Visualizzazione post con etichetta Deneuve. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Deneuve. Mostra tutti i post

24 agosto 2021

Dancer in the dark (Lars von Trier, 2000)

Dancer in the dark (id.)
di Lars von Trier – Danimarca/Svezia/Francia 2000
con Björk, Catherine Deneuve
***1/2

Rivisto in divx.

Selma (Björk), madre single e immigrata negli Stati Uniti dalla Cecoslovacchia (la storia si svolge negli anni sessanta), lavora come operaia in una fabbrica, è appassionata di vecchi musical e sta diventando cieca per una malattia degenerativa ereditaria di cui non ha fatto parola con nessuno. Lavora duro e risparmia ogni dollaro proprio per consentire al figlio Gene di essere operato e guarito dallo stesso destino quando compirà tredici anni. Ma per difendere il suo prezioso denaro dall'avidità di un vicino di casa, il poliziotto Bill (David Morse), finisce per ucciderlo ed è condannata a morte... Dopo "Le onde del destino", di cui è quasi un film gemello (anche nello stile, ispirato al manifesto Dogme 95: la camera a mano, le inquadrature ravvicinate e ondeggianti, la fotografia sgranata e "povera" – almeno sulla carta – e i colori smorti, il tutto però ravvivato dagli occasionali inserti in cui la protagonista, sognando ad occhi aperti, immagina di trovarsi all'interno di quei musical che ama tanto), LVT porta sullo schermo un'altra storia di estremo sacrificio femminile, con una protagonista pura, innocente, altruista e quasi infantile, che in nome dell'amore per il figlio accetta qualsiasi destino: in questo caso si soffre ancora di più, perché agli occhi della maggior parte del mondo Selma passa ingiustamente per un'assassina spregiudicata, egoista e incapace di amare. Soltanto in pochi – la collega e amica Kathy/"Cvalda" (Catherine Deneuve), il timido corteggiatore Jeff (Peter Stormare), la secondina del carcere Brenda (Siobhan Fallon) – le mostrano empatia e le restano accanto fino alla fine. Il soggetto può certo apparire eccessivamente melodrammatico, con il destino (e la malvagità degli uomini) che si accaniscono in ogni modo sulla nostra eroina, ma il regista danese sceglie volutamente di calcare la mano come nei feuilletton vecchio stile e sa perfettamente come muovere le corde giuste per accrescere l'intensità emotiva e far leva sulla sensibilità dello spettatore, catturandolo in una morsa di emozioni che stritola nel profondo dell'animo (impossibile trattenere la commozione!). E proprio come Selma "evade" dalla realtà con l'immaginazione quando questa si fa troppo dura, anche LVT ci concede occasionali momenti di respiro e di bellezza con le canzoni che nella mente della protagonista, accompagnate da balletti e coreografie proprio come un musical, punteggiano la pellicola (due anni prima Tsai Ming-liang aveva fatto lo stesso in "The hole"). I brani, in stile lo-fi e post-industriale (visto che inglobano i rumori ambientali, come "il ritmo delle macchine"), sono tutti composti e interpretati dalla stessa Björk: la canzone migliore è quella della scena sul treno, "I've Seen It All", nominata anche all'Oscar. In una delle sue rare prove d'attrice, la cantante islandese offre una performance eccezionale, anche se la lavorazione si è rivelata talmente difficile – i rapporti con Lars von Trier non erano certo idilliaci, come ha rivelato in seguito – nonché esaustiva dal punto di vista emotivo da farle dichiarare che non avrebbe più recitato in nessun altro film (ma qualche anno dopo ci ripenserà). Nel cast anche Cara Seymour (Linda, l'inconsapevole moglie di Bill), Jean-Marc Barr (il superiore alla fabbrica), Vincent Paterson (il regista della rappresentazione amatoriale di "Tutti insieme appassionatamente"), Željko Ivanek (il pubblico ministero al processo) e Udo Kier (il dottore). Joel Grey interpreta il ballerino di tip tap Oldřich Nový, idolo d'infanzia di Selma. Come in un musical classico, la pellicola si apre con tre minuti e mezzo di schermo buio, accompagnati dalle note di una "ouverture", mentre si chiude con la "penultima canzone" (in quanto Selma detesta le "ultime canzoni" perché segnalano la fine del film). Il titolo si ispirerebbe alla canzone "Dancing in the dark", dal musical "Spettacolo di varietà" (1953) con Fred Astaire e Cyd Charisse.

12 agosto 2020

Anima persa (Dino Risi, 1977)

Anima persa
di Dino Risi – Italia/Francia 1977
con Vittorio Gassman, Catherine Deneuve
***

Visto in TV (RaiPlay).

Il giovane Tino (Danilo Mattei), aspirante pittore, si trasferisce a Venezia nella ricca ma fatiscente villa degli zii Fabio (Vittorio Gassman) ed Elisa Stolz (Catherine Deneuve). L'uomo, ingegnere che trascorre gran parte delle proprie giornate al lavoro, è rigido e all'antica, e comanda a bacchetto una moglie sottomessa e che evidentemente non ama più da tempo. Ma ad inquietare Tino sono soprattutto i misteri della grande casa, un antico palazzo diroccato con un'ala ancora da restaurare, da cui provengono strani suoni durante la notte. Il ragazzo scopre infatti che nella soffitta è recluso il fratello dello zio, impazzito (forse) per amore. E anche che la zia soffre per la perdita della figlioletta di primo letto, scomparsa misteriosamente tempo prima all'età di dieci anni. Eppure, non tutto è come sembra... Da un romanzo di Giovanni Arpino, un thriller psicologico con finale a sorpresa (benché non del tutto imprevedibile), che mette insieme molti ingredienti interessanti: una Venezia antica e decadente, dai palazzi scrostati e malsani, dove ancora si respira aria da "vecchio impero" nonostante il nuovo che avanza, e due attori sublimi, Gassman e la Deneuve, che danno vita a personaggi nevrotici e disfunzionali. A fare loro da contraltare c'è la giovinezza curiosa e spensierata del protagonista, che ancora non sa cosa fare della propria vita, e della sua amica Lucia (Anicée Alvina), giovane modella di nudo. La fotografia è di Tonino Delli Colli, le musiche (morriconiane) di Francis Lai. Il romanzo originale era ambientato a Torino, anziché a Venezia, e raccontava la storia di una sorta di Jekyll e Hyde. Curiosità: a un certo punto Gassman dice che "le donne hanno un profumo particolare", citando dunque "Profumo di donna" (da lui interpretato tre anni prima, diretto sempre da Risi e tratto come questo da un romanzo di Arpino).

17 ottobre 2019

Le verità (Hirokazu Koreeda, 2019)

Le verità (La vérité)
di Hirokazu Koreeda – Francia 2019
con Catherine Deneuve, Juliette Binoche
**1/2

Visto al cinema Arcobaleno.

Lumir (Juliette Binoche), sceneggiatrice francese trapiantata a Hollywood dove ha sposato un attore televisivo (Ethan Hawke), torna a Parigi per far visita alla madre Fabienne (Catherine Deneuve), celebre attrice che ha appena pubblicato un libro di memorie in cui racconta a modo suo – cioè inventandosene la gran parte – le proprie verità. Il rapporto fra madre e figlia è sempre stato difficile, ostacolato da incomprensioni di ogni tipo: prima fra tutte la convinzione, da parte di Fabienne, che il mestiere di attrice debba avere la prevalenza su tutto ("Meglio essere una cattiva madre e una buona attrice"). Ma sul set di un film di fantascienza in cui Fabienne interpreta proprio una figlia che deve confrontarsi con la propria madre, rimasta giovane perché vissuta nello spazio mentre lei invecchiava sulla Terra, l'attrice e la figlia riusciranno in qualche modo a ricucire le proprie divergenze. Dopo la Palma d'Oro con "Affari di famiglia", Koreeda gira il suo primo film fuori dal Giappone, affidandosi a un gruppo di interpreti eccezionali (una sicurezza, specie poi se alla Deneuve tocca un ruolo quasi autobiografico, pieno di frecciatine verso le attrici sue coetanee) e scrivendo una sceneggiatura che, ancora una volta, mette sotto i riflettori i legami familiari. L'ambiente cinematografico, con un mestiere (l'attore) che ha fra le sue caratteristiche quella di dover imitare o falsificare le emozioni e i sentimenti a beneficio del pubblico, fa da sfondo al tentativo di recupero di un rapporto messo a repentaglio da anni di finzioni e dissimulazioni (non solo da parte di Fabienne ma anche di Lumir, che, in quanto sceneggiatrice, scrive dialoghi e scene madri che i vari personaggi rappresentano poi nella realtà). Manon Clavel è la giovane attrice che recita con Fabienne sul set, e che ricorda a tutti una vecchia amica suicidatasi forse proprio per colpa della donna. Clémentine Grenier è Charlotte, figlia di Lumir e nipote di Fabienne. Piccoli ruoli anche per Ludivine Sagnier, Christian Crahay, Roger Van Hool e Alain Libolt. Il film in cui Fabienne recita, "Ricordi di mia madre", si ispira a un racconto di Ken Liu.

23 dicembre 2018

Dio esiste e vive a Bruxelles (J. Van Dormael, 2015)

Dio esiste e vive a Bruxelles (Le Tout Nouveau Testament)
di Jaco Van Dormael – Belgio/Fra/Lux 2015
con Benoît Poelvoorde, Pili Groyne
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Dio, con aspetto dimesso e trasandato (sovrappeso, bevitore di birra, perennemente in canottiera e vestaglia), abita in uno squallido appartamento di Bruxelles, dal quale controlla il mondo da lui creato e si diverte a tormentare l'umanità, attraverso un vetusto computer, con "leggi universali della sfiga" che ricordano quelle di Murphy. Stufa del suo caratteraccio e dei suoi abusi, sua figlia Ea, di dieci anni, decide di andarsene di casa (dopo aver indispettito il padre, inviando a tutti gli abitanti del pianeta – attraverso un messaggio sul telefonino – la propria data di morte) e di fare come prima di lei aveva fatto suo fratello J.C.: cercarsi degli apostoli (sei persone scelte a caso, in modo da portare il totale a 18) e diffondere il suo "Nuovo nuovo testamento". Un'insolita pellicola satirica e filosofica, surreale ed esistenzialista, con la quale Van Dormael cerca di lanciare un messaggio chiaro, per quanto per nulla religioso o trascendentale: Ea afferma che "non c'è nulla dopo la morte", e la felicità va ricercata durante la vita, nel presente. L'insieme, non sempre omogeneo, a tratti ricorda "Amelie" ma anche certe cose di Greenaway, di Von Trier e di Jodorowsky. Ma se la cornice è decisamente interessante (nonché irriverente quasi come il "Dogma" di Kevin Smith), quando l'attenzione si sposta sui sei apostoli il film si fa più pretenzioso e noioso, con le sue divagazioni sulla vita, la morte e l'amore. E mentre si sopportano le vicende di questi sei personaggi (Laura Verlinden, Didier De Neck, Serge Larivière, François Damiens, Catherine Deneuve, Romain Gelin), che man mano interagiscono fra loro (Ea rivela che ciascuno ha una propria "musica interiore"), di fatto si aspetta in continuazione che ritorni in scena il Dio interpretato da Poelvoorde, con tutto il suo carico di misantropia, sadismo, sciattezza e volgarità. Yolande Moreau è la moglie di Dio, dea della natura; Marco Lorenzini è Victor, il barbone che scrive il "Nuovo nuovo testamento".

11 novembre 2017

Mayerling (Terence Young, 1968)

Mayerling (id.)
di Terence Young – Francia/GB 1968
con Omar Sharif, Catherine Deneuve
*1/2

Visto in divx.

L'arciduca Rodolfo d'Asburgo, erede al trono dell'impero austriaco, si innamora della giovane baronessa Maria Vetsera. L'amore è per lui l'unica via di fuga dai contrasti con il padre e da un matrimonio infelice: ma quando l'imperatore gli imporrà di troncare la relazione con Maria, sceglierà di suicidarsi insieme a lei nella tenuta da caccia di Mayerling. Praticamente un remake a colori del film del 1936 di Anatole Litvak (anche perché basato, proprio come quello, sul romanzo di Claude Anet che rilegge l'enigmatica vicenda in chiave prettamente romantica), con numerose scene quasi identiche, ma senza la stessa concisione o la stessa finezza nei dialoghi. Quello che nella versione di Litvak era un empatico ritratto dell'infelicità di un principe diventa qui un drammone storico-sentimentale molto meno accattivante. La confezione è più patinata (ottimi i costumi e le scenografie: il film fu girato in gran parte nei luoghi reali, ossia a Vienna e a Mayerling), la storia d'amore si fa più convenzionale e a poco serve dare maggior spazio al contesto storico e politico (con Rodolfo, di idee liberali, tentato di appoggiare le spinte autonomiste dell'Ungheria, anche a costo di andare contro il padre: benché, a dire il vero, lo faccia soprattutto per ritagliarsi uno spazio di libertà per sé stesso e per Maria). Nel calderone si accenna anche a un sottotesto edipico (il rapporto con la madre Elisabetta) e alla pazzia che scorre nella famiglia reale (con riferimenti al "cugino Luigi", ovvero Ludwig di Baviera). Sontuoso il cast: a Sharif e alla Deneuve (con gli occhiali) si affiancano James Mason (l'imperatore Francesco Giuseppe), Ava Gardner (l'imperatrice Elisabetta), Geneviève Page (la contessa Larisch), Ivan Desny (il conte Hoyos) e James Robertson Justice (il principe di Galles).

14 febbraio 2017

La mia droga si chiama Julie (F. Truffaut, 1969)

La mia droga si chiama Julie (La sirène du Mississipi)
di François Truffaut – Francia 1969
con Jean-Paul Belmondo, Catherine Deneuve
**1/2

Visto in DVD.

Louis Mahé (Belmondo), ricco proprietario di una piantagione di tabacco nell'isola di Réunion, sposa una giovane francese, Julie (Deneuve), che ha conosciuto attraverso un annuncio matrimoniale. Ma ignora che quella che gli si è presentata, scendendo dalla nave "Mississipi", non è la ragazza che attendeva ma una truffatrice che ne ha preso il posto. Tuttavia se ne innamora perdutamente, e anche quando la verità verrà a galla non potrà fare a meno di lasciarla: anzi, pur di proteggerla, non esiterà a uccidere il detective privato (Michel Bouquet) che lui stesso aveva ingaggiato per mandarla in prigione... Il film, che nella seconda parte si trasforma in una storia d'amore/odio fra due personaggi in fuga da tutto e da tutti, è tratto da un romanzo di William Irish, pseudonimo di Cornell Woolrich (lo stesso autore dei testi da cui provengono "La sposa in nero" dello stesso Truffaut e "La finestra sul cortile" di Hitchcock), che il regista francese meditava di adattare da tempo per il cinema (in una scena del precedente "Baci rubati", si vede Antoine Doinel intento proprio nella lettura del libro di Irish). Il romanzo, da noi intitolato "Vertigine senza fine", in origine era ambientato negli Stati Uniti del Sud: il cambio di scenari gli toglie un po' di fascino, ma la pellicola – grazie soprattutto alle carismatiche interpretazioni di Belmondo e della Deneuve – si mantiene a galla fino alla fine, in un'atmosfera di morbosa ambiguità. Tante le citazioni e i riferimenti meta-cinematografici: Hitchcock, ovviamente (dal vero nome della ragazza – Marion, come la protagonista di "Psyco" – alle sequenze con il canarino e il baule, dai rimandi a "Marnie" e "Notorious" alla scena della morte del detective sulle scale, praticamente uguale a quella di "Psyco"), ma anche Nicholas Ray (i due vanno a vedere al cinema "Johnny Guitar"), Buñuel (la Deneuve, già "Bella di giorno", con i suoi feticismi), Cocteau e Jean Renoir (il film è dedicato a quest'ultimo, di cui vengono mostrate all'inizio alcune sequenze de "La Marseillaise"). Truffaut aveva girato "Baci rubati" solo per guadagnare il denaro necessario a produrre "La sirène", eppure fu il primo a essere osannato da critica e pubblico, mentre questo venne accolto con indifferenza. Tuttavia rimane interessante come storia d'amore "al contrario": i due protagonisti prima si sposano, vivendo insieme in quella che pare una caricatura di un matrimonio ideale ("Ti amo", "Anch'io", ecc.), e solo dopo – fra difficoltà, fughe e tentativi di uccidersi a vicenda – cominciano ad amarsi davvero. Bello il finale fra le nevi delle Alpi svizzere. No comment sul titolo italiano. Un remake nel 2001 ("Original Sin", con Antonio Banderas e Angelina Jolie).

19 giugno 2015

A testa alta (Emmanuelle Bercot, 2015)

A testa alta (La tête haute)
di Emmanuelle Bercot – Francia 2015
con Rod Paradot, Catherine Deneuve
**

Visto al cinema Plinius, con Marisa, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Il giovane Malony è ribelle, violento, indisciplinato, una testa calda: refrattario alle regole, insofferente a scuola, vigilato dagli assistenti sociali sin da quando era un bambino (anche perché la madre, cui pure è legato da un profondo affetto, è a sua volta alquanto problematica), si mette nei guai quando, sedicenne, comincia a rubare automobili per scorrazzare con gli amici. Seguito con cura e fatica dagli educatori (Benoît Magimel) e da una giudice che si è occupata del suo caso per dieci anni (Catherine Deneuve), finirà prima in un istituto di recupero giovanile, e poi addirittura in carcere. Nulla sembra riuscire a fargli cambiare atteggiamento, e i tanti tentativi di "rieducazione" si succedono con continui fallimenti: ma la maturità giungerà all'improvviso, a diciassette anni, quando Malony si scoprirà padre. Un film intenso, sgradevole, che non fa sconti allo spettatore, almeno fino a un finale inaspettatamente positivo e ottimista. Qualcuno lo ha paragonato a "Mommy" di Xavier Dolan, ma a parte certe analogie nel contenuto il tono è completamente diverso. Questo, purtroppo, soffre per le caratterizzazioni esagerate ed estremizzate, per l'esasperazione dei toni, e per l'abbondanza di retorica, tanto in un senso (quello violento e punitivo) quanto nell'altro (quello della comprensione). E il finale stona quasi con tutto il resto, per come arriva all'improvviso e inatteso. Ne risulta una pellicola assai faticosa da seguire, decisamente a tema e "tutta costruita sul messaggio", il che non la rende certo più coinvolgente ma almeno le dona una sua coerenza stilistica. La regia punta tutto sugli attori, decisamente bravi (in particolare il giovane Paradot, ma anche la Deneuve è misurata e in parte), mentre la sceneggiatura è assai semplicistica e ripetitiva: mostra, accumula, reitera, ma non indaga mai nella mente dei personaggi e si limita a ritrarli dal di fuori.

29 luglio 2013

Bella di giorno (Luis Buñuel, 1967)

Bella di giorno (Belle du jour)
di Luis Buñuel – Francia 1967
con Catherine Deneuve, Michel Piccoli
***1/2

Rivisto in DVD, con Sabrina.

Per superare la propria frigidità e la paura del sesso, Séverine – moglie di un giovane e ricco chirurgo – opta per una "terapia d'urto" e si prostituisce in un bordello di lusso, dove è conosciuta con il nome di "Bella di giorno" (perché è disponibile solo dalle 2 alle 5 del pomeriggio). Il primo film a colori di Buñuel, scritto con Jean-Claude Carrière da un romanzo di Joseph Kessel e prodotto dai fratelli Hakim, è il lavoro più celebre e "scandaloso" del regista: rifiutato dal Festival di Cannes per supposta "scarsa artisticità", si rifarà vincendo addirittura il Leone d'Oro alla Mostra di Venezia. Nella vena onirico-surrealista di Don Luis, il film mette in scena ossessioni e desideri che si confondono con la realtà: Séverine, che ha tendenze sadomasochistiche (sogna di essere frustata o umiliata dall'uomo che ama), non si prostituisce per denaro o per lussuria, ma solo per "scoprire sé stessa", come se si trattasse di sedute dallo psicanalista. Il tema pruriginoso sollevò un vespaio nei tardi anni sessanta, ma spinse anche gli incassi alle stelle (è il lavoro del regista spagnolo che ebbe il maggior successo di pubblico). E anche a rivederlo oggi il film mantiene tutta la sua forza, in un miracoloso equilibrio fra simbolismo, caratterizzazione psicologica, bizzarria delle situazioni (si pensi alla sequenza di clienti eccentrici o dalle manie "particolari": si va dal professore che gioca a fare il maggiordomo maltrattato, al duca che assolda la ragazza perché impersoni la moglie defunta) e carica erotica, pur non mostrando mai (naturalmente) scene esplicite. Una Deneuve bellissima, algida e distante (anche quando la vediamo nel tempo libero, sulla neve di una località sciistica o in completino bianco da giocatrice di tennis), dà vita a un personaggio indimenticabile, che parte dalla propria passività e sottomissione per cercare un nuovo equilibrio fra realtà e sogno (sono numerose le sequenze – introdotte dall'immagine o dal rumore della carrozza, spesso accompagnata da suoni di campanellini o da miagolii di gatti – che sono puramente frutto della sua immaginazione). Buono comunque anche il cast maschile: a svettare, più che Jean Sorel nei panni del marito, è il sornione Michel Piccoli, l'amico che la corteggia e che subdolamente la indirizza alla casa di Madame Anaïs (Geneviève Page). Pierre Clémenti è invece il giovane malavitoso che si invaghisce di lei, parzialmente ricambiato, e che cercherà di averla tutta per sé. Fra i tanti elementi introdotti per intorbidire le acque, è da ricordare la misteriosa scatoletta del cliente orientale, da cui proviene uno strano ronzio e di cui non ci viene mostrato il contenuto, che Buñuel lascia alla nostra immaginazione: è certamente un'antesignana della valigetta di "Pulp Fiction". Diverse le scene censurate dall'edizione italiana: in particolare, quella in cui Séverine, da bambina, rifiuta di ricevere la comunione, dimostrando già da allora il suo anticonformismo e il suo desiderio di trasgressione. Nel 2006 Manoel de Oliveira ne ha diretto un (brutto) sequel, "Belle toujour", con Bulle Ogier nel ruolo di Séverine (che la Deneuve aveva rifiutato di riprendere).

22 settembre 2010

Potiche (François Ozon, 2010)

Potiche - La bella statuina (Potiche)
di François Ozon – Francia 2010
con Catherine Deneuve, Gérard Depardieu
***

Visto al cinema Anteo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia)

Siamo nel 1977, stagione di grandi scioperi e contestazioni. Quando la fabbrica di ombrelli diretta dal marito (Fabrice Luchini) si trova a fronteggiare disordini e rivendicazioni sindacali, la ricca e borghese Suzanne Pujol (Deneuve) – fino ad allora confinata in casa a fare "la bella statuina" – è costretta ad assumerne temporaneamente la direzione. E grazie anche ai consigli del deputato comunista Maurice Babin (Depardieu), un tempo suo amante, riesce a riportare l'armonia in fabbrica. Il marito non perderà tempo a esautorarla e a riappropriarsi della poltrona di comando: ma lei, che ha ormai assaporato la libertà e la voglia di realizzarsi personalmente, si dedicherà alla politica, candidandosi come deputata e sfidando sul suo terreno anche Babin. L'associazione d'idee fra la Deneuve e gli ombrelli fa venire subito alla mente "Les parapluies de Cherbourg", ma più che una pellicola a sfondo romantico questa è semmai una graffiante screwball comedy in chiave femminista, che riporta in auge la guerra dei sessi e la fonde con la lotta di classe. Fra colori pastello, momenti pop e kitsch, un divertente ritmo musicale e un cast in stato di grazia (ci sono anche Karin Viard, la segretaria, Judith Godrèche, la figlia di destra, e Jérémie Renier, il figlio di sinistra; Suzanne da giovane è invece interpretata da Elodie Fregé), il film è soltanto all'apparenza leggero e svagato: Ozon, che torna a lavorare con la Deneuve dopo "8 donne e un mistero", inserisce fra le righe, come suo solito, accenni ad argomenti spinosi di ogni genere e gioca con un personaggio dalle molte sfaccettature, capace di offrire diverse sorprese allo spettatore.

30 gennaio 2010

Repulsion (Roman Polanski, 1965)

Repulsion (id.)
di Roman Polanski – GB 1965
con Catherine Deneuve, Ian Hendry
***1/2

Rivisto in DVD.

Il secondo lungometraggio di Polanski dopo "Il coltello nell'acqua", nonché il primo realizzato all'estero, è l'allucinante cronaca della discesa di una ragazza verso la follia, un piccolo gioiello di angoscia e analisi psicopatologica. Carol, una giovane introversa e sessuofoba, lavora come manicure in un salone di bellezza e vive a Londra in un piccolo appartamento insieme alla sorella maggiore, alla quale è morbosamente legata. Quando quest'ultima parte per una breve vacanza insieme al suo amante, la ragazza rimane da sola in casa e si ritrae sempre più dal mondo, smettendo di lavorare e rinchiudendosi fra le quattro mura insieme ai propri incubi e alle proprie allucinazioni. Il film, girato in uno splendido e angosciante bianco e nero, con un'attenzione tra il surreale e l'iperreale ai dettagli visivi e agli effetti sonori (mentre i dialoghi sono ridotti all'osso), è un crescendo di delirio e di claustrofobia, sorretto dalla magistrale interpretazione della Deneuve che dà vita a un personaggio sperduto dentro sé stesso, spaesato, catatonico, sempre sovrappensiero. Tutto, naturalmente, ruota intorno al rapporto con il sesso, che Carol sembra rifuggire in ogni modo: dapprima osteggiando la presenza dell'amante della sorella in casa, poi scoraggiando in continuazione un suo giovane pretendente, e in seguito materializzando le proprie paure attraverso incubi (in cui viene violentata) e allucinazioni che diventano evidenti simboli e metafore (le crepe che si aprono nei muri, le mani che fuoriescono dalle pareti). L'atmosfera si fa via via più malsana (il coniglio che si decompone, le uccisioni), di pari passo con il disordine che invade la casa e la mente della protagonista. Come ad anticipare "Shining", il film su chiude sull'inquadratura ravvicinata di una fotografia che mostra come la follia fosse già presente negli occhi di Carol sin da piccola (e l'immagine dell'iride che chiude la pellicola rispecchia quella che l'aveva invece aperta, quando la scritta "Regia di Roman Polanski" aveva tagliato la pupilla orizzontalmente come nel "Cane andaluso" di Luis Buñuel).

28 febbraio 2009

8 donne e un mistero (F. Ozon, 2002)

8 donne e un mistero (8 femmes)
di François Ozon – Francia 2002
con Catherine Deneuve, Fanny Ardant
****

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Negli anni cinquanta, in una villa di campagna isolata dalla neve, l'unico uomo di famiglia viene trovato morto con un pugnale conficcato nella schiena. A ucciderlo potrebbe essere stata una qualsiasi delle otto donne della sua vita, tutte presenti nella casa: la moglie, le due figlie, la sorella, la cognata, la suocera, la cameriera, la cuoca. Ognuna di loro nasconde dei segreti, che verranno fuori lentamente nel corso di una giornata densa di avvenimenti. Fra accuse incrociate e colpi di scena, la vicenda si dipana come un giallo di Agatha Christie fino alla risoluzione finale. Magistrale divertissement di Ozon, che affida a otto celebri attrici francesi (di diverse generazioni) ruoli interconnessi e dinamici, realizzando un film che non cessa di sorprendere fino alla fine. L'impostazione teatrale è evidente (la sceneggiatura è tratta da una pièce di Robert Thomas), rimarcata anche dalle scenografie e dai costumi colorati che permettono di distinguere bene i diversi personaggi (con echi anche di Fassbinder, in particolare de "Le lacrime amare di Petra von Kant"), ma il regista ci aggiunge del suo: ognuna delle otto donne è protagonista di un numero musicale, con una canzone tratta dal vasto repertorio della musica popolare francese, reinterpretata, collocata "fuori contesto" e accompagnata da una coreografia studiata ad hoc. Alcune scene, come quella del bacio lesbico fra Catherine Deneuve e Fanny Ardant (cosa ne avrebbe pensato Truffaut?) hanno fatto scalpore, e come suo solito Ozon infila temi scomodi come l'omosessualità o l'incesto in un film apparentemente innocuo e di puro intrattenimento. Bravissime tutte le attrici: le mie preferenze vanno comunque alla favolosa Isabelle Huppert, una perfetta zitella acida ("Non c'è ora per i pettini!"), e alla splendida Emmanuelle Béart, impertinente e provocante nella sua divisa da french maid. La scena con il daino sotto la neve che si avvicina alla casa è una citazione da "Secondo amore" di Douglas Sirk.

Ecco il cast al completo. Diverse attrici non sapevano cantare e sono state "costrette" da Ozon a estenuanti esercizi musicali. Da notare che la Darrieux e la Deneuve avevano già recitato (e cantato) insieme in "Les demoiselles de Rochefort" di Demy: e anche lì la prima era la madre della seconda!
- Catherine Deneuve è Gaby, la moglie della "vittima" Marcel. I suoi rapporti con il marito sono ormai freddi e tutt'altro che idilliaci. La sua canzone è "Toi jamais", una bella ballata di Sylvie Vartan.
- Isabelle Huppert è Augustine, sorella nubile e ipocondriaca di Gaby, sempre pronta a lamentarsi di tutto ma con un'anima romantica e frustrata. Canta al pianoforte "Message personnel", interpretata in passato (fra gli altri) da Françoise Hardy.
- Danielle Darrieux è Mamy, la matriarca avara e alcolizzata, madre di Gaby e Augustine. La sua canzone è la bellissima "Il n'y a pas d'amour heureux", di Georges Brassens su testi di Louis Aragon.
- Virginie Ledoyen è Suzon, la figlia maggiore di Gaby e Marcel, appena tornata per le vacanze natalizie (con un segreto) dalla scuola che frequenta all'estero. Canta "Mon amour, mon ami" di Marie Laforêt.
- Ludivine Sagnier (la musa del regista) è Catherine, la figlia più piccola, intrigante, insolente e ficcanaso. Considera il padre come l'uomo ideale. Il suo brano è la canzonetta "T'es plus dans l'coup papa" di Sheila.
- Fanny Ardant è Pierrette, la misteriosa sorella di Marcel, dal passato non senza macchia. La sua canzone, una delle mie preferite, è la trascinante "À quoi sert de vivre libre" di Nicoletta.
- Emmanuelle Béart è Louise, la nuova cameriera, devota ai suoi padroni in maniera ambigua. La sua personalità focosa è ben esemplificata dalla canzone "À pile ou face" di Corynne Charby.
- Firmine Richard è Chanel, la cuoca di colore e la governante della casa. Apparentemente innocua, anche lei ha i suoi segreti. Canta "Pour ne pas vivre seuls", un bel brano di Dalida.

3 novembre 2008

La favolosa storia di Pelle d'Asino (J. Demy, 1970)

La favolosa storia di Pelle d'Asino (Peau d'âne)
di Jacques Demy – Francia 1970
con Catherine Deneuve, Jean Marais
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

In fuga dal proprio castello perché il padre – rimasto vedovo – intendeva sposarla, una principessa si traveste con la pelle di un asino miracoloso e si adatta a fare i lavori più umili. Ma il principe di un regno vicino è l'unico a riconoscerne la bellezza e se ne innamora: convocherà allora a corte tutte le ragazze del paese per scegliere fra loro la propria sposa, ovvero colei alla quale si infilerà alla perfezione un anello al dito. Dal racconto di Charles Perrault, che oltre ai temi edipici ha anche alcuni elementi in comune con "Cenerentola", Demy realizza una fiaba musicale (le canzoni sono del solito Michel Legrand) teatrale e sfarzosa, colorata e allegra, con scenografie e costumi bizzarri, magie e curiosi anacronismi (telefoni, libri con poesie del futuro, nel finale persino un elicottero), ghirlande di fiori e vetrate, veli e animali impagliati, cavalli e servitori dipinti di rosso o di blu, abiti del colore del cielo, del sole o della luna, animali incantati, fate bizzose, megere che sputano rospi e buffi scienziati che indagano sul mal d'amore. La scena in cui la principessa prepara la torta per il principe, cantando e "sdoppiandosi", è degna dei migliori momenti dei classici disneyani. Nel cast ci sono anche Jacques Perrin (il principe), Delphine Seyrig (la fata madrina) e Sacha Pitoëff (il primo ministro).

31 ottobre 2008

Les demoiselles de Rochefort (J. Demy, 1967)

Josephine (Les demoiselles de Rochefort)
di Jacques Demy – Francia 1967
con Catherine Deneuve, Françoise Dorléac
****

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Semplicemente una delizia, dall'inizio alla fine. Il secondo musical di Demy, rispetto a "Les parapluies de Cherbourg", è più svagato e leggero e anche più simile nell'impianto ai classici musical hollywoodiani: ci sono coreografie, balli nelle strade e nelle piazze e persino la partecipazione di Gene Kelly! Il feeling resta comunque indiscutibilmente francese ed europeo. Anche la musica di Michel Legrand è più varia e vivace, più ritmica e meno triste, e ingloba jazz e musica classica. Con la precedente (e anche con "Lola"), la pellicola condivide inoltre l'appartenenza a un unico universo romantico (come lasciano capire alcune frasi che fanno riferimento diretto ai personaggi degli altri lungometraggi). Le due protagoniste sono le sorelle – anche nella realtà – Deneuve e Dorléac, qui nei panni di Delphine e Solange, "nate sotto il segno dei gemelli", che insegnano rispettivamente danza e musica e sognano di trovare l'amore ideale e di abbandonare la piccola città costiera di Rochefort per andare a Parigi, la capitale dell'arte. Ma nel week-end, per la festa che si terrà in piazza, giungono due camionisti-imbonitori con il loro stand di motociclette: abbandonati dalle proprie ragazze (che preferiscono i marinai, altra costante dei film di Demy), i due chiedono alle gemelle di esibirsi sul palco del loro stand in un numero di canto e ballo per attirare i clienti. Nel contempo, Delphine e Solange si innamorano rispettivamente di un soldato-poeta-pittore (che l'ha ritratta in un quadro, senza conoscerla) e di un affascinante compositore americano; e anche la loro madre ritrova il suo antico fidanzato, Simon Dame, che aveva lasciato a causa del suo nome insopportabile ("Non avrei mai potuto farmi chiamare Madame Dame!"). Un cast fenomenale (ci sono anche Michel Piccoli, Danielle Darrieux, George Chakiris e Jacques Perrin), le geometrie delle inquadrature, la regia ariosa, gli abiti e le scenografie dai colori sgargianti, i toni romantici, tristi, gioiosi e frivoli, le accattivanti melodie di Legrand (citato anche nel testo di una canzone), con temi distribuiti equamente tra tutti i numerosi personaggi che li cantano e li ballano in allegria (e le varie coppie condividono gli stessi temi musicali!), la bellezza delle ragazze di quegli anni: tutto concorre a farne un film piacevolissimo. Da "Lola" recupera la struttura a molti personaggi che si incontrano, si separano e si ritrovano, con segreti e destini che li legano a loro insaputa fino alla risoluzione finale, fra amori lasciati e ritrovati, sognati, idealizzati o che si materializzano. Notevole, fra le tante, la scena della cena in famiglia, dove i personaggi non cantano ma i dialoghi sono tutti in rima.

Nota: Poco prima dell'uscita del film nel nostro paese, Françoise Dorléac morì in un tragico incidente stradale. I distributori italiani ebbero allora la bella pensata di ridurre il suo ruolo, tagliando quasi quaranta minuti di pellicola, reintitolandola "Josephine" (che fra l'altro non era nemmeno il nome del personaggio interpretato dalla Deneuve, ma – come scrisse Kezich all'epoca – suonava "più malizioso") e doppiando tutte le canzoni in italiano. Tanto basta per tenersi alla larga dall'edizione nostrana e per guardarlo soltanto e rigorosamente in versione originale.

30 ottobre 2008

Les parapluies de Cherbourg (J. Demy, 1964)

Les parapluies de Cherbourg
di Jacques Demy – Francia 1964
con Catherine Deneuve, Nino Castelnuovo
***1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

A Cherbourg, cittadina costiera della Normandia, la diciassettenne Geneviève lavora come commessa nel negozio di ombrelli di sua madre e giura eterno amore al meccanico Guy. Ma quando questi è costretto a partire per la guerra in Algeria, lasciandola incinta, la ragazza si sposa con il distinto Roland, commerciante di diamanti. Geneviève e Guy si rincontreranno quattro anni più tardi, sotto la neve: giusto il tempo per un breve e formale addio. In questo geniale musical – forse il film più celebre di Demy, pervaso da un romanticismo esasperato, lirico e struggente – ogni singola linea di dialogo viene cantata, anche le frasi più insignificanti, mentre gli attori (doppiati) recitano come se si trattasse di una pellicola normale, senza balli o coreografie. Vinse la Palma d'Oro al Festival di Cannes e divenne il trampolino di lancio per la giovane e bellissima Deneuve (dall'aspetto quasi etereo: "come una vergine con bambino"), permettendo a Demy, con l'aiuto del fido compositore Michel Legrand, di realizzare finalmente quel musical all'europea che era un suo progetto sin dai tempi di "Lola" (di cui, in un certo senso, è un sequel: il personaggio di Roland era infatti il protagonista di quel primo lungometraggio, cui fa anche un diretto riferimento). Oltre alla trama, divisa in tre parti (la partenza, l'assenza, il ritorno), spiccano le scenografie che colorano la vera Cherbourg di tinte pastello o toni vivaci, fra porte, corridoi, muri e carte da parati rosa, verde, blu: anche gli ombrelli sono variopinti (almeno quelli esposti nel negozio di Geneviève: ma l'unico acquirente che si vede ne acquista uno nero), mentre il cielo è scosso dal maltempo, dalla pioggia o dalla neve (vedi la bellissima scena finale) e le strade acciottolate sono percorse da gruppi di marinai americani. Se già l'aspetto formale della pellicola fa gridare al capolavoro (l'attenzione ai dettagli, la cura dei costumi e delle scenografie, la colonna sonora), i contenuti non sono da meno, con momenti di sublime sentimentalismo ("Io che sarei morta per lui, perché non sono morta?"). Nonostante la prima impressione, il film è tutt'altro che zuccheroso e consolatorio: l'amore assoluto che viene cantato nella prima parte deve fare i conti con la sua progressiva degenerazione, e i sentimenti idealizzati lasciano il posto alla disillusione. In fondo, "la gente muore d'amore solo al cinema".

14 giugno 2008

Racconto di Natale (A. Desplechin, 2008)

Racconto di Natale (Un conte de Noël)
di Arnaud Desplechin – Francia 2008
con Mathieu Amalric, Catherine Deneuve
*

Visto al cinema Apollo, in originale con sottotitoli (rassegna di Cannes).

Una pellicola retorica e pretenziosa sui membri di una famiglia della ricca borghesia di Roubaix (il paese d'origine del regista), alle prese con incomprensioni, litigi e problemi di salute che si trascinano da anni e che culminano in una resa dei conti sotto le festività natalizie. I genitori, Abel e Junon, hanno perso il primo figlio Joseph all'età di sei anni per una rara forma di leucemia, nonostante avessero dato la luce a un altro figlio, Henri, nella speranza di usare la placenta per un trapianto. Henri è cresciuto così continuamente soggetto all'odio della madre e soprattutto dell'altra sorella Elizabeth, fino a quando quest'ultima, da grande, lo “bandisce” da casa impedendogli per cinque anni ogni contatto con gli altri membri della famiglia. Ma ora che anche Junon ha sviluppato la stessa malattia degenerativa, Henri viene nuovamente invitato alla riunione familiare in occasione del Natale, anche perché si è scoperto che il suo midollo è l'unico compatibile con quello della madre per tentare un rischioso trapianto. Colmo di personaggi arroganti e odiosi (e non sono così sicuro che questa fosse l'intenzione del regista: concediamogli il beneficio del dubbio per la madre e la sorella, ma anche tutti gli altri parenti sono insopportabili), è uno di quei film così fastidiosi per i quali scatta l'antipatia dopo soli cinque minuti (e durava due ore e mezza!). Deludenti tutti gli attori, tranne forse Amalric (che però non si spreca) e soprattutto il giovane Émile Berling nei panni di Paul, il nipote con turbe psichiche.

27 maggio 2008

La cagna (Marco Ferreri, 1972)

La cagna (Liza)
di Marco Ferreri – Italia/Francia 1972
con Marcello Mastroianni, Catherine Deneuve
*1/2

Visto in divx.

Tratto dalla novella “Melampus” di Ennio Flaiano (che l'ha adattata insieme al regista e a Jean-Claude Carrière) e girato nell'isola di Lavezzi, fra Corsica e Sardegna, è un film sobrio ma vuoto che mi ha convinto veramente poco, perso com'è nella sua descrizione di personaggi fuori posto in un mondo moderno che non li comprende. Il protagonista Giorgio, un disegnatore di fumetti (ispirato probabilmente a Hugo Pratt) solitario e scontroso che vive come un eremita in compagnia del cane Melampo su un isolotto roccioso, si ritrova a ospitare una misteriosa donna, Lisa, che ha abbandonato per un litigio la barca dei suoi amici. Gelosa del fatto che l'animale monopolizzi le attenzioni dell'uomo, la donna lo affoga. Ma lui la costringe a prenderne il posto, addestrandola a riportare i bastoncini, a bere dalla ciotola, a obbedirgli come se fosse il suo padrone. E lei accetta volontariamente la propria sottomissione, forse perché non ha altro posto dove andare: il suo personaggio rimane enigmatico e senza origini per tutto il film, a differenza di Giorgio del quale invece conosciamo la famiglia (da cui è in fuga) in alcune scene ambientate a Parigi, dove compare brevemente anche Michel Piccoli, habitué di Ferreri sin dai tempi di "Dillinger è morto".

5 marzo 2008

Le più belle truffe del mondo (aavv, 1964)

Le più belle truffe del mondo
(Les plus belles escroqueries du monde)
di Hiromichi Horikawa, Roman Polanski, Ugo Gregoretti, Claude Chabrol, Jean-Luc Godard – Fra/Ita/Ola/Gia 1964
**

Visto in divx, in francese.

Un film a episodi poco accattivante e poco omogeneo per stile (per lo più tendente alla commedia), nel quale spicca in positivo il segmento diretto da Polanski, al suo primo lavoro fuori dalla Polonia. Interessanti anche gli episodi di Godard e Gregoretti. Sui titoli di testa e come introduzione a ogni segmento c'è una canzone, non eccezionale, di Serge Gainsbourg.

Tokyo – "Les cinq bienfaiteurs de Fumiko", di Hiromichi Horikawa, con Mie Hama, Ken Mitsuda (*1/2)
Una ragazza che lavora come intrattenitrice in un locale segue fino a casa un cliente, un anziano musicista, per rubargli la dentiera di platino. Ma scoprirà che era falsa. Horikawa era stato assistente regista di Kurosawa, ma non ha ereditato il talento dell'Imperatore. La protagonista è simpatica, ma il film manda di... "mordente" (ah ah!).

Amsterdam – "La riviere de diamants", di Roman Polanski, con Nicole Karen, Jan Teulings (**1/2)
Una ragazza francese seduce un ricco diplomatico e si finge sua moglie per sottrarre a un gioielliere una preziosa collana di diamanti. Ma evidentemente non le interessava poi tanto, visto che subito dopo la baratta con un pappagallo (!). Ambientato in una Amsterdam cosmopolita e trafficata, dove ogni tanto si intravede la polizia che ripesca un'automobile finita nei canali, è l'episodio più bello, girato in maniera frizzante e con uno stile che il Mereghetti giustamente definisce "svagato e funambolico".

Napoli – "La feuille de route", di Ugo Gregoretti, con Gabriella Giorgelli, Beppe Mannaiuolo (**)
Una prostituta ha ricevuto il foglio di via e sarebbe costretta a tornare al paese natale. Un giovane studente in legge le suggerisce di sposare un vecchietto dell'ospizio per "mettersi in regola". L'idea piace al suo protettore, che sogna di applicarla su grande scala. Ma il vecchietto, che voleva consumare la sua prima notte di nozze, si vendica denunciando i due per adulterio. I toni a metà fra commedia e neorealismo salvano un po' un episodio che forse sarebbe stato più interessante con maggior tempo a disposizione per approfondire i personaggi.

Parigi – "L'homme qui vendit la tour Eiffel", di Claude Chabrol, con Francis Blanche, Jean-Pierre Cassel (*)
Una banda di truffatori, tutti con nasi e baffi finti, vende la torre Eiffel a un tedesco che ha una vera e propria venerazione per il monumento. Una farsa senza stile e senza idee, che sembra la brutta copia di una commedia all'italiana (ricorda infatti la gag della Fontana di Trevi di "Totòtruffa 62"). I personaggi sono soltanto delle macchiette, e le uniche scene belle sono quelle della Torre, che ricordano il documentario "La Tour" di René Clair. Catherine Deneuve ha una particina minuscola e dice solo una battuta (quasi di culto) al suo compagno, uno dei truffatori: "Ti preferisco con un naso finto".

Marrakech – "Le Grand Escroq", di Jean-Luc Godard, con Jean Seberg, Charles Denner (**)
Una giovane reporter americana (che si chiama Patrizia: è lo stesso personaggio di "À bout de souffle"?), in giro per il mondo per fare reportage, documentari e "cinema-verità", si aggira per la medina di Marrakech con una macchinetta per cineriprese e indaga su un misterioso falsario di biglietti di banca, che le spiega le proprie ragioni ("La charité ne pense pas le mal", dalla prima lettera ai Corinzi). Rispetto agli altri episodi, sembra decisamente fuori posto con le sue riflessioni filosofiche sul cinema, la società, la politica e l'economia, tipiche del Godard di quegli anni, e infatti il segmento era stato eliminato dalle versioni del film proiettate in Europa.

13 febbraio 2008

Notte sulla città (J.P. Melville, 1972)

Notte sulla città (Un flic)
di Jean-Pierre Melville – Francia 1972
con Alain Delon, Richard Crenna
**

Visto in DVD.

Un giovane commissario di polizia, solitario e dai modi spicci, ignora che a capo di un'audace banda di ladri c'è proprio un suo amico, proprietario del locale che frequenta abitualmente e compagno della donna con cui – forse non a sua insaputa – ha una relazione. Maltrattato dalla critica alla sua uscita e rinnegato dallo stesso regista (che in un'intervista dichiarò: "Un flic? Non ho mai girato un film che si chiama Un flic"), in realtà l'ultimo film di Melville non è poi così male. Anche se soffre per personaggi di routine e poco approfonditi (Delon, soprattutto, ma anche Catherine Deneuve nei panni dell'amante/complice/traditrice), può contare su un'atmosfera pensierosa e malinconica e su almeno due sequenze che, per motivi diversi, rimangono fortemente impresse nella memoria: quella della rapina iniziale alla banca, tesa e realistica, con uno scenario inedito e piuttosto impressionante (una cittadina costiera, vuota e desolata per l'inverno, con il vento, la pioggia e le onde del mare che sferzano i marciapiedi), e quella dell'elaborato e implausibile furto sul treno: l'elicottero e il treno sono smaccatamente dei modellini (si vedono persino i fili che sorreggono il velivolo giocattolo!), mentre la calamitona usata dal ladro per girare la chiave nella porta è ai limiti del ridicolo.

17 giugno 2007

Après lui (Gaël Morel, 2007)

Après lui
di Gaël Morel – Francia 2007
con Catherine Deneuve, Thomas Dumerchez
*

Visto all'Auditorium San Fedele, in v. orig. sottotitolata.
(rassegna di Cannes)

Dopo la morte del figlio in un incidente stradale, una madre comincia a frequentare (e a tampinare in maniera ossessiva) l'amico che era alla guida dell'automobile, considerandolo come un sostituito del figlio che ha perso. Un personaggio cretino, incapace di elaborare il lutto, in un film orrendo, privo di stile e di intensità, il peggiore finora di tutta la rassegna. Pianti ostentati, scene madri da fiction televisiva, personaggi che si comportano in maniera idiota, un finale senza alcun significato: il confronto con altre pellicole che partono da spunti simili, come "Tutto su mia madre" o "La stanza del figlio" (al quale ruba persino una sequenza, quella dell'amica del figlio che viene a trovarlo dall'estero senza sapere che è morto), è impietoso. La Deneuve è completamente fuori parte: lei, tanto fredda e algida, viene costretta a interpretare una donna che sembra uscita da una telenovela. Il regista ha scritto la sceneggiatura insieme a Christophe Honoré, già autore dell'orribile "Dans Paris": un nome da tener d'occhio per evitarlo come la peste.