziali dell'estremo oriente (con citazione esplicita: il protagonista va al cinema a vedere "Cinque dita di violenza"). Se i temi sono già visti e rivisti mille volte, la forma è però (post-)moderna, con divisione (piuttosto pretestuosa, a dire il vero) in capitoletti e un forte sbilanciamento sul versante stilizzato ed estetico (la fotografia è di Nicolaj Brüel): non c'è da stupirsi, dopotutto, vista l'origine fumettistica. Purtroppo i difetti di scrittura sono notevoli: non tanto per la poca originalità della trama (su canovacci simili c'è chi ha realizzato dei capolavori, Melville, Woo e Kitano in primis) o della stessa forma-fumetto (da "Sin City" e "The Spirit"), quanto per la debole caratterizzazione dei personaggi che gravitano attorno al protagonista (quello interpretato dalla Golino, per esempio, è fondamentalmente inutile), per non parlare di elementi che sembrano scollegati l'uno dall'altro (come l'aneddoto che dà il titolo alla pellicola), una generale confusione narrativa e un colpo di scena poco sensato, che giunge fuori tempo massimo. Non si capisce inoltre perché si mescolino luoghi reali (Napoli) e immaginari (il Parador, fittizio paese del Centro America dove si svolge il finale), e lo stesso vale per i riferimenti culturali (basti pensare ai fumetti citati durante la pellicola: un comic book americano inventato, "L'uomo gatto", è contrapposto ai tascabili neri italiani come "Diabolik" e "Kriminal" per far riflettere sui ruoli degli eroi e dei cattivi nelle rispettive culture). Si salva invece l'ambientazione, finta ma fascinosamente irreale, e il mix di nostalgia e disillusione. Dialoghi spesso inintellegibili, un difetto di quasi tutto il cinema italiano recente.

13 maggio 2020

Florence (Stephen Frears, 2016)

Florence (Florence Foster Jenkins)
di Stephen Frears – GB/Francia 2016
con Meryl Streep, Hugh Grant
**1/2

Visto in TV.

La facoltosa Florence (una strepitosa Meryl Streep), mecenate della vita culturale e musicale nella New York degli anni Quaranta, ama il canto lirico ma è irrimediabilmente stonata. Eppure, complice il fatto che tutti coloro che frequenta (e che "foraggia" generosamente) la assecondano, si convince di essere all'altezza di esibirsi nientemeno che alla Carnegie Hall, il tempio della musica newyorkese. Il concerto sarà un disastro e la renderà a suo modo celebre, ma se non altro metterà in evidenza l'amore per la musica e la forza di volontà di una protagonista verso cui non si può non provare simpatia (celebre la sua frase "Forse possono dire che non so cantare, ma nessuno può dire che non ho cantato"). Ispirata alla storia vera di Florence Foster Jenkins, "la cantante peggiore del mondo", da cui l'anno prima (2015) era già stata tratta una pellicola francese, "Marguerite" (che però cambiava i nomi e spostava l'ambientazione a Parigi), una piacevole commedia biografica che ha sicuramente negli interpreti il suo maggior valore. La Streep è impagabile non solo nel recitare ma anche nel cantare, imitando alla perfezione tutti i punti di forza debolezza della vera Florence, per esempio nella sua interpretazione (chiamiamola così) dell'aria dei campanelli (detta "la canzone delle campane") dalla "Lakmé" di Delibes, o della celebre aria della Regina della Notte dal "Flauto magico" di Mozart (qui la versione completa, non inclusa nel film). Ottimi anche Hugh Grant nei panni del marito di Florence, che pur essendosi legato a lei per interesse le si affeziona sinceramente e fa di tutto per preservare la bolla di illusioni in cui vive; e un fantastico Simon Helberg (Howard di "Big Bang Theory"!) nei panni del pianista che la accompagna, l'omosessuale Cosmé McMoon. Per il resto, il film mi è parso più leggerino di quello francese, che era più complesso e affrontava il tema da più prospettive (le figure che circondavano la protagonista erano molteplici). Qui tutto pare un po' ingessato, il rapporto con la musica è catturato in maniera più superficiale, e l'insieme sembra quasi una barzelletta (comunque divertente) tirata per le lunghe. Nel cast anche Rebecca Ferguson (l'amante di Hugh Grant) e Nina Arianda (la showgirl bionda). John Kavanagh è Arturo Toscanini, Aida Garifullina è Lily Pons, Mark Arnold è Cole Porter.

12 maggio 2020

L'Albatross (Ridley Scott, 1996)

L'Albatross - Oltre la tempesta (White Squall)
di Ridley Scott – USA 1996
con Jeff Bridges, Scott Wolf
**

Rivisto in DVD.

Insieme ad altri coetanei, il giovane Charles "Chuck" Gieg (Scott Wolf) si imbarca sul brigantino Albatross, nave scuola comandata dal capitano Chris Sheldon (Jeff Bridges), a bordo della quale frequenterà l'ultimo anno di liceo e imparerà l'arte della navigazione. Salpati dalla Florida e diretti prima verso i Caraibi e poi Panama, i ragazzi apprenderanno a rispettare l'autorità e seguire le regole, ma anche a crescere e a vincere le proprie paure, a fare squadra e diventare un gruppo ("Dove va uno andremo tutti", è il loro motto). Un'improvvisa burrasca, con la formazione di un'onda anomala, investirà però la nave nel momento meno opportuno... Ispirata a una storia vera (siamo all'inizio degli anni Sessanta), è praticamente una versione marinaresca de "L'attimo fuggente": c'è il gruppo di ragazzi che devono trovare la propria strada, la figura di riferimento che insegna loro disciplina e responsabilità, i genitori che dall'esterno non comprendono la situazione, la ribellione finale verso il sistema che li vuole imbrigliare... Peccato però che la sceneggiatura non brilli particolarmente: se la sequenza della tempesta in mare è senza dubbio adrenalinica ed emozionante, tutta la prima parte del film è davvero troppo scontata, con personaggi stereotipati o anonimi, e quella finale con il processo al comandante trasuda di retorica (al pari della confezione, con regia, fotografia e musica da spot pubblicitario). Dopo "1492" (anch'esso sul tema della navigazione), fu un altro flop per Ridley Scott. Caroline Goodall è la moglie di Sheldon nonché il medico dell'Albatross (unica donna a bordo), John Savage l'insegnante di letteratura. Fra i ragazzi ci sono Jeremy Sisto e Ryan Phillippe. La canzone sui titoli di coda ("Valparaiso") è di Sting.

11 maggio 2020

When we walk (Jason DaSilva, 2019)

When we walk
di Jason DaSilva – USA 2019
con Jason DaSilva, Jase DaSilva
**1/2

Visto in streaming, con Sabrina, in originale con sottotitoli
(Festival dei Diritti Umani).

Dopo "When I walk" (2013), in cui raccontava la malattia degenerativa (sclerosi multipla) che lo aveva colpito, DaSilva realizza un secondo documentario autobiografico in cui presenta il seguito di quella storia, dedicandolo al figlio Jase, nato nel frattempo (nel 2014): è a lui che si rivolge la narrazione, una sorta di diario o di "messaggio in bottiglia", che comunica i problemi e le difficoltà che la malattia frappone a qualcosa che è complicato già di suo, ovvero il rapporto fra un padre e un figlio. Mentre la malattia infatti progredisce, rendendolo sempre più dipendente da un'assistenza domiciliare 24 ore su 24, DaSilva – impegnato nel suo lavoro di regista e documentarista da un lato, nello sviluppo di un'app per "mappare" l'accessibilità dei locali pubblici dall'altro – scopre che questa ha un impatto deleterio anche sulla possibilità di veder crescere suo figlio. La sua compagna Alice, madre del bambino, finisce con l'incorrere nel burnout, lo stress che molto spesso colpisce coloro che prestano assistenza a un malato. E quando decide di separarsi da lui per trasferirsi ad Austin con il figlio, DaSilva si trova di fronte a un dilemma: andare anche lui in Texas, dove però non è prevista un'assistenza domiciliare continua e sarebbe costretto a vivere in una casa di risposo, oppure rimanere a New York, dove può lavorare ma rimarrebbe lontano da un figlio che forse non potrà mai veder diventare adulto. Personale e sincero, senza retorica e senza orpelli (per esempio, pur denunciando le carenze del sistema sanitario di alcuni stati, DaSilva non ha mai la tentazione di politizzare la questione come invece avrebbe fatto un Michael Moore), il film testimonia in maniera chiara e toccante i problemi della malattia ma anche i dilemmi esistenziali del suo protagonista, i suoi fallimenti e i suoi errori, importanti quanto i successi e i traguardi raggiunti (i premi vinti come regista e documentarista) perché fanno parte di quella "vita reale" che, in quanto disabile, aspira disperatamente a vivere: molti di coloro che soffrono di questa e altre patologie, invece, restano imprigionati nella loro disabilità e non hanno altra vita al di fuori di essa. Come nel film precedente, alcune piccole sequenze sono state rese in animazione.

À l'école des philosophes (F. Melgar, 2018)

La scuola dei filosofi (À l'école des philosophes)
di Fernand Melgar – Svizzera 2018
con attori non professionisti
**1/2

Visto in streaming, con Sabrina, in originale con sottotitoli
(Festival dei Diritti Umani).

Documentario che segue per un anno le vicende di una scuola (l'istituto Verdeil a Yverdon-les-Bains, nella Svizzera francese, detto "La scuola dei filosofi" perché situato in 
Rue des philosophes) specializzata nell'accoglienza di bambini portatori di handicap e in particolare di disturbi del neurosviluppo. I piccoli scolari, tutti di cinque anni, hanno patologie o disabilità che vanno dall'autismo alla mitocondriopatia, dalla paralisi cerebrale infantile alle anomalie cromosomiche. Il film segue l'anno scolastico di cinque di loro, con un impianto simile a quello di altri documentari (o di film di finzione) che portano lo spettatore all'interno di un'aula scolastica attraverso lo scorrere delle stagioni, a cominciare dal celebre "Essere e avere" di Nicolas Philibert, capostipite e pietra miliare del genere. Qui l'interesse, o valore aggiunto, è certamente il tema della disabilità, anche se la pellicola non lo approfondisce nei dettagli e si "limita", diciamo così, a proporre scorci del vissuto quotidiano dei bambini, dei loro genitori e degli insegnanti (tutte donne) che li accudiscono con molta pazienza durante l'orario scolastico, aiutandoli nelle diverse attività, spesso con buoni o ottimi risultati (in certi casi i progressi rispetto all'inizio dell'anno, relativamente al comportamento, all'attenzione o alla capacità di esprimersi, sono notevoli). E naturalmente è difficile non affezionarsi o non provare simpatia per i piccoli protagonisti.

10 maggio 2020

La terra dei morti viventi (G. Romero, 2005)

La terra dei morti viventi (Land of the dead)
di George A. Romero – Canada/USA 2005
con Simon Baker, John Leguizamo
**

Visto in DVD, con Albertino e Ghirmawi.

Vent'anni dopo "Il giorno degli zombi", George Romero realizza un nuovo capitolo (il quarto) della saga horror che lo ha reso celebre. Gli zombi hanno ormai conquistato quasi tutto il pianeta, costringendo gli umani sopravvissuti a rifugiarsi in piccole "oasi" isolate e protette. Ma alcune di queste sono gestite in maniera feudale, con un nucleo di lusso circondato da ampi ghetti, dove la corruzione e l'avidità di pochi privilegiati ha la meglio sul benessere degli altri. Più che contro gli "appestati" (come vengono chiamati i morti viventi), dunque, i protagonisti del film lottano soprattutto fra di loro, mentre gli zombi appaiono quasi una forza (esterna) della natura, o addirittura riscuotono la simpatia dello spettatore. Anche perché (come suggeriva già il terzo film) stanno lentamente cominciando a "pensare", hanno imparato a comunicare, a usare le armi e a sfuggire agli agguati delle bande di esseri umani che li attaccano per rubare provviste o medicine dai negozi lasciati abbandonati. In un film da totomorti ben fatto ma che soffre per una caratterizzazione dei personaggi poco interessante (quando non stereotipata), Romero non rinuncia dunque alla sua solita lettura politica e ad attaccare ferocemente la società dei consumi, come aveva fatto con ben maggior efficacia in "Zombi", ma gli manca il guizzo necessario per far sì che il film non sembri solo l'ennesima variazione su un tema diventato ormai ubiquo e popolare nell'immaginario horror. Fra gli attori (quasi tutti di stampo televisivo) ci sono anche Asia Argento e Dennis Hopper, oltre che – in un breve cameo – Simon Pegg ed Edgar Wright, rispettivamente protagonista e regista della parodia "L'alba dei morti dementi". Cameo anche per Tom Savini.

8 maggio 2020

Giù la testa (Sergio Leone, 1971)

Giù la testa
di Sergio Leone – Italia/Spagna/USA 1971
con Rod Steiger, James Coburn
***

Rivisto in DVD.

Nel Messico di Pancho Villa e Huerta, scosso dalla rivoluzione (siamo nel 1913), il bandito messicano Juan Miranda (Rod Steiger) stringe un'improbabile amicizia con il bombarolo irlandese Sean Mallory (James Coburn). Il primo vorrebbe approfittare dell'abilità del secondo con gli esplosivi per svaligiare la banca di Mesa Verde: ma sarà da lui costretto a diventare giocoforza un eroe della rivoluzione. Dopo il successo dei suoi spaghetti western, e in particolare dopo aver terminato il magnum opus "C'era una volta il west", Sergio Leone cominciò a sentire l'esigenza di raccontare altri aspetti e altri momenti della storia dell'America. Mise perciò in cantiere questo film su suggerimento dell'amico Sergio Donati, autore della sceneggiatura insieme allo stesso Leone e a Luciano Vincenzoni, e inizialmente non avrebbe dovuto dirigerlo ma soltanto produrlo. Il regista da lui designato, Peter Bogdanovich, si tirò però indietro, e i finanziatori rifiutarono la seconda scelta di Leone, Sam Peckinpah. Il compito fu assegnato allora a Giancarlo Santi, già assistente del regista romano: ma dopo dieci giorni di riprese, questi decise di prendere le redini del film nelle proprie mani. Anche il casting subì alcune vicissitudini. Le due parti principali furono scritte con degli attori precisi in mente, vale a dire Eli Wallach e Jason Robards (con cui Leone aveva già lavorato, rispettivamente, ne "Il buono, il brutto, il cattivo" e in "C'era una volta il west"). Ma i produttori americani imposero Steiger (con cui avevano già un contratto: in italiano è comunque doppiato da Carlo Romano, che aveva già dato la voce a Tuco) e Coburn (considerato un nome di maggior spicco, e con il quale Leone voleva comunque lavorare già da tempo). Ampio spazio nella storia ha anche Romolo Valli nel ruolo del Dottor Villega, uno dei capi della rivoluzione. Del tutto assenti invece i personaggi femminili, con l'eccezione della donna (Vivienne Chandler) nei flashback di Sean Mallory e della passeggera (Maria Monti) nella carrozza della scena iniziale.

Si tratta probabilmente del film più "politico" di Leone, a cominciare dalla didascalia introduttiva con una citazione di Mao Tse-tung ("La rivoluzione non è un pranzo di gala [...] La rivoluzione è un atto di violenza"). D'altronde, dopo il Sessantotto e in un'epoca di fermenti sociali e lotte armate, il "mito" della rivoluzione era tornato fortemente in auge fra gli studenti e gli intellettuali (compresi i cineasti) di tutta Europa. Il regista romano gioca però a decostruire tale mito, proprio come nei film precedenti aveva decostruito il romanticismo del vecchio west, mostrandone le diverse sfaccettature e il lato più sporco e meno idealizzato. Se il personaggio di Sean passa semplicemente "da una rivoluzione all'altra" (i numerosi flashback di cui la pellicola è disseminata ci mostrano il suo passato come nazionalista irlandese), quello di Juan è il principale soggetto di un'evoluzione che lo porta da "povero" peone con una famiglia numerosa da mantenere (nella scena iniziale in cui è ospitato controvoglia nella carrozza dei ricchi, prima del colpo di scena che lo rivela essere un bandito) a furfante egocentrico e avido di denaro (e dunque di ricchezza personale), fino a sviluppare la coscienza di classe e il desiderio di giustizia che lo rendono un eroe patriottico: un percorso che ricorda, se vogliamo, quello dei personaggi dei film sovietici di Pudovkin (come "La fine di San Pietroburgo" o "Tempeste sull'Asia"). Leone dichiarò di non aver voluto fornire una rappresentazione realistica del contesto storico, e che la rivoluzione messicana era soltanto uno sfondo simbolico per una storia di amicizia: tuttavia alcune scene (per esempio quella in cui Juan a sua volta fa capire a Sean che c'è una forte distanza fra chi progetta le rivolte "a tavolino", ovvero gli intellettuali, e la povera gente, che comunque finisce con l'essere sfruttata) sono indubbiamente cariche di un significato politico valido anche nell'Italia del 1971.

Se la satira sociale della prima sequenza pare un po' di grana grossa rispetto al resto del film, più epico e avventuroso (a tratti è un vero e proprio film di guerra, senza contare sequenze come la rapina alla banca che nulla hanno da invidiare ai western classici), con i consueti tempi dilatati (ma forse meno del solito) e l'alternanza fra momenti comici (l'incontro fra i due protagonisti, che si fanno i dispetti come in una comica muta) o addirittura cartoonistici (l'esplosione del messicano, di cui rimane solo il cappello bruciacchiato) e quelli drammatici, la pellicola è comunque emozionante e coinvolgente. Spesso i riferimenti sembrano anche guardare alle lotte dei partigiani nell'Italia occupata durante la seconda guerra mondiale: le scene delle fucilazioni o quella dello sterminio dei rivoluzionari nelle grotte fanno subito pensare a episodi di resistenza o di rappresaglia come quello delle Fosse Ardeatine. E il "cattivo" colonnello Günther Reza (Antoine Saint-John), con il suo carro armato, ha in tutto l'aspetto di un nazista. La bella colonna sonora di Ennio Morricone gioca con l'assonanza dei nomi dei due protagonisti (sia Juan che Sean sono varianti locali di John, ovvero Giovanni) che sono inglobati nel tema principale ("Sean, Sean..."), una delle melodie più celebri del compositore, che accompagna in particolare i vari flashback (il passato di Sean è presentato a frammenti, come quello di Charles Bronson in "C'era una volta il west"). Il titolo completo che Leone aveva in mente era "Giù la testa, coglione!" (dalla frase di Sean a Juan), ma i distributori glielo accorciarono per evidenti motivi. In inglese rimane "Duck, you sucker!", anche se è noto pure con il titolo di lavorazione "C'era una volta la rivoluzione" (che lo accomuna in una sorta di trilogia con il precedente "...il west" e il successivo "...in America").

7 maggio 2020

7 sconosciuti a El Royale (D. Goddard, 2018)

7 sconosciuti a El Royale (Bad times at the El Royale)
di Drew Goddard – USA 2018
con Jeff Bridges, Cynthia Erivo
**

Visto in TV.

In un grande motel che ha visto tempi migliori, situato proprio sul confine fra California e Nevada (è ispirato al leggendario Cal-Neva Resort di Frank Sinatra) e un tempo frequentato da VIP e giocatori d'azzardo, ma ora semivuoto, giungono alcuni viaggiatori che nascondono dei segreti. C'è chi vuole recuperare qualcosa che è stato occultato anni prima in una delle camere, chi lavora per un'organizzazione governativa, chi fugge da sé stesso e chi da qualcun altro... Il secondo film da regista di Goddard (dopo l'horror "Quella casa nel bosco") è un thriller corale, ambientato alla fine degli anni sessanta, che si appoggia sfacciatamente al modello tarantiniano. Oltre ai capitoletti, alla struttura narrativa contorta e agli improvvisi scoppi di violenza, è infatti quasi una rilettura di "The hateful eight" (che a sua volta guardava ad alcuni gialli classici), con il gruppo di personaggi chiusi in un luogo isolato, ciascuno con un segreto da nascondere, e la tensione che monta man mano che veniamo a conoscenza dei vari retroscena. Abbiamo un agente di commercio (Jon Hamm) che in realtà è un poliziotto in incognito, un anziano prete (Jeff Bridges) che soffre di demenza senile, una cantante di colore (Cynthia Erivo) in cerca di riscatto sociale, una ragazza hippie (Dakota Johnson) che ha "rapito" la sorella minore (Cailee Spaeny) per sottrarla alla setta guidata dal carismatico Billy Lee (Chris Hemsworth), e un giovane impiegato dell'albergo (Lewis Pullman) dal tragico passato e dal problematico presente... Molto intrigante all'inizio, grazie anche alla buona regia, il film si perde progressivamente man mano che i ruoli e i retroscena si svelano, anche perché la sceneggiatura a incastro (con diverse scene che si ripetono, mostrate da vari punti di vista) inizia ad apparire forzata, la durata è eccessiva (come capita spesso quando il regista di un film è anche il suo sceneggiatore, e dunque fa fatica a tagliare qualche scena dove sarebbe necessario) e soprattutto ci si rende conto che gli ingredienti, presenti in densità elevata, sono puramente essenziali alla trama ma privi di simbologia e vero significato. Tutto è costruito artificiosamente in funzione dell'effetto finale, e a differenza di Tarantino ci si prende sempre troppo sul serio. Quanto al contesto storico (con Nixon che parla di Vietnam in tv), il famoso ospite dell'albergo cui si fa spesso riferimento, morto da poco, potrebbe essere JFK. Hemsworth aveva avuto già una parte nel primo film di Goddard. Nota di demerito per il titolo italiano: intanto i personaggi presenti nell'albergo non sono mai sette (inizialmente sono sei, e poi, quando arriva Billy Dee, questi è accompagnato da altri membri della sua "famiglia"), e poi non tutti sono "sconosciuti" (le sorelle Emily e Rose, ovviamente, si conoscono fra loro, ed entrambe conoscono Billy Dee).

6 maggio 2020

Jarinko Chie (Isao Takahata, 1981)

Chie la piccola peste (Jarinko Chie)
di Isao Takahata – Giappone 1981
animazione tradizionale
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

La piccola e vivace Chie abita con lo scapestrato padre Tetsu e il gatto Kotetsu in un quartiere periferico di Osaka. Non sopportando più il marito, attaccabrighe e irresponsabile, la madre Yoshie è andata via di casa, e la bambina è costretta a portare avanti da sola il ristorantino di famiglia (che vende Horumon, ovvero spiedini di frattaglie, e sakè). Anche il rapporto di Chie con il padre (che chiama sempre per nome, Tetsu, rifiutandosi di chiamarlo papà) è alquanto problematico: da un lato si vergogna di un genitore così cialtrone e combinaguai, che perde al gioco tutto il denaro guadagnato ed è sempre in giro a provocare risse, dall'altro gli è affezionata e vorrebbe tanto poter essere orgogliosa di lui (oltre che vedere riunita la famiglia). Tratto da un manga di Etsumi Haruki, caratterizzato da uno strano contrasto fra il disegno cartoonistico e l'ambientazione realistica, un film simpatico e minimalista costituito da una successione di "vignette" che coinvolgono non solo Chie e i genitori ma anche i vari abitanti del quartiere (e persino i gatti, protagonisti di alcune sottotrame surreali e slapstick). Una dopo l'altra si succedono avventure scolastiche, problemi con gli yakuza, incontri (segreti) con la madre, gite fuori porta, combattimenti fra gatti, con toni che ondeggiano gradevolmente fra l'attenzione alle psicologie e le situazioni grottesche e sopra le righe... Isao Takahata lo diresse per la Tokyo Movie Shinsa prima di fondare con Hayao Miyazaki lo studio Ghibli. Pare che inizialmente la regia fosse stata affidata proprio a Miyazaki, ma i produttori cambiarono idea quando il maestro disse che avrebbe voluto riscrivere tutta la sceneggiatura mostrando gli eventi dal punto di vista del gatto Kotetsu. Takahata, che diresse successivamente anche la serie televisiva dedicata a Chie (in onda dal 1981 al 1983, i cui primi episodi corrispondono alle vicende qui raccontate), rimane invece fedele al manga in tutto e per tutto: in ogni caso la pellicola presenta molti temi che si vedranno anche nelle sue opere successive, come "I miei vicini Yamada" (la vita quotidiana in famiglia) e "Pom Poko" (le dinamiche fra gli animali).

5 maggio 2020

Véronique et son cancre (E. Rohmer, 1958)

Véronique et son cancre
di Éric Rohmer – Francia 1958
con Nicole Berger, Alain Delrieu
**

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli.

Véronique (Berger) dà ripetizioni a uno svogliato bambino delle elementari, aiutandolo a fare i compiti a casa (dapprima quelli di matematica, con la divisione fra frazioni, e poi un tema scritto). Il bimbo sembra poco propenso (e poco interessato) a imparare, anche se ogni tanto fa delle osservazioni curiose e sensate, per esempio sull'effettivo valore di quello che sta imparando e su quanto potrà servirgli da adulto, e la ragazza si trova spesso in difficoltà, anche perché a sua volta non ha sempre la risposta giusta da dare alle sue domande. Inoltre, anche quando vorrebbe suggerirgli le soluzioni, deve trattenersi perché la madre del piccolo si è raccomandata che non faccia i compiti al suo posto. Ultimo corto di Rohmer prima di esordire nel lungometraggio con "Il segno del leone", fa parte del miniciclo dedicato a "Charlotte e Véronique" (di cui però è il meno interessante del gruppo) ed è stato girato nell'appartamento di Claude Chabrol. È poco più di una curiosità, anche se fa riflettere sul sistema educativo, mettendo a confronto due personaggi che, pur stando sui lati opposti della barricata, non vedono entrambi l'ora che la lezione finisca per potersi dedicare a ciò che gli interessa veramente. Da notare le inquadrature dei piedi di Véronique sotto il tavolo, mentre si libera delle scarpe troppo strette. Stella Dassas interpreta la madre del bambino. La parola francese "cancre", nel titolo, significa "somaro, scansafatiche".

Charlotte et son Jules (J.L. Godard, 1958)

Charlotte et son Jules
di Jean-Luc Godard – Francia 1958
con Jean-Paul Belmondo, Anne Colette
***

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli.

Dopo averlo lasciato otto giorni prima per mettersi con un regista cinematografico, la giovane Charlotte (Colette) si ripresenta nell'appartamento del suo ex ragazzo (Belmondo), un aspirante scrittore. Lui la rimprovera e si mostra sprezzante nei suoi confronti (e del cinema!), fingendo di non volerla perdonare ma poi supplicandola di tornare insieme a lui. Il loro dialogo è in realtà un monologo, e già da questo si capisce perché la loro relazione non fosse destinata a durare: il ragazzo è talmente egocentrico da non rendersi nemmeno conto che sta parlando solo lui, saltando da un argomento all'altro (e bloccando ogni sua replica sul nascere: "So quello che stai per dire, ma è sbagliato" o "Sta' un po' zitta, lasciami finire una frase"), cambiando più volte atteggiamento (da cinico a romantico) e ricostruendo a nostro beneficio tutti gli alti e i bassi del loro rapporto. Alla fine lei lo spiazza: era tornata lì soltanto per riprendersi il suo spazzolino da denti. Al quarto cortometraggio, Godard è già padrone del mezzo cinematografico e di un linguaggio personale che mescola spontaneità e artificiosità e che riempie di riferimenti cinefili, di estremismi caratteriali e di particolari insoliti (come la macchina da presa che ondeggia quando Charlotte muove la testa). L'uomo che l'attende in strada, in macchina, è Gérard Blain, che l'anno prima aveva interpretato "Le beau Serge" di Claude Chabrol (ed è proprio con la pellicola avanzata dalla lavorazione di quel film, regalatagli dall'amico, che venne realizzato il corto). Girato nell'arco di un solo giorno nella stanza d'albergo dello stesso regista a Parigi (spoglia ed essenziale, giusto con qualche foto di divi del cinema alle pareti), il film fa parte – come il precedente "Tutti i ragazzi si chiamano Patrick" – del miniciclo di "Charlotte et Véronique" che Godard aveva imbastito insieme a Éric Rohmer. Il "Jules" del titolo originale è un termine gergale per dire "ragazzo" (nel senso di boyfriend). Belmondo, ex pugile, sarà il protagonista del primo lungometraggio di Godard, "Fino all'ultimo respiro": ma la voce che si sente in questo corto non è la sua, bensì quella dello stesso regista, che lo doppiò. La pellicola fu proiettata nelle sale nel 1961, in abbinamento alla "Lola" di Jacques Demy, e reca in apertura la didascalia "Un omaggio a Jean Cocteau" (si ispira infatti a un suo atto unico, "Le bel indifférent", scritto per Édith Piaf e dove il ruolo maschile e quello femminile erano invertiti).

4 maggio 2020

Charlotte et Véronique (J.L. Godard, 1957)

Charlotte e Veronique, o Tutti i ragazzi si chiamano Patrick
(Charlotte et Véronique, ou Tous les garçons s'appellent Patrick)
di Jean-Luc Godard – Francia 1957
con Anne Colette, Nicole Berger
***

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli.

Due studentesse che condividono un appartamento a Parigi, la bionda Charlotte (Anne Colette) e la bruna Véronique (Nicole Berger), vengono abbordate separatamente – e l'una all'insaputa dell'altra – dallo stesso ragazzo, Patrick (Jean-Claude Brialy), ai giardini del Lussemburgo. La sera, raccontandosi l'accaduto, si stupiscono del fatto che al giorno d'oggi "tutti i ragazzi si chiamano Patrick" e si prendono in giro a vicenda, ciascuna denigrando il "fidanzato" dell'altra ed elogiando la serietà del proprio. Ma la mattina dopo vedranno Patrick mentre ci prova con un'altra ragazza, usando sempre la stessa tecnica. Sceneggiato da Éric Rohmer e diretto con brio da un ventiseienne Godard, è un vivace cortometraggio con cui i due cineasti inaugurano un miniciclo di brevi film dedicati a queste protagoniste (seguiranno "Charlotte et son Jules" di Godard e "Veronique et son cancre" di Rohmer, che ingloberà nella serie ex post anche il precedente "Charlotte et son steak"). Le due attrici erano state presentate loro dal produttore Pierre Braunberger: la Colette per un breve periodo fu anche la fiamma di Godard. Se temi e contenuti sembrano più affini ai lavori futuri di Rohmer, con dialoghi che si ripetono e si contraddicono, fra menzogne e generalizzazioni, situazioni speculari e personaggi ambiguamente romantici, stilisticamente il corto è già godardiano in molte cose, a partire dalle inquadrature fuori centro che attirano inevitabilmente l'attenzione dello spettatore sui particolari sullo sfondo (come l'uomo al bar intento a leggere "Arts", un giornale di spettacoli su cui scrivevano gli stessi Godard e soci: è visibile addirittura il titolo di un celebre articolo di Truffaut, "Le cinéma français crève sous les fausses légends") e dai molti riferimenti al cinema americano (di cui Charlotte e Véronique sembrano essere appassionate), senza contare che l'ambiente circostante pare assumere vita propria e che il personaggio maschile è uno sfacciato e disinvolto mascalzone che ricorda quelli interpretati da Jean-Paul Belmondo.

La sonata a Kreutzer (E. Rohmer, 1956)

La sonata a Kreutzer (La sonate à Kreutzer)
di Éric Rohmer – Francia 1956
con Éric Rohmer, Françoise Martinelli
**

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Mediometraggio (poco più di 40 minuti) ispirato al racconto omonimo di Lev Tolstoj: un matrimonio infelice, che scorre sui binari dell'odio o dell'indifferenza, si accende di gelosia quando il marito (Éric Rohmer) scopre che la moglie (Françoise Martinelli) ha un amante (Jean-Claude Brialy). Come nel precedente corto "Berenice", anche in questo caso Rohmer adatta un testo letterario lasciando accompagnare le immagini dalla sola voce narrante fuori campo e dalla musica, compresa ovviamente la bellissima sonata per violino e pianoforte di Beethoven che dà il titolo al racconto (non c'è sonoro in presa diretta né doppiaggio). Rispetto al lavoro precedente la messa in scena è più matura e il coinvolgimento dello spettatore riesce più facile, ma i tre elementi (il girato, la musica e la voce fuori campo) scorrono quasi in parallelo senza una vera fusione. In ogni caso, al risultato manca la naturalezza delle successive opere del regista, e spesso le immagini sono molto più interessanti delle parole che le accompagnano: fra scene in interni e scorci di Parigi, si intravedono amici e colleghi di Rohmer, come Jean-Luc Godard e – nella scena ambientata nella redazione dei "Cahiers du cinéma" – André Bazin, Claude Chabrol e François Truffaut. Fra le curiosità, il gioco "psicologico" in cui bisogna completare i disegni di alcune forme geometriche.

3 maggio 2020

Une femme coquette (J.L. Godard, 1955)

Une femme coquette
di Jean-Luc Godard – Svizzera 1955
con Maria Lysandre, Roland Tolmatchoff
**1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Con il denaro guadagnato dalla vendita del documentario "Opération Béton" e l'attrezzatura prestatagli dalla casa di produzione di quel lavoro, la Actua-Films, Godard girò in Svizzera il suo secondo corto, che è anche la sua prima opera di finzione, nonché la prima in cui il giovane regista si trova a dover dirigere degli attori, sia pure non professionisti. Si tratta di un adattamento di un racconto di Guy de Maupassant, "Le signe" ("Il cenno"), di cui sposta l'ambientazione nelle strade della Ginevra contemporanea. Dopo aver visto una prostituta (Carmen Mirando) adescare i clienti sorridendo agli uomini che passano sotto la sua finestra, Agnès (Maria Lysandre), una giovane sposa, decide per gioco di provare a fare lo stesso, sorridendo a uno sconosciuto per vedere l'effetto che fa. Suo malgrado, avrà più successo di quanto aveva previsto. Tutto l'episodio è raccontato dalla protagonista in una lettera che sta scrivendo ad un'amica. Spigliato e piccante, il breve film (circa 9 minuti) mette già in mostra le potenzialità del cineasta francese, che lo firma con lo pseudonimo di Hans Lucas (lo stesso con cui aveva pubblicato i suoi primi articoli sui "Cahiers du cinéma": si tratta della versione tedesca del nome Jean-Luc) e recita anche nel ruolo del cliente della prostituta. Lo sconosciuto seduto nel parco, che legge il "Corriere della Sera", è invece Roland Tolmatchoff, un amico cinefilo che lavorava come rivenditore di automobili. L'attrice protagonista, cui si deve anche la voce narrante, era una conoscenza comune. Le riprese sono state fatte sull'isola Rousseau, in mezzo al Rodano. La colonna sonora comprende musica di Bach. A lungo ritenuto perduto, il corto (la cui unica copia era conservata in un museo) è apparso su YouTube nel 2017.

Opération "Béton" (J.L. Godard, 1954)

Operazione cemento (Opération "Béton")
di Jean-Luc Godard – Svizzera 1954
*1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Documentario sulla costruzione della diga della Grande Dixence sulle Alpi svizzere, per la cui società appaltatrice Godard lavorava a quei tempi come centralinista (alla fine del 1952 era tornato a vivere in Svizzera, dove era cresciuto, per sfuggire al servizio militare in Francia, avendo la doppia cittadinanza). Entrata in funzione nel 1961, la Grande Dixence è tuttora la diga a gravità più alta al mondo (e in assoluto la più alta in Europa). Girato in 16mm e finanziato dalla ditta costruttrice, il film documenta in particolare le fasi della fabbricazione e della colata del cemento, commentate da didascalie e dalla voce fuori campo dello stesso Godard, su un testo ricco enfatico e solenne che ricorda i cinegiornali d'anteguerra. La colonna sonora comprende brani di Bach e di Händel. Si trattò della prima esperienza da regista per il giovane appassionato di cinema. Il corto venne distribuito nelle sale soltanto nel 1958, abbinato a un film di Vincente Minnelli, quando Godard aveva già firmato altri brevi lavori, stavolta di finzione, e stava per debuttare nel lungometraggio.

2 maggio 2020

Berenice (Éric Rohmer, 1954)

Berenice (id.)
di Éric Rohmer – Francia 1954
con Teresa Gratia, Éric Rohmer
*1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Un giovane gentiluomo, afflitto da varie manie e tare psicologiche che gli fanno spesso perdere il contatto con la realtà, si innamora della bella cugina Berenice e le chiede di sposarlo. Ossessionato dai bianchi denti di lei, dopo che la ragazza è morta per un attacco epilettico prima delle nozze, ne apre la tomba per estrarne appunto i denti... L'omonimo racconto dell'orrore di Edgar Allan Poe è recitato da una voce fuori campo, mentre le immagini ne illustrano la storia a modo loro, senza una vera corrispondenza né alcun tentativo di realismo o immedesimazione. Il risultato è curioso (Rohmer interpreta di persona il protagonista) ma lascia un po' il tempo che trova: oltre alla voce narrante la colonna sonora comprende solo musica classica (per archi e corale), mentre i personaggi non parlano mai, e l'insieme ricorda a tratti il cinema muto. Il cineasta ripeterà l'esperimento nel successivo "La sonata a Kreutzer", ma per fortuna nel prosieguo della sua carriera prenderà tutt'altre strade e sceglierà un altro stile. In ogni caso, le atmosfere sono più da dramma domestico che da horror. La fotografia è firmata dal futuro regista Jacques Rivette, allora amico e collega di Rohmer ai "Cahiers du cinéma".

Charlotte et son steak (Éric Rohmer, 1951)

Présentation, ou Charlotte et son steak
di Éric Rohmer – Francia 1951
con Jean-Luc Godard, Anne Couderet
**1/2

Visto in DVD, in originale con sottotitoli.

Questo cortometraggio di una decina di minuti, girato da Éric Rohmer nel 1951 con l'amico Jean-Luc Godard come protagonista (ai tempi i due erano ancora "soltanto" critici cinematografici), può essere considerato un precursore della Nouvelle Vague per lo stile semi-realistico, le riprese in esterni, l'utilizzo di attori dilettanti e i temi trattati. In un'ambientazione innevata (la didascalia introduttiva dice che siamo in Svizzera), il giovane Walter cerca di far ingelosire l'amica Charlotte (Anne Couderet) presentandole un'altra sua amica, Clara (Andrée Bertrand). Walter segue poi Charlotte fino a casa sua, dove la ragazza si prepara una bistecca. Quando ha finito di mangiare i due discutono, Charlotte afferma di non ricambiare l'amore di Walter, ma alla fine si baciano. Mai distribuito ufficialmente, il film venne proiettato soltanto dieci anni più tardi, nel 1961, con l'aggiunta di una colonna sonora (al piano, di Maurice Le Roux), quando venne gonfiato a 35mm, ridoppiato (con le voci dello stesso Godard, di Stéphane Audran e Anna Karina) e inserito retrospettivamente nella serie di corti (del 1957-58) che Rohmer e Godard avevano dedicato a una coppia di coinquiline parigine, Charlotte e Véronique. Assai gradevole nella sua leggerezza, si inserisce perfettamente nella linea poetica e artistica dei due cineasti e della Nouvelle Vague ("il cinema come continuazione della realtà e della vita, finestra aperta sul mondo, trasparenza del vero"). Si tratta del secondo lavoro da regista di Rohmer (il primo, il corto "Journal d'un scélérat" del 1950, libero adattamento di "Femmine folli" di Stroheim, è probabilmente andato perduto).