30 gennaio 2022

Primo amore (George Stevens, 1935)

Primo amore (Alice Adams)
di George Stevens – USA 1935
con Katharine Hepburn, Fred MacMurray
**1/2

Rivisto in DVD.

Pur di famiglia povera, Alice Adams (una Katharine Hepburn giovane, bella e radiosa) ama la vita dell'alta società e cerca di "abbeverarsene" in ogni modo, frequentandone i rappresentanti e infiltrandosi alle feste, fingendo di essere ricca e benestante a sua volta. Quando si innamora (ricambiata) del bell'Arthur Russell (Fred MacMurray), cercherà di nascondergli il suo umile stato sociale. Che però verrà alla luce nel corso di una disastrosa cena in famiglia. Da un romanzo di Booth Tarkington (vincitore del premio Pulitzer nel 1922 e già portato sullo schermo in un film muto del 1923), una variante della storia di Cenerentola: ma più che l'aspetto romantico, in fondo poco originale, a renderla interessante è la lettura socio-economica, con la sottotrama del tentativo del padre di Alice (Fred Stone) di trasformarsi da impiegato in imprenditore, finendo con l'alienarsi per ripicca il suo ex datore di lavoro. "I francesi sono famosi per la cucina, gli italiani per la musica... e gli americani? Per gli affari", dice Alice ad Arthur, durante una delle loro vacue conversazioni. E il film, uscito poco dopo la Grande Depressione, insiste su questo punto, portando in primo piano le aspirazioni imprenditoriali ed economiche, le insicurezze finanziarie e le disuguaglianze sociali che ogni cittadino americano e ogni famiglia dell'epoca doveva fronteggiare. Il lieto fine relativo alla love story (non presente nel romanzo) fu imposto dai produttori che temevano la reazione del pubblico a un finale troppo "realistico", contro il volere di attrice e regista. La pellicola ricevette due nomination agli Oscar (quelle per il miglior film e per la miglior attrice protagonista). Stevens fu scelto come regista perché George Cukor e William Wyler (le prime scelte della Hepburn) non erano disponibili: i due lavoreranno poi insieme in altri due film.

29 gennaio 2022

Benvenuto Presidente! (R. Milani, 2013)

Benvenuto Presidente!
di Riccardo Milani – Italia 2013
con Claudio Bisio, Kasia Smutniak
*1/2

Visto in TV (Now Tv), con Sabrina.

Nell'impasse per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, e non riuscendo a trovare il giusto candidato (cioè corruttibile e manipolabile), i principali partiti del parlamento italiano scelgono di votare – l'uno all'insaputa dell'altro – lo stesso nome "simbolico": Giuseppe Garibaldi. Peccato però che un cittadino eleggibile con questo nome esista veramente, un ex bibliotecario appassionato di pesca che abita in un paesino di montagna, che si ritrova così designato all'importante carica. Salito al Quirinale, con i suoi modi semplici e schietti e l'innata onestà saprà conquistarsi il favore della popolazione e risollevare le sorti del paese. Il tema dell'uomo comune che si ritrova per caso ai vertici di una nazione non è certo nuovo (dal "Prigioniero di Zenda", con tutte le sue varianti – compresa quella disneyana: "Topolino sosia di Re Sorcio" – a pellicole diversissime fra loro come "Dave - Presidente per un giorno" e "Kagemusha"), ed è sempre accattivante. Questa commedia parte bene e in modo spigliato, ma poi si adagia su un populismo semplicistico e prevedibile, anche perché quando cerca di fare qualcos'altro (vedi i momenti umoristici o la sottotrama romantica) fallisce miseramente per l'evidente mediocrità della scrittura. Alla fine la retorica populista fa il giro completo e, nel finale, diventa anti-populista (il discorso di Peppino agli italiani, in cui li accusa di essere loro il problema, prima ancora dei politici corrotti): ma di fatto è populismo anche quello, proprio come qualcuno che vuol essere anticonformista a tutti i costi è in realtà il più conformista di tutti. Kasia Smutniak è l'inflessibile vice segretario generale del Quirinale. Giuseppe Fiorello, Massimo Popolizio e Cesare Bocci i leader dei tre principali partiti (di destra, di centro e di sinistra, ma di fatto alleati e indistinguibili fra loro). Gianni Cavina è "il signor Fausto", a capo dei servizi segreti deviati. Lina Wertmüller, Pupi Avati, Gianni Rondolino e Steve Della Casa, in un cameo, sono "i poteri forti". Il film è stato girato in gran parte a Torino e in Val di Susa.

28 gennaio 2022

Il tabaccaio di Vienna (N. Leytner, 2018)

Il tabaccaio di Vienna (Der Trafikant)
di Nikolaus Leytner – Austria/Germania 2018
con Simon Morzé, Bruno Ganz
*1/2

Visto in TV (RaiPlay).

Il diciassettenne Franz (Morzé) lascia la madre (Regina Fritsch) e il suo villaggio natale fra le montagne del Salzkammergut per trasferirsi a Vienna e lavorare come apprendista nella tabaccheria di Otto Trsnjek (Johannes Krisch), amico di famiglia. Qui il ragazzo vive le prime esperienze romantiche, innamorandosi della bella e problematica boema Anežka (Emma Drogunova), ma soprattutto assiste all'avvento del nazismo (siamo negli anni Trenta), che si impadronisce del paese. E nel frattempo stringe amicizia con uno dei clienti della tabaccheria, nientemeno che il professor Sigmund Freud (Bruno Ganz), fondatore della psicoanalisi. Un film su cui non si possono che dare giudizi ambivalenti: da un lato l'ambientazione storica è interessante (il cambio di clima politico risalta in piccoli e grandi mutamenti: in un cabaret dove una volta si prendeva in giro Hitler, per esempio, in seguito si fanno battute sugli ebrei), la narrazione intreccia diversi fili (il tema della crescita e della conoscenza del mondo, ingiustizie e violenze comprese; quello dell'educazione sentimentale, con tanto di cocenti delusioni; quello dell'amicizia con un mentore o "consigliere" come Freud) e il finale è realistico e per nulla conciliante. Dall'altro la confezione lascia a desiderare: la fotografia è eccessivamente patinata, la regia anonima, le caratterizzazioni monotematiche, i dialoghi superficiali, il ritmo senza brio. Né il personaggio di Freud né la psicoanalisi hanno davvero importanza nella vicenda (Franz comincia a trascrivere i suoi sogni, quasi tutti ambientati presso il lago della sua infanzia, appendendo poi i fogli alla vetrina del suo negozio, ma da questo spunto non viene poi fuori nulla di interessante), e sembrano in fondo abbastanza superflui. Per Ganz è stato il penultimo ruolo: l'ultimo sarà ne "La vita nascosta" di Malick, film ambientato curiosamente nello stesso periodo e contesto storico.

26 gennaio 2022

Black Widow (Cate Shortland, 2021)

Black Widow (id.)
di Cate Shortland – USA 2021
con Scarlett Johansson, Florence Pugh
**1/2

Visto in TV (Disney+).

La Vedova Nera è sempre stato uno dei personaggi meno interessanti della Marvel (o almeno del suo Cinematic Universe), ma questo film prova – e in qualche modo ci riesce – a darle un po' di spessore, fornendoci il suo background e affiancandole una sorta di "famiglia". Il termine va fra virgolette, visto che si tratta, come lei, di spie russe inviate negli Stati Uniti sotto copertura: il "padre" è Alexei, alias il super-soldato Red Guardian (David Harbour), la risposta sovietica a Capitan America; la "madre" è Melina (Rachel Weisz), scienziata che ha collaborato al progetto con cui il perfido Dreykov (Ray Winstone), il cattivo di turno, controlla chimicamente la mente di un vero e proprio esercito di "Vedove", ragazze addestrate al combattimento e private della volontà e del libero arbitrio per essere usate come spie killer; e fra queste, almeno all'inizio, c'è anche Yelena (Florence Pugh), la "sorella minore" di Natasha Romanoff (Scarlett Johansson), con la quale si riunirà per trovare l'ubicazione della Stanza Rossa, il laboratorio segreto di Dreykov, e affrontare l'antico nemico. La vicenda si svolge durante il periodo in cui gli Avengers erano separati, ovvero dopo gli eventi di "Captain America: Civil War". Francamente mi aspettavo di peggio, da quello che prometteva di essere in tutto e per tutto un film Marvel minore: il soggetto è compatto e coerente (e più che un film di supereroi, sembra uno di spionaggio alla James Bond), la sceneggiatura affronta in maniera intrigante il tema della famiglia (vera o meno che sia) e non si perde in mille rivoli (anche se i tentativi di umorismo sono un po' goffi, specialmente riguardo alla personalità di Yelena: ma la presa in giro delle "pose eroiche" di Natasha è indovinata), e i personaggi sono pochi ma buoni: l'unico altro antagonista è Taskmaster, che si rivela essere la figlia di Dreykov (Olga Kurylenko). Peccato per le solite noiosissime scene di combattimento (ma la colpa è anche degli effetti speciali digitali, meno buoni del solito) e per l'orribile adattamento italiano (che fastidio continuare a sentire "Avengers" e soprattutto "Captain America", in inglese!). O-T Fagbenle è il "trovarobe" Rick Mason, William Hurt appare brevemente come generale Ross. Probabilmente la pellicola segna l'addio della Johansson al MCU, visto che il personaggio di Natasha è uscito di scena in "Avengers: Endgame": questo va considerato il suo canto del cigno. Nella scena che segue i titoli di coda, da collocarsi dopo il suddetto film, la contessa Valentina Allegra de Fontaine incarica Yelena di uccidere Clint Barton (gli sviluppi si vedranno nella serie tv "Hawkeye").

24 gennaio 2022

L'invasione degli ultracorpi (Don Siegel, 1956)

L'invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers)
di Don Siegel – USA 1956
con Kevin McCarthy, Dana Wynter
***

Rivisto in TV (Prime Video).

Il dottor Miles Bennell (Kevin McCarthy), medico del paesino di Santa Mira, in California, inizia a ricevere strane segnalazioni di pazienti convinti che i loro cari o familiari più prossimi siano degli impostori, ovvero persone identiche a loro (e con gli stessi ricordi) ma privi di vere emozioni. Indagando, insieme alla sua fiamma Becky Driscoll (Dana Wynter), scoprirà che gli abitanti del villaggio vengono in effetti sostituiti, durante il sonno, da "copie" vegetali di origine aliena, generati da misteriosi e giganteschi "baccelli". Uno dei più famosi B-movie di fantascienza/horror, tratto da un romanzo di Jack Finney e diventato un cult movie simbolo e icona non soltanto di un genere cinematografico (ricordiamo che negli anni Cinquanta la fantascienza era un filone a basso costo, buono soltanto per i "doppi spettacoli" dei drive-in, quelli poi celebrati in pellicole come il "Rocky Horror Picture Show") ma di un intero clima culturale. Pur non esplicita, infatti, la metafora sottostante è quella della paura del comunismo, che in quel decennio scuoteva l'America come non mai, con il suo senso di paranoia e di accerchiamento: la paura per l'avvento di una società in cui dissidi, odio e infelicità spariscono (e dove tutti collaborano verso un unico fine), ma con loro se ne vanno anche l'amore, l'individualità e i sentimenti. Curiosamente, per alcuni critici il messaggio è l'opposto, e il film vorrebbe mettere in guardia dalla caccia alle streghe del Maccartismo, che può mettere amici e familiari gli uni contro gli altri. Oppure, più generalmente, essere un attacco al conformismo e all'apatia (e quindi alla desensibilizzazione e alla disumanizzazione) che rischiano di svilupparsi in ogni società sufficientemente avanzata. I cineasti negarono comunque di aver avuto in mente una specifica allegoria politica. L'efficacia della pellicola, a tratti davvero inquietante, è accresciuta dalla sostanziale mancanza di effetti speciali, che ne accentua il realismo e la credibilità (lo stile è quasi quello di un film noir). Il lieto fine ottimista che giunge proprio negli ultimi secondi della pellicola è evidentemente posticcio, imposto (al pari dell'incipit) dalla produzione al regista, che avrebbe invece voluto terminare il film con il medico che gridava inutilmente in mezzo all'autostrada, rivolgendosi infine direttamente agli spettatori e dicendo: "You're next!". Nel cast anche King Donovan e Carolyn Jones (Jack e Theodora, gli amici del dottor Bennell). Alla sceneggiatura di Daniel Mainwaring ha collaborato, non accreditato, il futuro regista Sam Peckinpah, che all'epoca era assistente di Siegel e che si ritaglia anche un cameo (l'operaio del gas). Il nome "Ultracorpi" come traduzione di "Body Snatchers" non viene mai pronunciato nel film, che per molti continua a essere "quello dei baccelloni". Rifatto nel 1978 ("Terrore dallo spazio profondo"), nel 1993 ("Ultracorpi - L'invasione continua") e nel 2007 ("Invasion").

22 gennaio 2022

Your name. (Makoto Shinkai, 2016)

Your name. (Kimi no na wa.)
di Makoto Shinkai – Giappone 2016
animazione tradizionale
***

Visto in TV (Netflix).

La diciassettenne Mitsuha, che abita in una cittadina di campagna, e il coetaneo Taki, che risiede invece nella grande Tokyo, pur non conoscendosi, si risvegliano di frequente nel corpo l'uno dell'altra, "vivendo" così le rispettive giornate come fossero dei sogni ad occhi aperti. Quando si rendono conto che invece è la realtà, cercano in qualche modo di comunicare fra di loro e poi di incontrarsi. Ma le cose non saranno così semplici... Al quinto lungometraggio (tratto da un suo romanzo), Makoto Shinkai finalmente fa centro, conquistando un notevole successo di pubblico e di critica anche internazionale. Non che la pellicola sia esente da alcuni difetti già presenti nei lavori precedenti: l'eccesso di intellettualismo e di ambizioni, unito a una sopravvalutata originalità (in fondo tutta la prima parte non è altro che l'ennesima variazione di "Tutto accadde un venerdì" o, per restare in Giappone, di "Tenkosai" di Nobuhiko Obayashi, regista anche de "La ragazza che saltava nel tempo", di cui vent'anni dopo sarà realizzato un remake/sequel a cartoni animati che ha molto in comune con questo film). Ma Shinkai sembra anche aver raggiunto un maggiore equilibrio e una certa maturità nel caratterizzare i suoi personaggi, quelli che stanno loro attorno e l'ambiente in cui vivono. E se tutta la prima metà, quella relativa appunto ai misteriosi "scambi" e al modo in cui i due protagonisti cercano di farvi fronte (nonostante la rispettiva goffaggine nel trovarsi e doversi muovere in un corpo diverso), ha le caratteristiche della tipica commedia adolescenziale (con echi di "Ranma 1/2"), la seconda cambia repentinamente registro, diventando quasi un thriller catastrofico, quando si scopre che le loro esistenze sono in realtà temporalmente sfasate e che l'impatto di una cometa minaccia di distruggere anzitempo il mondo di Mitsuha. Il contrasto fra vita di campagna e di città, fra antiche tradizioni (con riti e cerimonie religiose) e modernità fantascientifiche, si sposa così con quel romanticismo astratto che permeava anche gli altri film di Shinkai, con i due ragazzi (innamoratisi pur senza incontrarsi) legati dal "filo rosso" del destino, qui rappresentato dal nastro fra i capelli di lei. Un filo intrecciato che indica anche lo scorrere del tempo, non per forza lineare. Il mix fra commedia, dramma, fantascienza e poesia, nel complesso, funziona: bello anche l'epilogo. Il titolo comprende anche il punto finale. Il nome del ristorante italiano dove lavora Taki, "Il giardino delle parole", è lo stesso del precedente film del regista.

20 gennaio 2022

Thelma (Joachim Trier, 2017)

Thelma (id.)
di Joachim Trier – Norvegia/Dan/Fra/Sve 2017
con Eili Harboe, Kaya Wilkins
***1/2

Visto in TV (Prime Video).

La giovane Thelma (Eili Harboe), cresciuta in campagna nell'alveo di una famiglia molto religiosa e sempre tenuta sotto controllo dai genitori (Henrik Rafaelsen e Ellen Dorrit Petersen), va in città a studiare biologia all'università. Qui si concede le prime trasgressioni, e in particolare si innamora (ricambiata) di una compagna di studi, la bella Anja (Kaya Wilkins). Ma i forti sensi di colpa scateneranno un suo "potere" psicocinetico latente. Insolita commistione fra l'horror-thriller soprannaturale e il romanzo di formazione: in maniera non dissimile dal francese "Raw", uscito l'anno prima (ma con uno stile molto diverso: se quello era forte e truculento, questo è algido e controllato), vira in chiave fantastica la tematica della crescita di una giovane ragazza timida e sola, che per la prima volta si trova a confrontarsi con il mondo esterno, a mettere in discussione ciò che le è stato sempre insegnato (la curiosità scientifica cozza contro i dogmi della Bibbia) e a dover affrontare le proprie pulsioni, turbamenti (sessuali in primis) ed emozioni, fino ad allora represse dall'educazione religiosa e dall'influenza dei genitori. Le manifestazioni del suo potere, che in un primo momento sembrano soltanto delle "crisi" simil-epilettiche, proprio perché inaspettate e non controllate, suggeriscono evidenti paralleli con le possessioni demoniache, come testimoniano le iconografie e la presenza di animali – corvi neri o serpenti – che popolano le sue visioni. Le ottime interpretazioni e la regia lucida concorrono alla riuscita di una pellicola assai accattivante e a tratti davvero inquietante (si pensi ai flashback o alle scene in piscina), che indaga in maniera originale il tema della repressione dei sensi di colpa. Peccato solo per un finale forse un po' affrettato.

19 gennaio 2022

Chi ucciderà Charley Varrick? (Don Siegel, 1973)

Chi ucciderà Charley Varrick? (Charley Varrick)
di Don Siegel – USA 1973
con Walter Matthau, Joe Don Baker
**1/2

Visto in TV (Now Tv).

Dopo una sanguinosa rapina in una piccola banca del New Mexico, nel corso della quale perde la moglie che gli faceva da autista (Jacqueline Scott), l'ex pilota d'aereo Charley Varrick (Walter Matthau) si rende conto di aver messo le mani su un bottino molto più grande del previsto, una somma di denaro troppo alta per non appartenere alla malavita. E infatti l'organizzazione cui li ha sottratti sguinzaglia subito un sicario (Joe Don Baker) sulle tracce di Charley e del suo complice, la giovane testa calda Harman (Andrew Robinson)... Un solido film d'azione vecchio stile, con personaggi interessanti (almeno gli uomini: la caratterizzazione delle donne è un po' disinvolta) e non privo di colpi di scena. Memorabile soprattuto il protagonista, criminale dilettante ma pieno di assi da giocare, che ben si districa anche quando è in fuga o preso di mira da più parti (i gangster, i poliziotti...). John Vernon è il banchiere che traffica con la mafia, Felicia Farr la sua segretaria, Woodrow Parfrey il direttore della filiale rapinata, Sheree North la falsificatrice di documenti. Don Siegel avrebbe voluto intitolare il film "L'ultimo degli indipendenti", il motto della compagnia di disinfestazione aerea di Charley Varrick, e aveva pensato a Clint Eastwood come protagonista.

17 gennaio 2022

Apart from you (Mikio Naruse, 1933)

Apart from you (Kimi to wakarete)
di Mikio Naruse – Giappone 1933
con Sumiko Mizukubo, Akio Isono
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

L'anziana geisha Kikue (Mitsuko Yoshikawa) fa questo lavoro per mantenere il figlio Yoshio (Akio Isono) e permettergli di studiare. Disapprovando il mestiere della madre, di cui si vergogna, Yoshio smette di andare a scuola e si unisce a una banda di balordi. Assistendo però agli sforzi di Terugiku (Sumiko Mizukubo), giovane collega di Kikue cui è legato da un legame di affetto e che a sua volta fa la geisha per mantenere la famiglia e per proteggere la sorella minore dallo stesso destino, Yoshio comprenderà infine il valore del sacrificio della madre. Soggetto "mizoguchiano" ma con lieto fine, per un melodramma per certi versi retorico e convenzionale (la trama ricorda molte pellicole giapponesi dell'epoca) ma con una notevole caratterizzazione dei personaggi e con una forte intensità emotiva (si pensi al confronto fra Terugiku e la sua famiglia, quando accusa i genitori per la propria sorte). E stilisticamente sono da apprezzare i movimenti di macchina (come gli zoom e i primi piani: a volte gli attori sembrano quasi guardare direttamente in faccia gli spettatori) e il montaggio, specie nella parte finale. Pur trattandosi di un muto, la pellicola presenta a tutti gli effetti il linguaggio moderno del cinema sonoro. Anche il realismo e il pragmatismo nel descrivere il mondo delle geishe, lontano da ogni romanticismo forzato, non sono banali. Tomio "Tokkan Kozo" Aoki, nel consueto ruolo del monello combinaguai, è il fratellino di Terugiku.

15 gennaio 2022

Doctor Sleep (Mike Flanagan, 2019)

Doctor Sleep (id.)
di Mike Flanagan – USA 2019
con Ewan McGregor, Rebecca Ferguson
**

Visto in TV (Netflix).

A quarant'anni di distanza dagli eventi dell'Overlook Hotel, Danny Torrance (Ewan McGregor) è cresciuto e sta lentamente cercando di superare i traumi che ha vissuto. Con un passato da alcolista, lavora come inserviente in una clinica per malati terminali, usando i propri poteri mentali per alleviare la paura di chi si avvicina alla morte. Ma quando Abra Stone (Kyliegh Curran), una ragazzina dotata come lui del potere della "luccicanza", viene minacciata da una congrega di creature quasi immortali che si nutrono proprio dell'energia magica per prolungare la propria esistenza, guidate dalla perfida Rose Cilindro (Rebecca Ferguson), Danny decide di aiutarla e di tornare ad affrontare le forze del male. Sequel di "Shining", tratto dall'omonimo romanzo di Stephen King ma al tempo stesso inteso come seguito diretto del film di Stanley Kubrick, che dal primo romanzo di King si discostava non poco: di conseguenza Flanagan (anche sceneggiatore) cerca di tenere il piede in due scarpe, non sempre riuscendoci in maniera adeguata. Se da un lato "ruba" iconografia, musica (il "Dies irae"!), sequenze e inquadrature dal capolavoro kubrickiano, arrivando al punto da scritturare attori look-alike degli interpreti del vecchio film (Henry Thomas come Jack Nicholson, Alex Essoe come Shelley Duvall, Carl Lumbly come Scatman Crothers), dall'altro gran parte della pellicola ha un mood decisamente diverso dall'originale, al punto che a tratti non sembra neppure un horror ma uno dei tanti action movie a tema fantastico basati su scontri fra personaggi con superpoteri. E quando, nella sequenza finale, l'azione si sposta nell'Overlook Hotel (una scelta del regista, visto che nel libro di King non accadeva), l'impressione è quasi quella di trovarsi di fronte a un omaggio/citazione/parodia di "Shining", e al desiderio di replicarne le scene, che non a un vero seguito. Non aiuta il fatto che le inquietanti suggestioni psicologiche del primo film vengano qui stravolte o banalizzate, dando a tutto una spiegazione: l'albergo è "semplicemente" una casa infestata dai fantasmi, Jack Torrance era "semplicemente" posseduto, e così via. Se visto come thriller a sé stante il film non è poi del tutto malvagio (ci sono alcuni momenti surreali/onirici interessanti, come le interazioni mentali fra Abra e Rose, anche se tutto il resto è abbastanza poco fantasioso: i nemici vengono uccisi a fucilate, per dire), come sequel di un capolavoro non può dunque che risultare deludente sotto molteplici punti di vista. Anche il titolo è tirato via (il nomignolo "Doctor Sleep" in riferimento a Danny viene usato in una singola scena e poi, nonostante la durata del film, mai più richiamato). Fra i "cattivi" ci sono anche Zahn McClarnon e Emily Alyn Lind. Da notare i tanti riferimenti alla paranoia americana per la pedofilia (ogni scena in cui un adulto è in compagnia di un bambino è letta o equivocata in questo senso).

13 gennaio 2022

Vampyr - Il vampiro (Carl T. Dreyer, 1932)

Vampyr - Il vampiro (Vampyr - Der Traum des Allan Grey)
di Carl Theodor Dreyer – Germania/Francia 1932
con Julian West, Sybille Schmitz
***

Visto in DVD.

Lo studente Allan Gray, ospite in un'inquietante locanda nel villaggio di Courtempierre, scopre che il villaggio stesso è oppresso dalla malvagia influenza di un vampiro, un essere soprannaturale e maligno. Fra le sue vittime, in particolare, c'è Léone (Sybille Schmitz), una delle figlie del castellano locale (Maurice Schutz), che giace fra la vita e la morte. Il padre chiede l'aiuto di Gray, inviandogli un libro che spiega i segreti dei vampiri: e il giovane, insieme alla sorella di Léone, Gisèle (Rena Mandel), e a un vecchio domestico (Albert Bras), riuscirà a sgominare la minaccia. Ispirato a "Carmilla" e altri racconti di Sheridan Le Fanu, un seminale film horror che – insieme al "Nosferatu" di Friedrich Wilhelm Murnau e al quasi contemporaneo "Dracula" di Tod Browning – ha contribuito a codificare il genere cinematografico dei vampiri. Qui il pericolo e le presenze maligne sono più soprannaturali e meno concrete rispetto alle altre pellicole citate: i veri vampiri non si vedono mai (la malvagia Marguerite Chopin controlla tutto dalla sua bara, sepolta nel cimitero locale) ed è soprattutto il loro influsso ad agire come una morsa di terrore sui personaggi, grazie anche all'aiuto di alcuni "succubi" umani, come il dottore del villaggio (Jan Hieronimko). Il ritmo lento e la costante sensazione di oppressione e irrequietezza, condita da immagini di vecchiaia e di morte, ai limiti dell'allucinato, fa collocare la pellicola a metà strada fra il cinema espressionista tedesco e quello surrealista (è stato descritto dalla critica "una meditazione surreale sul tema della paura"). Da notare soprattutto le ombre che si muovono da sole, ma anche la sequenza in soggettiva dalla bara, che fa parte del "sogno" di Gray, dopo che si è addormentato e "sdoppiato", con il suo alter ego onirico che osserva il mondo "in trasparenza". Accreditato come Julian West, l'attore protagonista era in realtà il barone Nicolas de Gunzburg, nobile francese di origine russo-ebraica, alla sua unica esperienza cinematografica prima di trasferirsi negli Stati Uniti dove lavorerà nel campo della moda e dell'editoria. La sua recitazione può sembrare monocorde, ma fu il regista a volere che si muovesse appunto come in un sogno, senza espressione e con i movimenti rallentati. La fotografia è di Rudolph Maté. Il film è il primo lavoro sonoro di Dreyer, anche se i dialoghi sono ridotti al minimo (furono girati in tre versioni: in tedesco, in francese e in inglese) e gran parte del linguaggio è quello del muto, compresi lunghi intertitoli. L'insuccesso commerciale e di critica fece sì che il regista non diresse un altro lungometraggio per oltre dieci anni, fino a "Dies irae" nel 1943, girato in Danimarca durante l'occupazione nazista.

11 gennaio 2022

Asakusa Kid (Gekidan Hitori, 2021)

Asakusa Kid (id.)
di Gekidan Hitori – Giappone 2021
con Yuya Yagira, Yo Oizumi
**1/2

Visto in TV (Netflix), in originale con sottotitoli.

Biopic sugli anni giovanili di "Beat" Takeshi Kitano (Yuya Yagira), quando esordiva come comico esibendosi sul palcoscenico del Français, un locale di spogliarelli nel distretto di Asakusa, a Tokyo, prima di dedicarsi al manzai – una forma di cabaret dialogato in coppia – in compagnia dell'amico Kiyoshi Kaneko (Nobuyuki Tsuchiya). Tratta dall'omonimo libro di memorie dello stesso Kitano, la pellicola si incentra quasi esclusivamente sul rapporto fra il giovane "Take" e il suo "maestro" Senzaburo Fukami (Yo Oizumi), il capo della compagnia di comici del Français, che lo prende sotto la sua ala protettrice e, con i suoi modi apparentemente scostanti, gli insegna praticamente tutto: l'arte della comicità irriverente e anticonvenzionale, la presenza sul palco ("Non farli ridere di te, falli ridere tu") e persino la passione per il tip tap. Vero e proprio co-protagonista della pellicola (se non protagonista principale), Fukami è un personaggio tragico e simpatetico, irrimediabilmente legato all'arte teatrale e che preferisce vivere in povertà piuttosto che tradire i propri valori. Per questo motivo vede di cattivo occhio i comici che la abbandonano per passare in televisione, come poi farà lo stesso Takeshi, anche se gli resterà legato (e orgoglioso dei suoi successi, frutto di una comicità all'avanguardia e politicamente scorretta) fino alla morte. Organizzato come una serie di flashback concatenati (ma il grosso della vicenda si svolge nei primi anni Settanta), il film ha una forte impronta umana, calda, nostalgica e commovente, distante dunque per molti versi dallo stile sardonico e distaccato delle pellicole che lo stesso Kitano dirigerà da regista: è un ritratto di un periodo storico in cui i locali di cabaret stavano entrando in crisi e perdevano spettatori, un momento di passaggio verso altre forme di espressione artistica. Peccato solo che il "vero" Kitano non abbia interpretato sé stesso da anziano (il film si apre e chiude con Takeshi, ai giorni nostri, che rende omaggio al suo vecchio maestro). Mugi Kadowaki è la spogliarellista Chiharu, aspirante cantante. Honami Suzuki è Mari, la moglie di Fukami. I titoli di coda sono in animazione.

10 gennaio 2022

Origini segrete (D. Galán Galindo, 2020)

Origini segrete (Orígenes secretos)
di David Galán Galindo – Spagna 2020
con Javier Rey, Brays Efe
**

Visto in TV (Netflix).

Per indagare su un serial killer che uccide le sue vittime "ricreando" le origini dei più celebri supereroi americani (da Hulk a Iron Man, da Batman all'Uomo Ragno), il detective madrileno David (Javier Rey) è costretto a chiedere l'aiuto di Jorge Elías (Brays Efe), appassionato cultore di comics e proprietario di un negozio di fumetti, nonché figlio del suo predecessore Cosme (Antonio Resines). Simpatica pellicola spagnola che da un lato ricorda i polizieschi alla "Seven" (con il killer che segue una particolare ossessione e semina indizi), dall'altro si iscrive al filone che cala gli elementi supereroistici nella realtà (alla "Unbreakable", con cui ha molto in comune). Nonostante evidenti limiti di scrittura e di respiro, si lascia guardare con interesse. Fra le tematiche: il riscatto e l'orgoglio dei nerd (anche il capo della sezione omicidi, la bella Norma (Verónica Echegui), è patita di manga e fa la cosplayer) e il concetto di eroe in un mondo dove non tutto è bianco o nero.

8 gennaio 2022

Indovina chi viene a cena? (Stanley Kramer, 1967)

Indovina chi viene a cena? (Guess who's coming to dinner)
di Stanley Kramer – USA 1967
con Spencer Tracy, Sidney Poitier
***1/2

Visto in TV (La7), per ricordare Sidney Poitier.

La ventitreenne Joanna Drayton (Katharine Houghton) torna a casa per presentare ai suoi genitori il suo nuovo fidanzato, il dottor John Prentice (Sidney Poitier), che ha conosciuto solo pochi giorni prima e che intende sposare di lì a breve. Piccolo "problema": lei è bianca, e lui è nero. E la cosa desta perplessità, preoccupazioni e riserve persino in una coppia che si dice di vedute aperte e che si è sempre dichiarata contraria a pregiudizi e discriminazioni (la vicenda si svolge a San Francisco, nella "liberale" California) come quella composta da Matt (Spencer Tracy) e Christina (Katharine Hepburn). Pellicola epocale, fra le prime ad affrontare a viso aperto una questione come quella dei rapporti e dei matrimoni interrazziali, che all'epoca, negli USA, erano ancora illegali in numerosi stati e comunque mal visti da (gran?) parte dell'opinione pubblica. L'impostazione è quasi teatrale, con una sceneggiatura (di William Rose) costruita sui dialoghi e un'ambientazione limitata (a parte alcune scene all'aperto, l'azione si svolge tutta nella casa dei Drayton e nell'arco di poche ore), mentre i toni sfiorano la commedia. E proprio la qualità dei dialoghi e degli interpreti (eccezionali soprattutto Tracy e la Hepburn, al nono e ultimo film insieme) permette al film di superare i limiti della pellicola a tesi, il cui messaggio antirazzista rischia di essere più importante di tutto il resto. In un certo senso i personaggi sono tutti positivi, persino quelli che più fanno resistenza alla relazione fra Joanna e John, ovvero i due padri (le madri, invece, accettano più in fretta la cosa) e la domestica di colore Tilly (Isabel Sanford), nel cui caso il razzismo è interiorizzato. Tutti anziani o membri di una generazione precedente, per la quale lo stato delle cose è dato per assodato: i più giovani, invece, sono maggiormente aperti al cambiamento e fiduciosi che il mondo stia procedendo rapidamente in una nuova direzione. "Tu ti consideri ancora un uomo di colore, mentre io mi considero un uomo", dice John al padre. La distanza fra vecchi e giovani è evidente in numerose altre scene: dal flirt fra il garzone e la cameriera, all'accettazione rapida da parte degli amici di Joanna, fino alla sequenza dell'incidente in macchina davanti alla gelateria.

Che John sia praticamente "perfetto" per maniere, educazione e professione (è un medico affermato e filantropo) è necessario non tanto per idealizzare il personaggio ma per far sì che l'unica ragione per non approvare il suo matrimonio con la figlia sia appunto quella legata al colore della sua pelle. Cosa che Matt inizialmente nega a sé stesso, giustificando il rifiuto con l'essersi trovato di fronte a un fatto compiuto e di aver avuto troppo poco tempo per elaborare il cambiamento. Ma dopo una serie di confronti fra i vari personaggi, spesso a due a due, il film culmina nel commovente discorso finale dello stesso Matt che suggella nel migliore dei modi la vicenda. Roy E. Glenn e Beah Richards sono i genitori di John, Cecil Kellaway è monsignor Ryan, il prete amico di famiglia. La Houghton era nella realtà la nipote della Hepburn (la figlia di sua sorella Marion). Poitier, dopo essere stato il primo attore di colore a vincere l'Oscar (con "I gigli del campo" nel 1964), con questo e altri film (come "La calda notte dell'ispettore Tibbs", uscito lo stesso anno), divenne un simbolo del cinema impegnato antirazzista. Spencer Tracy, al quarto film con Kramer, morì due settimane dopo la fine delle riprese: era già malato, ma aveva insistito per terminare il film. L'aspetto del protagonista del film d'animazione "Up" della Pixar è modellato sul suo personaggio. Una battuta sarcastica della domestica Tilly ("Indovina chi viene a cena?" – "Il reverendo Martin Luther King?") fu eliminata quando MLK venne assassinato nell'aprile del 1968, ma poi reintegrata nell'edizione in home video. La pellicola ricevette nove nomination agli Oscar, vincendo due statuette (la Hepburn come miglior attrice e la sceneggiatura). Infine, una curiosità sul linguaggio: nel doppiaggio italiano è ampiamente usata la parola "negro", e anche in originale si alternano "black" e "negro" (l'unica ricorrenza di "nigger" è in una frase rivolta da Tilly a John per offenderlo): evidentemente all'epoca la parola non era ancora tabù.

7 gennaio 2022

Jackie Brown (Quentin Tarantino, 1997)

Jackie Brown (id.)
di Quentin Tarantino – USA 1997
con Pam Grier, Samuel L. Jackson
***

Rivisto in TV (Netflix).

Ordell Robbie (Samuel L. Jackson), piccolo trafficante d'armi, fa uscire di prigione l'hostess Jackie Brown (Pam Grier), che sfrutta per trasferire all'estero il denaro da lui guadagnato, con l'intenzione di eliminarla come ha appena fatto con un altro complice, il sempliciotto Beaumont (Chris Tucker). Ma la donna, fiutata l'antifona, si allea con Max Cherry (Robert Forster), il prestanome che ha pagato la sua cauzione, per mettere lei stessa le mani sul bottino di Ordell. Il terzo lungometraggio di Quentin Tarantino è (almeno apparentemente) un film "minore" rispetto ai due capolavori che l'hanno preceduto (ovvero "Le iene" e "Pulp fiction"), anche se ha diverse cose in comune con quelli, a partire ovviamente dallo stile (i dialoghi sono il punto di forza, ma non mancano piani sequenza, split screen e altri virtuosismi di regia), dal cast corale e da una narrazione in parte decostruita (vedi la scena nel negozio di abbigliamento dove avviene lo scambio di denaro, mostrata più volte dal punto di vista dei diversi personaggi). La trama è tratta da un romanzo di Elmore Leonard, "Punch al rum" (il che ne fa l'unico film di Tarantino basato dichiaratamente su un soggetto non originale), di cui cambia però l'ambientazione (da Miami a Los Angeles) e alcuni dettagli, e l'intera operazione diventa così un omaggio alla blaxploitation, il genere cinematografico degli anni settanta di cui proprio Pam Grier era stata una delle protagoniste (con film come "Coffy" e "Foxy Brown", quest'ultimo citato persino attraverso il medesimo font nel titolo). Alla Grier, tornata così alla ribalta, Quentin affianca come suo solito un nutrito cast di stelle: Robert De Niro (Louis Gara, il complice di Ordell), Bridget Fonda (Melanie, una delle ragazze del gangster), Michael Keaton e Michael Bowen (i due poliziotti). Ogni personaggio o gruppo di personaggi persegue i propri interessi, spesso in contrasto fra di loro, ma alla fine i "buoni" sono quelli interpretati dalla Grier e da Forster. Pur dilungandosi un po', il film risulta più che gradevole, anche perché realizzato quando l'estrema derivatività, il citazionismo e l'incartocciarsi su sé stesso del buon Quentin erano ancora più un pregio che un difetto. Fra le mille citazioni: l'incipit sul rullo trasportatore all'aeroporto ricorda quello de "Il laureato"; Jackson e De Niro parlano di cinema di Hong Kong (ma il doppiaggio italiano traduce maldestramente "The killer" di John Woo come "L'assassino"); e diverse scene (come la visuale dal portabagagli dell'auto) richiamano gli stessi lavori precedenti di Tarantino. La trasmissione televisiva "Chicks who love guns" non esiste in realtà, ed è stata ideata apposta per il film. Nella colonna sonora spiccano i brani dei Delfonics. Curiosità: l'anno seguente Michael Keaton interpreterà lo stesso personaggio (l'agente Ray Nicolette) in un altro film tratto da un romanzo di Leonard, "Out of sight". Anche Ordell e Louis torneranno in un'altra pellicola, prequel di questa, "Scambio a sorpresa" del 2013.

5 gennaio 2022

Il tempo si è fermato (Ermanno Olmi, 1959)

Il tempo si è fermato
di Ermanno Olmi – Italia 1959
con Natale Rossi, Roberto Seveso
***

Visto in TV (RaiPlay).

Il giovane studente Roberto (Seveso) trova lavoro durante il periodo invernale come guardiano presso la diga dell'Adamello, in alta montagna, in sostituzione di un collega, e raggiunge così l'anziano Natale (Rossi), che già si trova sul posto. All'inizio la convivenza fra i due è difficile, avendo poco in comune, a partire dall'età, dal carattere (esuberante l'uno, taciturno l'altro) e dall'esperienza: ma pian piano, da soli in una baracca sferzata dalla neve e immersa nel silenzio, diventeranno amici, complice anche una notte difficile per via di una tempesta. Il primo lungometraggio di Ermanno Olmi, girato con attori non professionisti, quasi non ha trama e punta sul realismo nel descrivere le condizioni di vita e i rapporti fra i due personaggi. Olmi aveva inizialmente concepito il progetto come documentario per conto della Edison-Volta, la compagnia energetica per la quale lavorava e per cui aveva già filmato numerosi cortometraggi aziendali. La semplicità dei personaggi, il realismo dell'ambientazione, le emozioni pure e distillate che vengono alla luce con facilità e senza la necessità di ricorrere a colpi di scena o a trovate drammaturgiche, favoriscono l'immersione dello spettatore in un quadro minimalista dove la natura stessa (la montagna, la neve, il silenzio) è protagonista al pari dei due uomini. Anche la regia si adegua, risultando rigorosa e rifuggendo la spettacolarità. Gran parte dei dialoghi, soprattutto quando parla Natale, sono in dialetto. Il titolo è identico a quello di un (bel) thriller americano del 1948.

4 gennaio 2022

Un viaggio a quattro zampe (C.M. Smith, 2019)

Un viaggio a quattro zampe (A Dog's Way Home)
di Charles Martin Smith – USA 2019
con Jonah Hauer-King, Ashley Judd
**

Visto in TV (Rai 1), con Sabrina.

Per tornare a casa dal suo padrone Lucas (Hauer-King), che l'ha adottata, la cagnolina randagia Bella affronta da sola un lungo viaggio di 650 chilometri, dal New Mexico al Colorado, attraversando (nel corso di oltre due anni) città e parchi naturali e affrontando i pericoli della natura e dell'uomo. Sulla falsariga di "Torna a casa, Lassie", un film d'avventura con protagonista canino: poco originale e pieno di cliché, ma anche moderatamente realistico, ottimamente realizzato e – quando sono di scena gli animali – avvincente e a tratti commovente. Se non mancano inevitabili tocchi di retorica, la sceneggiatura non è però del tutto superficiale e infantile, visto che non si premura di nascondere o edulcorare aspetti negativi o paurosi, come la morte. Memorabile l'amicizia fra Bella e un cucciolo di puma, da lei soprannominata "Gattina Gigante", fra le montagne del Colorado. La voce narrante della protagonista, che si rivolge agli spettatori, in originale è di Bryce Dallas Howard. Gli altri animali invece non parlano. Nel cast "umano" anche Ashley Judd, Alexandra Shipp, Edward James Olmos, Brian Markinson e Wes Studi.

3 gennaio 2022

Lo schiavo di Cartagine (Luigi Maggi, 1910)

Lo schiavo di Cartagine
di Luigi Maggi [e Arturo Ambrosio, Roberto Omegna] – Italia 1910
con Alberto Capozzi, Mary Cleo Tarlarini
*1/2

Visto su YouTube.

Cartagine è sotto assedio, e i sacerdoti chiedono al generale Asdrubale il sacrificio di una vergine per placare la collera degli dèi. La scelta ricade su una giovane schiava, punita dal proprio padrone per aver rifiutato il suo amore. Ma sarà salvata dal suo promesso sposo, un pastore, che la sottrae appena in tempo al suo crudele destino: insieme i due riusciranno a fuggire dalla città. Sulla falsariga de "Gli ultimi giorni di Pompei", il film che due anni prima aveva fatto la fortuna della casa di produzione torinese Ambrosio Film, un'altra pellicola romantica a sfondo epico, sia pure molto meno interessante della precedente. Set e costumi sono di impostazione teatrale, e mancano elementi cinematografici degni di nota, compresi effetti speciali di alcun genere. Da segnalare giusto alcune inquadrature che giocano con la profondità, la luce e la penombra, mostrando l'esterno da un interno buio (la stanza in cui è rinchiusa la schiava, l'ingresso dei sacerdoti nella reggia, le belve feroci liberate durante la fuga), nonché la scena finale dei due amanti sulla barca che, se non proprio un primo piano, è quantomeno un piano medio che consente di apprezzare nel dettaglio l'espressione dei volti. La sceneggiatura è di Arrigo Frusta, la (bella) fotografia di Giovanni Vitrotti. La scena del sacrificio davanti alla statua di Baal-Moloch, pur modesta, sembra quasi anticipare "Cabiria". Un titolo più appropriato sarebbe stato "La schiava di Cartagine".

Il diavolo zoppo (Luigi Maggi, 1909)

Il diavolo zoppo
di Luigi Maggi – Italia 1909
con Ernesto Vaser, Gigetta Morano
**

Visto su YouTube.

Per sfuggire alle mire di Tomasa (Gigetta Morano), che intende sposarlo con l'inganno, il giovane Leandro (Ernesto Vaser) si rifugia nella casa di un alchimista. Qui trova Asmodeo (Ercole Vaser), il diavolo zoppo, tenuto prigioniero in una bottiglia, e lo libera. Riconoscente, il diavolo lo aiuterà prima a vendicarsi di Tomasa e poi a salvare la principessa Serafina e a conquistarne l'amore. Da un romanzo di inizio Settecento del francese Alain-René Lesage, ambientato a Madrid, una fiaba che fa uso di effetti speciali (come il "volo" di Leandro e Asmodeo sopra i tetti della città) e trucchi ottici. Prodotto dalla Ambrosio Film (per la quale Maggi aveva realizzato, l'anno prima, la pellicola di grande successo "Gli ultimi giorni di Pompei"), il film mescola con disinvoltura scene girate in studio e location in esterni, ha un buon ritmo narrativo e una discreta varietà di situazioni e ambientazioni. Da segnalare anche le sequenze che Leandro osserva attraverso la lente magica.