25 settembre 2021

The company (Robert Altman, 2003)

The Company (id.)
di Robert Altman – USA 2003
con Neve Campbell, Malcolm McDowell
**1/2

Visto in TV (Prime Video).

Quasi senza trama, il film segue le vicissitudini di una compagnia di danza moderna, guidata dal direttore artistico italo-americano Alberto Antonelli (Malcolm McDowell), mentre prova e poi mette in scena una serie di balletti. Fra i vari membri del corpo di ballo spicca la giovane Ry (Neve Campbell), che dimostra tutto il suo talento interpretando una difficile coreografia in uno spettacolo all'aperto, mentre nel cielo soprastante infuria una tempesta. Le prove e gli allenamenti, le lunghe sequenze dei balletti, le bizzarre scenografie, sono punteggiate da piccoli incidenti (l'infortunio a una ballerina, la ridistribuzione dei ruoli) e intervallate da momenti di svago o di vita quotidiana – Ry, che si guadagna da vivere come cameriera, inizia a frequentare un giovane cuoco, Josh (James Franco) – senza però mai sfiorare luoghi comuni o melodrammaticità: di fatto è quasi un documentario più che un film narrativo. Buona comunque la caratterizzazione dei personaggi. Neve Campbell, che da giovane ha studiato balletto, è anche co-autrice del soggetto, poi sceneggiato da Barbara Turner (la madre di Jennifer Jason Leigh). Altman, ovviamente, si trova a proprio agio nel dirigere un film corale, il cui risultato finale è dato dalla somma (o dalla sovrapposizione) di tanti elementi. I danzatori sono quelli del Joffrey Ballet di Chicago, e il personaggio interpretato da McDowell si ispira a Gerald Arpino, fondatore della compagnia in questione.

23 settembre 2021

La donna del lago (L. Bazzoni, F. Rossellini, 1965)

La donna del lago
di Luigi Bazzoni, Franco Rossellini – Italia 1965
con Peter Baldwin, Virna Lisi
**

Visto su YouTube.

Bernard (Peter Baldwin), scrittore in crisi esistenziale, torna nel paese sul lago fra le montagne dove sin da ragazzo si recava in villeggiatura. Ma il paese, e in particolare l'albergo in cui alloggia, è scosso da alcune morti misteriose: dapprima Tilde (Virna Lisi), la giovane e bella cameriera di cui lo stesso Bernard si era invaghito, apparentemente vittima di suicidio; e poi Adriana (Pia Lindström), l'evanescente moglie di Mario (Philippe Leroy), figlio del padrone dell'albergo (Salvo Randone), che annega nelle acque del lago dopo una delle sue strane passeggiate notturne... Dal romanzo omonimo di Giovanni Commisso (dal titolo "rossiniano", o meglio tratto dal poema di sir Walter Scott), il primo film di Luigi Bazzoni – che firma la regia in coppia con Franco Rossellini; la sceneggiatura invece è di Giulio Questi, insieme ai due registi e a un Ernesto Gastaldi non accreditato – è un giallo morboso ma senza troppo nerbo, ispirato ai "misteri di Alleghe" (anche se la pellicola è stata girata a Bolsena e a Brunico), serie di delitti che scossero l'opinione pubblica nel dopoguerra. La risoluzione della vicenda, peraltro non troppo imprevedibile (e che si rifà ai primi due dei suddetti delitti), giunge all'improvviso nel finale: quel che conta, però, è l'atmosfera di angoscia e alienazione del protagonista, testimoniata dalle frequenti scene oniriche, che la fotografia di Leonida Barboni ammanta di una particolare luminosità, nelle quali l'uomo si immagina retroscena e confessioni dei personaggi che gli stanno attorno. Valentina Cortese è Irma, la sorella di Mario; Piero Anchisi è Francesco, il proprietario del negozio di foto che accompagna Bernard nelle sue "indagini"; Ennio Balbo è l'ispettore di polizia. Musiche di Renzo Rossellini.

21 settembre 2021

I Mitchell contro le macchine (M. Rianda, 2021)

I Mitchell contro le macchine (The Mitchells vs the Machines)
di Mike Rianda, Jeff Rowe – USA 2021
animazione digitale
**

Visto in TV (Netflix).

Famiglia scalcinata e disfunzionale (soprattutto per via del difficile rapporto fra la figlia maggiore, Katie, aspirante cineasta in procinto di trasferirsi in un college in California, e il padre Rick, appassionato di natura e sopravvivenza che non sembra comprendere o apprezzare i talenti della giovane adolescente), i Mitchell sono tutt'altro che perfetti: eppure toccherà a loro salvare il mondo quando i robot prodotti dal guru dell'elettronica di consumo Mark Bowman (una sorta di Steve Jobs), capeggiati da un'intelligenza artificiale contenuta in un telefono cellulare, cercheranno di impadronirsi del pianeta. Divertente film d'animazione, prodotto da Phil Lord e Christopher Miller (quelli di "Piovono polpette" e "Lego Movie"), co-sceneggiato con Jeff Rowe e diretto da Mike Rianda, che si sarebbe ispirato (pare) alle dinamiche della sua stessa famiglia e ai ricordi dei viaggi in auto durante le vacanze estive. Per riallacciare i rapporti con Katie, infatti, Rick si propone di accompagnarla al college in auto insieme al resto della famiglia (la madre Linda, "collante" che si sforza di tenere unito il gruppo, e il figlio piccolo Aaron, appassionato di dinosauri). Della comitiva fanno parte anche il cane strabico Monchi e due dei robot cattivi, diventati buoni perché difettosi. Simpatico e vivace, il film – come gran parte dell'intrattenimento su larga scala di Hollywood – insiste ripetutamente sui suoi messaggi, veicolati praticamente ogni due minuti a beneficio di uno spettatore distratto: l'unità della famiglia, che deve rimanere tale anche quando uno dei figli è ormai adulto e vorrebbe andare per la propria strada, e l'eccessiva dipendenza dalle tecnologie (cellulari ed elettrodomestici smart in primis), che fra le altre cose rappresentano una barriera fra le generazioni più giovani e quelle più anziane e meno avvezze all'uso dei computer. Il tutto avvolge di retorica non necessaria quella che sarebbe stata una divertente avventura che gioca con i cliché delle pellicole di fantascienza apocalittica (evidenti i rimandi a "Terminator"), diminuendo in parte la gradevolezza dell'insieme, anche se il parallelo fra l'interconnessione digitale e quella famigliare (il titolo del film, in un primo momento, avrebbe dovuto essere proprio "Connected") non è banale. Fra le righe si capisce che Katie è lesbica. Interessanti il disegno e l'animazione, che combinano varie tecniche (dal collage al tratto a matita), in maniera non dissimile da "Spider-Man: Un nuovo universo" (dove già c'era lo zampino di Phil Lord). La pellicola sarebbe dovuta uscire nei cinema a inizio 2020, poi – un po' per motivi commerciali, un po' per via del Covid – è stata posticipata più volte, fino a essere distribuita direttamente in TV, sulla piattaforma Netflix.

20 settembre 2021

Body bags (J. Carpenter, T. Hooper, 1993)

Body bags - Corpi estranei (Body Bags)
di John Carpenter, Tobe Hooper [e Larry Sulkis] – USA 1993
con Alex Datcher, Stacy Keach, Mark Hamill
**

Visto in TV (Prime Video).

Antologia di tre episodi horror, nello stile de "I racconti della cripta" o "Ai confini della realtà". L'intenzione era proprio quella di farne una serie televisiva come le suddette, ma durante le riprese il canale tv che le aveva commissionate si tirò indietro, e allora il girato fu trasformato in un film per le sale. Curiosità: due episodi su tre hanno a che fare con trapianti (rispettivamente di capelli e di un occhio). In "La stazione di rifornimento" (diretto da John Carpenter), durante il turno di notte alla cassa di una stazione di servizio, una ragazza (Alex Datcher) deve vedersela con un maniaco omicida (Robert Carradine). In "Hair" (accreditato sempre a Carpenter, ma in realtà diretto anche da Larry Sulkis), un uomo ossessionato dalla perdita dei capelli (Stacy Keach) si sottopone a un trapianto sperimentale: ma le cose non andranno come avrebbe voluto... In "Eye" (diretto da Tobe Hooper), un promettente giocatore di baseball (Mark Hamill) perde l'occhio in un incidente stradale. Gli verrà trapiantato quello di un efferato assassino, che gli provocherà strane allucinazioni... Sono tre storie horror oneste ma in fondo prevedibili (anche con i finali a sorpresa), accompagnate da sceneggiature di stampo (e di livello) televisivo. La cosa più interessante sono forse le sequenze introduttive e di raccordo, dai toni comico-grotteschi e ambientate in un obitorio, dove lo stesso Carpenter, nei panni di un inquietante medico legale, funge da cicerone (una sorta di zio Tibia), presentandoci i cadaveri rinchiusi nei sacchi (da cui il titolo del film) e raccontandone le storie: nel finale a lui si aggiungono anche Tom Arnold e Tobe Hooper. Sparsi per gli altri episodi ci sono camei anche per David Naughton, Sam Raimi, Wes Craven, Roger Corman e Greg Nicotero. David Warner è il dottore nel secondo segmento, Twiggy la moglie di Mark Hamill nel terzo.

18 settembre 2021

Il pianeta proibito (Fred M. Wilcox, 1956)

Il pianeta proibito (Forbidden Planet)
di Fred M. Wilcox – USA 1956
con Leslie Nielsen, Anne Francis, Walter Pidgeon
***

Rivisto in divx.

"Anne Francis stars in Forbidden Planet..."

In missione sul quarto pianeta del sistema di Altair per indagare sul destino di una spedizione di scienziati giunta lì vent'anni prima e di cui non si è più avuto notizia, i membri dell'equipaggio di un incrociatore stellare vi trovano un unico superstite, il dottor Morbius (Walter Pidgeon), che vive lì con la figlia Alta (Anne Francis) e un robot-tuttofare, Robby. Impegnato a decifrare i segreti del Krell, una razza di creature intelligenti ed evolute che un tempo – prima di sparire nel nulla lasciando dietro di sé sofisticate apparecchiature tecnologiche – abitava sul pianeta, Morbius si mostra scostante verso i nuovi arrivati, invitandoli in ogni modo a ripartire. Ma gli eventi prenderanno una brutta piega quando i soldati si scopriranno attaccati da un misterioso mostro invisibile... Con un soggetto vagamente ispirato alla "Tempesta" di William Shakespeare (il mostro, scopriremo, è fatto "della sostanza di cui sono fatti i sogni"), una pellicola di fantascienza che ha fatto storia, probabilmente la più popolare e celebre nel suo genere fino ad allora. Molti aspetti – l'astronave "militare" che va a esplorare nuovi mondi, la rigida suddivisione nei ruoli dell'equipaggio (il comandante, il dottore...), gli elementi tecnologici da hard SF mescolati al tema dei viaggi interstellari (anche se l'astronave ha ancora l'aspetto del classico disco volante) – sono evidentemente precursori di "Star Trek", mentre lo sforzo produttivo e i notevoli effetti speciali (in particolare le animazioni, opera di Joshua Meador della Disney) ci fanno comprendere di non trovarci di fronte al solito B-movie. Persino elementi tutto sommato marginali nella trama, come il robot Robby, sono diventati iconici: talmente popolare da essere in seguito riutilizzato in numerose altre opere cinematografiche, televisive ("Lost in space") o a fumetti, Robby risponde (fra le altre cose) alle leggi della robotica di Asimov (è impossibilitato a fare del male agli esseri umani), ha una propria personalità che lo rende un vero personaggio in grado di interagire con gli umani, e divenne forse il robot più celebre del cinema dai tempi del "Metropolis" di Fritz Lang, tanto da essere commercializzato sotto forma di giocattolo (uno dei primi casi di merchandising!). Nonostante un ritmo che oggi forse può risultare un po' datato e noiosetto, il film affascina con il suo mix di avventura, horror e psicologia (i "mostri dell'Id" sono prodotti dal subcosciente degli esseri umani). La bella Anne Francis, all'esordio, sarà ricordata nella canzone "Science Fiction" del "Rocky Horror Show". Leslie Nielsen, che interpreta il comandante, diventerà naturalmente famoso in tarda età come attore comico (e vederlo recitare in maniera "seria" è sempre un po' straniante!). Nel cast anche Warren Stevens (il dottore) e Jack Kelly (il tenente dongiovanni). Da segnalare la colonna sonora elettronica di Bebe e Louis Barron.

16 settembre 2021

Climax (Gaspar Noé, 2018)

Climax (id.)
di Gaspar Noé – Francia 2018
con Sofia Boutella, Romain Guillermic
**1/2

Visto in TV (Prime Video).

Per prepararsi a una tournée negli Stati Uniti, un gruppo di giovani ballerini si rinchiude nel grande salone di una scuola di danza con lo scopo di provare la coreografia, mentre all'esterno infuria una tempesta di neve. Ma per qualche strano motivo (forse una droga aggiunta alla sangria che bevono dopo le prove), lentamente si fanno prendere dalla follia e dalla disinibizione e danno vita a episodi di paranoia e di violenza. Insolito nello stile, nella struttura (i titoli di coda sono all'inizio, quelli di testa a metà del film), nel montaggio (che alterna lunghissimi piani sequenza ad altri momenti più frammentati), nelle inquadrature (basti pensare a tutta la sequenza conclusiva, il "climax" del film appunto, girata con la telecamera capovolta), nell'accompagnamento sonoro (con incessanti brani di musica elettronica, che comprendono, fra gli altri, arrangiamenti di Erik Satie, Giorgio Moroder e Daft Punk), e in generale della direzione degli interpreti (tutti autentici ballerini anziché attori professionisti – Boutella e Souheila Yacoub a parte – ai quali Noé ha chiesto di improvvisare in totale libertà: la sceneggiatura vera e propria, ispirata a un episodio reale, era di sole cinque pagine, e il tutto è stato girato in pochi giorni!), il lungometraggio è un'angosciante e allucinata discesa all'inferno, fra atmosfere ipnotiche e orgiastiche, che non lesina provocazioni. Dalla danza (ricca di energia e sensualità, ai limiti della possessione: Noé si è ispirato ai cosiddetti "vogueing" e "krumping") e dalle interazioni fra i personaggi si passa prima a discorsi sul sesso e la violenza e poi alla completa perdita di controllo da parte dei ventiquattro personaggi, tutti ben caratterizzati dai rispettivi interpreti con pochi tocchi. Si prova disagio, non solo per il crescendo di follia ma anche perché la storia non porta a nulla se non all'evidenziare come gli aspetti negativi e selvatici degli esseri umani siano sempre lì, addormentati dietro la coscienza e pronti a venire alla luce. Le provocazioni registiche non si limitano al piano formale ma spaziano anche a quello contenutistico, per esempio attraverso le scritte godardiane in sovrimpressione che punteggiano la pellicola (a partire dalla presentazione, "Un film francese e fiero di esserlo", per terminare con aforismi come "Vivere è una collettività impossibile" e "Morire e un'esperienza straordinaria"). Nella fotografia di Benoît Debie prevale il colore rosso: negli abiti, nel pavimento, nella sangria, nel sangue, e infine nelle luci. Le coreografie del ballo sono di Nina McNeely. La sequenza iniziale con le video-interviste ai ballerini chiarisce subito i debiti e le fonti di ispirazione del film: a fianco del monitor, infatti, sono impilati libri e videocassette, fra le quali spiccano "Suspiria" di Dario Argento e "Salò" di Pier Paolo Pasolini (oltre a Żuławski, Fassbinder, Romero...). Di fronte all'accoglienza positiva della critica (il film ha vinto anche alcuni premi ai festival internazionali), Noé – noto per i suoi lavori controversi e provocatori – ha scherzato: "Devo aver sbagliato qualcosa".

15 settembre 2021

11 minuti (Jerzy Skolimowski, 2015)

11 minuti (11 minut)
di Jerzy Skolimowski – Polonia/Irlanda 2015
con Wojciech Mecwaldowski, Paulina Chapko
*1/2

Visto in TV (RaiPlay), in originale con sottotitoli.

Diverse storie, con protagonisti numerosi personaggi, scorrono parallele nell'arco di 11 minuti (dalle 17.00 alle 17.11) in una grande città (il film è stato girato a Varsavia, ma in parte anche a Dublino), prima di convergere tutte in un finale... esplosivo. La principale vede Anna (Paulina Chapko), aspirante attrice, recarsi nella camera d'albergo di Richard (Richard Dormer), ambiguo produttore/regista che vuole approfittarsi di lei, mentre suo marito (Wojciech Mecwaldowski) cerca in ogni modo di fare irruzione nella stanza. Seguiamo anche, fra gli altri, un professore di liceo costretto a riciclarsi come venditore di hot dog (Andrzej Chyra), suo figlio che lavora come corriere (Dawid Ogrodnik), un giovane ladruncolo (Lukasz Sikora), un anziano pittore (Jan Nowicki), una coppia di scalatori (Piotr Głowacki e Agata Buzek), una ragazza punk con il suo cane (Ifi Ude), una dottoressa in ambulanza (Anna Maria Buczek). Il messaggio è che nel casuale brulicare della città, le esistenze di tanti sconosciuti possono collidere o influenzarsi l'un l'altra nei modi più impensati. Un incontro o un rapporto di cause ed effetto è sempre dietro l'angolo, così come elementi in comune possono legare insieme persone che conducono vite separate anche se abitano fianco a fianco. Le varie storie, come le vite delle persone, sfiorano e nascondono temi complessi, negativi (gelosia, disadattamento, droga, pornografia, pedofilia) o positivi (amore, parentele, gentilezza, arte), con alcuni elementi che condividono all'insaputa di tutti (la "macchia scura" nel cielo, che si ritrova nel disegno del pittore o nel "pixel morto" sugli schermi di sorveglianza della polizia, che a loro volta nel finale riuniscono tutte le immagini in un unico, caleidoscopico e confuso ritratto della vita). Peccato che l'insieme convinca poco: anche se la regia, variegata e multiforme, ricorre a varie tecniche di ripresa (si pensi al collage di video che apre la pellicola), sembra più di trovarsi di fronte a un esercizio di stile che a un vero film. E gran parte delle vicende rimangono senza una conclusione soddisfacente, anche se proprio questo era il punto (il caso domina le esistenze, rendendo inutile ogni pianificazione o tentativo di dar loro una svolta).

13 settembre 2021

Shazam! (David F. Sandberg, 2019)

Shazam! (id.)
di David F. Sandberg – USA 2019
con Zachary Levi, Asher Angel
**

Visto in TV (Netflix).

Grazie alla magia di un antico e misterioso mago (Djimon Hounsou), il quattordicenne Billy Batson (Asher Angel) diventa in grado di trasformarsi in un supereroe (Zachary Levi) con un nutrito ventaglio di superpoteri. Peccato che, anche in un corpo adulto e muscoloso, la sua mente resti quella di un bambino... Dopo aver cercato – insieme al fratello adottivo Freddy (Jack Dylan Grazer), entusiasta patito di fumetti – di comprendere meglio quali siano le proprie capacità, dovrà usarle per combattere il malvagio dottor Sivana (Mark Strong), che ha risvegliato i demoni che personificano i sette peccati capitali. Il personaggio al centro di questo film (che fa parte dell'universo DC, lo stesso di Batman e Superman, come ci confermano i numerosi riferimenti a questi due eroi) ha una lunga e curiosa storia alle spalle: nato negli anni quaranta sulla carta stampata con il nome di "Captain Marvel", per un decennio fu il fumetto di supereroi più venduto in assoluto, surclassando come popolarità anche Superman. La DC Comics, però, fece causa alla casa che lo pubblicava, la Fawcett, sostenendo che fosse una copia del suo personaggio. E negli anni settanta, ironicamente, ne acquisì i diritti, integrandolo nel proprio universo. Nel frattempo, però, era nata la Marvel: e intitolare un albo a fumetti con il nome della propria principale concorrente non era forse il caso. Così l'albo è stato rinominato "Shazam!" (la parola che Billy grida per trasformarsi, acronimo di coloro da cui prende le abilità: Salomone, Hercules, Atlante, Zeus, Achille e Mercurio) mentre il personaggio continuava a chiamarsi "Capitan Marvel", almeno fino agli anni duemila, quando quest'ultimo nome (che nel frattempo è andato a designare anche diversi eroi della Casa delle Idee: vedi per esempio il recente film con Brie Larson) è stato abbandonato, e ora l'eroe si chiama ufficialmente Shazam. Alla cosa si fa riferimento comicamente nella sceneggiatura, con Freddy che suggerisce a Billy diversi "nomi da supereroe" che non fanno mai presa (da Captain Sparklefingers a Mister Philadelphia, da Red Cyclone a Maximum Voltage).

Il tema del ragazzino che si ritrova all'improvviso nel corpo di un supereroe è indubbiamente l'aspetto più interessante della pellicola, ma la sceneggiatura di Henry Gayden ci gioca solo fino a un certo punto: per fare un esempio recente, una situazione analoga era stata raccontata molto meglio in "Jumanji: Benvenuti nella giungla". Non aiuta il fatto che Asher Angel sia già praticamente un teenager, quindi più grande del Billy Batson dei fumetti che era solo un bambino, e dunque il suo comportamento infantile quando è trasformato in Shazam (vedi le esclamazioni "Santa polenta!") sembrano fuori luogo. Ma l'impostazione comica e parodistica ha il suo perché e nel complesso risulta divertente e gradevole, con echi del vecchio telefilm "Ralph supermaxieroe" (Shazam è goffo e impacciato, quasi a disagio quando usa i suoi poteri) mescolati con l'ossessione dei ragazzi per la popolarità e i social (Billy e Fred pubblicano le proprie imprese su YouTube). In generale, la scoperta delle proprie capacità e di come usarle è una chiara metafora della crescita e dell'ingresso nell'età adulta. Sarebbe bastato questo, e invece il film la appesantisce con l'insistenza sul tema della famiglia (sia il buono che il cattivo hanno alle spalle una storia di incomprensione e di esclusione: in generale, le due backstory parallele sono la cosa meno riuscita della pellicola), anche se in qualche modo era connaturato anche al fumetto: vedi la "Marvel family" che appare nel finale, con i fratelli e le sorelle adottive di Billy – oltre a Freddy, anche Mary (Grace Fulton), Darla (Faithe Herman), Eugene (Ian Chen) e Pedro (Jovan Armand) – che a loro volta vengono dotati di poteri per aiutare il protagonista nella sua battaglia. Fra i punti negativi anche l'inevitabile ossessione per l'inclusività (neanche a sceglierli apposta, del gruppo fanno "democraticamente" parte un nero, un asiatico, un latino-americano... inoltre uno è disabile, uno è ciccione, uno è video-dipendente...) e il fatto che i "sette peccati capitali" siano solamente dei generici mostroni. La storia si svolge a Filadelfia. Un sequel ("Shazam! Fury of the Gods") è in arrivo nel 2023.

11 settembre 2021

Matrix Revolutions (Wachowski, 2003)

Matrix Revolutions (The Matrix Revolutions)
di Andy e Larry Wachowski – USA 2003
con Keanu Reeves, Carrie-Anne Moss
*1/2

Rivisto in divx.

Terzo episodio di "Matrix", girato in contemporanea al secondo e che nelle intenzioni avrebbe dovuto concludere la trilogia (mentre scrivo è invece in preparazione un quarto capitolo). Avevamo lasciato Neo (Reeves) in coma, al termine del precedente "Matrix Reloaded", dopo essere riuscito in qualche modo a usare i suoi poteri contro le macchine anche al di fuori del mondo virtuale di "Matrix". La sua coscienza si trova ora in una sorta di "limbo", da dove viene recuperato dai suoi amici – Trinity e Morpheus, aiutati per l'occasione dal misterioso Seraph (Collin Chou) – che hanno avuto la meglio sul Merovingio. Mentre Zion, la città sotterranea degli ultimi uomini liberi, è assediata dalle terribili "seppie", Neo comprende che l'unico modo per ottenere la fine della guerra è quello di andare a trattare direttamente con le macchine nel loro quartier generale. Qui proporrà un patto: in cambio della pace, sconfiggerà definitivamente l'agente Smith (Hugo Weaving), programma senziente ormai sfuggito ad ogni controllo, che replicandosi come un virus ha già invaso ogni angolo di Matrix e minaccia di impadronirsi anche del mondo esterno (dove è già giunto una volta, "infettando" Bane (Ian Bliss), uno dei soldati umani). Se la sceneggiatura tira le fila della vicenda, il film – stroncato da pubblico e critica – ne banalizza anche la complessità e completa definitivamente il distacco dalle tematiche che avevano fatto la fortuna dell'originale. Basti pensare che, a parte un incipit peraltro verboso e pretenzioso (costellato com'è di dialoghi costituiti da una serie di domande e risposte fumose, piene di filosofia spicciola sull'amore e il karma) e lo scontro conclusivo con Smith, la maggior parte dell'azione non si svolge nel mondo virtuale che dà il nome alla serie ma in quello reale (con la fotografia che passa dai toni dominanti di verde a quelli di blu), impegnati a seguire l'assedio delle "seppie" contro la città di Zion, difesa da soldati in esoscheletri metallici. Messa da parte ogni suggestione filosofica o concettuale, il film si trasforma dunque in una pellicola fracassona di fantascienza bellica, allontanandosi dalle radici cyberpunk e dai temi digitali/informatici (retrò o meno), i cui pochi elementi superstiti annegano in un mare di genericità e di fuffa. Ancora più imperdonabile, pertanto, è l'anticlimaticità del finale. Le macchine tanto temute, che tengono prigionieri da oltre un secolo gli esseri umani, non solo non vengono sconfitte ma si scende a patti con esse, con la scusa di un "nemico comune" da debellare (ovvero Smith, contro cui Neo si batte nell'unica sequenza degna di essere ricordata, lo scontro nella città sotto la pioggia). La trovata delude su più fronti, compresa la sua pretestuosità e la maniera improvvisa con cui viene calata sul tavolo da gioco (e forse i Wachowski ne erano in parte consapevoli, visto il nome – "Deus ex machina"! – che hanno dato al "re delle macchine"). Poco cerimonioso anche il destino dei tre personaggi classici della serie: Neo e Trinity escono (per ora) di scena, Morpheus è ridotto a un semplice comprimario, mentre è incredibile la quantità di tempo e spazio sprecata a seguire personaggi minori, di cui non ci importa nulla, durante l'assedio di Zion (Zee, Kid, Mifune...). Fra le new entry anche l'Uomo del Treno (Bruce Spence), programma al servizio del Merovingio. Mary Alice sostituisce Gloria Foster nel ruolo dell'Oracolo. Il quarto capitolo, diretto dalla sola Lana (ex Larry) Wachowski, dovrebbe chiamarsi "Matrix Resurrections".

9 settembre 2021

Il bandito delle 11 (Jean-Luc Godard, 1965)

Il bandito delle 11 (Pierrot le fou)
di Jean-Luc Godard – Francia 1965
con Jean-Paul Belmondo, Anna Karina
***

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Intellettuale e insegnante di spagnolo, sposato a Parigi con una ricca italiana, l'insoddisfatto Ferdinand (Belmondo) ritrova per caso una sua ex studentessa, Marianne (Karina), con cui aveva avuto in passato una relazione e che si ostina a chiamarlo Pierrot (per via della canzone "Au clair de la lune"), e decide di mollare tutto per scappare insieme a lei. Durante la rocambolesca fuga verso il sud della Francia, i due commetteranno furti e rapine, intrecceranno una relazione romantica che procederà fra alti e bassi, e saranno implicati in un misterioso intrigo internazionale. Già protagonista del film d'esordio di Godard (l'iconico "Fino all'ultimo respiro", di cui questo è un discendente diretto), Belmondo torna in una pellicola decostruita e che sembra improvvisata sul momento, senza una trama in mente (anche se in realtà non è così, e la pellicola porta avanti il discorso artistico del regista). E infatti ogni sequenza pare virare il film in una direzione diversa, o addirittura appartenere a un genere cinematografico differente: si passa dal descrivere l'alienazione e la noia della borghesia, al gangster movie con tradimenti e omicidi, dalla fuga romantica e liberatoria (con echi delle vicende di Bonnie e Clyde) alla ricerca di vita in mezzo alla natura, dal musical – con un paio di graziose canzoni intonate all'improvviso dalla ragazza, in particolare la bella "Ma ligne de chance" nella pineta – alla commedia sofisticata, dal thriller politico e legato all'attualità – il misterioso fratello di Marianne è in qualche modo coinvolto nei tumulti in Medio Oriente – al surrealismo con la scena conclusiva, quasi da fumetto, in cui Ferdinand si dipinge il volto di blu e si fa saltare in aria con la dinamite, in quella che qualcuno ha definito "la conclusione esplosiva del primo periodo godardiano". A legare il tutto, i pensieri e le parole dei due protagonisti che, come voci narranti (e spesso intersecanti o alternate), commentano ogni scena, le introducono come se fossero capitoli di un romanzo (ma la numerazione dei suddetti capitoli è del tutto incoerente: a volte si salta un numero, a volte lo si ripete, a volte si torna indietro), ci appiccicano citazioni letterarie, artistiche o cinematografiche, e persino slogan e spot pubblicitari. In piu, a un certo punto Ferdinand comincia a tenere un diario (che diventa filo conduttore delle vicende) e, in un'occasione, si rivolge direttamente agli spettatori (come Belmondo aveva già fatto in "À bout de souffle"). Il risultato è un film libero, disorganizzato, caleidoscopico, sperimentale: da un lato come la vita vera (che infatti è tutt'altro che "chiara, logica, organizzata", dice Marianne), dall'altro ammantato di artificialità (sottolineata dalla fotografia di Raoul Coutard, ricca di colori primari: Pierrot descrive Marianne come "una ragazza in un film di Hollywood, in technicolor", mentre altri passaggi citano i dipinti di Velázquez, Van Gogh, Renoir). Peccato solo che la storia si faccia così incoerente, caotica, disordinata e confusa che dopo un po' si rinuncia del tutto a seguirla con attenzione: chi guardasse un film solo per la trama, dunque, si astenga. Fra le scene iconiche, quella dell'auto che finisce in mare. All'inizio, alla festa, appare il regista Sam Fuller nel ruolo di sé stesso (dicendo "Un film è come una battaglia"). L'uomo al porto, nel finale, che afferma di udire la musica extradiegetica, è invece Raymond Devos. "Pierrot le fou" (Pierrot il pazzo) era il nomignolo di un vero bandito degli anni quaranta, Pierre Loutrel. Il titolo italiano è invece incomprensibile.

7 settembre 2021

Lo spione (Jean-Pierre Melville, 1962)

Lo spione (Le doulos)
di Jean-Pierre Melville – Francia/Italia 1962
con Jean-Paul Belmondo, Serge Reggiani
**1/2

Rivisto su YouTube, per ricordare Jean-Paul Belmondo.

Appena uscito di prigione, e dopo aver regolato i conti con un ex complice, lo scassinatore Maurice (Serge Reggiani) tenta un nuovo colpo ma viene sorpreso sul posto dalla polizia, che qualcuno aveva prontamente avvertito. In fuga, e convinto che a tradirlo sia stato l'amico Silien (Jean-Paul Belmondo), medita vendetta: ma è proprio lui l'informatore? Da un romanzo di Pierre Lesou, un noir d'atmosfera con una trama intricata e una ragnatela di misteri e ambiguità. Per gran parte della pellicola, infatti, seguiamo le mosse di Silien – che trama, mente, inganna – senza che sia mai chiaro da che parte stia, se sia effettivamente uno "spione" o se sia rimasto fedele all'amico. Solo alla fine si spiegherà ogni cosa, prima che il destino, in un ulteriore e inevitabile controfinale, concluda a modo suo la vicenda. Un giovane Belmondo è sfacciato, carismatico e sornione, sempre sicuro di sè e capace di muoversi in un sottobosco di criminali legati da forti rapporti di amicizia, che però possono incrinarsi di fronte al minimo sgarbo. E non mancano piccoli e grandi colpi di scena, che talvolta giungono inaspettati come improvvisi scatti di violenza quando meno ce li si aspetta (la didascalia introduttiva recita: "Bisogna scegliere. Morire... o mentire?"). Bella la fotografia in bianco e nero di Nicolas Hayer, che tratteggia una Parigi notturna e piovosa. Belmondo aveva già recitato per Melville l'anno prima in "Léon Morin, prete" (e tornerà l'anno seguente ne "Lo sciacallo"). Nel cast anche Michel Piccoli, Jean Desailly, René Lefèvre, Philippe March, Monique Hennessy e Fabienne Dali. Musiche di Paul Misraki. Volker Schlöndorff è l'aiuto regista, Bertrand Tavernier ha collaborato alla produzione. Il titolo originale, un termine gergale che significa "cappello", indica un informatore della polizia.

6 settembre 2021

Matrix Reloaded (Wachowski, 2003)

Matrix Reloaded (The Matrix Reloaded)
di Andy e Larry Wachowski – USA 2003
con Keanu Reeves, Laurence Fishburne, Carrie-Anne Moss
*1/2

Rivisto in divx.

In seguito all'enorme (e non scontato) successo del primo "Matrix", furono messi in cantiere non uno ma ben due seguiti, girati contemporaneamente e distribuiti nelle sale a sei mesi di distanza l'uno dall'altro, con tanto di cliffhanger alla fine del primo. Un cliffhanger che non fu gradito dal pubblico, all'epoca poco abituato ad assistere a un film "che non terminava": certo, c'era appena stato il precedente della trilogia de "Il Signore degli Anelli" e, qualche decennio prima, quello degli ultimi due film di "Ritorno al futuro", ma in questo caso la scritta "To be continued" giungeva davvero troppo repentina e inaspettata, per di più dopo una visione già estenuante. È infatti un po' tutto il film a deludere chi aveva apprezzato il precedente (chi invece non lo aveva visto, richiamato in sala dall'hype, si trovò di fronte a una pellicola quasi incomprensibile, dato che la conoscenza delle premesse della storia vengono date per scontate). La trama è assai convoluta, ma può essere riassunta in qualche modo: avendo ormai accettato il ruolo dell'Eletto che, secondo una profezia, porrà fine alla lunga guerra fra l'umanità e le macchine che tengono prigioniera la razza umana nel mondo virtuale di "Matrix", l'ormai onnipotente Neo (Reeves) viene a sapere dall'Oracolo (Gloria Foster) – che scopre essere a sua volta un programma senziente – qual è la sua missione: raggiungere la "Sorgente" del programma. Per farlo avrà bisogno del Fabbricante di Chiavi (Randall Duk Kim), tenuto prigioniero dal perfido Merovingio (Lambert Wilson), e nel frattempo vedersela con l'Agente Smith (Hugo Weaving), ormai slegatosi dal sistema e diventato una sorta di virus in grado di auto-duplicarsi. Ma quando, grazie all'aiuto degli amici Morpheus (Fishburne) e Trinity (Moss), raggiungerà la Sorgente, verrà a sapere dall'Architetto (Helmut Bakaitis) – colui che ha progettato Matrix – che la profezia era falsa, e che il suo ruolo è sempre stato quello di facilitare la distruzione di Matrix per farla rinascere da zero, cosa già accaduta cinque volte in passato. Tuttavia si ribellerà e tornerà nel mondo reale, nel tentativo di salvare la città sotterranea di Zion (dove vivono i pochi umani rimasti liberi) dall'imminente attacco delle macchine.

Ciò che nel primo film era affascinante (il tema del "risveglio" e della scoperta di una realtà virtuale) viene qui messo da parte per costruire un mondo su più ampia scala, e l'impressione è che non fosse necessario (scompare del tutto, fra l'altro, il punto di vista di chi vive ignaro all'interno di Matrix). Pachidermico, noioso, pieno di elementi poco ispirati o che appaiono fuori contesto (a partire dal ballo sensuale degli abitanti di Zion), con una marea di personaggi del tutto superflui (Lock, Niobe, il "navigatore" Link, il consigliere Hamann....) e situazioni che si succedono una dopo l'altra, spesso slegate fra di loro come le missioni di un videogioco, il lungometraggio appare privo di equilibrio e disorganico, barcamenandosi sull'alternanza fra le (vuote) riflessioni filosofiche sui concetti di destino e di libera scelta, e lunghe (e noiose) scene d'azione assai meno indovinate e spettacolari di quelle del film precedente, oltre che prive di adrenalina per l'eccesso di ralenti nella loro messa in scena (il bullet time non è più una novità). A proposito di queste, da ricordare comunque la lotta di Neo contro i tanti Smith, e quella con gli sgherri del Merovingio (fra cui due fantasmi albini gemelli) che culmina nell'inseguimento in autostrada. Certo, se uno può piegare a piacimento la realtà, non si capisce perché continui a lottare usando le arti marziali. In generale Neo è ormai un non-personaggio, un tool privo di caratterizzazione, buono solo per far avanzare la storia e assumere, nel finale, ulteriori connotati messianici (addirittura "resuscita" Trinity, dopo che era morta come da sua premonizione). Ma il punto più basso della pellicola è forse l'apparizione della pessima Monica Bellucci nel fugace ruolo di Persephone, la moglie del Merovingio: ancor più nell'edizione italiana, quando parla con la sua indecente dizione (che crea uno scarto respingente rispetto ai doppiatori professionisti che danno voce agli altri personaggi). La fotografia insiste ancora di più sulle tonalità di verde quando ci si trova dentro Matrix, per distinguere quel mondo da quello reale. Gloria Foster e Aaliyah (che doveva interpretare Zee, la compagna di Link, poi sostituita da Nona Gaye) sono morte durante le riprese. Ottimo il risultato al botteghino: ma poi il terzo capitolo, "Matrix Revolutions", incasserà la metà di questo.

4 settembre 2021

Le bianche distese (M. Rasoulof, 2009)

Le bianche distese (Keshtzar haye sepid)
di Mohammad Rasoulof – Iran 2009
con Hasan Pourshirazi, Younes Ghazali
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Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Da trent'anni Rahmat (Pourshirazi), con la sua barca a remi, visita i villaggi e le comunità che vivono sulle isole rocciose e sulle coste di un vasto lago salato (il film è stato girato sul Lago di Urmia, nelle province azere dell'Iran settentrionale) per "raccogliere le lacrime" degli abitanti. Le versa infatti in un'ampolla di vetro e le porta via, insieme a tutti i loro dolori: nel far questo è testimone di lutti, funerali, ma anche strani riti, cerimonie e superstizioni, spesso crudeli (una ragazza data "in sposa al mare" affinché interceda per far cadere la pioggia; un nano calato in un pozzo per recare agli spiriti sotterranei le preghiere degli abitanti del villaggio, le cui parole sono state racchiuse in barattoli di vetro; un pittore condannato alla cecità perché si ostina a dipingere il mare di colore rosso). Ad accompagnarlo, per un breve periodo, ci sarà un ragazzo, Nassim (Ghazali), che si finge sordo e muto, partito alla ricerca del proprio padre. Suggestivo, poetico e visionario (gli elementi antropologici sono in gran parte frutto dell'immaginazione del regista, anche sceneggiatore), il terzo film di finzione di Rasoulof si colloca in quell'area del World Cinema già frequentata da autori come Pasolini ("Medea"), Paradžanov ("Ashik Kerib") e Naderi ("Acqua, vento, sabbia"), fra riti ancestrali, antichi costumi e località sperdute nell'Asia centrale. Proprio i magnifici scenari (le coste e gli scogli incrostati di sale, le acque del lago che si confondono con il cielo, le isole rocciose sperse in mezzo al nulla) valgono da soli la visione, senza poi contare le musiche e i canti popolari che punteggiano gli eventi e la bellezza di un mondo arcaico e fuori dal tempo. Per il resto i dialoghi sono sparsi e rarefatti, i personaggi semplici osservatori, la tavolozza cromatica basilare. A curare il montaggio c'è Jafar Panahi, collega e amico del regista e a sua volta grande cineasta: sia Rasoulof che Panahi, rappresentanti di un cinema anticonformista e indipendente, avranno continui problemi con la censura di stato e saranno condannati nel 2010 per "propaganda contro il governo" a non poter girare più altri film (cosa che continueranno invece a fare clandestinamente). L'episodio del pittore imprigionato, i cui occhi vengono "rieducati" a forza perché, a differenza di tutti gli altri, vede (e dipinge) il mare di colore rosso anziché blu, è una chiara metafora delle pressioni e delle persecuzioni del regime verso gli artisti non allineati.

3 settembre 2021

Mi permette, babbo! (Mario Bonnard, 1956)

Mi permette, babbo!
di Mario Bonnard – Italia 1956
con Alberto Sordi, Aldo Fabrizi
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Visto in TV (RaiPlay).

Il più grande cruccio di Alessandro Biagi (Aldo Fabrizi), gestore di un'avviata macelleria romana, è il genero Rodolfo (Alberto Sordi), che ha sposato sua figlia Marina e abita ora insieme al resto della famiglia. Indolente e fonte continua di disturbo, Rodolfo è infatti un aspirante cantante lirico che vive alle sue spalle, "pagando" con prelibati filetti le lezioni di canto che prende dall'altrettanto scroccone maestro D'Aragona (Achille Majeroni). Ma alla fine, in qualche modo, Rodolfo riesce a coronare il proprio sogno e a farsi scritturare per un debutto a teatro, nel ruolo (assai minore) del dottore che cura Violetta nell'ultimo atto della "Traviata". Peccato che la sua megalomania manderà tutto all'aria, quando si ostinerà a voler concludere l'opera cantando una frase che Giuseppe Verdi stesso aveva eliminato dopo la prima rappresentazione ("È spenta!"). Commediola sostenuta dalla verve dei due bravi protagonisti, dai caratteri opposti (il che rende difficile la convivenza), attorno ai quali si muovono altre figure di minor rilievo (dai vari membri della famiglia ai personaggi che bazzicano attorno al teatro). Fra gli interpreti spiccano Gina Amendola (la moglie di Alessandro, incapace di cogliere ogni battuta o allusione, come il Jenkins di "Dylan Dog" per intenderci), Turi Pandolfini (il vecchio nonno collerico, sempre alle prese con sedie che traballano, cui vuole segare le gambe), Pina Bottin (la cameriera Rosa, innamorata – ma non ricambiata – di uno dei figli di Alessandro) e Paola Borboni (la "nobile russa", moglie del maestro di canto). Il basso Giulio Neri appare nella parte di sé stesso, mentre la "Traviata" è interpretata da Rosanna Carteri (Violetta) e Afro Poli (Germont). Curiosità: come aiuto regista figura Sergio Leone, che in quegli anni si faceva le ossa proprio sotto l'ala protettiva di Bonnard (in sostituzione del quale debutterà alla regia, non accreditato, tre anni più tardi, ne "Gli ultimi giorni di Pompei").

2 settembre 2021

Giulio Cesare (Giovanni Pastrone, 1909)

Giulio Cesare
di Giovanni Pastrone – Italia 1909
con Giovanni Pastrone, Luigi Mele
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Visto su YouTube.

Ispirato alla tragedia di Shakespeare (anche se ovviamente, trattandosi di un muto, sono assenti parole, dialoghi e monologhi), il film racconta gli eventi storici che vanno dal ritorno di Giulio Cesare (Pastrone) a Roma dopo la campagna di Gallia alla sua uccisione in senato a opera dei congiurati guidati da Bruto (Mele), fino alla morte di quest'ultimo durante la battaglia di Filippi. È uno dei primi lavori importanti di Giovanni Pastrone, pioniere del nascente cinema italiano che aveva appena rilevato una piccola società di produzione (la Carlo Rossi & C. di Torino), di cui era contabile, dando vita alla Itala Film e portandola poi al successo internazionale con una serie di pellicole di genere storico-epico, sull'onda de "Gli ultimi giorni di Pompei" di Luigi Maggi dell'anno precedente. Il culmine, naturalmente, si avrà con il grande kolossal "Cabiria" del 1914. Qui le ambizioni sono ancora limitate, la durata del film è di poco più di una decina di minuti, costumi e scenografie sono al risparmio (se si eccettuano un paio di scene, come quella del trionfo di Cesare o quella conclusiva della battaglia di Filippi, che coinvolgono invece numerose comparse e persino dei cavalli), ma soprattutto la recitazione, la messa in scena e la regia sono ancora a livelli primitivi: più teatro filmato, insomma, che cinema. Assente anche ogni forma di montaggio narrativo, mentre gli "effetti speciali" si limitano a due sovrimpressioni (il sogno di Calpurnia, in cui la moglie di Cesare ha la premonizione dell'attentato, e l'apparizione finale del fantasma del dittatore ucciso a Bruto). Per fortuna i progressi non solo non mancheranno ma avverranno a velocità sorprendenti, facendo evolvere notevolmente il linguaggio della settima arte nel giro di pochissimi anni.