30 aprile 2017

Niente da nascondere (M. Haneke, 2005)

Niente da nascondere (Caché)
di Michael Haneke – Francia/Aut/Ger/Ita 2005
con Daniel Auteuil, Juliette Binoche
***1/2

Rivisto in divx.

Georges e Anne Laurent (Auteuil e Binoche), coniugi colti e benestanti – lui conduce un programma di letteratura in tv, lei lavora in una casa editrice – che vivono a Parigi con il figlio dodicenne Pierrot, ricevono una misteriosa videocassetta che mostra una ripresa, dall'esterno, della porta della loro casa. Ulteriori cassette nei giorni successivi, accompagnate da telefonate anonime e da inquietanti disegni infantili, non fanno che accrescere la tensione, seminando anche dubbi e incomprensioni nella coppia. Fino a quando Georges non comincia a sospettare che il mistero possa essere legato a un lontano episodio della sua infanzia, quando da bambino fece cacciare dalla fattoria di famiglia un giovane orfano algerino che i suoi genitori pensavano di adottare... Da uno spunto di partenza (ma solo quello) che ricorda l'incipit di "Strade perdute" di David Lynch, uno dei film più significativi di Michael Haneke e in generale della cinematografia europea degli anni Duemila. Dietro l'apparenza da thriller familiare e borghese (in superficie, una vita tranquilla è disturbata dal solo fatto di sentirsi osservati), il vero punto centrale è una lettura politica-sociale del rapporto fra la Francia e il suo violento passato coloniale, segnatamente durante la guerra d'Algeria (i genitori di Majid morirono proprio nel massacro dei manifestanti alegrini a Parigi nel 1961, per lungo tempo negato dalle autorità). Georges ha praticamente rimosso non solo l'episodio in cui, da bambino, negò a Majid la possibilità di un futuro adeguato, ma anche i suoi stessi sensi di colpa. Persino il suicidio di Majid, davanti ai suoi occhi ("Volevo che tu fossi presente"), non basta a fargli assumere le proprie responsabilità, così come la successiva visita del figlio dell'uomo. Se a livello cosciente la rimozione è evidente, così non è nei sogni, anche se il regista si mantiene ambiguo: nel finale, Georges prende del sonnifero per addormentarsi, come a voler continuare nel suo "sonno della coscienza"; la scena successiva, che mostra l'allontamento di Majid dalla fattoria, potrebbe essere un sogno così come un flashback reale (curiosamente ripreso in quello stesso campo lungo che caratterizzava le immagini registrate nelle videocassette). Eccellente sotto ogni aspetto la confezione, dalla regia misurata di Haneke (che come sempre predilige i piani sequenza) alle interpretazioni degli attori (curiosamente, Auteuil è nato proprio in Algeria). Annie Girardot è la madre di Georges. Privo di accompagnamento musicale, il film è coprodotto anche dall'Italia (nei telegiornali che come di consueto Haneke fa scorrere sullo sfondo dei suoi film, spicca uno spezzone del TG3 sull'intervento militare in Iraq). E a proposito delle misteriose videocassette: il film non rivela apertamente la loro provenienza (sia Majid che suo figlio negano di esserne i responsabili), ma la scena sui titoli di coda mostra, davanti alla scuola, il dodicenne Pierrot incontrarsi e parlare proprio con il figlio di Majid, suggerendo una possibile complicità fra i due ragazzi. D'altronde, che Pierrot manifesti una ribellione contro i genitori è chiaro (la sequenza della sua sparizione da casa, che si rivela essere un falso allarme, è seguita da un atto d'accusa nei confronti della madre). Che si tratti di un semplice segnale di riavvicinamento fra le nuove generazioni, o forse sono proprio queste a voler inchiodare quelle vecchie alle loro responsabilità negate?

28 aprile 2017

Neverwas (Joshua Michael Stern, 2005)

Neverwas - La favola che non c'è (Neverwas)
di Joshua Michael Stern – USA/Canada 2005
con Aaron Eckhart, Ian McKellen
**

Visto in divx alla Fogona, con Sabrina, Marisa, Monica, Alberto, Eva ed Elena.

Figlio di uno scrittore che aveva raggiunto il successo con un romanzo fantasy per bambini, "Neverwas", il cui piccolo protagonista era modellato proprio su di lui, lo psichiatra Zach Riley (Eckhart) si trasferisce a lavorare nell'istituto di provincia dove proprio il padre (Nick Nolte), che soffriva di depressione cronica, era stato ricoverato prima di suicidarsi. Qui entra in contatto con un anziano paziente, Gabriel (Ian McKellen), che nella sua illusione è convinto di essere uno dei personaggi di quel libro, e che il mondo fantastico di Neverwas esista davvero... Opera prima di Stern, anche sceneggiatore, questo film ricorda in parte pellicole come "La leggenda del Re Pescatore" e "Un ponte per Terabithia", affrontandone gli stessi temi senza però raggiungerne la profondità o la bellezza (anche perché in questo caso il lavoro su miti e archetipi è meno presente). Il rapporto fra padri e figli (evidente nel caso di Zach, rivelatore nel finale per quanto riguarda Gabriel) e quello fra la follia e l'immaginazione (il potere dell'escapismo è una delle attrazioni principali del fantasy) sono al centro di una vicenda che si dipana in maniera non lineare, sfiorando argomenti cupi e complessi (la malattia, la depressione, gli abusi) ma filtrandoli con la luce della fantasia e della magia. Dei tanti attori celebri (ci sono anche William Hurt, Jessica Lange, Brittany Murphy, Alan Cumming), i due che riescono a donare qualcosa in più ai loro personaggi sono Nolte (che peraltro compare soltanto nei flashback) e soprattutto McKellen, un folle pieno di dignità e di regalità, vero centro nevralgico della pellicola. Assai marcata l'estetica della fotografia di Michael Grady, che ammanta le scene di luce dorata, come a suggerire un ponte fra il mondo della quotidianità e quello della fantasia. Musiche di Philip Glass.

26 aprile 2017

La pazza gioia (Paolo Virzì, 2016)

La pazza gioia
di Paolo Virzì – Italia 2016
con Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti
**

Visto in divx, con Sabrina.

Ospiti di una comunità per donne affette da disturbi mentali, Beatrice (Bruni Tedeschi) e Donatella (Ramazzotti) approfittano di un'occasione per "evadere" per qualche giorno, con l'idea di darsi alla "pazza gioia". Ma i traumi del passato torneranno a farsi vivi. Sorta di "Thelma & Louise" all'italiana, con il tema del disturbo psichico come filo conduttore (Virzì ha dichiarato di essersi ispirato a "Qualcuno volò sul nido del cuculo" e a "Un tram chiamato desiderio" per alcune battute di Beatrice), un ritratto di due donne fragili e malate anche se in maniera diversa, che pure riescono a confortarsi a vicenda e a superare finalmente alcuni dei problemi che le tormentano. Beatrice è la "matta aristocratica", bipolare, esuberante e piena di illusioni, incapace di controllarsi o di fare i conti con la realtà. Donatella è più cupa, fragile e insicura, tormentata dalla depressione e da un passato tragico, potenzialmente incline alla violenza ma anche a lasciarsi trascinare dagli eventi. Nel corso della loro fuga, man mano che anche lo spettatore viene a conoscenza dei retroscena delle loro storie, le due donne sapranno incredibilmente darsi forza l'un l'altra – inizialmente in modo caotico (con Beatrice come forza propulsiva) – e soprattutto accettare finalmente i propri problemi (la scena della confessione di Donatella sul lungomare, con Beatrice che si riconosce finalmente a sua volta nell'amica, commentando con una sequela di "Anch'io" il racconto della sua depressione, è senza dubbio toccante). Peccato che il film non sfugga alle solite trappole del cinema italiano, la retorica e il sentimentalismo in primis, ma anche un'eccessiva "densità" e quindi pesantezza, e lasci più di una volta il sospetto che sia stato scritto e girato sempre con lo spettatore in mente. Brave le due attrici, vero punto di forza della pellicola anche se alle prese con personaggi macchiettistici, mentre la regia è convenzionale e si affida in gran parte alla fotografia di Vladan Radovic. L'azione si svolge tutta in Toscana (Villa Biondi, la comunità terapeutica da cui fuggono le due ragazze, è in provincia di Pistoia: e le loro peregrinazioni le portano in particolare a Montecatini, Viareggio e Capannori). Un altro tema che torna a più riprese è quello della maternità e del rapporto con i genitori. A proposito, le mamme delle due ragazze sono interpretate da Anna Galiena e Marisa Borini (quest'ultima è madre della Bruni Tedeschi anche nella vita reale). Francesca Archibugi, co-sceneggiatrice insieme a Virzi, si autoinserisce come regista del film che viene girato nella villa un tempo appartenuta alla famiglia di Beatrice. Nella colonna sonora ritorna spesso "Senza fine" cantata da Gino Paoli.

24 aprile 2017

L'altro volto della speranza (Aki Kaurismäki, 2017)

L'altro volto della speranza (Toivon tuolla puolen)
di Aki Kaurismäki – Finlandia 2017
con Sherwan Haji, Sakari Kuosmanen
***

Visto al cinema Eliseo.

Da sempre intento a ritrarre il mondo degli umili e degli emarginati, già nel precedente "Miracolo a Le Havre" Kaurismäki aveva affrontato il tema, così d'attualità, dell'immigrazione e dei rifugiati che giungono in Europa per fuggire dalle guerre del Medio Oriente. Qui (in quello che dovrebbe essere, secondo il suo intento, il capitolo centrale di una "trilogia sui porti") ne fa il centro della pellicola, o almeno uno dei centri, visto che uno dei due protagonisti è Khaled Ali (Haji), profugo siriano che, per una serie di circostanze, si ritrova in Finlandia, separato dall'amata sorella di cui ha perso le tracce. Il suo tentativo di chiedere asilo alle autorità finlandesi viene frustrato, e Khaled si dà alla clandestinità: viene accolto e protetto da Waldemar Wikström (Kuosmanen), anziano proprietario di un ristorante, e dai suoi dipendenti, che lo aiuteranno anche a rintracciare la sorella. D'altronde, che il mondo venga portato avanti grazie alla solidarietà fra i singoli esseri umani, spesso proprio quelli degli strati sociali più bassi, è un tema costante delle pellicole del regista finlandese (qui evidente anche nell'amicizia fra il siriano Khaled e l'iraniano Mazdak; ma c'è anche l'operatrice del centro di accoglienza che lo aiuta a fuggire, il camionista che gli riporta la sorella, e altri esempi ancora). Lo stesso Wikström è un personaggio assolutamente kaurismäkiano, sin dalla scena che lo introduce, nel quale dà silenziosamente addio alla moglie alcolizzata e va via di casa. Impiegato come commesso viaggiatore ma deciso a cambaire vita, grazie a una cospicua vincita al gioco (una partita a poker sembra l'ideale per personaggi dalle facce sempre imperturbabili come quelli di Kaurismäki: ma per una volta, nel momento in cui svela la mano vincente, sul volto di Wikström si nota l'accenno di un sorriso!), ottiene il denaro necessario per acquistare il ristorante (come già in "Nuvole in viaggio", la ristorazione si rivela una risorsa vincente), ereditandone anche i tre bizzarri dipendenti (magistralmente interpretati da Ilkka Koivula, Janne Hyytiäinen e Nuppu Koivu). E se gli affari non vanno bene, si può sempre provare a trasformarlo in un sushi bar (in una sequenza esilarante, che oltre a far ridere fa anche riflettere: nel servire ai malcapitati turisti giapponesi delle aringhe salate con una dose abbondante di wasabi, i personaggi fanno quello che fa il film stesso: far incontrare insieme elementi che provengono da mondi diversi e che hanno poco in comune l'uno con l'altro). Per il resto, siamo dalle parti del "solito" Kaurismäki: personaggi senza casa, lunghi e rarefatti silenzi, momenti di sottile umorismo, una nostalgica malinconia (abiti e automobili guardano al passato, i prezzi del ristorante sono ancora in marchi, nonostante ormai sia in vigore l'euro), la retorica ai minimi livelli anche quando si parla dei drammi sociali di questi giorni, un grande uso degli spazi e del colore, e tanta musica diegetica (quasi tutte le canzoni che si sentono durante il film sono "eseguite" da artisti di strada o nei locali), fino a un finale (almeno in parte) riappacificatorio. E naturalmente non poteva mancare un cagnolino, in questo caso la simpatica Koistinen (lo stesso nome del protagonista de "Le luci della sera"). Breve cameo per Kati Outinen (la negoziante che progetta di emigrare in Messico). Il doppiaggio italiano, a differenza che in passato, mi è sembrato voler infondere a forza qualche emozione nelle voci dei personaggi, un effetto straniante se accoppiato all'impassibilità dei loro volti.

22 aprile 2017

The red spectacles (Mamoru Oshii, 1987)

The Red Spectacles (Akai megane)
di Mamoru Oshii – Giappone 1987
con Shigeru Chiba, Machiko Washio
**1/2

Visto su YouTube, in originale con sottotitoli inglesi.

Siamo in un mondo parallelo, in un futuro cupo e non molto remoto (il film si svolge nel 1998). Tre anni dopo aver disertato dall'unità militare speciale Kerberos ("i cani da guardia dell'inferno") della Polizia Metropolitana ed essere fuggito dalla città per essersi ribellato alla dispotica autorità che la controlla, Koichi Todome (Chiba) vi fa ritorno in incognito, in cerca dei suoi compagni di un tempo, Midori Washio e Soichiro Toribe... Ma dovrà guardarsi dai "gatti" che gli danno la caccia, guidati dall'infido Bunmei. Le sue peregrinazioni nei bassifondi della città assumono ben presto contorni bizzarri, paranoici e claustrofobici: Koichi non sa di chi può fidarsi, nemmeno degli amici di una volta, e si ritrova imprigionato in situazioni kafkiane, grottesche e oniriche. Molto di ciò che sperimenta durante la notte si rivela in effetti una messinscena "cinematografica", il tutto mentre sembra perseguitato dal misterioso volto di una ragazza, esposto in manifesti affissi un po' ovunque. Distinguere fra sogno e realtà si fa sempre più difficile: e se fosse tutto frutto della sua immaginazione? Sceneggiato insieme a Kazunori Ito, si tratta del primo film in live action di Mamoru Oshii, che fino ad allora si era occupato soltanto di animazione (in particolare lavorando alla serie di "Lamù, la ragazza dello spazio"). E proprio da "Urusei Yatsura" proviene la maggior parte degli interpreti (Shigeru Chiba, Machiko Washio, Hideyuki Tanaka, Tessho Genda, Ichiro Nagai), che lì erano semplici doppiatori e qui invece recitano in carne e ossa. Superato il difficile impatto con i primi, imbarazzanti, minuti (dove sembrava di trovarsi di fronte a un film fanta-bellico di bassissima qualità), si scopre che si tratta in effetti di un noir distopico ed esistenzialista, ambientato tutto in una notte, che peraltro si dipana nel consueto (ma spesso spiazzante) mix di atmosfere inquietanti e comicità demenziale, pretenziosità avanguardistica e citazioni letterarie (Shakespeare, fiabe) cui Oshii ci aveva già abituato durante la serie di Lamù. Forse per via del basso budget ma anche per scelta artistica, l'estetica è volutamente povera, con una fotografia in bianco e nero o color seppia (a parte i primi e gli ultimi minuti) che ricorda certe pellicole dell'Europa dell'est (o "L'elemento del crimine" di Lars von Trier, che a sua volta si rifaceva a Tarkovskij), ma ha anche echi di Carroll ("Alice nel paese delle meraviglie") e Gilliam ("Brazil"). Memorabile Chiba (che doppiava Megane in "Urusei Yatsura"), sempre con occhiali da sole anche di notte, impermeabile e valigiona. E bellissimo (anche se da interpretare) il finale con Mako Hyodo, futura Ketsune "Croquette" O-Gin. Fra gli elementi più interessanti che vengono introdotti, il fatto che il governo abbia vietato le bancarelle che vendono cibo per la strada, costringendo alcuni gruppi di resistenza a frequentare ristoranti clandestini di soba e udon (si citano qui diversi "professionisti delle mangiate", o "maestri del fast food" che dir si voglia, pittoreschi personaggi addestrati ad abbuffarsi nei chioschi di strada senza pagare il conto, già apparsi in un episodio di Lamù e che torneranno poi in altre opere di Oshii, come "Tachiguishi retsuden"). Già, perché "The Red Spectacles", insieme al radiodramma "While Waiting for the Red Spectacles", realizzato nello stesso anno, costituisce di fatto il primo capitolo di un lunghissimo corpus narrativo (la "Kerberos saga"), ambientato in una realtà parallela, che Oshii ha portato avanti per tutta la vita, attraverso diversi media (romanzi, film dal vivo e in animazione, radiodrammi, manga). I film immediatamente successivi (tecnicamente dei prequel di questo) saranno "Stray Dog: Kerberos Panzer Cops" (live action, 1991) e "Jin-Roh" (animazione, 1997). Da notare come una delle pietanze che si dicono essere state dichiarate illegali è "l'uovo dell'angelo", il titolo di un film d'animazione dello stesso regista ("Tenshi no tamago"). La musica di Kenji Kawai, frequente collaboratore di Oshii (lavorerà anche in "Patlabor" e "Ghost in the Shell"), presenta anch'essa momenti spiazzantemente buffi.

20 aprile 2017

Cacciatore bianco, cuore nero (C. Eastwood, 1990)

Cacciatore bianco, cuore nero (White Hunter, Black Heart)
di Clint Eastwood – USA 1990
con Clint Eastwood, Jeff Fahey
**

Visto in divx alla Fogona, con Sabrina e Marisa.

John Wilson (Eastwood), regista hollywoodiano anticonformista e poco incline ai compromessi ("Chi fa un film deve fregarsene altamente di chi va a vederlo"), accetta di dirigere un lungometraggio in Africa, ma solo perché intende approfittare dell'occasione per soddisfare un suo personale capriccio: quello di dare la caccia a un elefante. E infatti, una volta giunto in Kenya, trascura il lavoro e pensa soltanto a organizzare un safari, coinvolgendo anche lo sceneggiatore del film, Pete Verrill (Jeff Fahey), in quella che diventa una vera e propria ossessione. Girato in Zimbabwe e tratto da un romanzo (del 1953) di Peter Viertel, che romanzava le esperienze vissute durante la lavorazione de "La regina d'Africa" (il protagonista è evidentemente ispirato a John Huston, Verrill è l'alter ego dello stesso Viertel), un film non del tutto soddisfacente: il soggetto e soprattutto l'ambientazione avevano grandi potenzialità, ma la realizzazione manca della forza necessaria per elevare la vicenda su un piano larger-than-life, come forse autori come Peter Weir o Werner Herzog sarebbero riusciti a fare (per non parlare dello stesso Huston). Così com'è, l'ossessione di Wilson per la caccia all'elefante rimane qualcosa di elusivo e inspiegabile, un suo fatto personale – conseguenza forse della sua megalomania e delle sue insicurezze – che gli impedisce di connettersi non solo con gli altri personaggi ma anche con gli spettatori. E sequenze come quella in cui si dimostra intollerante al razzismo dei bianchi colonialisti in Africa sembrano quasi dei corpi estranei (curiosità: la scazzottata con Clive Mantle, secondo alcuni, è l'unico caso in cui Clint, sullo schermo, le busca in uno scontro alla pari).

18 aprile 2017

Enemy (Denis Villeneuve, 2013)

Enemy (id.)
di Denis Villeneuve – Canada/Spagna 2013
con Jake Gyllenhaal, Mélanie Laurent
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

L'insegnante di storia Adam Bell (Gyllenhaal) scopre per caso che esiste un suo sosia, l'attore Anthony Claire, uguale in lui in tutto e per tutto, persino nella voce. Non saprà resistere alla tentazione di incontrarlo... Dal romanzo "L'uomo duplicato" di José Saramago, uno pseudo-thriller psicologico e kafkiano che parla del subconscio e di una personalità dissociata. C'è chi lo ha paragonato a certe opere di Cronenberg o di Lynch (io citerei anche "Partner" di Bertolucci) nel mettere in scena l'angoscia e il disturbo mentale di un personaggio che si rispecchiano nel mondo che lo circonda. Tanti indizi disseminati qua e là (la conversazione con la madre, in particolare, è rivelatrice) ci fanno infatti capire che i due uomini sono davvero la stessa persona (o se vogliamo, la sovrapposizione quantistica di due identità diverse, con tracce dell'una che confluiscono nell'altra), mentre alcuni inserti onirici a base di donne-ragno (che sfociano nello strano e "scioccante" finale) suggeriscono che molti dei suoi problemi dipendono proprio dal rapporto con le donne. Peccato che il continuo tentativo di costruire la tensione vada spesso a vuoto: forse il film reggerebbe meglio a una seconda visione, dopo averlo già "inquadrato", visto che la prima volta si ha la forte sensazione che si tratti di molto fumo e poco arrosto. In ogni caso, la pellicola punta le sue carte migliori sull'interpretazione di un barbuto Gyllenhaal (Mélanie Laurent e Sarah Gadon, quest'ultima incinta, sono invece le donne di Adam/Anthony, rispettivamente l'amante e la moglie; Isabella Rossellini è la madre) e sull'atmosfera costruita attraverso la fotografia filtrata di Nicolas Bolduc e la colonna sonora incessante di Daniel Bensi e Saunder Jurriaans.

17 aprile 2017

Elling (Petter Næss, 2001)

Elling (id.)
di Petter Næss – Norvegia 2001
con Per Christian Ellefsen, Sven Nordin
**1/2

Visto in divx, con Sabrina.

Al quarantenne Elling, che ha vissuto tutta la vita con la madre ed è pertanto incapace di socializzare o di cavarsela da solo nella vita, e al sempliciotto Kjell Bjarne, che pensa soltanto al cibo e alle donne e che ha conosciuto nella clinica psichiatrica dove è stato ricoverato alla morte della madre, viene assegnato un appartamento nel centro di Oslo, dove dovranno abitare e – seguiti da un assistente dei servizi sociali – tentare di (ri)adattarsi alla vita normale. Ma non sarà facile, vista la resistenza di entrambi persino per uscire di casa. Ci riusciranno grazie al reciproco sostegno, ad alcuni fortunati incontri (per Elling un anziano intellettuale che ne favorisce la naturale inclinazione per la poesia, per Kjell Bjarne la vicina del piano di sopra, incinta e abbandonata dal compagno). Pellicola indipendente di stampo "basagliano": il tema della riabilitazione dei pazienti psichiatrici e del loro ritorno a una vita normale è affrontato con leggerezza, garbo e umorismo, e il film è narrato tutto dal punto di vista dei due protagonisti, senza drammi o retorica. Il segreto del successo, come sempre, sta nei primi passi da compiere (i più difficili, certo) per uscire dal proprio guscio. Memorabile la scelta di Elling di diventare un misterioso "poeta in incognito", lasciando le sue composizioni (firmate "E.") nelle confezioni di crauti al supermercato. Candidato per la Norvegia all'Oscar per il miglior film straniero, è tratto da una serie di quattro romanzi con lo stesso protagonista (il regista ha girato anche un sequel, nel 2005).

15 aprile 2017

Oltre le nuvole, il luogo promessoci (M. Shinkai, 2004)

Oltre le nuvole, il luogo promessoci
(Kumo no muko, yakusoku no basho)
di Makoto Shinkai – Giappone 2004
animazione tradizionale
*1/2

Visto al cinema Arcobaleno, con Sabrina, Daniela e Sergio.

In una realtà parallela in cui il Giappone, a partire dagli anni settanta, è diviso in due parti (l'Hokkaido, rinominato Ezo, è sotto il dominio di una fantomatica "Unione" – che si tratti dell'Unione Sovietica? l'adattamento italiano non lo conferma – mentre il resto del paese è ancora controllato militarmente dagli americani), due ragazzi – Hiroki e Takuya – progettano di costruire un velivolo per raggiungere l'enorme e affascinante torre eretta dai nemici nel centro del loro territorio. I due promettono alla compagna di classe Sayuri, di cui Hiroki è innamorato, di portarla con loro: ma gli eventi lo impediranno. Tre anni più tardi, mentre si addensano venti di guerra (e dopo che Sayuri è caduta in un misterioso coma), mantenere finalmente quella promessa potrebbe rivelarsi l'unico modo per salvare il mondo dalla distruzione... Il primo lungometraggio cinematografico di Makoto Shinkai, in precedenza autore di alcuni corti e di vari filmati per videogiochi, è anche il primo suo lavoro che vedo: francamente non mi ha fatto una grande impressione. Tanto ambizioso e stratificato (un presente alternativo, giovani scienziati in erba, un amore che supera le dimensioni, un'atmosfera di nostalgica malinconia) quanto distante e noioso, getta nel calderone molti temi e luoghi comuni del cinema d'animazione e del fumetto giapponese (gli amori scolastici, la guerra, la tecnologia), ammantandoli di un vuoto poeticismo e di un astratto romanticismo, e si trascina stancamente senza mai ravvivare l'interesse di uno spettatore lasciato alla deriva in una storia confusa, con protagonisti anonimi e dalla caratterizzazione poco originale (qui la colpa in parte è anche del character design). Sia il world building sia il rapporto fra i sogni e le realtà parallele non sfociano in nulla se non in una serie di banalità sull'amore e il destino, mentre gli elementi fantascientifici si rivelano un'inutile zavorra. Evidente, in ogni caso, una certa influenza da Miyazaki (a partire dal tema del volo). Nulla di eccezionale l'animazione. Pessimo il doppiaggio italiano (per non parlare del titolo, con quel "promessoci", che sia fedele o meno).

13 aprile 2017

Libere, disobbedienti, innamorate (M. Hamoud, 2016)

Libere, disobbedienti, innamorate (In between, aka Bar Bahar)
di Maysaloun Hamoud – Israele 2016
con Sana Jammelieh, Mouna Hawa
**1/2

Visto al cinema Arcobaleno, con Sabrina e Sabine.

Tre ragazze palestinesi condividono un appartamento a Tel Aviv e cercano di mantenere la propria autonomia di fronte a una società maschilista che ne disapprova le scelte fuori dalle regole. L'emancipata Leila (Mouna Hawa) è un'avvocatessa che trascorre le serate tra feste con gli amici, alcol, fumo e droghe. Disincantata, sembra infine aver trovato l'amore: ma l'infatuazione finirà quando verrà alla luce l'ipocrisia del ragazzo nei confronti del suo stile di vita. La più giovane Nour (Shaden Kanboura), che invece è mussulmana praticante, sta terminando gli studi di informatica all'università, mentre la sua famiglia le ha già trovato un futuro marito: quando questi la violenterà, Nour troverà il coraggio di rompere il fidanzamento e di andare avanti per la sua strada da sola. L'anticonformista Salma (Sana Jammelieh) proviene invece da una famiglia cristiana, ama la musica (fa la DJ) e per mantenersi lavora come barista: quando i suoi genitori scopriranno che è lesbica, sarà costretta a fuggire. Le loro storie hanno in comune il desiderio di vivere, divertirsi, ma soprattutto autodeterminarsi come farebbe qualsiasi ragazza in altre parti del mondo. E si ritrovano dunque schiacciate ("In between", come recita il titolo internazionale) fra il peso di una tradizione che vuole le donne sottomesse e umiliate, e la spinta a ribellarsi, a evadere, o semplicemente a restare sé stesse, magari sostenendosi a vicenda con la solidarietà femminile. Opera prima di una giovane regista dallo stile ancora poco personale, il film ha il pregio di offrire uno sguardo non convenzionale sulla gioventù palestinese e, per una volta, di non soffermarsi sul conflitto fra arabi e israeliani (cui è dedicato, di sfuggita, solo un breve dialogo al ristorante). Anche se il tono è diverso, può ricordare i lavori della libanese Nadine Labaki (anche per l'incipit, che mostra una ceretta con il caramello, come in "Caramel"). Brave le attrici.

12 aprile 2017

I cinque volti dell'assassino (J. Huston, 1963)

I cinque volti dell'assassino (The list of Adrian Messenger)
di John Huston – USA 1963
con George C. Scott, Jacques Roux
**

Visto in divx.

Questo film è passato alla storia, più che per il suo reale valore (è un giallo vecchio stile, ambientato in Gran Bretagna, tratto da un romanzo di Philip MacDonald), per la trovata pubblicitaria di accreditare sulle locandine e nei titoli di testa cinque attori di punta (Tony Curtis, Burt Lancaster, Robert Mitchum, Kirk Douglas e Frank Sinatra) che recitano camuffati con maschere di gomma praticamente per l'intero film. Uno di essi, in effetti, è l'assassino, che alterna numerosi travestimenti per portare a termine i suoi loschi piani, mentre gli altri sono soltanto comprimari utilizzati per intorbidare le acque: ben sapendo che lo spettatore (visti i limiti del trucco dell'epoca) si sarebbe accorto quando il volto di un personaggio era finto, Huston e i produttori pensarono di aggiungere altri personaggi mascherati, che fossero sospettabili in ugual misura. La trama vede lo scrittore inglese Adrian Messenger (John Merivale) chiedere all'amico Anthony Gethryn (George C. Scott), agente segreto ora in pensione, di indagare su una lista di nomi: si tratta di persone di varia estrazione sociale, apparentemente senza legami fra loro, rimaste tutte vittima in tempi recenti di misteriose "morti accidentali". Quando lo stesso Adrian scompare in un incidente aereo, Anthony si convince che sia all'opera un misterioso assassino. Con l'aiuto del francese Raoul Le Borg (Jacques Roux), unico sopravvissuto allo stesso disastro aereo e innamorato della cugina di Adrian, Lady Jocelyn (Dana Wynter), il detective focalizzerà i sospetti su George Brougham, "pecora nera" di una famiglia ricca e aristocratica, che prima di ereditarne il patrimonio intende cancellare ogni traccia di un misfatto da lui compiuto durante la guerra, eliminando uno a uno i possibili testimoni... Per il regista si trattò di una pellicola di poco impegno, da girare mentre era in villeggiatura nella sua casa in Irlanda, e con lunghe sequenze incentrate su una delle sue passioni: la caccia alla volpe. E infatti, se la prima parte punta tutte le sue carte sui numerosi travestimenti dell'assassino, l'ultima mezz'ora si ravviva grazie al setting nel mondo dell'aristocrazia britannica. Piccole parti per "vecchie glorie" come Clive Brook, Gladys Cooper e Herbert Marshall.

11 aprile 2017

Lasciati andare (Francesco Amato, 2017)

Lasciati andare
di Francesco Amato – Italia 2017
con Toni Servillo, Veronica Echegui
**

Visto al cinema Colosseo, con Sabrina.

Elia Venezia (un Servillo per una volta prestato alla commedia), psicoanalista ebreo di mezza età, è annoiato dalla vita, tiene tutto e tutti a distanza, e pare completamente indifferente a ciò che lo circonda. E questo si aggiunge agli altri tratti negativi che ormai lo caratterizzano: è infatti pigro, caustico, goloso, indolente, passivo, egoista, tirchio, incapace di smuovere un'esistenza che ruota ancora intorno alla (ex) moglie (Carla Signoris), che abita nell'appartamento a fianco e da cui continua a dipendere, anche sentimentalmente, senza però volerlo ammettere. Quando, per problemi di salute, viene convinto a frequentare una palestra, fa la conoscenza di Claudia (Echegui), giovane e spigliata personal trainer spagnola con un background avventuroso. E la reciproca frequentazione (la trainer dovrebbe allenare il corpo dell'uomo, lo psicanalista fare chiarezza nella mente della ragazza) non farà che del bene a entrambi. Lo spunto alla base del film è il più semplice che si può, ed evidentemente troppo esile (e stereotipato) per costruirci sopra un intero lungometraggio: ecco dunque che, nella seconda parte, deve essere "rimpolpato" con una trama più movimentata, che coinvolge uno degli ex di Claudia, Ettore (l'ottimo Luca Marinelli), uno scalcinato ladro di gioielli che vorrebbe sfruttare le doti di ipnotista di Elia per riuscire a ricordare dove ha nascosto il malloppo... Se l'originalità non è il suo forte, il film ha però il merito di non perdere mai la briosa vivacità che lo caratterizza, e tutto sommato riesce a divertire fino alla fine grazie al ritmo frenetico, a battute piacevoli (le migliori: quella su Winnicott, confuso da Claudia con Winny the Pooh, e quella di Ettore sul nome della bambina) e personaggi simpatici (Servillo è il mattatore, ma anche i comprimari fanno la loro parte). Piccoli ruoli per Giacomo Poretti (uno dei pazienti di Elia), Giulio Beranek (il calciatore gay) e Vincenzo Nemolato (il ladro ucraino). Nella colonna sonora, la mozartiana "Non più andrai, farfallone amoroso".

9 aprile 2017

Ryuzo and the seven henchmen (T. Kitano, 2015)

Ryuzo and the Seven Henchmen (Ryuzo to shichinin no kobuntachi)
di Takeshi Kitano – Giappone 2015
con Tatsuya Fuji, Masaomi Kondo
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

Forse bisogna accettare finalmente il fatto che il Kitano degli anni novanta, quel cineasta poliedrico, sorprendente e innovatore che sfornava capolavori geniali e inarrivabili uno dopo l'altro, non tornerà più. Eppure il buon Takeshi ha ancora le sue cartucce da sparare, e ogni suo film non è mai da sottovalutare, nemmeno quando sembra soltanto l'ennesima parodia del filone sulla yakuza (la mafia giapponese), una pellicola che molti sarebbero tentati di bollare come un "film minore". Dopo i due capitoli di "Outrage", che affrontavano l'argomento con una certa serietà (per quanto a rischio di monotonia), il regista nipponico mescola le carte con questo "Ryuzo e i sette scagnozzi", passato completamente in sordina in quell'occidente che una volta lo idolatrava (non si è visto né al cinema – ma ormai non è una novità – né nei maggiori festival cinematografici, dove un tempo Beat Takeshi era una presenza obbligata): i paralleli con il suo protagonista, a ben vedere, sono notevoli e inquietanti. Anche il vecchio Ryuzo (Tatsuya Fuji), ex gangster in pensione, è infatti ormai deriso ed emarginato da quella stessa società che un tempo lo rispettava e lo temeva. Sia lui che i suoi sette eccentrici "fratelli" sono a malapena sopportati dai loro stessi figli e nipoti (i pochi che ne hanno: gli altri tirano a campare per la strada o in squallide case di riposo), mentre nuove bande di giovani delinquenti (che naturalmente non si definiscono "yakuza", nonostante siano gangster in tutto e per tutto) spadroneggiano nel loro territorio, prosperando in particolare proprio grazie alle truffe agli anziani (dalla classica telefonata per estorcere denaro fingendosi amici dei figli, alla vendita di futon o di filtri per l'acqua). Con un ultimo scatto di orgoglio, gli anziani banditi decideranno di tornare in campo, formando una nuova "famiglia" e dando battaglia ai giovani irrispettosi e privi di quel codice d'onore che ha sempre guidato le loro azioni. Kitano si ritaglia una parte marginale (il commissario di polizia) e lascia carta bianca a otto interpreti d'antan in un film che mescola comicità surreale a malinconiche riflessioni sul tempo che passa; un film che forse ha il fiato corto e poco da dire al di fuori del suo ristretto argomento, ma che pure a tratti riesce ancora ad attaccare lo spettatore allo schermo e a farlo partecipare al desiderio di riscossa di questi vecchi leoni feriti. Sequenze paradossali e momenti stupidi (le scommesse, i tentativi di riscuotere denaro fingendosi invalidi, la protesta sotto la sede della ditta dove lavora il figlio di Ryuzo) si alternano a scene d'azione (atipiche, trattandosi di Kitano: vedi l'inseguimento con il bus dirottato nel finale), senza mai perdere di vista i personaggi e la loro umanità, mentre brevi flashback delle loro imprese del passato (girate in bianco e nero e con la pellicola rovinata, come se si trattasse di un vecchio film) non sfociano per fortuna in un patetico rimpianto del tempo perduto: i nostri anziani eroi non si piangono addosso ma guardano sempre al futuro, con la schiena diritta e l'orgoglio di chi sa bene di essere migliore di tutti coloro che sono venuti dopo (e che tanto parlano e sentenziano senza rendersi conto di aver smarrito ogni sorta di etica, di poesia e di rispetto). Ryuzo e i suoi sette scagnozzi sono personaggi ai quali è lecito affezionarsi e volere bene, non meno che ai tanti altri "eroi sconfitti" del cinema di Kitano che li hanno preceduti (dai giovani pugili di "Kids return" ai gangster fatalisti di "Sonatine").

8 aprile 2017

La scoperta dell'alba (S. Nicchiarelli, 2013)

La scoperta dell'alba
di Susanna Nicchiarelli – Italia 2013
con Margherita Buy, Susanna Nicchiarelli
**

Visto in divx, con Sabrina.

Trent'anni dopo la misteriosa scomparsa del padre, docente e giurista che era finito nel mirino delle Brigate Rosse, Caterina (Buy) indaga sulla sua sparizione con l'aiuto di sé stessa da bambina: attraverso un vecchio telefono a disco, rimasto misteriosamente in funzione nella casa di famiglia al mare, scopre infatti di poter comunicare con il passato, nel 1981, quando aveva solo dodici anni... Le verità che scoprirà cambieranno le sue prospettive, ma le permetteranno di fare finalmente la pace con i propri sensi di colpa. Al secondo film dopo l'acclamato "Cosmonauta", Nicchiarelli (anche interprete, nel ruolo della sorella Barbara) adatta un romanzo di Walter Veltroni che non lesina certo la carne al fuoco: gli anni di piombo e il brigatismo (visti attraverso il ricordo di coloro che all'epoca erano bambini), la nostalgia per il passato (i primi anni ottanta sono rievocati anche dalla colonna sonora, con canzoni come "99 Luftballons" e "Video killed the radio star", e dai corsi di aerobica di Sydne Rome), i rapporti familiari (come quelli con la sorella minore), i conflitti interiori e le crisi di mezza età (Caterina, da adulta, è tentata di tradire il fidanzato con cui sta per traslocare in una nuova casa). In mezzo a tutto questo, l'elemento fantascientico o soprannaturale che consente la comunicazione fra due epoche diverse – e che ricorda il film coreano "Il mare" e il suo remake hollywoodiano "La casa sul lago del tempo" – sembra soltanto un'escamotage narrativo, da non prendere troppo sul serio (i paradossi temporali sono sempre dietro l'angolo!) e da considerare come una semplice suggestione, magari psicanalitica. Anche l'eccessiva costruzione della trama – con numerosi red herring (l'impresario musicale che "potrebbe" essere il padre, il collega diventato preside), in attesa della rivelazione finale – e alcune gag estemporanee (la biblioteca che apre alle 8 in punto) sfociano in fondo in poca cosa, non essendo sorrette da un adeguato approfondimento dei personaggi. Nel cast anche Sergio Rubini, Lino Guanciale, Renato Carpentieri e Lina Sastri.

6 aprile 2017

L'uomo dai 7 capestri (John Huston, 1972)

L'uomo dai 7 capestri (The life and times of Judge Roy Bean)
di John Huston – USA 1972
con Paul Newman, Jacqueline Bisset
**1/2

Visto in TV.

Insieme a "L'uomo del west" (1940) di William Wyler, è il film più famoso sulla figura del giudice Roy Bean, ex bandito autoproclamatosi difensore della legge "a ovest del Pecos" (ovvero nelle terre del Texas dove la civiltà non era ancora arrivata). Bean amministrava la giustizia con il pugno di ferro, a proprio arbitrio e in totale autonomia, dal suo saloon "La bella Lily" (così chiamato in onore di Lily Langtry, attrice di teatro di cui era un fervente ammiratore). Uomo dai modi burberi e spicci (e dall'impiccagione facile), di lui si dice che "strappò la terra al demonio civilizzandola con una corda e una pistola". A differenza del film di Wyler, però, qui i toni sono del tutto fantasiosi, scanzonati e ironici. E a dire il vero, da questo punto di vista la pellicola è un po' un pastrocchio, sempre indecisa sul registro da prendere (lo sceneggiatore John Milius, che l'aveva pensata come un omaggio epico a una figura leggendaria del west, ossessionato dalla giustizia e dal progresso ma a suo modo visionario e incorruttibile, si lamentò per come il regista l'avesse "rovinata", trasformando il personaggio in una macchietta comica e svagata e il film stesso in un cartoon): si passa da sequenze violente e polverose (la sparatoria nell'incipit, in cui Bean esce dal deserto e giunge nel bordello di Vinegaroon, i cui abitanti cercano di rapinarlo e faranno una brutta fine) ad altre che rompono il "quarto muro" (diversi personaggi si rivolgono direttamente allo spettatore, anche subito prima di sparire dalla storia), da sezioni grottesche o surreali (il duello con Bad Bob l'albino, tutte le scene con "l'orso da guardia") all'elogio della convivialità (le partite a poker e le bevute sono per Roy e i suoi uomini dei riti da prendere assolutamente sul serio). E si conclude su toni crepuscolari e malinconici, quando Bean, dopo essersi inoltrato nel deserto ed essere così sparito dalla storia del west, vi fa ritorno nel 1919 sotto forma di leggenda (nella realtà il giudice morì nel 1903) per aiutare la figlia Rose (Bisset) a scacciare coloro che vorrebbero toglierle il saloon in cerca di petrolio (dimostrando così che i moderni farabutti, pur spalleggiati dalla legge, sono infinitamente peggiori dei banditi di un tempo). Un controfinale, ambientato dopo la morte del giudice, mostra finalmente l'attrice Lily (interpretata da Ava Gardner) giungere a visitare il saloon a lei dedicato, trasformato ormai in un museo. Anche se a tratti ci si diverte (l'approccio leggero ricorda "La ballata di Cable Hogue"), il film soffre alquanto per via della mancanza di focus e per un'ambientazione storica del tutto vaga. Ottimo Newman. Victoria Principal, al debutto sullo schermo, è Maria Elena, la donna di Roy. Anthony Perkins è il reverendo LaSalle, Ned Beatty il barista Tector. Huston in persona fa un cameo nei panni del trapper di montagna John "Grizzly" Adams, anche lui un personaggio realmente esistito.

4 aprile 2017

Lo sport preferito dall'uomo (H. Hawks, 1964)

Lo sport preferito dall'uomo (Man's Favorite Sport?)
di Howard Hawks – USA 1964
con Rock Hudson, Paula Prentiss
***

Rivisto in divx, con Sabrina.

Impiegato ai grandi magazzini Abercrombie & Fitch nel reparto di articoli sportivi, Roger Willoughby (Rock Hudson) elargisce ai clienti preziosi consigli sulla pesca ed è considerato da tutti un vero esperto nel campo, avendo anche scritto un popolare libro sull'argomento. Ma in realtà non ha mai pescato in vita sua (e non solo: è totalmente inetto in qualsiasi sport, non sa nemmeno nuotare!). Quando il suo principale (John McGiver), per fare pubblicità al negozio, lo iscrive a un importante torneo di pesca che si terrà al lago Wakapoogie, l'imbarazzato Roger è costretto a confessare la verità alle due organizzatrici, Abigail Page (Paula Prentiss) ed "Easy" Muller (Maria Perschy), che se ne prendono a cuore le sorti, cercando di insegnargli a pescare prima che la gara cominci... La presenza delle due ragazze (e in particolare di Abigail, verso la quale nutre un vero e proprio amore-odio) si rivela una fonte di guai continui per Roger, che pure – per una serie incredibile di colpi di fortuna – in qualche modo riesce a vincere il torneo... Recuperando gli stilemi della commedia screwball, in particolare quella di pellicole come "Susanna" (che lui stesso aveva diretto nel 1938), Hawks torna su temi a lui cari come la lotta fra i sessi e l'irruzione devastatrice di una donna nel mondo ordinato (sia pure soltanto in apparenza) di un uomo, il cui machismo viene crudelmente demolito. E per molti versi sembra di assistere a una commedia degli anni trenta, con un Hudson autoironico in un ruolo che allora sarebbe stato di Cary Grant: da "Susanna" tornano pure molte gag slapstick (una, quella del vestito strappato di Maria Perschy, è praticamente identica a quella del film con Katharine Hepburn), mentre altre (più deboli, come tutte quelle relative al finto capo indiano, o surreali, come quelle con l'orso) garantiscono comunque una robusta dose di divertimento. Charlene Holt è Tex Connors, la fidanzata di Roger, Norman Alden è John "Aquila Urlante". La canzone sui titoli di testa (che esplicita il doppio senso nel titolo, spiegando che "Man's favorite sport... is girls!") è di Henry Mancini.

2 aprile 2017

Ghost in the shell (R. Sanders, 2017)

Ghost in the shell (id.)
di Rupert Sanders – USA 2017
con Scarlett Johansson, Pilou Asbæk
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Sabrina e Sabine.

Versione in live action dell'iconico manga cyberpunk di Masamune Shirow, dal quale nel corso degli anni sono già stati tratti diversi film animati e serie televisive (da ricordare in particolare le due pellicole dirette da Mamoru Oshii). In una città futuristica, dove gran parte degli esseri umani è stata "potenziata" con innesti cibernetici, il Maggiore è invece un androide interamente artificiale tranne che per il cervello umano: il titolo fa infatti riferimento alla sua mente o psiche (il ghost) imprigionata in un corpo meccanico (lo shell). Assegnata alla speciale Sezione 9 delle forze di pubblica sicurezza, incaricata di dare la caccia ad hacker e terroristi cibernetici, il Maggiore ricorda pochissimo della sua vita precedente. E proprio il mistero della sua identità sarà la chiave della pellicola. Colorato e affascinante dal punto di vista visivo (con le strade e i palazzi di una Hong Kong futuristica, sovrastata da immensi ologrammi, comunque in parte derivativa da "Blade Runner" come già il manga originale) e con un cast tanto ricco quanto insolito (dove spiccano due "mostri sacri" come Takeshi Kitano – non doppiato, e che a Hollywood aveva già recitato in un altro film cyberpunk, "Johnny Mnemonic" – e Juliette Binoche, nei panni rispettivamente del capo della Sezione 9 e dello scienziato che ha creato il Maggiore; Michael Pitt è invece l'enigmatico terrorista Kuze), il film non raggiunge forse le complesse (e contorte) profondità del prototipo, che si interrogava sulla natura dell'essere umano, sul rapporto fra realtà e finzione, sull'autocoscienza e l'intelligenza artificiale, ma riesce comunque a fonderne alcuni temi (le riflessioni sull'identità, l'invadenza della tecnologia) con le esigenze del blockbuster d'azione, e complessivamente dà sfoggio di una propria anima, stratificata e multiculturale (l'atmosfera giapponese è ben presente, nonostante le critiche ricevute per il fatto che la protagonista non sia asiatica: ma avendo un corpo artificiale, la questione è in fondo priva di senso). Tutto sommato, mi aspettavo di peggio. Sui titoli di coda si può udire un brano dell'iconica colonna sonora scritta da Kenji Kawai per il primo film di Oshii.