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31 luglio 2023

Avatar 2 (James Cameron, 2022)

Avatar: La via dell'acqua (Avatar: The Way of Water)
di James Cameron – USA 2022
con Sam Worthington, Stephen Lang
**

Visto in TV (Disney+).

Per proteggere la propria famiglia – la moglie Neytiri (Zoe Saldana) e i quattro figli Neteyam, Lo'ak, Tuk e Kiri (Sigourney Weaver!), quest'ultima adottata – dalla vendetta del redivivo colonnello Quaritch (Stephen Lang), tornato su Pandora nel corpo clonato di un Na'vi insieme a una nuova forza di invasione terrestre, l'ex marine Jake Sully (Sam Worthington) – diventato nel frattempo un capoclan Na'vi col nome di Omaticaya – decide di abbandonare insieme a loro il mondo delle foreste e di stabilirsi presso le tribù indigene che vivono sulla costa, vicino alle barriere coralline. Qui i suoi figli imparano le usanze dei popoli marini, "la via dell'acqua", cercando di integrarsi fra loro. Ma il colonnello li rintraccia lo stesso, e lo scontro sarà inevitabile. L'enorme successo commerciale di "Avatar", nel 2009, aveva portato James Cameron a mettere quasi immediatamente in cantiere un sequel, anzi una serie di seguiti (ne sono previsti quattro, per ora), la cui lavorazione si è però protratta talmente a lungo che il primo di questi è uscito ben tredici anni dopo il prototipo. Tredici anni in cui il mondo del cinema è andato avanti, in molteplici direzioni: la febbre del 3D (che tanto aveva contribuito agli incassi del primo film), per esempio, è quasi svanita. Il che aveva spinto molti analisti a immaginare un sonoro flop per il secondo "Avatar", anche considerando il fatto che il primo aveva lasciato ben poco nell'immaginario collettivo. E invece, ancora una volta Cameron ha avuto ragione, almeno dal punto di vista commerciale: "La via dell'acqua" ha fatto sfracelli al botteghino, incassando oltre due miliardi di dollari in tutto il mondo. Tecnicamente impeccabile, narrativamente parlando però è carente quasi quanto il film precedente: una storia esile e poco interessante, situazioni stereotipate (i bulli, le dinamiche da teenager), dialoghi mediocri, personaggi debolmente o per nulla caratterizzati.

Il punto di forza, ancora una volta, sono le immagini: l'aspetto visivo è spettacolare, anche se tutto è CGI e animazione digitale, per una serie di scenari "esageratamente" belli ma anche incapaci di offrire autentici agganci emotivi. È videografica (nemmeno videoarte), non più cinema, e più che a un film sembra di assistere a uno screensaver o a uno di quei filmati dimostrativi che scorrono sugli schermi dei televisori messi in mostra nei negozi di elettronica. Così come è difficile riconoscere gli attori dietro i loro "avatar" digitali (ho scoperto che uno dei personaggi è interpretato da Kate Winslet soltanto leggendo i titoli di coda). Fra i soggetti affrontati, sorvolando sugli abusati temi sul concetto di famiglia, spicca quello dell'incontro fra le diverse culture, che riguarda sia i buoni (la famiglia di Sully che cerca di integrarsi dei Na'vi del mare) sia i cattivi (Quaritch e i suoi uomini cercano di "imparare a pensare come il nemico"). Continua invece a mancare ogni riflessione sull'identità, a dispetto del titolo della franchise. Riguardo al world building, si ripetono gli stessi temi del primo film, a partire dalla "comunione con la natura", che qui si riflette nel rapporto fra i clan del mare e i giganteschi tulkun, enormi cetacei "intelligenti e sensibili" a cui ovviamente i cattivi danno la caccia come, sulla Terra, fanno le baleniere. Sully resta ai margini di quasi tutta la pellicola, lasciando il proscenio ai figli, salvo affrontare il cattivo nel finale. Fra i nuovi personaggi spicca "Spider" (Jack Champion), il figlio del colonnello, cresciuto fra i Na'vi e diventato amico dei figli di Sully, che si aggira fra gli indigeni quale unico umano con una maschera per respirare (ricordando in questo la Sandy Cheeks di Spongebob!). Nonostante la lunga durata (oltre tre ore), il film è complessivamente inconcludente nel quadro più ampio (la nuova invasione terrestre non viene sventata) e fa solo da preambolo ai capitoli successivi. Premio Oscar per gli effetti speciali, più altre tre nomination (sonoro, scenografie e film, quest'ultima regalata).

30 aprile 2020

Titanic (James Cameron, 1997)

Titanic (id.)
di James Cameron – USA 1997
con Leonardo DiCaprio, Kate Winslet
****

Rivisto in DVD.

Il naufragio del RMS Titanic, transatlantico di lusso che calò a picco nella notte fra il 14 e il 15 aprile 1912, durante il suo viaggio inaugurale dall'Inghilterra verso gli Stati Uniti, a causa della collisione con un iceberg che provocò l'allagamento dello scafo e causò la morte di 1500 dei suoi 2200 passeggeri, è narrato attraverso la storia personale di una dei superstiti, la giovane Rose DeWitt (Kate Winslet), che ai giorni nostri la racconta da anziana (Gloria Stuart) all'equipaggio di una nave da recupero impegnata a cercare nel relitto una collana con un preziosissimo diamante, "Il cuore dell'oceano", acquistato per lei dall'allora fidanzato Cal Hockley (Billy Zane). Filo conduttore del suo racconto (e del film) è la storia d'amore "impossibile" fra Rose, facoltosa passeggera di prima classe, e Jack Dawson (Leonardo DiCaprio), spiantato artista che viaggia in terza classe ma che saprà far breccia nel cuore dell'irrequieta ragazza, strappandola a un destino che sembrava già scritto. Mettiamo subito le cose in chiaro: "Titanic" è un capolavoro, oltre che uno dei kolossal di maggior successo del cinema americano, fortemente voluto dal regista-sceneggiatore James Cameron contro tutto e contro tutti: costò uno sproposito (200 milioni di dollari, che all'epoca lo resero il film più dispendioso di sempre) e richiedette il coinvolgimento di non uno ma due grandi studios (la 20th Century Fox e la Paramount, che vollero dividersi le spese e i rischi), ma si rifece al botteghino con gli interessi (è stato il primo film nella storia a superare il miliardo di dollari di incassi; per la precisione arrivò a 1.843 milioni, che divennero poi 2.194 con la successiva riedizione in 3D: un record battuto soltanto dodici anni più tardi da un altro film dello stesso Cameron, "Avatar"). Eppure, prima della sua uscita, non pochi addetti ai lavori prevedevano un sonoro flop, anche per via delle eccessive ambizioni. E in effetti l'enorme successo nelle sale non fu immediato ma montò pian piano: contrariamente alla consuetudine che vede i film registrare la maggior parte del loro incasso nella prima settimana di programmazione, "Titanic" carburò lentamente ma continuò a riempire i cinema per mesi e mesi. A suggellare la sua strepitosa popolarità fu una combinazione di elementi: la grandiosità della pellicola, la maestria tecnica, gli agganci emotivi che facevano appiglio su pubblici diversi (gli appassionati di film d'azione o catastrofici, quelli attratti dalla ricostruzione storica, gli amanti dei kolossal spettacolari, i patiti delle storie d'amore) e naturalmente l'esplosione della "DiCaprio mania" (un aneddoto personale: quando il film giunse al cinema, lo vidi due volte a distanza di circa una settimana. La prima volta la sala era semivuota, ma la seconda, dopo pochi giorni, era già strapiena di ragazzine sognanti, pronte a gridare e a sospirare ad ogni inquadratura ravvicinata degli occhi azzurri del buon Leo).

Il successo e la popolarità, da sempre, hanno anche dei lati negativi. Non solo Cameron e il film stesso si attirarono gli strali snobistici dei cinefili anti-mainstream (compresi i molti ammiratori del regista rimasti irritati dalla sua scelta di abbandonare il cinema di genere, per lo più di fantascienza, che lo aveva reso celebre) e anche di molti spettatori che, pur avendolo segretamente apprezzato, lo denigravano in pubblico liquidandolo come un film buono solo per ragazzine adolescenti (che in effetti contribuirono agli incassi andando in sala a vederlo più volte), ma anche i due protagonisti rischiarono di restarne bollati per sempre: per alcuni anni soprattutto DiCaprio si fece la fama di attore belloccio la cui carriera era dovuta solo a questo unico titolo. Col tempo, però, seppe dimostrare (e lo stesso vale per la bravissima Winslet) di essere un interprete di grande calibro, collaborando con il fior fiore dei registi hollywoodiani (da Scorsese a Tarantino, da Nolan a Spielberg, da Scott a Iñárritu). E naturalmente il film riportò all'attenzione del grande pubblico il "mito" del Titanic, a dire il vero mai veramente tramontato (a parte gli innumerevoli film e romanzi sull'argomento, come la pellicola del 1958 "Titanic, latitudine 41 Nord" di Roy Ward Baker che avrebbe ispirato Cameron in più scene, si pensi solo alla canzone "Titanic" di Francesco De Gregori, dall'album omonimo), anche per via dei tantissimi sottotesti storici, sociali e culturali che portava con sé: la nave colossale e lussuosa, il cui nome tira in ballo addirittura la mitologia greca (i titani dominarono la Terra, prima di essere sconfitti e spodestati dai loro figli, gli dèi), pomposamente soprannominata "l'inaffondabile" e dunque simbolo dell'orgoglio e delle ambizioni dell'uomo; ma anche la divisione in classi al proprio interno, che ne fa un microcosmo dell'intera struttura sociale umana (le scene del film ambientate nell'enorme sala macchine, un livello ancora più in basso della terza classe, ricordano in maniera impressionante quelle delle fabbriche nel "Metropolis" di Fritz Lang, altro film incentrato su questo tema); e ovviamente il contesto cronologico, quell'inizio di un ventesimo secolo che tutti immaginavano foriero di conquiste scientifiche, di progresso e di belle arti (era la Belle Époque, dopotutto!): proprio l'affondamento del Titanic, prima ancora dello scoppio della prima guerra mondiale e della caduta dei grandi imperi, rappresentò un brusco risveglio per tutti coloro che si illudevano di un progresso continuo e di una conquista infinita. Come dice Massimo Polidoro, fu "la fine di una leggenda che sposava la tecnologia alla ricchezza, il materialismo al romanticismo, l'illusione alla fantasia".

Con una durata di oltre tre ore, il film si prende il suo tempo per raccontare tutto quello che ha da dire: si comincia con un prologo ambientato ai giorni nostri, la parte più tecnologica della pellicola e forse la più squisitamente "cameroniana" (il regista è sempre stato attratto dall'esplorazione delle profondità sottomarine, come si evince da titoli quali "Abyss" e dai documentari "Ghosts of the abyss" e "Aliens of the deep"). Un robot-sommozzatore teleguidato ci porta a esplorare il (vero!) relitto del transatlantico, ritrovato nel 1985, mostrandoci ambienti (il parapetto di prua, i saloni, i ponti) e oggetti (il lampadario, il camino, il fermacapelli, la cassaforte con il ritratto), ormai degradati dai batteri o ricoperti dalle alghe, che più tardi rivedremo nuovi fiammanti durante il viaggio inaugurale di 84 anni prima. Protagonisti di questa sezione sono i "cacciatori di tesori" guidati da Brock Lovett (Bill Paxton), che soltanto alla fine del film giungeranno a comprendere finalmente "l'elemento umano" della tragedia. Assai efficace è la trovata di mostrare, attraverso una simulazione al computer, tutte le fasi dell'affondamento della nave: quando poi ci ritroveremo a bordo di essa, sapremo già cosa ci aspetta e questo non farà che accrescere la tensione (un trucco ben noto a Hitchcock: conoscere già qualcosa incrementa la suspense, anziché andare a suo detrimento). Dicevamo della divisione in classi: la forbice non potrebbe essere più ampia di quella fra i due protagonisti, Jack e Rose, il primo in terza e senza un soldo in tasca (ha vinto i biglietti per il viaggio, per sé e l'amico Fabrizio, in una mano fortunata alle carte), la seconda in prima, in una delle cabine più lussuose, colma di gioielli e di oggetti preziosi (fra cui alcuni quadri "acquistati a Parigi": qualche critico si è lamentato della presenza fra questi di opere di Picasso o di Monet che non erano state ancora dipinte o che all'epoca erano già esposte in qualche museo, ma nulla esclude che si tratti di dipinti simili o di versioni alternative degli stessi, andate poi perdute nel naufragio; ben più gravi sono altri errori o anacronismi, come l'accenno a Freud, le costellazioni sbagliate nel cielo – poi corrette nella riedizione del 2012 – o alcuni brani musicali che anccora non erano stati composti). Fidanzata al ricco e arrogante Cal con il beneplacito della madre (Frances Fisher), Rose si sente prigioniera e intrappolata in una vita già scritta e che ovviamente le va stretta, lei che vuole sentirsi libera e indipendente. Indicativa una frase della madre: "L'università serve solo a trovare un buon marito, e questo Rose l'ha già fatto". Nonostante la differenza sociale, l'affinità con Jack sarà totale: dal primo incontro, quando lui sventerà il suo tentativo di suicidio (buttandosi dalla poppa della nave: il luogo opposto a quella prua dove invece si cementerà il loro amore, con l'iconica scena del "volo", appoggiati al parapetto e con le mani distese: "Ti fidi di me?" "Mi fido di te"), ai vari passaggi della loro (breve) relazione: conoscersi meglio (scoprendo i molti punti in comune, a partire dall'amore per l'arte), frequentarsi prima nell'ambiente di lei (la cena in prima classe) e poi in quello di lui (il ballo in terza classe), scoprire di amarsi.

Se pure ha giocato un ruolo ampio e forse decisivo per l'enorme successo del film, la trama romantica rappresenta anche il suo aspetto più scontato e retorico, quello più convenzionalmente hollywoodiano e "costruito a tavolino". Eppure non si può negare la sua efficacia (l'assenza parziale di lieto fine è anche assai commovente) e, in fondo, fa parte del gioco: senza contare che proprio l'ampio spazio dato alla storia sentimentale dei due personaggi, mentre sullo sfondo si dipana una tragedia di proporzioni storiche, imparenta il film con l'altro grande classicone del cinema americano, "Via col vento", tuttora il film con il maggior incasso di sempre se si tiene conto dell'inflazione. Entrambi rappresentano il meglio di quello che Hollwyood ha da offrire, in quanto "fabbrica di sogni" su vastissima scala, al pubblico di tutto il mondo. Ma torniamo alla nostra storia. Se per molti sarà una tragedia, per Rose in un certo senso l'affondamento del Titanic rappresenta una liberazione, l'occasione (grazie anche a Jack, certo) di rompere le catene della sua prigionia e di rifarsi una nuova vita: le fotografie che da anziana porta sempre con sé mostrano le varie tappe di una vita libera e avventurosa, piena di viaggi e di esperienze che non avrebbe certo mai potuto fare se fosse rimasta a fianco di Cal. "Lui mi ha salvato. In tutti i modi in cui una persona può essere salvata", spiegherà, riferendosi a Jack: ma il merito è un po' anche di quel transatlantico che è affondato (per lei) al momento giusto, portandosi dietro gran parte del "mondo di ieri", per dirla alla Stefan Zweig. I segni premonitori sul destino della nave sono presenti, nel film, in numerosi dialoghi sin dall'inizio: dall'armatore Ismay (Jonathan Hyde) che ordina al comandante Smith (Bernard Hill) "Questo viaggio inaugurale del Titanic deve finire in prima pagina", allo stesso Jack che proclama a Fabrizio "La nostra vita sta per cambiare". La sequenza del naufragio occupa l'intera seconda metà della pellicola e si svolge quasi in tempo reale (nella realtà passarono solo due ore e quaranta dall'urto con l'iceberg al completo affondamento), in un crescendo sempre più teso e spettacolare che trasforma il film da romantico a catastrofico. Naturalmente, a seconda del tipo di pubblico, c'è chi ha gradito più la prima parte e chi più la seconda: ma è l'insieme, e la perfetta fusione delle due anime (la vicenda di Jack e Rose continua a dipanarsi anche durante le varie fasi del naufragio), a renderla una pellicola eccezionale.

L'iceberg compare di colpo davanti allo scafo, in una notte serena e senza vento, con il mare "piatto come una tavola", sorprendendo chi è a bordo quasi come il pubblico in sala (che magari, preso dalla fuga d'amore dei protagonisti e dal conflitto con il "cattivo" Cal, si era quasi dimenticato cosa stava per arrivare). La falla sul fianco provoca l'allagamento dello scafo e della sala macchine, dando il via al lento sprofondare della nave. Di colpo ci torna in mente la simulazione al computer vista in precedenza, e sappiamo che il Titanic si inclinerà fino a spezzarsi in due. Equipaggio e passeggeri, chi prima e chi dopo, passano dall'iniziale incredulità al rendersi conto della situazione (in modo non dissimile dalla situazione che stiamo vivendo in questi giorni, dovuta all'epidemia di Coronavirus: c'è chi rifiuta di accettare la realtà e le sue conseguenze e chi la comprende quasi subito). Con grande anticipo ci è stato anche detto che le scialuppe non basteranno per tutti i passeggeri a bordo: mentre scoppia il caos e il panico, e assistiamo a piccoli e grandi episodi di codardia o di coraggio, verrà data la preferenza a donne e bambini, ma anche ai passeggeri di prima classe rispetto agli altri (Cal afferma che deve salvarsi "la metà giusta"). La tragedia monta inesorabilmente, il dramma collettivo si fonde con quello personale dei due protagonisti, mentre la regia costruisce una concretezza e una tensione da grande film d'azione e d'avventura, per esempio nella sequenza in cui Rose deve liberare Jack, falsamente accusato di furto e ammanettato, mentre sale il livello dell'acqua gelida (si nota tutta la maestria che Cameron ha accumulato e sfoggiato in lavori precedenti come "Aliens" e "Terminator"). Il destino dei due innamorati rimane in ballo fino all'ultimo, così come quello degli altri personaggi. Non tutti si salveranno, e a decidere chi lo farà non sarà il loro ruolo nella storia: ci sono personaggi negativi fra i superstiti (Cal, Ismay) e positivi fra i deceduti (Jack, l'ingegnere Andrews (Victor Garber) che rimane a morire sulla nave, così come il comandante Smith). Grazie anche alla fotografia di Russell Carpenter, ora così scura e fredda (quando nella prima parte era calda e avvolgente, capace di catturare spettacolari tramonti), percepiamo quanto l'acqua sia gelida. Le immagini ci mostrano la disperazione delle persone, di chi è stato abbandonato a morire, ma anche di chi è condannato a sopravvivere. Per inciso, il "mito" dell'orchestra che avrebbe continuato a suonare anche durante l'affondamento, incurante del naufragio, è parzialmente sbufalato: qui i membri del quartetto d'archi continuano a suonare sì, ma lo fanno consapevolmente, su ordine del capitano, per evitare il panico e per esorcizzare a proprio modo la fine imminente tramite il potere dell'arte.

Anche Jack, a sorpresa (essendo un personaggio immaginario, non legato dunque alla realtà degli eventi storici, poteva in fondo salvarsi, come ci si aspetterebbe da una pellicola mainstream con lieto fine hollywoodiano), lentamente ci dà l'addio mentre svanisce nelle scure profondità dell'oceano. La scena è ad effetto, ma chissà perché il ragazzo non ha potuto salire sulla zattera improvvisata che porta in salvo Rose, una dei soli 6 superstiti fra i 1500 passeggeri finiti in acqua (per non parlare del fatto che lei si tiene addosso i vestiti ghiacciati). E dopo tante immagini terribili dei cadaveri gelati in mare (anche una mamma col bambino!) e la scomparsa di Jack, quasi irreale, il racconto di Rose termina: chi l'ha ascoltato (nella "realtà filmica" come in sala) è in preda a forti emozioni, e sembra quasi di uscire da un film per tornare in un altro. Come il cacciatore di tesori, ci rendiamo conto di non aver mai veramente compreso cos'è stato il Titanic prima d'ora. La penultima scena, in cui l'anziana Rose getta il diamante in mare (filo conduttore di tutta la pellicola, ma in fondo un MacGuffin), ovvero restituisce all'oceano il suo "cuore", è una conclusione un po' scontata ma inevitabile. L'ultima è invece riservata all'ennesimo "passaggio" fra il passato e il presente, dal relitto sommerso alla nave del suo splendore primigenio, con Rose (defunta?) che viene accolta a bordo da tutti coloro che sono scomparsi nel naufragio, Jack in primis. La commozione sale a livelli esorbitanti e partono le note di "My Heart Will Go On", la popolarissima canzone di Céline Dion che si è legata indissolubilmente a questa pellicola, composta dall'autore della colonna sonora James Horner (inizialmente contro il volere di Cameron, che non voleva alcun brano vocale sui titoli di coda: ma cambiò idea dopo averla sentita) e il cui tema melodico aveva già accompagnato i momenti più romantici della vicenda di Jack e Rose. Capiamo che la storia è finalmente finita: una storia che ci ha coinvolti e tenuti avvinti per oltre tre ore, un'esperienza cinematografica come poche, un capolavoro (senza mezzi termini) del cinema epico, colossale, catastrofico e romantico, di una Hollywood al suo meglio. E anche un film d'altri tempi: non a caso, appunto, il paragone che viene più spontaneo da fare è quello con un titolo del 1939, "Via col vento". Per realizzarlo c'è voluto un "autore" visionario come Cameron, che ne ha fatto un proprio pet project, perché i dirigenti delle major (ormai pallidi simulacri di quelli del passato) non ne avrebbero mai avuto la visione, il desiderio o il coraggio di pensarlo o di produrlo da soli.

Parliamo un po' anche degli inevitabili aspetti tecnici: in un'epoca in cui il digitale era riservato soltanto ad effetti speciali aggiuntivi, fu necessario costruire un modello in scala 1:1 dell'intero Titanic (in realtà soltanto del 90% della nave, visto che alcune sezioni considerate ridondanti furono omesse), e le riprese vennero effettuate all'interno di una cisterna (una "horizon tank", che permette cioè di simulare l'oceano in tutte le direzioni) contenente decine di milioni di litri d'acqua. La lavorazione, lunga e faticosa, durò sei mesi, molto di più se si considera anche l'immenso lavoro di post-produzione. Quanto agli interpreti, il casting seppe anche andare contro alcuni luoghi comuni: se non c'è dubbio che DiCaprio fu scelto per l'aspetto efebico (e gli occhi azzurri!), la Winslet appare ben più "paffutella" della tipica eroina hollywoodiana, e la sua personalità guida la vicenda anche più di quella del suo co-protagonista. In ogni caso, l'alchimia fra di loro è innegabile: indimenticabili scene come quella (poi iper-parodiata, a partire da "Rat-Man") in cui lui la ritrae nuda, sul divano, con il diamante addosso e basta, un vero momento liberatorio per una fanciulla che tutti, tranne appunto Jack, vogliono reprimere (fu la prima scena che i due girarono insieme, fra l'altro). Entrambi gli interpreti, come già detto, si confermeranno grandi attori e avranno una carriera di successo (tornando occasionalmente a recitare in coppia, come nell'ottimo "Revolutionary Road" di Sam Mendes). Fra i molti ruoli minori, da ricordare Kathy Bates nei panni di Molly "l'inaffondabile", una dei pochi passeggeri di prima classe a prendere Jack in simpatia (d'altronde anche lei, in quanto "nuova ricca", è vista con snobismo e dall'alto in basso dagli aristocratici) e David Warner in quelli di Lovejoy, il valletto di Cal, vera spina nel fianco dei nostri eroi. Nominato a 14 premi Oscar (record di sempre, insieme a "Eva contro Eva" e "La La Land"), il film ne vinse ben undici (anche questo un record, spartito con "Ben-Hur" e "Il Signore degli Anelli: Il ritorno del re"): miglior film, regia, fotografia, montaggio, scenografia, costumi, sonoro, montaggio sonoro, effetti speciali, colonna sonora e canzone (gli sfuggirono quelli per l'attrice (Winslet), l'attrice non protagonista (Stuart) e il trucco; né DiCaprio né la sceneggiatura furono invece candidati). Nel ricevere la sua statuetta, Cameron ripetè sul palco una delle frasi più celebri della pellicola, quel "Sono il re del mondo!" pronunciato da Jack in preda all'entusiasmo per essere a bordo della nave e fare parte, a suo modo, della storia. Nel 2012, in occasione del centesimo anniversario del naufragio del Titanic, il film è stato riproposto nelle sale in versione 3D.

28 marzo 2020

Contagion (Steven Soderbergh, 2011)

Contagion (id.)
di Steven Soderbergh – USA 2011
con Matt Damon, Laurence Fishburne
***

Visto in divx.

Storia di una pandemia, che dal sud-est asiatico si diffonde rapidamente a tutto il mondo (anche se il film, con l'eccezione di alcune sequenze ambientate a Hong Kong, si concentra quasi esclusivamente sugli Stati Uniti): di impianto corale, e caratterizzata da un'insolita accuratezza scientifica per un film hollywodiano (lo sceneggiatore Scott Z. Burns, ispirato dalle allora recenti epidemie di SARS e H1N1, ha consultato medici ed esperti dell'Organizzazione Mondiale della Sanità per redigere ogni passaggio dello script), la pellicola racconta l'insorgere e la diffusione dei sintomi, le prime morti sospette, l'attivazione di medici e ricercatori competenti, le reazioni dei politici e dei media, il panico e il caos fra la popolazione, la ricerca di un vaccino, la lotta "in trincea" degli operatori sanitari, le misure e le precauzioni della gente comune, i confini chiusi e le quarantene, le fosse comuni, fino alla (temporanea?) risoluzione. A parte alcune esagerazioni (il virus MEV-1 è altamente contagioso, molto letale e dalla rapida incubazione), colpisce appunto per l'accuratezza scientifica con cui descrive un caso del genere: e vederlo in questo giorni, quando è in corso una pandemia (quella di Covid-19) anche nel mondo reale, risulta al tempo stesso inquietante e, in certo senso, tranquillizzante. La narrazione comincia dal "Giorno 2" (il racconto del "Giorno 1" – quello in cui il virus, dal pipistrello passando per il maiale, giunge in contatto per la prima volta con l'essere umano e quindi con il "paziente zero", che lo diffonderà poi nel resto della popolazione – è riservato per le ultime immagini, prima dei titoli di coda). L'ampio cast comprende Matt Damon, che si scopre immune quando invece sua moglie (Gwyneth Paltrow) è la prima a morire per la malattia (ed è lei, in effetti, ad averla portata dall'Asia fino in America); Laurence Fishburne (un medico del CDC, il centro per le prevenzione e il controllo delle malattie negli Stati Uniti); Jennifer Ehle (la ricercatrice che scopre il vaccino); Marion Cotillard (la dottoressa dell'OMS che si reca a indagare a Hong Kong); Kate Winslet (l'agente del reparto malattie infettive del CDC); Elliot Gould (il virologo che riesce a riprodurre il virus in coltura); Jude Law (il blogger "complottista"). Insieme, coprono un po' tutti i punti di vista relativi all'epidemia: quello dei medici e dei ricercatori, quello dei pazienti e della gente comune, quello degli informatori (o disseminatori di "fake news", nel caso del personaggio interpretato da Jude Law). La regia di Soderbergh si pone giustamente al servizio della storia e della sceneggiatura, così come la fotografia fredda e realistica e le scenografie. A parte poche sequenze (il caos nelle strade), il film riesce a evitare le trappole dei classici film catastrofici (d'altronde l'idea di spettacolarizzare la lotta a un nemico invisibile sarebbe stata persa in partenza) e ha ottenuto un buon successo di pubblico, con una popolarità che, visto l'argomento d'attualità, è comprensibilmente tornata a impennarsi in questi giorni.

9 febbraio 2019

Steve Jobs (Danny Boyle, 2015)

Steve Jobs (id.)
di Danny Boyle – USA 2015
con Michael Fassbender, Kate Winslet
**

Visto in TV, con Sabrina.

La vita di Steve Jobs, co-fondatore di Apple e figura chiave nel campo dell'innovazione tecnologica, raccontata attraverso i frenetici istanti che precedono tre celebri presentazioni di prodotto: quella del primo personal computer Macintosh nel 1984, quella del NeXT Computer nel 1988 (nel breve periodo in cui Jobs era uscito dall'azienda), e quella dell'iMac nel 1999 (che segnò il suo ritorno alla Apple). Prima di tutti e tre gli eventi, Jobs (Michael Fassbender, bravo come sempre, anche se non è particolarmente somigliante), coadiuvato dalla sua assistente e addetta al marketing Joanna Hoffman (Kate Winslet), incontra alcune persone, sempre le stesse (le tre sezioni del film portano avanti tante piccole sottotrame che si completano solo alla fine): l'ex amico e co-fondatore della Apple, Steve Wozniak (Seth Rogen), che cerca inutilmente di convincerlo a citare e ringraziare i colleghi che hanno lavorato allo sviluppo dell'Apple II, cosa che Jobs rifiuta perché non vuole agganciare il lancio di un nuovo prodotto a quelli del passato; l'amministratore delegato dell'azienda, John Sculley (Jeff Daniels), che farà licenziare Jobs dopo il flop del Macintosh, spingendolo a fondare una nuova società, la NeXT appunto, salvo poi tornare alla Apple come "salvatore" e riportarla in auge proprio con l'iMac (seguiranno successi planetari come l'iPod, preannunciato dalla scena finale, l'iPhone e l'iPad, nemmeno menzionati visto che il film termina nel 1999); Andy Hertzfeld (Michael Stuhlbarg), un membro del team del Macintosh originale; il giornalista Joel Pforzheimer (John Ortiz); Andrea "Andy" Cunningham (Sarah Snook), che gestisce gli eventi di lancio, e che viene continuamente confusa con Hertzfeld, visto che sono entrambi chiamati Andy; e infine Chrisann Brennan (Katherine Waterston), ex compagna di Jobs, e sua figlia Lisa (Perla Haney-Jardine), inizialmente non riconosciuta ma poi, lentamente, punto di riferimento per l'uomo (almeno nel film). Era difficile mettere in piedi una pellicola su un personaggio del genere, e tutto sommato la sceneggiatura di Aaron Sorkin fa un buon lavoro nel ritrarre le sue diverse facce: ambizioso, arrogante, testardo (e tirannico), più attento al design e al marketing dei suoi prodotti che non agli aspetti tecnici e creativi (le presentazioni devono essere degli spettacoli, anche a costo di "barare"), propugnatore dei "sistemi chiusi" ma comunque preveggente e visionario (come l'Arthur C. Clarke del quale è riportato uno spezzone di intervista nell'incipit). Peccato che il film, in questo modo, manchi di un vero focus: barcamenandosi fra il lato umano, quello imprenditoriale e quello pubblico di Jobs, non si sofferma fino in fondo su nessuno di essi, tanto che il personaggio viene mostrato soprattutto attraverso il modo in cui lo vedono gli altri (amici e collaboratori, più o meno traditi): e la sua vera natura, qual è?

8 febbraio 2019

Un giorno come tanti (J. Reitman, 2013)

Un giorno come tanti (Labor Day)
di Jason Reitman – USA 2013
con Kate Winslet, Josh Brolin
**1/2

Visto in TV, con Sabrina.

Fine degli anni ottanta: il tredicenne Harry (Gattlin Griffith) abita da solo con la madre Adele (Kate Winslet), fragile e depressa, che dopo la separazione dal marito si è rinchiusa ancora di più in sé stessa. Quando l'evaso Frank (Josh Brolin), accusato di omicidio, si rifugia nella loro casa isolata e chiede di ospitarlo fin quando le acque non si saranno calmate, la loro vita sembra improvvisamente cambiare. Frank è affascinante e sensibile, e nel giro di pochi giorni (il "weekend lungo" del Labor Day) dimostra di poter essere un buon padre per Harry e un buon compagno per Adele, tanto che i due meditano di fuggire insieme a lui dalla città... Il quinto film di Reitman junior è il primo che non può essere definito una commedia (anche se i precedenti correvano tutti lungo un labile confine fra comico, satira e dramma), oltre che il suo primo insuccesso di critica: la storia pare uscita da un melenso romanzo rosa (Frank è troppo perfetto per essere vero: aitante, premuroso, cucina bene e pulisce pure... esistono realmente uomini così?), ma la scelta di mostrare quasi tutto dal punto di vista del bambino anziché da quello della madre si rivela indovinata, donando alla vicenda quell'aura avventurosa e da coming-of-age (siamo nel periodo in cui anche il ragazzino comincia ad avere le prime pulsioni sessuali) che la rende molto più accattivante. Ambientato in una cittadina di provincia americana dove tutti sono un po' impiccioni (i vicini, i poliziotti, i negozianti), il film si dipana come un thriller senza veri cattivi, con alcuni passaggi scontati o scelte improbabili, ma il (relativo) lieto fine commuove e soddisfa. E la metafora dell'evaso che a sua volta libera la donna e la famiglia dalla propria prigione è efficace. Ottimi gli attori. Clark Gregg è il padre, Brooke Smith la vicina di casa. Piccole parti per J.K. Simmons (il vicino), James Van Der Beek (il poliziotto) e Tobey Maguire (Harry da adulto).

17 settembre 2011

Carnage (Roman Polanski, 2011)

Carnage (id.)
di Roman Polanski – Francia/Germania/Polonia 2011
con Jodie Foster, Kate Winslet
***1/2

Visto al cinema Apollo, con Marisa e Lucia, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Dopo che un bambino di undici anni ha colpito nel parco un coetaneo con un bastone, facendogli saltare un dente, le due coppie di genitori si incontrano nell'appartamento di una di loro per discutere dell'accaduto. Ma il confronto, iniziato con toni civili e assolutamente accomodanti, degenera presto nel caos, fra litigi, battibecchi e comportamenti infantili (catalizzati anche dal passaggio, nelle bevande che i quattro consumano, dal caffè al whisky!), portando alla luce intolleranze e ipocrisie e mandando completamente in malora il "buonismo" iniziale. Inutile nasconderlo: è nel cosiddetto "cinema da camera" che Polanski sa davvero dare il suo meglio. Tratto da un'acclamata commedia teatrale di Yasmina Reza (che ha collaborato al regista per la sceneggiatura), il film offre un irresistibile crescendo di situazioni ricche di umorismo e di satira, con dialoghi che prendono ferocemente in giro gli stili di vita dei suoi personaggi e all'insegna di dinamiche perennemente mutevoli (a seconda del momento e dell'evoluzione della serata, abbiamo in scena una coppia contro l'altra oppure una complicità fra i due uomini "alleati" contro le donne). Straordinari gli interpreti: Jodie Foster, appassionata d'arte e scrittrice frustrata, è la tipica donna impegnata per le cause terzomondiste; John C. Reilly, suo marito, è un buzzurro che si adatta ai voleri della moglie per il quieto vivere; Kate Winslet è la coniuge repressa e modaiola di Christoph Waltz; e questi è un avvocato che difende una compagnia farmaceutica in malafede e che non si allontana mai dal suo telefonino (l'apparecchio squilla continuamente, frammentando la conversazione). Il film (comunque assai breve), vola in un lampo. E per lo spettatore è quasi catartico osservare personaggi altoborghesi azzuffarsi fra di loro su argomenti frivoli così come su altri più "seri" ma affrontati comunque in maniera irrazionale o grottesca. L'unico difetto, se vogliamo, è la mancanza di un vero finale. Anche se ambientato a Brooklyn, il film è stato girato a Parigi (per via dell'impossibilità di Polanski di recarsi negli Stati Uniti) e si svolge interamente fra le quattro mura dell'appartamento, a parte i titoli di testa e di coda nei quali vediamo i bambini al parco (l'aggressore, Zachary, è interpretato dal figlio di Polanski, Elvis).

8 marzo 2011

Se mi lasci ti cancello (M. Gondry, 2004)

Se mi lasci ti cancello (Eternal Sunshine of the Spotless Mind)
di Michel Gondry – USA 2004
con Jim Carrey, Kate Winslet
****

Rivisto in DVD, con Hiromi.

In un'uggiosa giornata di febbraio, il timido e complessato Joel Barish (Jim Carrey) incontra la vivace ed estroversa Clementine Kruczynski (Kate Winslet) sulla spiaggia di Montauk, presso New York, ed è amore a prima vista. Ma i due ignorano di essere già stati insieme in passato e che la loro storia è finita nel peggiore dei modi: qualche giorno prima, infatti, si erano rivolti alla Lacuna Inc., una clinica in grado di rimuovere selettivamente i ricordi indesiderati dalla mente di una persona. E così dapprima Clementine aveva cancellato Joel dalla propria memoria, e poi per ripicca Joel aveva fatto lo stesso. Ma contro il destino – e la forza dell'amore – non si può andare, a costo di tornare a commettere gli stessi errori: lo dimostrano pure la vicenda di Mary (Kirsten Dunst), impiegata come segretaria alla Lacuna, che si sente attratta dal dottore che ha inventato il procedimento di cancellazione (Tom Wilkinson), senza sapere di esserne già stata l'amante; e quella di Patrick (Elijah Wood), che insieme al tecnico Stan (Mark Ruffalo) esegue materialmente le "operazioni" e che, infatuato a sua volta di Clementine, cerca inutilmente di sfruttare i ricordi e gli effetti personali di Joel per far colpo sulla ragazza. Uno dei film più belli, originali e significativi del decennio, una struggente e sofisticata storia d'amore che mostra non solo le gioie ma anche e soprattutto i dolori di una tormentata relazione romantica: al termine della pellicola, anche se Joel e Clementine decidono di riprovarci, il lieto fine non è garantito. Straordinarie le prove della Winslet e soprattutto di un Carrey in stato di grazia, che dimostra una volta di più la sua immensa (e sottovalutata) statura di attore. Non male nemmeno il resto del cast: persino la Dunst, una volta tanto, mi è piaciuta. Il regista francese Michel Gondry, che in precedenza aveva lavorato soprattutto nel campo dei videoclip, è ricco di idee e di talento visivo; ma il vero punto di forza del film risiede nella sceneggiatura stratificata e psicologica di Charlie Kaufman, vincitrice dell'Oscar, che si snoda abilmente attraverso flashback, memorie e percezioni alterate di eventi già accaduti. La relazione di Joel e Clementine ci viene narrata a ritroso, man mano che i ricordi dell'uomo vengono cancellati, e dunque gran parte del film si svolge "nella testa" di Joel (il quale, pentito e resosi conto di amare ancora la ragazza, cerca disperatamente di fermare il procedimento), con effetti surreali, onirici e fantastici: il tutto, per fortuna, non si risolve in uno sfoggio di grafica fine a sé stessa ma è sempre al servizio del racconto e della caratterizzazione dei personaggi. Per non perdere il filo della storia, comunque, conviene prestare attenzione ai dettagli: per esempio al colore dei capelli di Clementine (rosso, arancio, blu), dai quali si ricostruisce facilmente la cronologia degli eventi. Purtroppo il film va ricordato anche per uno dei peggiori esempi della stupidità dei distributori italiani, che gli hanno affibbiato un titolo del tutto fuorviante (quello originale è un verso del poeta inglese Alexander Pope) con il risultato di alienarsi il pubblico che avrebbe potuto gradirlo e di attirare invece in sala spettatori che si aspettavano una spensierata commedia hollywoodiana, finendo col rimanere sconcertati dalla complessità della narrazione. Ricordo infatti che quando lo vidi al cinema ero circondato da persone che borbottavano in continuazione, lamentandosi di non capire che cosa stesse succedendo sullo schermo. E Tullio Kezich (un critico con cui peraltro non sono mai stato in sintonia) scrisse una recensione estremamente negativa, nella quale raccontava di aver portato al cinema il suo nipotino e che questi non si era divertito come con il precedente film di Carrey, "Una settimana da dio".

22 gennaio 2010

Creature del cielo (P. Jackson, 1994)

Creature del cielo (Heavenly Creatures)
di Peter Jackson – Nuova Zelanda/GB 1994
con Melanie Lynskey, Kate Winslet
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni e Ginevra.

Christchurch, Nuova Zelanda, anni cinquanta: fra due studentesse quattordicenni – la scontrosa e introversa Pauline e la benestante e spocchiosa Juliet – nasce un'amicizia fortissima che assume caratteri via via più morbosi e sfocia in una simbiosi psicotica. Unite dalle comuni passioni (come quelle per il tenore Mario Lanza e per la narrativa fantastica), dai problemi di salute (la ferita alla gamba di Pauline, la tubercolosi di Juliet), dai disagi in famiglia (Pauline odia la propria madre, che a suo dire le "tarpa le ali", mentre Juliet soffre per l'imminente separazione dei suoi genitori) e dalla chiusura totale verso il mondo esterno (che si esplicita nel disprezzo verso la scuola e le compagne di classe, alle quali si sentono superiori), le due danno vita a un mondo di fantasia dove ambientano le storie da loro inventate e del quale si immaginano protagoniste (al punto da assumere i nomi di due dei loro personaggi, Gina e Debora). Quando i genitori, preoccupati per l'intensità del loro rapporto, cercheranno di dividerle, le ragazze progetteranno insieme l'omicidio della madre di Pauline: processate, come rivela la didascalia conclusiva, saranno condannate a non rivedersi mai più. Disturbante anche perché tratto da una storia vera (le frasi del diario di Pauline sono autentiche), non è solo il film d'esordio della bravissima Kate Winslet (nonché della coprotagonista Melanie Lynskey; anche lei molto brava, ma dalla carriera non altrettanto fortunata) ma anche quello con cui Peter Jackson si è allontanato per la prima volta dall'horror splatter e goliardico che lo aveva reso noto, dimostrandosi capace di affrontare anche film incentrati soprattutto sulla psicologia dei personaggi. Naturalmente il futuro regista della trilogia del "Signore degli Anelli" (a proposito, il libro di Tolkien veniva pubblicato proprio in quegli stessi anni cinquanta) non dimentica di essere un appassionato di fantasy e si diverte a ricostruire con ironia e artigianato, come un novello Ray Harryhausen, il mondo immaginario delle due ragazzine attraverso i personaggi di plastilina che prendono vita. Gli effetti speciali sono curati dalla Weta Digital, la compagnia dello stesso Jackson fondata per l'occasione. Ma nonostante l'indubbia bellezza tecnica del film (evidente anche nelle inquadrature, nei movimenti ariosi di macchina, nella fotografia colorata), il suo cuore poetico e crudele resta tutto nelle due interpreti e nei loro personaggi, adolescenti inquiete come tante altre, che si sentono uniche e unite contro il resto del mondo. E la sceneggiatura si mantiene sempre in equilibrio, raccontando gli eventi e i sentimenti senza cedere alla tentazione di una lettura sociologica o moralista ma nemmeno tessendo un semplice elogio della fantasia e dell'anticonformismo. Allo spettatore non si chiede né di giustificare le due ragazze né di condannarle.

3 settembre 2009

The reader (Stephen Daldry, 2008)

The reader - A voce alta (The reader)
di Stephen Daldry – USA/Germania 2008
con Kate Winslet, Ralph Fiennes
**

Visto al cinema Colosseo, con Marisa.

Germania, anni '50: il quindicenne Michael si innamora di Hanna, una donna dal passato misterioso che gli fa scoprire il sesso e gli chiede ogni sera di leggerle un libro a voce alta. Ma la relazione dura una sola estate, dopo la quale la donna scompare all'improvviso. Qualche anno dopo, Michael – ora studente in legge – scoprirà che durante la guerra Hanna era stata una sorvegliante delle SS nei campi di concentramento e sarà costretto ad assistere al suo processo. Un film interessante e con molti pregi: la regia è buona, le interpretazioni ottime (la Winslet continua a confermarsi una delle migliori attrici in circolazione, ma anche Fiennes e il giovane David Kross – che interpreta Michael da giovane – sono all'altezza, e vedere Bruno Ganz in una piccola parte, quella del professore di legge, fa sempre piacere) e soprattutto la sceneggiatura affronta ben tre temi “di peso”, vale a dire la relazione fra un minorenne e una donna adulta (che condiziona in negativo tutta la vita sentimentale di Michael), la questione della colpa e della responsabilità dei cittadini tedeschi coinvolti nelle atrocità del nazismo (memorabile il momento in cui Hanna, processata, domanda al giudice "Lei cosa avrebbe fatto?", ma anche quello in cui gli studenti accusano il professore, simbolo della generazione precedente, di non aver fatto nulla per fermare l'orrore) e infine il problema dell'analfabetismo e l'importanza della lettura: Hanna, come si scoprirà a un certo punto, non sa né leggere né scrivere, ed è per questo motivo che aveva lasciato un lavoro tranquillo per accettare il posto di sorvegliante; dopo la sua condanna, Michael continuerà a inviarle per anni in carcere delle cassette dove ha inciso i capolavori della letteratura (degli audiolibri ante litteram!), che lei imparerà quasi a memoria (un richiamo a "Fahrenheit 451"?) e utilizzerà per imparare, faticosamente, a scrivere. Ma proprio lo spunto dell'analfabetismo, elemento centrale nello sviluppo narrativo del film, mina in realtà la credibilità di fondo di tutta la vicenda: sembra davvero esagerato, per non dire assurdo, che Hanna si lasci condannare all'ergastolo pur di non ammettere in pubblico di essere illetterata (e, prima ancora, che cambi più volte vita, lavoro e città per lo stesso motivo, senza mai tentare di imparare a leggere e scrivere a un livello almeno elementare, visto anche l'amore che in ogni caso nutriva per la letteratura). E la pellicola non lascia nemmeno il dubbio che a spingerla a comportarsi così siano i rimorsi o i sensi di colpa per i crimini cui aveva preso parte (sensi di colpa che comunque prova, nonostante lo neghi manifestando un'ottusa indifferenza: lo dimostra la scena in cui piange in chiesa). Un'altra cosa che non mi è piaciuta è il fatto che, nonostante la storia si svolga in Germania, tutti i testi e le pagine scritte che si vedono sono in inglese. Sbavature che lasciano qualche perplessità su un film bello ma che potenzialmente avrebbe potuto essere migliore.
Nota: con questo film la Winslet ha vinto l'Oscar come miglior attrice. Giusto così, anche se forse avrebbe meritato di più per la sua performance in "Revolutionary Road".

14 febbraio 2009

L'amore non va in vacanza (N. Meyers, 2006)

L'amore non va in vacanza (The holiday)
di Nancy Meyers – USA 2006
con Cameron Diaz, Kate Winslet
**1/2

Visto in DVD, con Hiromi.

Piantate dai rispettivi compagni, due donne che non si conoscono nemmeno decidono di scambiarsi la casa per due settimane e di trascorrere da sole, ciascuna nella dimora dell'altra, le vacanze di Natale. L'americana Amanda (Cameron Diaz), ricca montatrice di trailer a Hollywood, si trasferisce così in un piccolo cottage nel Surrey, mentre la giornalista inglese Iris (Kate Winslet) approda in una lussuosa villa a Los Angeles. Naturalmente entrambe troveranno l'amore, rispettivamente con un bel curatore editoriale (Jude Law) e con un simpatico compositore di colonne sonore (Jack Black). Quasi due trame separate che scorrono parallele e che non si incontrano mai, con un inevitabile happy end: ma se ogni sviluppo è così prevedibile, perché il film mi è piaciuto? Perché funziona a livello di personaggi (le due protagoniste sono ben caratterizzate), perché è leggero e non pretenzioso, perché richiama nello spirito e nei dialoghi le commedie sentimentali del passato (tutta la parte ambientata a Hollywood è un fiorilegio di citazioni del periodo d'oro del cinema, grazie anche al personaggio del vecchio sceneggiatore, interpretato da Eli Wallach), perché gli interpreti sono bravi e simpatici, perché in fondo ci piacerebbe essere al loro posto. E perché ogni tanto un film così tenero e garbato è anche disintossicante, purché non ci si aspetti nulla di più di quanto promettano il titolo o la locandina.

12 febbraio 2009

Revolutionary Road (Sam Mendes, 2008)

Revolutionary Road (id.)
di Sam Mendes – USA 2008
con Leonardo DiCaprio, Kate Winslet
***

Visto al cinema Colosseo, con Hiromi.

La crisi di una giovane coppia nell'America borghese degli anni cinquanta: dall'esterno la famiglia di Frank e April sembra perfetta e ideale, all'interno invece dominano l'insoddisfazione e il malessere, e le contraddizioni non tardano a venire alla luce. La presenza della coppia DiCaprio-Winslet (entrambi si confermano attori straordinari) non può, naturalmente, non far pensare a "Titanic": forse, se Jack e Rose fossero entrambi sopravvissuti al naufragio e si fossero sposati, sarebbe andata così (e ironicamente, avrebbero desiderato di far ritorno in Europa). C'è dunque un filo rosso che cinematograficamente unisce i due attori in un periodo a cavallo fra la nascita del Sogno Americano e la sua morte, o meglio la sua realizzazione: ma se quest'ultima può soddisfare chi non cerca altro nella vita che una bella casa nei sobborghi, due figli e un lavoro sicuro, non può che stare stretta a chi aspira sempre a qualcosa di meglio, a chi vuole realizzarsi in maniera ancora più libera e individualistica, perché ritiene – a torto o a ragione, per consapevolezza o per autoconvincimento – di essere "diverso", a costo di inseguire fantasie immature (una Parigi che esiste solo nell'immaginazione) pur di uscire da una realtà (il lavoro, la maternità) che non si vuole affrontare. E solo un matto è capace di vedere e di dire la verità. Il ritratto dei personaggi è impietoso: dei due, April è quella più fragile e destinata ad autodistruggersi, mentre Frank – complice una gratificazione sul lavoro – riesce a "rientrare nei ranghi" (o, se vogliamo, ad adeguarsi alla mediocrità) appena in tempo. Il parallelo soltanto simbolico con il "Titanic" è rafforzato dalla presenza di Kathy Bates (Molly l'inaffondabile) e dalla scena in cui la Winslet si apparta con un amante occasionale all'interno di un'automobile. Ma il contesto storico, psicologico, esistenziale e sociale, naturalmente, è del tutto diverso e accomuna semmai il film alle molte pellicole che tratteggiano le crisi di quegli anni (il primo titolo che mi viene in mente è "Lontano dal paradiso"). Straziante la scena in cui April confessa a Frank di non provare più niente nei suoi confronti. Il miglior film di Mendes finora, un regista che non amo particolarmente ("American Beauty" l'ho detestato, "Era mio padre" mi ha lasciato indifferente, "Jarhead" non l'ho visto).

26 luglio 2006

Neverland (Marc Forster, 2004)

Neverland - Un sogno per la vita (Finding Neverland)
di Marc Forster – USA 2004
con Johnny Depp, Kate Winslet
**1/2

Visto in DVD, con Albertino.

Londra, 1903: il commediografo James M. Barrie (Depp), in crisi di ispirazione, fa conoscenza con la vedova Davies (Winslet) e i suoi quattro figli, diventa l'infaticabile compagno di giochi dei bambini e ha la possibilità di dar via libera alla propria immaginazione fino ad allora repressa, che in breve tempo lo porta a scrivere l'opera che gli darà la celebrità: "Peter Pan". Un ottimo cast (oltre a Depp e alla Winslet ci sono Dustin Hoffman nel ruolo del produttore teatrale, Julie Christie e Radha Mitchell) per un biopic interessante ed eccentrico ma forse troppo zuccheroso, specie nel finale. Come inno alla fantasia e all'immaginazione può funzionare, ma l'opera di Barrie non era certo una semplice fiaba per bambini come sembra venir fuori da questo lungometraggio, che ne ignora tutti i sottotesti psicanalitici. Come al solito gli americani (anche se il regista è tedesco) hanno una visione superficiale e troppo semplice dell'immaginario infantile. In ogni caso, l'ho trovato un film godibile da vedere, in alcuni punti anche commovente. E comunque mi piacciono i film sugli scrittori. Nominato a sette premi Oscar (compresi miglior film, attore e sceneggiatura), ha vinto quello per la miglior colonna sonora.