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8 marzo 2023

Una pistola per cento bare (U. Lenzi, 1968)

Una pistola per cento bare
di Umberto Lenzi – Italia/Spagna 1968
con Peter Lee Lawrence, John Ireland
*1/2

Visto in TV (RaiPlay).

Il giovane Jim (Peter Lee Lawrence), testimone di Geova refrattario per fede all'uso della violenza, si trasforma in pistolero per vendicare la morte dei suoi genitori, uccisi nel loro ranch da un gruppo di quattro assassini. Dopo aver rintracciato ed eliminato i primi tre, scopre che il quarto, il texano Corbett (Piero Lulli), è a capo di una banda che progetta di rapinare la banca di un villaggio. Si trasferisce dunque lì, in attesa dei banditi, e viene incaricato di difendere la città insieme a un misterioso predicatore itinerante (John Ireland). Spaghetti western (il secondo di Lenzi, dopo "Tutto per tutto") piuttosto convenzionale, nonostante le premesse particolari che però non hanno grande rilevanza nel resto della storia. Nei primi minuti gli eventi si succedono molto in fretta (persino sui titoli di testa), per poi rallentare nella parte centrale. I personaggi sono stereotipati e senza una grande personalità, e molti elementi sembrano introdotti tanto per far numero (il gruppo di pazzi incarcerati, per esempio). Franco Pesce è il vecchietto cassamortaro. Inutile la figura femminile (Gloria Osuna). Qualche (non certo imprevedibile) colpo di scena nel finale.

3 luglio 2021

Preparati la bara! (Ferdinando Baldi, 1968)

Preparati la bara!
di Ferdinando Baldi – Italia 1968
con Terence Hill, José Torres
**

Visto in TV (RaiPlay).

Tradito dall'amico David (Horst Frank), ambizioso politico corrotto e senza scrupoli, Django (Terence Hill) vede uccisa la propria moglie e viene a sua volta creduto morto. Cinque anni più tardi organizzerà la propria vendetta, radunando una banda di "impiccati" (uomini condannati ingiustamente e che proprio lui, in qualità di boia, aveva finto di giustiziare, salvandoli in realtà dalla morte) per affrontare i banditi che, al soldo del proprietario terriero Lucas (George Eastman), rapinano le diligenze cariche d'oro per conto di David. Ma dovrà vedersela anche con Garcia (José Torres), uno degli "impiccati", deciso a tenere tutto l'oro per sé. Pseudo-sequel (o meglio, prequel) del "Django" di Sergio Corbucci, messo in cantiere dopo l'enorme successo del prototipo che aveva dato vita a una pletora di finti seguiti. Questo invece avrebbe dovuto essere uno dei rari film che coinvolgeva davvero i responsabili del film originale: ma con la sostituzione del regista, anche Franco Nero rinunciò a interpretarlo, e allora venne scelto un giovane Terence Hill non ancora reso celebre da "Lo chiamavano Trinità" (il cui regista, Enzo Barboni alias E.B. Clucher, è qui il direttore della fotografia). La trama alterna spunti senza troppa originalità (la vendetta) ad altri invece accattivanti (la banda degli impiccati), così come personaggi stereotipati (Lucas, David) ad altri più complessi e ambigui (Garcia, insolito alleato e antagonista al tempo stesso). A parte l'aspetto del protagonista (enigmatico e vestito di nero), un rimando al Django originale c'è solo nel finale, quando tira fuori la mitragliatrice da una cassa per sterminare gli avversari. Nel complesso, però, la pellicola è meno potente e più innocua del film di Corbucci, interessante giusto per ripercorrere gli inizi della carriera di un Terence Hill qui ancora in versione "seria" e privo del compagno Bud Spencer (anche se alle pistolettate si affiancano comunque numerose scazzottate).

24 gennaio 2021

Django (Sergio Corbucci, 1966)

Django
di Sergio Corbucci – Italia/Spagna 1966
con Franco Nero, Loredana Nusciak
**1/2

Rivisto in TV (Prime Video).

L'enigmatico Django (Franco Nero), ex soldato yankee che attraversa il deserto trascinandosi dietro una cassa da morto, giunge in un villaggio nei pressi del confine fra Stati Uniti e Messico, dove è in corso una faida fra gli scagnozzi del maggiore sudista Jackson (Eduardo Fajardo), che ha dato vita a una vera e propria setta razzista caratterizzata dai cappucci rossi, e la banda di rivoluzionari messicani in esilio guidati dal generale Hugo (José Bódalo). Intenzionato a perseguire una sua misteriosa vendetta, dopo aver salvato la prostituta Maria (Loredana Nusciak) dalle grinfie di entrambi i gruppi, il protagonista sgominerà gli uomini del maggiore grazie alla mitragliatrice che nasconde nella bara. Iperviolento, astratto, sporco e cinico, un film che fece scalpore e contribuì a indirizzare il filone degli spaghetti western verso gli stilemi che lo connoteranno negli anni a venire. Non gli mancano i difetti: la trama sembra quasi improvvisata man mano che procede, con cambio di focus e scarsa caratterizzazione del protagonista. La prima parte è sicuramente la migliore, ricca di sorprese, mentre la sezione centrale (quando Django si allea con i messicani per rapinare il forte) è più convenzionale, così come lo sono gran parte dei comprimari (a cominciare dal personaggio femminile). Resta certamente impressa la violenza, con ampi spargimenti di sangue, il sadismo (si pensi alla scena dell'orecchio tagliato, di cui si ricorderà Tarantino ne "Le iene", ma anche alle mani fratturate), gli spazi fangosi, le sabbie mobili: siamo lontani anni luce dalle ambientazioni pulite e dalle atmosfere dei classici western hollywoodiani. Persino Sergio Leone, che ai tempi aveva diretto soltanto i primi due film della sua trilogia del dollaro (e verso il cui "Per un pugno di dollari", e quindi di riflesso verso Akira Kurosawa e Dashiell Hammett, il soggetto mostra qualche debito) non si era ancora spinto a tanto. Alla sceneggiatura hanno contribuito Bruno Corbucci (fratello di Sergio), Franco Rossetti e, non accreditato, Fernando Di Leo. Ruggero Deodato è l'aiuto regista, Enzo Barboni il direttore della fotografia, Luis Bacalov l'autore delle musiche (e della title song "Django"). Nonostante le riserve della critica per l'eccessiva violenza, la pellicola riscosse un grande successo: negli anni a venire uscirono numerosi sequel "apocrifi", o film che richiamavano Django nel titolo – o reintitolati come tali quando venivano distribuiti all'estero – pur avendo poco o nulla a che fare con l'originale (se ne contano almeno una trentina!), se non il tema generico del misterioso pistolero vendicatore, spesso in lotta contro bande di razzisti. Fra gli omaggi e le rivisitazioni, sono ovviamente da ricordare "Sukiyaki Western Django" di Takashi Miike (2007) e "Django Unchained" di Quentin Tarantino (2012): in quest'ultimo appare anche Franco Nero in un divertente cameo ("La D è muta"). Citazioni del personaggio che si trascina dietro una bara si ritrovano anche in parecchi anime giapponesi, da "Ken il guerriero" a "Cowboy Bebop".

4 giugno 2020

Il mio nome è Nessuno (T. Valerii, 1973)

Il mio nome è Nessuno
di Tonino Valerii – Italia/Fra/Ger 1973
con Terence Hill, Henry Fonda
**

Rivisto in TV.

Alla fine dell'Ottocento, l'ormai anziano e stanco giustiziere Jack Beauregard (Henry Fonda) è pronto a partire per l'Europa e abbandonare così per sempre il vecchio West. Ma il giovane e scanzonato Nessuno (Terence Hill), che si professa suo grande ammiratore, lo spingerà suo malgrado a un'ultima leggendaria impresa: affrontare, solo contro 150 uomini, il temibile "Mucchio selvaggio". Da un'idea di Sergio Leone, che diresse anche alcune sequenze, una strana pellicola che sembra voler mettere a confronto due idee diverse di western: quello classico, impersonato da Fonda (che, dopo la parentesi da cattivo in "C'era una volta il west", torna a incarnare l'eroe tutto d'un pezzo con cui si è sempre identificato), e quello comico e "all'italiana", rappresentato da un Terence Hill reduce dai successi di "Trinità". La frizione è evidente, tanto che i due personaggi (e le sequenze che li vedono protagonisti) sembrano davvero appartenere a due generi diversi. Forse proprio per la recente popolarità di Hill, però, l'insieme è sbilanciato verso il comico, con lunghe sequenze-barzelletta (come la sfida nel saloon, con tanto di duello a schiaffi come quello di "Trinità") in mezzo alle quali il pur bravo Fonda si trova come un pesce fuor d'acqua, miope e malinconico, in balìa delle manovre del compagno e senza un'idea ben precisa di come reagire alla sua ironia decostruttiva, dissacratoria e burlesca. Abituato a un mondo più violento e concreto, Beauregard viene proiettato dall'enigmatico Nessuno (il cui nome è fonte di numerose battute) in uno invece irrealistico e favolistico, dove nulla si prende sul serio e dove i cattivi non sono mai veramente minacciosi. Manca dunque la tensione o l'epicità dei lavori di Sergio Leone, se non a brevi tratti (per esempio nelle scene in cui la musica di Morricone, che ingloba anche la "Cavalcata delle Valchirie", accompagna le apparizioni del Mucchio selvaggio, posse di banditi senza volto che formano un'unica presenza collettiva). Fra i comprimari si riconosce Mario Brega (uno dei tre balordi che danno la caccia a Beauregard). Bud Spencer non è presente, ma è evocato dal pupazzo girevole che Terence Hill sfrutta per affrontare un avversario. Leone, che sostituì Valerii sul set per un giorno, avrebbe diretto parte della scena del saloon, quella della fiera e quella dell'orinatoio.

8 maggio 2020

Giù la testa (Sergio Leone, 1971)

Giù la testa
di Sergio Leone – Italia/Spagna/USA 1971
con Rod Steiger, James Coburn
***

Rivisto in DVD.

Nel Messico di Pancho Villa e Huerta, scosso dalla rivoluzione (siamo nel 1913), il bandito messicano Juan Miranda (Rod Steiger) stringe un'improbabile amicizia con il bombarolo irlandese Sean Mallory (James Coburn). Il primo vorrebbe approfittare dell'abilità del secondo con gli esplosivi per svaligiare la banca di Mesa Verde: ma sarà da lui costretto a diventare giocoforza un eroe della rivoluzione. Dopo il successo dei suoi spaghetti western, e in particolare dopo aver terminato il magnum opus "C'era una volta il west", Sergio Leone cominciò a sentire l'esigenza di raccontare altri aspetti e altri momenti della storia dell'America. Mise perciò in cantiere questo film su suggerimento dell'amico Sergio Donati, autore della sceneggiatura insieme allo stesso Leone e a Luciano Vincenzoni, e inizialmente non avrebbe dovuto dirigerlo ma soltanto produrlo. Il regista da lui designato, Peter Bogdanovich, si tirò però indietro, e i finanziatori rifiutarono la seconda scelta di Leone, Sam Peckinpah. Il compito fu assegnato allora a Giancarlo Santi, già assistente del regista romano: ma dopo dieci giorni di riprese, questi decise di prendere le redini del film nelle proprie mani. Anche il casting subì alcune vicissitudini. Le due parti principali furono scritte con degli attori precisi in mente, vale a dire Eli Wallach e Jason Robards (con cui Leone aveva già lavorato, rispettivamente, ne "Il buono, il brutto, il cattivo" e in "C'era una volta il west"). Ma i produttori americani imposero Steiger (con cui avevano già un contratto: in italiano è comunque doppiato da Carlo Romano, che aveva già dato la voce a Tuco) e Coburn (considerato un nome di maggior spicco, e con il quale Leone voleva comunque lavorare già da tempo). Ampio spazio nella storia ha anche Romolo Valli nel ruolo del Dottor Villega, uno dei capi della rivoluzione. Del tutto assenti invece i personaggi femminili, con l'eccezione della donna (Vivienne Chandler) nei flashback di Sean Mallory e della passeggera (Maria Monti) nella carrozza della scena iniziale.

Si tratta probabilmente del film più "politico" di Leone, a cominciare dalla didascalia introduttiva con una citazione di Mao Tse-tung ("La rivoluzione non è un pranzo di gala [...] La rivoluzione è un atto di violenza"). D'altronde, dopo il Sessantotto e in un'epoca di fermenti sociali e lotte armate, il "mito" della rivoluzione era tornato fortemente in auge fra gli studenti e gli intellettuali (compresi i cineasti) di tutta Europa. Il regista romano gioca però a decostruire tale mito, proprio come nei film precedenti aveva decostruito il romanticismo del vecchio west, mostrandone le diverse sfaccettature e il lato più sporco e meno idealizzato. Se il personaggio di Sean passa semplicemente "da una rivoluzione all'altra" (i numerosi flashback di cui la pellicola è disseminata ci mostrano il suo passato come nazionalista irlandese), quello di Juan è il principale soggetto di un'evoluzione che lo porta da "povero" peone con una famiglia numerosa da mantenere (nella scena iniziale in cui è ospitato controvoglia nella carrozza dei ricchi, prima del colpo di scena che lo rivela essere un bandito) a furfante egocentrico e avido di denaro (e dunque di ricchezza personale), fino a sviluppare la coscienza di classe e il desiderio di giustizia che lo rendono un eroe patriottico: un percorso che ricorda, se vogliamo, quello dei personaggi dei film sovietici di Pudovkin (come "La fine di San Pietroburgo" o "Tempeste sull'Asia"). Leone dichiarò di non aver voluto fornire una rappresentazione realistica del contesto storico, e che la rivoluzione messicana era soltanto uno sfondo simbolico per una storia di amicizia: tuttavia alcune scene (per esempio quella in cui Juan a sua volta fa capire a Sean che c'è una forte distanza fra chi progetta le rivolte "a tavolino", ovvero gli intellettuali, e la povera gente, che comunque finisce con l'essere sfruttata) sono indubbiamente cariche di un significato politico valido anche nell'Italia del 1971.

Se la satira sociale della prima sequenza pare un po' di grana grossa rispetto al resto del film, più epico e avventuroso (a tratti è un vero e proprio film di guerra, senza contare sequenze come la rapina alla banca che nulla hanno da invidiare ai western classici), con i consueti tempi dilatati (ma forse meno del solito) e l'alternanza fra momenti comici (l'incontro fra i due protagonisti, che si fanno i dispetti come in una comica muta) o addirittura cartoonistici (l'esplosione del messicano, di cui rimane solo il cappello bruciacchiato) e quelli drammatici, la pellicola è comunque emozionante e coinvolgente. Spesso i riferimenti sembrano anche guardare alle lotte dei partigiani nell'Italia occupata durante la seconda guerra mondiale: le scene delle fucilazioni o quella dello sterminio dei rivoluzionari nelle grotte fanno subito pensare a episodi di resistenza o di rappresaglia come quello delle Fosse Ardeatine. E il "cattivo" colonnello Günther Reza (Antoine Saint-John), con il suo carro armato, ha in tutto l'aspetto di un nazista. La bella colonna sonora di Ennio Morricone gioca con l'assonanza dei nomi dei due protagonisti (sia Juan che Sean sono varianti locali di John, ovvero Giovanni) che sono inglobati nel tema principale ("Sean, Sean..."), una delle melodie più celebri del compositore, che accompagna in particolare i vari flashback (il passato di Sean è presentato a frammenti, come quello di Charles Bronson in "C'era una volta il west"). Il titolo completo che Leone aveva in mente era "Giù la testa, coglione!" (dalla frase di Sean a Juan), ma i distributori glielo accorciarono per evidenti motivi. In inglese rimane "Duck, you sucker!", anche se è noto pure con il titolo di lavorazione "C'era una volta la rivoluzione" (che lo accomuna in una sorta di trilogia con il precedente "...il west" e il successivo "...in America").

19 marzo 2020

Se sei vivo spara (Giulio Questi, 1967)

Se sei vivo spara, aka Oro Hondo
di Giulio Questi – Italia/Spagna 1967
con Tomas Milian, Marilù Tolo
**1/2

Rivisto in divx.

Tradito dai suoi stessi complici dopo una rapina e lasciato a morire nel deserto, il messicano Hermano (Tomas Milian) viene salvato da due sciamani indiani ed esce dalla tomba per vendicarsi. Ma i banditi che insegue sono già stati uccisi tutti dagli abitanti della cittadina dove si erano rifugiati: tutti tranne il capo, Oaks (Piero Lulli), di cui fa giustizia proprio Hermano con i suoi proiettili d'oro (!). Tormentato e disilluso, il messicano decide di rimanere nel villaggio (che gli indiani chiamano "Il campo dell'angoscia"!) e si ritrova così in mezzo alle faide incrociate che scoppiano fra i suoi abitanti per entrare in possesso del bottino, "gente onesta" che di fronte all'oro si dimostra crudele e spietata, come il proprietario del saloon Tembler (Milo Quesada) e il negoziante Hagerman (Francisco Sanz). Opera prima (dopo alcuni episodi di film collettivi) di Giulio Questi e del suo co-sceneggiatore (e montatore) Franco Arcalli, con cui forma un sodalizio destinato a durare per il resto della sua (poco prolifica) carriera, è un western atipico e nichilista che gode di molta fama fra i cultori del genere per via della sua atmosfera inquietante e della sua violenza, con scene estremamente cruente e scabrose (su cui si scagliò la censura italiana): si pensi al bandito scempiato dagli abitanti del paese per recuperare le pallottole d'oro, ad alcune morti atroci, o alla sequenza in cui si lascia intendere che il giovane Evan (Raymond Lovelock) sia stato violentato dagli uomini del ranchero Sorrow (Roberto Camardiel). Per alcuni di questi episodi, il regista si sarebbe ispirato agli orrori di cui era stato testimone in guerra, quando aveva fatto parte della resistenza partigiana. Al netto di tutto ciò, però, temi e situazioni sono in fondo simili a quelli di molti altri spaghetti western (dal capostipite "Per un pugno di dollari" in poi), con il forestiero che rimane implicato nelle dinamiche di un villaggio sconvolto da tensioni sotterranee. E la pellicola, forse un po' lunga e compiaciuta, si trascina cambiando focus più volte: di certo le parti sono superiori all'insieme. Marilù Tolo e Patrizia Valturri interpretano i due unici personaggi femminili, rispettivamente l'amante di Tembler (che lo manipola come Lady Macbeth) e la moglie di Hagerman, fatta credere pazza e reclusa nella sua stanza dal marito geloso. Interessanti la fotografia di Franco Delli Colli (cugino del più celebre Tonino) e la colonna sonora di Ivan Vandor. Gianni Amelio è aiuto regista. Sequestrato pochi giorni dopo la sua uscita e poi ridistribuito con diversi tagli, il film è stato riproposto nelle sale nel 1975 con il titolo "Oro Hondo". In diversi paesi (come USA e Germania) è stato spacciato come un capitolo della saga di Django.

20 marzo 2019

La strada per Fort Alamo (M. Bava, 1964)

La strada per Fort Alamo
di Mario Bava – Italia/Francia 1964
con Ken Clark, Jany Clair
*1/2

Visto in TV.

Dopo aver assaltato una banca travestiti da soldati nordisti, due rapinatori (Ken Clark e Kirk Bert) vengono abbandonati dai loro complici nel deserto. Salvati da un convoglio militare diretto a Fort Alamo, sono costretti a continuare a fingersi soldati. E di fronte a un attacco degli indiani Osage, dimostreranno tutto il loro valore. Primo western diretto da Mario Bava (con lo pseudonimo di John Old, lo stesso che il regista italiano aveva già usato in passato per alcuni horror e thriller): un western vecchio stile, alquanto fumettoso (con personaggi che sembrano usciti da "Tex Willer", come il capitano troppo ligio alle regole) e che guarda ai classici hollywoodiani, visto che il genere più sporco e cinico degli spaghetti western doveva ancora nascere ("Per un pugno di dollari" usciva nelle sale quasi in contemporanea). Girato al risparmio (scenari e paesaggi, oltre ad essere evidentemente farlocchi, sono sempre gli stessi, riutilizzati in scene diverse!) e con diversi luoghi comuni (dalla partita a poker nel saloon all'assalto degli indiani al fiume), il film non ha molto di interessante da offrire: fra le poche cose decenti, la fotografia espressionista di alcune scene notturne (vero marchio di fabbrica di Bava). Jany Clair è la donna "perduta" di cui il protagonista si innamora, Dean Ardow il sergente che intuisce la sua identità ma si fida di lui.

3 settembre 2014

Quién sabe? (Damiano Damiani, 1966)

Quién sabe?, aka El Chuncho
di Damiano Damiani – Italia 1966
con Lou Castel, Gian Maria Volontè
**1/2

Visto in TV.

Nel Messico del 1917, durante la rivoluzione, un giovane americano (Lou Castel) si unisce a un gruppo di banditi, guidato dal carismatico Chuncho (Volontè), che rubano armi all'esercito regolare per venderle a un generale ribelle. In realtà il giovane è un mercenario, il cui scopo è proprio quello di uccidere il generale. Uno dei primi spaghetti western a trattare il tema della rivoluzione messicana (e dunque capostipite di quel filone che includerà i più celebri "Giù la testa", "Vamos a matar, compañeros" e "Tepepa"), è forse meno valido cinematograficamente rispetto ai lavori di Leone, Corbucci o Sollima, anche per una sceneggiatura che procede a scatti e non approfondisce più di tanto i personaggi (con l'eccezione del Chuncho, vero centro nevralgico del film), ma merita comunque un posto di rilievo nella storia del genere per aver cominciato a portare allo scoperto quei temi politici e sociali che spesso vi scorrevano sotterranei. Non ci sono infatti solo le sequenze che segnano lo sviluppo della coscienza politica del Chuncho (all'inizio interessato solo al denaro, e poi – pian piano – alle sorti della rivoluzione; significativa la sua frase finale, quando regala una borsa piena di monete d'oro a un lustrascarpe: "Non comprarti il pane con esto dinero, hombre! Compra dinamite!"). È soprattutto il personaggio interpretato da Lou Castel a rappresentare un'evidente metafora degli interventi degli Stati Uniti negli affari interni degli altri paesi: la CIA nell'America Latina in primis, ma anche il conflitto in Vietnam di quegli anni. Molto bello il finale, e in generale la costruzione della vicenda. Volontè ripropone la recitazione istrionica e vitale di cui aveva già dato prova nei film di Sergio Leone, anche se in questo caso il suo personaggio è decisamente più positivo. Castel, rivelatosi l'anno prima ne "I pugni in tasca" di Bellocchio, è freddo e controllato: reciterà successivamente in un altro western atipico, "Requiescant", al fianco di Pier Paolo Pasolini. Klaus Kinski interpreta il "Santo", prete-bandito che fa parte della gang del Chuncho, ma il suo ruolo (che ricorda un po' il Frate Tuck della banda di Robin Hood) è piuttosto limitato. Nel cast anche Martine Beswick (l'unica donna del gruppo di banditi), Andrea Checchi e Carla Gravina. Musica di Luis Bacalov (con "supervisione" di Ennio Morricone).

30 marzo 2012

C'era una volta il west (S. Leone, 1968)

C'era una volta il west
di Sergio Leone – Italia/USA 1968
con Claudia Cardinale, Charles Bronson
****

Rivisto in DVD, con Ilaria, Eleonora, Marco, Ginevra, Daniele.

L'ex prostituta Jill (Claudia Cardinale) giunge a Flagstone, cittadina di frontiera, solo per scoprire che Brett McBain, l'allevatore che aveva sposato in segreto e con cui sperava di rifarsi una vita, è stato ucciso insieme alla sua intera famiglia da una misteriosa banda di pistoleri. I sospetti cadono sul fuorilegge Cheyenne (Jason Robards), ma il vero colpevole del massacro è lo spietato Frank (Henry Fonda), che con i suoi uomini è al servizio del magnate delle ferrovie Morton, pronto a tutto pur di aprire il passaggio alla via ferrata che sta costruendo per raggiungere l'Oceano Pacifico. La donna sarà vendicata dal misterioso "Armonica" (Charles Bronson), un uomo che con Frank ha un conto da lungo tempo in sospeso... Con questo epico, violento e struggente affresco sulla fine di un'era (come già lascia intendere il titolo "fiabesco", che verrà omaggiato o parodiato in seguito da innumerevoli altre pellicole), Sergio Leone firma non soltanto il suo capolavoro ma uno dei più bei film della storia del cinema (personalmente è il mio film preferito!), una sorta di elegia del western. Insieme al quasi contemporaneo "Il mucchio selvaggio" di Sam Peckinpah, la pellicola segna un punto d'arrivo definitivo per un genere cinematografico che da qui in poi non potrà far altro che guardarsi alle spalle. In un certo senso già i lungometraggi precedenti di Leone ne avevano decretato la trasformazione in un'icona stilizzata: con il nuovo film (che nelle intenzioni del regista avrebbe dovuto essere il primo di una trilogia sulla "seconda frontiera americana, la fine dell'epoca della conquista e l'inizio dell'età industriale") si canta un inno funebre di quel “mito” che per decenni aveva intrattenuto e divertito, anche in maniera piuttosto ingenua, spettatori e lettori di ogni età. Con la scomparsa del selvaggio west comincia una nuova era, non più dominata da uomini tutti d'un pezzo (e poco importa se si tratta di buoni o di cattivi, di eroi o di banditi: tutti ballano la loro "danza della morte", per citare il titolo che è stato dato al film in altri paesi europei – in Germania, per esempio, è noto come "Spiel mir das Lied vom Tod") ma dal capitalismo e dal progresso, simboleggiato qui dalla ferrovia che congiunge i due oceani, unificando la nazione e spazzando via definitivamente il concetto stesso di frontiera.

Il progetto era nato già durante la lavorazione del precedente "Il buono, il brutto, il cattivo", quando la United Artists – la casa di produzione cui Leone aveva chiesto il via libera per girare un film sui gangster, ovvero quello che sarebbe diventato "C'era una volta in America" – gli aveva imposto di realizzare prima un nuovo western. Alla UA subentrò poi la Paramount, che concesse al regista maggior libertà creativa (per esempio nella scelta degli attori) ma che si "vendicò" in seguito facendo uscire il film negli Stati Uniti in versione mutilata (tagliando diversi minuti rispetto ai 165 della versione italiana) e rimontata, rendendolo irriconoscibile e decretando di fatto il suo fallimento al box office. In Italia e in Europa, invece, fu un successo e recuperò abbondantemente le spese di realizzazione. Amato e riverito da registi come John Carpenter e Martin Scorsese, il film è ricco di riferimenti più o meno espliciti alle pellicole più classiche del genere e alla mitologia del vecchio west. Se per la sceneggiatura Leone aveva chiesto aiuto all'amico Sergio Donati (già collaboratore non accreditato nei due film precedenti), nello stendere il soggetto si fa affiancare da due nomi allora poco noti ma destinati a diventare autentici "mostri sacri" del cinema italiano: Bernardo Bertolucci e Dario Argento. Sin dalla prima scena la regia di Leone mette in chiaro che non si tratta certo di un film d’azione: il ritmo è lento, in modo persino estenuante, mentre i tempi prolungati (che poi esplodono in episodi di violenza improvvisa), i primissimi piani sui volti degli attori e le enfatiche inquadrature sui dettagli calano lo spettatore in una dimensione di costante attesa e rafforzano la sensazione di star assistendo a uno spettacolo universale ed epico. Il regista stesso avrebbe dichiarato: “Il ritmo del film è stato pensato per creare la sensazione degli ultimi respiri che una persona fa prima di morire”. Anche se girato in massima parte, come al solito, nella regione dell’Almería in Spagna, alcune sequenze fanno uso dei celebri scenari della Monument Valley nello Utah, resi celebri dai film di John Ford e ritratti magistralmente in widescreen dalla fotografia di Tonino Delli Colli (stupenda, per esempio, l’ampia e luminosa inquadratura con zoom all’indietro nel flashback che rivela il passato di Frank e Armonica, in cui si può intravedere – dietro l’arco in pietra – persino un tornado che spazza il deserto, catturato dall’operatore per puro caso).

Tutto il film è strutturato come una successione di lunghe scene madri, quasi dei quadri a sé stanti, ciascuna delle quali può anche essere apprezzata singolarmente (passando così sopra a occasionali passaggi a vuoto nei raccordi, forse dovuti a sequenze eliminate al montaggio: per esempio, a un certo punto vediamo Cheyenne partire in treno, scortato dallo sceriffo e seguito dai suoi uomini, e lo ritroviamo più tardi dopo lo scontro a fuoco con Morton, senza che ci venga detto come e perché sia arrivato fin lì). Il realismo dell’ambientazione e la cura nelle scenografie si rispecchiano nelle elaborate coreografie (lo “spazio” occupato dagli attori nelle singole inquadrature è sempre studiato in maniera magistrale). Spesso i movimenti di camera portano a "rivelare" gradualmente – oppure all'improvviso – elementi cruciali, sorprendendo o catturando lo spettatore: ottimi esempi si hanno nella scena dell’arrivo di Jill a Flagstone, quando la macchina da presa scavalca il tetto della stazione per mostrare a tutto schermo, al crescere della musica, la polverosa e brulicante cittadina (si tratta forse della singola scena che amo di più in tutto il cinema di Leone); o all’inizio del duello finale, quando vediamo Frank (vestito di nero) camminare sullo sfondo, e Armonica (vestito di bianco) irrompere all’improvviso in primissimo piano, annunciato dal tema musicale. A proposito: assolutamente fondamentale, persino più che negli altri film del regista, la colonna sonora di Ennio Morricone, costruita attorno a una serie di temi ben distinti e associati ciascuno a un singolo personaggio, di cui anticipano spesso l'ingresso in scena. Curiosamente, mentre Jill, Cheyenne e Morton hanno ciascuno il proprio tema personale (particolarmente trascinante e struggente quello di Jill, impreziosito dalla voce di Edda Dell'Orso), Frank e Armonica ne condividono uno in due: indice del loro indissolubile legame e del destino comune che li condurrà di pari passo per tutto il film fino al duello conclusivo ("Sono due facce della stessa medaglia, e sarebbe stato difficile differenziarli nella musica", ha commentato Leone). Armonica, senza Frank, non è nulla: non ha un nome né un passato; e Frank, scontratosi con l'incedere inevitabile del progresso, alla fine resta senza una ragione di vivere se non quella di misurarsi con il suo misterioso avversario. Su queste basi, la sequenza del duello finale fra i due (un capolavoro di regia e di montaggio, che comprende anche un flashback chiarificatore, e nel quale la lunghissima fase di preparazione – oltre sei minuti – si esaurisce in un singolo colpo di pistola) è il vero e autentico climax della pellicola.

Rispetto ai film precedenti (quelli della "trilogia del dollaro"), il cast è completamente rivoluzionato (ritornano solo alcuni attori in parti minori). Leone avrebbe voluto i tre protagonisti de "Il buono, il brutto, il cattivo" nella scena iniziale, come in un ideale passaggio di consegne (e non c'è dubbio che vederli morire dopo dieci minuti avrebbe scioccato lo spettatore), ma se Lee van Cleef ed Eli Wallach si erano detti disponibili, Clint Eastwood rifiutò, costringendo il regista ad arruolare invece due volti noti del western dei tempi d'oro (Jack Elam e Woody Strode) e un attore che aveva già utilizzato in passato in parti minori (Al Mulock, uno dei bounty killer che davano la caccia a Tuco ne "Il buono, il brutto, il cattivo", morto tragicamente suicida – buttandosi dalla finestra del suo albergo con il costume di scena ancora indosso – durante le riprese). Degni di menzione i comprimari: Paolo Stoppa è il cocchiere, Keenan Wynn è lo sceriffo, Frank Wolff è l’irlandese Brett McBain, Lionel Stander è il barista della stazione di posta, Marco Zuanelli è il “lavandaio” Wobbles (“Come si fa a fidarsi di uno che porta insieme cinta e bretelle, di uno che non si fida nemmeno dei suoi pantaloni?”). La celeberrima scena che apre il film (e che, per inciso, è un omaggio all’incipit di “Mezzogiorno di fuoco”) è difficile da dimenticare: ben dieci minuti di snervante attesa, in cui apparentemente non accade nulla mentre i tre scagnozzi di Frank aspettano con pazienza l’arrivo del treno su cui viaggia Armonica. In assenza di parole e di musica, il sonoro si affida con estrema efficacia a una serie di rumori ambientali (le pale cigolanti di un mulino, il battito di una goccia d’acqua, lo scrocchiare delle nocche di un uomo, il ronzio di una mosca). Leone ricorda: "Quando il film era al mixaggio, mi accorsi che i primi due rulli non funzionavano come volevo con l'accompagnamento della musica di Morricone. Così tolsi la musica e lasciai soltanto i rumori: la banderuola, il vento, le cicale, il treno, lo scricchiolio del legno, lo sbattere d'ali degli uccelli. Ennio, quando vide il film concluso, non sapeva di questa mia scelta. Alla fine dei due rulli mi si avvicinò e mi disse: ‘Ma lo sai che è la più bella musica che ho composto?’. Anni dopo, un assistente di George Lucas è venuto a chiederci i rumori di quei primi due rulli. Quando gli è stato risposto che quei rumori non venivano conservati, ci ha guardati come fossimo abitanti di un altro pianeta."

Se proprio Leone aveva inaugurato la consuetudine del western all'italiana di eleggere a protagonisti i character più improbabili, quelli che nei film classici del genere sarebbero rimasti dei comprimari, qui invece sembra tornare alla tradizione: i cinque personaggi principali sono quasi degli stereotipi (il vendicatore solitario, il bandito romantico, il killer glaciale, la prostituta dal cuore d'oro, l'affarista corrotto), il cui utilizzo come pedine sulla scacchiera del film era necessario se si voleva mettere in scena il canto del cigno del vecchio west. Analizziamoli uno per uno.

Frank. "Dio mio, ma quello è Henry Fonda!": questo era il grido di sorpresa che Leone voleva udire dagli spettatori nel momento in cui l'attore – l'eroe per eccellenza del western classico – uccide a sangue freddo un bambino, rivelandosi come un assassino spietato. Nello scegliere Fonda per il ruolo del cattivo (contro il parere dei produttori), Leone compie un passo fondamentale nel suo percorso di "rottura", rendendo un ulteriore omaggio al cinema classico ed esplicitando contemporaneamente la sua volontà di seppellirlo. Che il protagonista di tanti film di John Ford, dove incarnava i valori più nobili della giustizia e dell'eroismo, si riveli un farabutto senza scrupoli fece sicuramente scalpore in un'epoca in cui difficilmente le star "uscivano" dai personaggi che si erano cuciti addosso. Fonda, inizialmente titubante, accettò il ruolo solo dopo aver parlato con il suo amico Eli Wallach, che gli consigliò di non perdere l’occasione. Avrebbe voluto recitare con lenti a contatto scure, ma Leone insistette perché apparisse sullo schermo con i suoi occhi azzurri, perfetti per mostrare la natura “glaciale” dell’assassino.

Armonica. È il personaggio di cui si sa meno, e che meno ha bisogno di una caratterizzazione o di una personalità. Solo nel finale, grazie a uno dei più memorabili flashback della storia del cinema (anticipato a lungo dalla ricorrente e spettrale immagine di una figura sfocata all’orizzonte che cammina verso la macchina da presa), scopriremo qualcosa del suo passato e il motivo per il quale cerca vendetta nei confronti di Frank. Cheyenne lo descrive così: “La gente come lui ha dentro qualcosa, qualcosa che sa di morte” (alcune letture “soprannaturali”, forse andando troppo sopra le righe, lo identificano addirittura nell'angelo della morte; di certo, almeno metaforicamente, è un fantasma venuto dal passato). Si presenta utilizzando i nomi delle varie persone che il killer ha ucciso (“Chi sei?” “Jim Cooper. Chaky Arbler.” “Ancora dei morti.” “Erano tutti vivi prima di incontrarti, Frank.”) ed è incarnato alla perfezione dalle fattezze quasi da indio di Charles Bronson. L’attore, in realtà di origine tartara e non ancora reso celebre dalla serie del “Giustiziere della notte”, era già apparso in almeno un western di successo, “I magnifici sette”, e in film bellici come “La grande fuga” e “Quella sporca dozzina”.

Jill. Una figura femminile forte rappresenta per Leone una grande novità, visto che mancava (e mancherà) negli altri suoi film. Jill, la prostituta di New Orleans che giunge nel west per farsi una nuova vita, diventa subito il centro dell’attenzione dei tre uomini (Frank, Armonica e Cheyenne) e dimostra di sapersi battere alla pari con loro: certo, non con le pistole, ma con il carattere e la forza di volontà. Alla fine della pellicola sarà lei l’unica e vera vincitrice, il simbolo dell’America che sta per nascere e di una società in cui il ruolo delle donne sarà molto diverso rispetto al passato. Una Claudia Cardinale bellissima e al culmine della carriera domina ogni scena in cui è presente, a partire dalla già citata e magnifica sequenza del suo arrivo alla stazione di Flagstone per finire con il campo largo che la mostra mentre – seguendo un suggerimento di Cheyenne – porta da bere agli operai che stanno posando i binari e costruendo per lei e per le generazioni future la nuova stazione di Sweetwater.

Cheyenne. Uno dei personaggi che meglio incarna il selvaggio west è il simpatico e romantico bandito interpretato da un Jason Robards che, tra questo film e “La ballata di Cable Hogue”, è stato protagonista di due capisaldi del western crepuscolare. Ritratto da Leone con calore, ironia e umanità, pur essendo un fuorilegge Cheyenne ha le sue regole e una sua morale, ed è forse quello che più di ogni altro avrebbe meritato di trascorrere una vita felice insieme a Jill. Ma la sua morte, nel finale, è inevitabile: anche lui, come Frank e Armonica, è “fuori posto” e deve andarsene in qualche modo per lasciare spazio al nuovo mondo che sta arrivando. Significativamente il bandito viene ucciso direttamente da Morton, ovvero l’impersonificazione del capitalismo e del progresso. Proprio il brano musicale di Cheyenne, con il suo andamento "trottante", è quello che conclude il film sui titoli di coda: un ultimo omaggio alla fine del vecchio west.

Morton. Il tema della costruzione della ferrovia è molto frequente nel cinema western, sin dai suoi albori (basti ricordare “Il cavallo d'acciaio” di John Ford): il treno rappresenta la nuova civiltà che avanza e che spazza via la frontiera selvaggia. Qui è incarnato nella figura di “Mister Ciuf-ciuf” (come lo battezza ironicamente Cheyenne), il magnate che sogna l'oceano: alle pareti della sua carrozza sono appesi paesaggi marini, nelle orecchie ode lo scrosciare delle onde, ma ironicamente muore tentando invano di raggiungere una sporca pozzanghera (l'acqua, tra l'altro, è uno dei fili conduttori del film: basti pensare al nome della fattoria di McBain: Sweetwater). Uomo d’affari abituato a superare ogni ostacolo con il denaro (a un certo punto riesce addirittura a “comprare” gli uomini di Frank, mettendoglieli contro), Morton resta impresso per la sua menomazione: non può camminare perché la tubercolosi ossea gli divora le gambe, e per questo motivo non si allontana mai dal suo vagone privato. Il progresso nasce già zoppo, e la strada d’acciaio segnata dalle rotaie è l’unica che può percorrere. Morton è interpretato da Gabriele Ferzetti, un attore con una carriera di tutto rispetto (da “L’avventura” di Antonioni a “Il portiere di notte” di Liliana Cavani).

Concludo ricordando alcune delle battute più celebri, visto che – come in tutti i film di Leone – i personaggi parlano poco ma, quando lo fanno, sfornano “perle” indimenticabili.

– C'è un cavallo per me?
– Ehi ragazzi, è vero… Ci siamo proprio dimenticati un cavallo!
– Ce ne sono due di troppo.

– Ho visto tre spolverini proprio come questi, tempo fa. Dentro c'erano tre uomini. E dentro gli uomini, tre pallottole.

– Era proprio necessaria questa strage? Ti avevo detto solo di spaventarli!
– Chi muore è molto spaventato.

– La taglia su Cheyenne è di cinquemila dollari, giusto?
– Giuda s'è accontentato di 4.970 dollari di meno.
– Non c'erano i dollari, allora.
– Già, ma i figli di puttana sì.

– A proposito, sai niente di uno che gira soffiando in un'armonica? Se lo vedi te lo ricordi. Invece di parlare, suona. E quando dovrebbe suonare, parla.

– Così tu sei quello degli appuntamenti...
– E tu sei quello che non ci va.

– Signora, mi pare che non hai capito la situazione.
– Ma certo che ho capito. Sono qui sola in mano a un bandito che ha sentito odore di soldi. Se ti piace puoi sbattermi sul tavolo e divertirti come vuoi, e poi chiamare anche i tuoi uomini. Nessuna donna è mai morta per questo. Quando avrete finito mi basterà una tinozza d'acqua bollente e sarò esattamente quella di prima, solo con un piccolo schifoso ricordo in più.

– Fra i tuoi amici la mortalità è piuttosto alta, Frank.

– Aspettavi me?
– Da molto tempo.

– Così hai scoperto che dopotutto non sei un uomo d'affari.
– Solo un uomo.
– Una razza vecchia. Verranno altri Morton e la faranno sparire.

24 gennaio 2012

Il buono, il brutto, il cattivo (S. Leone, 1966)

Il buono, il brutto, il cattivo
di Sergio Leone – Italia 1966
con Clint Eastwood, Eli Wallach, Lee Van Cleef
****

Rivisto in Blu-ray con Giovanni, Rachele, Paola, Ilaria, Ginevra, Eleonora e Costanza.

Sullo sfondo della sanguinosa guerra di secessione americana, tre uomini che vivono ai margini della legge (un giustiziere senza nome soprannominato "il Biondo"; il fuorilegge messicano Tuco; e il killer a pagamento chiamato "Sentenza") si mettono sulle tracce di una cassa con duecentomila dollari in oro, sottratta all'esercito sudista e nascosta in un cimitero. La "trilogia del dollaro" di Sergio Leone, che ha dato il via alla stagione dei western all'italiana, si conclude con il film forse più celebre e importante dell'intero filone, una pellicola epica e avventurosa, ambiziosa e divertente, ironica e spettacolare. Se Clint Eastwood era stato il protagonista assoluto del primo film ("Per un pugno di dollari"), affiancato poi da Lee Van Cleef nel secondo ("Per qualche dollaro in più"), qui i personaggi centrali diventano tre (come indica già il titolo della pellicola, fra l'altro ben più azzeccato e significativo di quelli dei due film precedenti, che in fondo avrebbero potuto essere appioppati a qualsiasi spaghetti western): il terzo incomodo è il formidabile Eli Wallach, nel ruolo più celebre di una carriera che pure lo ha visto recitare in compagnia di divi come Marilyn Monroe ("Gli spostati") e in pellicole come "I magnifici sette" e "La conquista del west". Proprio il suo personaggio, "il brutto" Tuco, è il più simpatico e "umano" dei tre protagonisti, non solo perché gli sono riservati i momenti più tipicamente comici ma anche e soprattutto perché è quello meglio caratterizzato (basti pensare al background che gli forniscono sequenze come quella dell'incontro con il fratello prete). Clint Eastwood, che naturalmente è "il buono", interpreta ancora una volta il ruolo dell'eroe senza nome (il fatto che soltanto nel finale giunga a indossare il celebre poncho che vestiva nei film precedenti suggerisce che questo possa essere – almeno idealmente – il prequel degli altri due). Van Cleef, invece, stavolta è "il cattivo" (e per ringiovanirlo rispetto al colonnello Mortimer, Leone gli ha fatto tingere i baffi e i capelli di nero): al contrario degli antagonisti nevrotici e spietati interpretati in precedenza da Gian Maria Volontè, però, la sua non è una cattiveria pura, bensì sempre controllata e finalizzata a un obiettivo.

Nonostante la monumentale durata (quasi tre ore), la storia che il film racconta è piuttosto semplice e il canovaccio è quello della caccia al tesoro, con ciascuno dei tre personaggi in possesso di solo una parte delle informazioni che consentono di trovare il bottino, il che li costringe a dar vita ad alleanze forzate che si formano e si disfano a seconda degli eventi. Sullo sfondo, come detto, c’è uno scenario storico preciso, quello della guerra civile americana, che non solo dona a tutta la vicenda un maggior respiro epico e quell’universalità che mancavano nei film precedenti ma ne accentua il continuo senso di morte imminente (che accompagna i personaggi dalla prima all'ultima sequenza: non a caso il climax del film si svolge in un cimitero). E di fronte agli orrori di un conflitto insensato ("Non ho mai visto morire tanta gente, tanto male", commenta il Biondo osservando una battaglia), anche gli inganni e le violenze dei tre protagonisti si fanno più piccoli e passano quasi in secondo piano, lasciandoli impegnati a battersi fra loro nella più totale indifferenza del resto del mondo, comprese le autorità o la legge. Pare che quest’idea sia stata suggerita a Leone da "Monsieur Verdoux", in cui Chaplin si chiedeva quanto contino i delitti "artigianali" di un singolo di fronte ai massacri voluti dai potenti del mondo. Il lungo viaggio dei tre personaggi incrocia dunque più volte la guerra, dalla quale entrano ed escono in continuazione: sono costretti a vestire divise, a interagire con i soldati, a evitare cannonate e battaglie, a superare trincee e linee nemiche, a evadere dai campi di prigionia... Non prendono posizione: che indossino o meno una divisa, rimangono del tutto indifferenti alle ragioni e agli ideali della guerra e non parteggiano per una parte o per l'altra: ma d'altronde lo stesso sembra valere per i soldati e i loro comandanti, ritratti come disperati o fatalisti (esemplare la toccante sequenza di Aldo Giuffrè, il capitano nordista che sogna di far saltare il ponte che è stato incaricato di proteggere), che reputano la guerra qualcosa di sporco e di inutile a prescindere dalle parti in causa. E non contiamo quanti di loro sono mutilati, senza arti o con cicatrici.

Girato come i precedenti in Almeria (la regione della Spagna che storicamente ha sempre fornito le ambientazioni per gli spaghetti western: un debito riconosciuto in pellicole-omaggio come "800 bullets" di Alex de la Iglesia), con la partecipazione dell'esercito franchista (che ha fornito i soldati per le scene di massa) e prodotto ancora da Alberto Grimaldi (con un ricco finanziamento della United Artists, che lasciò però carta bianca agli italiani), il film è il primo western ad alto budget di Leone, visto che le due pellicole precedenti – soprattutto la prima – erano state girate in economia. Recitato in una babele di lingue (inglese per i tre protagonisti, italiano per gli attori secondari, spagnolo per le comparse), venne poi doppiato in occasione delle varie uscite in sala. Non esiste dunque una vera e propria versione originale: alcuni attori (come Al Mulock) sul set recitavano addirittura parole senza senso o sequenze di numeri, sapendo che comunque sarebbero stati doppiati. Troppe sono le scene significative per ricordarle tutte: si dovrebbe raccontare, sequenza per sequenza, l’intero film. Vorrei però sottolinearne un paio che sono legate agli oggetti più iconici del western, le pistole. Innanzitutto la sequenza in cui Tuco, appena uscito dall’inferno del deserto, si presenta nel negozio di un venditore di armi e si "assembla" una pistola personalizzata scegliendo gli elementi ideali di ciascun modello che il commesso gli propone (la scena si conclude poi con uno sberleffo, la rapina al negoziante); e poi quella in cui il Biondo, dopo aver sconfitto Sentenza, avrà cura di farlo raggiungere nella tomba proprio dalla pistola e dal cappello: come scrive Francesco Minnini, si tratta di "accessori simbiotici del cowboy, che neppure un nemico oserebbe separare dal padrone, anche se morto". Quanto al "triello" finale, un celebre enigma di logica basato sulla teoria dei giochi suggerisce che al più "scarso" dei tre tiratori convenga sparare a vuoto: qui per Tuco ci pensa il Biondo, scaricandogli la pistola prima dello scontro (il che gli consente di vincere il duello con Sentenza perché a differenza del rivale sa già di doversi concentrare su un solo avversario).

Tornando al titolo (che pare sia stato ideato da Luciano Vincenzoni, co-sceneggiatore del film), non manca in esso una punta di ironia. I tre soprannomi, "il buono", "il brutto" e "il cattivo" (che compaiono scritti sullo schermo – a fianco dei rispettivi personaggi – sia all'inizio che alla conclusione del film) sembrano etichettare i personaggi in maniera netta e manichea, il che è naturalmente fuorviante: il Biondo è sì "buono", nel senso che "salva la vita" a Tuco sparando alla corda che lo sta impiccando (i due sono in realtà d'accordo: il primo consegna il secondo alle autorità per riscuotere la taglia, e poi lo libera) e dimostra più volte una spiccata sensibilità nei confronti di chi soffre (esaudisce l'ultimo desiderio del capitano nordista, offre il proprio sigaro al soldato sudista morente, e così via), ma in fondo anche lui è mosso dal desiderio di mettere le mani sull'oro e non certo da nobili ideali come quelli degli eroi del western classico; Sentenza è sì "cattivo", nel senso che non sembra porsi alcuno scrupolo nel tradire e uccidere pur di raggiungere i propri scopi, ma segue comunque un proprio codice d'onore ("Quando uno mi paga gli porto sempre a termine il lavoro"), non uccide se non è davvero necessario (risparmia la prostituta Maria, nonché la moglie e il figlio minore dell'uomo che rintraccia all'inizio: ne uccide invece il figlio maggiore, ma solo perché questi aveva tentato di aggredirlo con un fucile; dona una bottiglia al soldato ferito nell'ospedale di campo, e due monete a quello menomato che gli fornisce informazioni) e anche nel duello finale si batte secondo le regole; e Tuco, "brutto" sì ma fino a un certo punto (i suoi rivali, come i bounty killer che gli danno la caccia a inizio film – uno dei quali, quello che lo rintraccerà a metà pellicola, è interpretato dallo stesso Al Mulock che rivedremo nell'incipit di "C'era una volta il west" – hanno volti molto più sgradevoli del suo!), è un character talmente vivo e stratificato da non poter essere facilmente inquadrato nello stereotipo della macchietta comica, nonostante l'aspetto sia quello del messicano sporco, basso e grassottello, agli antipodi rispetto all'iconografia dell'eroe alto, bello e muscoloso.

Oltre a segnare un punto d'arrivo fondamentale nello stile di Sergio Leone (i tempi ampi e dilatati, i primissimi piani, l’attenzione ai dettagli, l’integrazione con il paesaggio, la cura nell’inquadratura e nel montaggio) – il film trascende il genere western e presenta molti chiavi di lettura: di quella della storia e della violenza abbiamo detto; abbiamo poi una connotazione fiabesca, evidente da scene come quella in cui Tuco segue – come Pollicino! – le tracce del Biondo che ha disseminato il suo cammino di sigari sempre più caldi (l’ultimo, infatti, è ancora acceso), o da elementi surreali come il vezzoso ombrellino rosa nel deserto; c’è il tema della religione: quello di Leone è un west senza Dio, dove un frate può essere meno misericordioso di un bandito (vedi ancora una volta l’incontro di Tuco e suo fratello) e un bounty killer è "l'angelo custode" di un fuorilegge, dove i riti religiosi sono caricaturizzati (il buffo segno della croce che si fa Tuco) e i valori cristiani distorti (Sentenza che divide la cena con l’uomo che sta per uccidere, e che in seguito fa lo stesso con Tuco prima di torturarlo); c’è poi il tema del gioco (la caccia al tesoro è una sorta di gioco dell’oca, con i tre personaggi come pedine e il cimitero finale – che Tuco percorre in una folle corsa circolare, fino a ritrovarsi nello spiazzo centrale – come tabellone; e come nel tiro dei dadi, è spesso il caso o il destino a decidere le sorti dei giocatori: si pensi alle cannonate che cadono dal cielo e che in un paio di occasioni, come veri deus ex machina, consentono ai personaggi di scampare alla morte o agli agguati). La natura ludica della vicenda è sottolineata anche dal diffuso sense of humour che sfocia in un autentico florilegio di frasi memorabili. Solo per citarne qualcuna:

– "La tua faccia somiglia a quella di uno che vale duemila dollari." – "Già, ma tu non somigli a quello che li incassa."
– "Quando si spara si spara, non si parla!"
– "Sei... il numero perfetto" – "Non era tre il numero perfetto?" – "Sì, ma io ho sei colpi qui dentro."
– "Dormirò tranquillo, perché so che il mio peggior nemico veglia su di me."
– "Dio è con noi, perché anche lui odia gli yankee!" – "No, Dio non è con noi, perché anche lui odia gli imbecilli."
– "Levati la pistola e mettiti le mutande."
– "Vado, l'ammazzo e torno."
– "Il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica e chi scava. Tu scavi."
– "Ehi Biondo, lo sai di chi sei figlio tu? Sei figlio di una grandissima puttaaa-aaa-aaa..."
(da sfumare sul tema musicale di Ennio Morricone)

E a proposito di Morricone, raramente una colonna sonora (diretta da Bruno Nicolai) si è rivelata così fondamentale per la buona riuscita della pellicola (una delle poche accoppiate regista/compositore che mi sentirei di paragonare a quella formata da Leone e Morricone – per la qualità del risultato filmico – è quella di Takeshi Kitano e Joe Hisaishi). Oltre al celeberrimo e riconoscibilissimo tema principale (con gli "ululati dei coyote"), i brani indimenticabili comprendono la ballata "La storia di un soldato" (che a dire il vero è un po’ troppo lenta per risultare credibile con l'utilizzo che ne fa Sentenza nel film, ossia quello di "coprire" le grida dei prigionieri che sta torturando), la musica quasi spettrale che accompagna la traversata nel deserto, il tema trascinante che fa da sfondo alla folle corsa di Tuco nel cimitero ("L'estasi dell'oro") e naturalmente quello del "triello" finale (che in parte riecheggia il carillon di "Per qualche dollaro in più"). Quest’ultima scena è un capolavoro anche di regia e di montaggio, con i suoi tempi dilatati che sembrano prolungare all’infinito l’attesa e la tensione, prima che i personaggi mettano finalmente mano alle pistole (Leone spesso regolava la durata delle scene proprio in base a quella dei brani musicali che Morricone componeva in anticipo). Ma il merito dell'eccezionale resa visiva di quella e di altre sequenze è anche dello spettacolare widescreen (e pensare che un tempo il film veniva proposto in tv in versione pan & scan: un vero delitto!) e della superba fotografia di Tonino Delli Colli. Al di là ai tre protagonisti, il cast offre poco spazio ad altri personaggi, ma comprende comunque buone e intense prove di Aldo Giuffré (il capitano nordista di cui si è detto), Luigi Pistilli (padre Ramirez, il fratello di Tuco), Mario Brega (il caporale Wallace, con una vistosa cicatrice che passa da un occhio all’altro!). Spicca invece la quasi totale assenza di figure femminili (se ne ricordano essenzialmente due, la moglie di Stevens e la prostituta Maria, che compaiono soltanto in una manciata di inquadrature), mancanza cui Leone rimedierà nel film successivo, "C'era una volta il west", dove Claudia Cardinale avrà un ruolo centrale.

10 gennaio 2012

Per qualche dollaro in più (S. Leone, 1965)

Per qualche dollaro in più
di Sergio Leone – Italia/Spa/Ger/USA 1965
con Clint Eastwood, Lee Van Cleef, Gian Maria Volontè
***1/2

Rivisto in DVD con Giovanni, Rachele, Paola, Eleonora e Ginevra.

Il "monco" e il Colonnello Douglas Mortimer sono due bounty killer sulle tracce dell'Indio, un criminale infido e senza scrupoli, da poco evaso di prigione, che sta progettando di compiere una spettacolare rapina alla ricca banca di El Paso. Dopo le iniziali incomprensioni, i due decidono di allearsi per sgominare la banda dell'Indio: ma se il primo è mosso soltanto dal desiderio di mettere le mani sulle taglie dei banditi, il Colonnello ha motivazioni diverse e più profonde. Lo scontro finale avverrà nel villaggio di frontiera dove l'Indio e i suoi uomini si sono rifugiati dopo aver portato a termine la rapina. Tornato al western dopo l'inatteso e straordinario successo di "Per un pugno di dollari" (del cui titolo fa un ironico upgrade: stavolta i dollari sono ben di più di un "pugno"), Leone cambia produttori (si affida ad Alberto Grimaldi, ma nell'operazione vengono coinvolti anche gli americani della United Artists), assolda lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni (già collaboratore di Germi e Monicelli) e sforna quello che a posteriori sarà ricordato come il secondo capitolo della cosiddetta "trilogia del dollaro": se nel primo film il protagonista unico e assoluto era Clint Eastwood, qui gli si affianca un secondo personaggio, il freddo cacciatore di taglie nerovestito e interpretato da Lee Van Cleef (scelto a pochi giorni dall'inizio delle riprese, dopo che Henry Fonda, Charles Bronson e Lee Marvin non si erano resi disponibili), che rimane impresso nella memoria dello spettatore persino più del compagno, anche perché – a differenza dell'"uomo senza nome" – possiede un background e ha dunque delle motivazioni più concrete per affrontare l'antagonista di turno (il cui ruolo, come nella pellicola precedente, è ricoperto dall'ottimo Gian Maria Volontè); nel terzo film della trilogia, "Il buono, il brutto, il cattivo", da due protagonisti si passerà a tre, con Eli Wallach che si affiancherà a Eastwood e a Van Cleef.

La trama è più complessa rispetto a quella – stilizzata e lineare – di "Per un pugno di dollari", con continui colpi di scena, capovolgimenti e cambi di situazione, e anche i legami fra i personaggi vengono analizzati con maggiore profondità: oltre al rapporto fra i due protagonisti/rivali, uno giovane e uno anziano, è da segnalare la marcata caratterizzazione del "cattivo", intelligente e calcolatore, traditore al punto da voler ingannare i suoi stessi uomini, ma anche tossicodipendente e a sua volta ossessionato da un delitto commesso in passato che torna di frequente a far capolino nei suoi sogni e nella sua memoria. Alcuni personaggi minori restano a livello di macchiette (la proprietaria dell'albergo dove alloggia Clint Eastwood, il bambino che gli dà informazioni, il vecchio "profeta"), mentre fra i membri della banda di Gian Maria Volontè spicca il "gobbo" interpretato da Klaus Kinski (d'altronde fra i coproduttori figurava anche una società tedesca). Meravigliose le location: dalla chiesa sconsacrata che funge da rifugio alla banda dell'Indio, agli scenari messicani (in realtà anche questo film venne girato in Spagna). Anche lo stile di Leone si affina, culminando in sequenze di grande impatto come quella della rapina alla banca e naturalmente nel duello finale fra Van Cleef e Volontè nel piazzale del pueblo, scandito dal suono del carillon dell'orologio da tasca che lega tragicamente il passato dei due personaggi (davvero memorabile, a questo proposito, la musica di Ennio Morricone, che parte proprio dal semplice campanello del carillon per ricamarci su un tema trascinante). Non mancano, infine, sequenze ciniche e umoristiche: su tutte la conta dei cadaveri nella scena finale.

26 novembre 2011

Per un pugno di dollari (S. Leone, 1964)

Per un pugno di dollari
di Sergio Leone – Italia/Spagna 1964
con Clint Eastwood, Gian Maria Volontè
***1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni, Rachele, Paola ed Eleonora.

Uno "straniero senza nome" e senza passato (chiamato Joe, per praticità, dagli altri personaggi), vestito con un caratteristico poncho, giunge nel villaggio di San Miguel – nei pressi del confine fra Stati Uniti e Messico – dove spadroneggiano due famiglie rivali: i messicani Rojo, che trafficano in armi con i ribelli oltre il confine, e i gringos Baxter, che commerciano in liquori. Offrendo i propri servigi come pistolero alternativamente agli uni e agli altri, riuscirà a fare in modo che le due bande si eliminino a vicenda, per poi andarsene dal villaggio così come vi era arrivato. Il film che ha dato origine al fortunatissimo filone del western all'italiana (noto anche come "spaghetti western"), trascendendo e rinnovando i canoni del genere cinematografico americano per eccellenza, nasce quasi per caso quando Sergio Corbucci, dopo aver visto al cinema "La sfida del samurai" di Akira Kurosawa, suggerisce all'amico Sergio Leone che sarebbe stato assai semplice adattarlo per ricavarne un western. La pellicola giapponese, d'altronde, aveva già tutto quello che serviva: il setting, i personaggi, i temi, persino il duello finale nella main street. Bastava soltanto sostituire il samurai con un pistolero, aggiungervi una colonna sonora adeguata, modificare qualche piccolo dettaglio, e il gioco era fatto. Convinti che la pellicola non sarebbe mai uscita al di là dei propri confini e che all'estero sarebbe passata sotto silenzio, i produttori italiani non si presero nemmeno il disturbo di chiedere ai giapponesi il permesso di realizzare il remake (e in fondo, come ha spiegato lo stesso Leone, lo spunto era vecchio come il mondo: da "Arlecchino servitore di due padroni" di Carlo Goldoni ai romanzi noir di Dashiell Hammett, la cui influenza è stata riconosciuta anche da Kurosawa). Ma quando il successo arrise a livello internazionale, la Toho fece causa in tribunale e ottenne i diritti per lo sfruttamento dell'opera sul mercato giapponese.

In precedenza non erano mancati altri western girati in Italia, così come molti se ne producevano in Spagna e in altri paesi europei, ma si trattava di imitazioni pedisseque se non di copie sputate dei film americani (al punto che i cineasti erano soliti firmarsi con pseudonimi che non lasciavano trapelare l'origine europea delle pellicole: lo stesso Leone, inizialmente, era ricorso al nome d'arte Bob Robertson, poi eliminato in occasione della riedizione del film). Con "Per un pugno di dollari", invece, per la prima volta non si guarda più al cinema americano classico come unico modello ma si cercano nuove strade, appoggiandosi anche alla lezione del cinema popolare italiano (e aprendo a propria volta nuove prospettive per il western statunitense: dai film dello stesso Eastwood fino a Tarantino). Fra le grandi novità rispetto al cinema dei Ford e degli Hawks c'è soprattutto l'elevazione al rango di protagonista di un personaggio più ironico, cinico e amorale del tradizionale eroe senza macchia. Ma qualche legame con gli eroi del passato rimane: proprio come lo Shane del classico "Il cavaliere della valle solitaria", di Joe non sappiamo nulla: da dove viene, dove va, quali sono le sue reali motivazioni (solo a metà pellicola il taverniere Silvanito capisce – e noi con lui – che non si tratta di un semplice mercenario). "Più che un personaggio con una precisa caratterizzazione psicologica", ha scritto un critico, "Joe è un simbolo, che viene dal nulla e nel nulla ritorna. È il destino, il deus-ex-machina", e non a caso nel descrivere questo film si è fatto riferimento anche al mondo della tragedia classica, a Eschilo e agli autori greci. Fuori dalle parti, apparentemente disinteressato a tutto quello che negli altri smuove passioni sfrenate (l'oro, le donne: significativo il momento in cui – come aveva fatto Mifune nel film di Kurosawa – dona il proprio denaro alla donna che ha liberato dalla prigionia, lasciandola libera di fuggire in compagnia del marito e del figlioletto), "l'uomo senza nome" è un personaggio assoluto e universale, mitologico ma anche calato nella realtà, privo di interessi personali se non quello di restituire la libertà ai più deboli e capace di esprimere amare considerazioni sociali o politiche ("Devo ancora trovare un posto dove non ci siano padroni").

Il film venne girato con un budget bassissimo in Spagna, per la precisione in Almeria, la regione che diventerà lo scenario tipico di gran parte delle pellicole del filone. Il protagonista Clint Eastwood (doppiato da Enrico Maria Salerno), allora semisconosciuto, era stato notato da Leone nel telefilm "Rawhide" (sì, quello la cui sigla è cantata dai Blues Brothers!). La sua scelta, con il senno di poi, è stata fondamentale per il successo della pellicola: freddo e imperturbabile ("Clint ha solo due espressioni: con il cappello e senza cappello", dichiarò il regista), contrasta nettamente con il principale rivale Gian Maria Volontè, esagitato e nevrotico, che interpreta il più giovane dei tre fratelli Rojo, quello con il fucile (equivalente del personaggio armato di pistola nel film di Kurosawa): indimenticabile, nel duello finale, Clint che lo invita a sparare "al cuore, Ramon, al cuore!" e, con la sua provocazione, riesce a fargli scaricare tutti i proiettili contro la lastra di metallo che indossa come protezione sotto il poncho. Negli anni seguenti Leone proseguì la cosiddetta "trilogia del dollaro" con lungometraggi via via più ambiziosi e personali: "Per qualche dollaro in più" (dove ad affiancare Eastwood – e Volontè – arriva Lee Van Cleef) e "Il buono, il brutto e il cattivo", tutti film dove a ben vedere quello interpretato da Clint è sempre lo stesso personaggio. Fondamentale la colonna sonora di Ennio Morricone, qui alla sua prima collaborazione con il regista (che era stato suo compagno di scuola), ispirata ai lavori di Dimitri Tiomkin (il tema principale con il fischio ricorda "Sfida all'O.K. Corral", mentre quello con la tromba è simile al celebre Deguello). Resosi conto di quanto sarebbe stato importante il suo contribuito per il risultato finale, Leone allungò apposta alcune scene per evitare di dover tagliare anzitempo il tema musicale: anche da questo è nata la sua tendenza a un ritmo lento e a inquadrature prolungate sugli attori o sui paesaggi! Tuttavia, pur essendo già indubbiamente un film tipicamente "leoniano", a partire dalla rappresentazione esplicita e realistica della violenza, molti degli elementi che caratterizzeranno lo stile del regista nei lavori successivi non sono ancora così marcati: i primissimi piani sui volti dei protagonisti, il florilegio di frasi ironiche e celebri (anche se non ne mancano: la più memorabile è "Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto"), l'insistenza su particolari "sporchi" o dettagli insignificanti. Fra le innumerevoli citazioni e gli omaggi che successivamente sono stati tributati al film, ricordo con piacere quelli nel secondo e nel terzo episodio di "Ritorno al futuro".

22 dicembre 2010

I lunghi giorni della vendetta (F. Vancini, 1967)

I lunghi giorni della vendetta, aka Faccia d'angelo
di Florestano Vancini – Italia/Spagna 1967
con Giuliano Gemma, Francisco Rabal
**

Visto in TV.

Condannato ingiustamente a trent'anni di lavori forzati per un omicidio che non ha commesso, Ted Garnett evade per vendicarsi di coloro che lo hanno incastrato e hanno ucciso suo padre: il potente fazendero Cobb e il corrotto sceriffo Douglas, in combutta per spadroneggiare nella città di Kartown e commerciare illegalmente in armi con i ribelli messicani oltre il confine. Con l'aiuto della sua ex amante (Nieves Navarro) e di un medico-ciarlatano in viaggio con la nipote, riuscirà a dimostrare la propria innocenza e a far fuori l'intera banda. Ispirato evidentemente a "Il conte di Montecristo", l'unico western del regista Florestano Vancini (che si firma con lo pseudonimo di Stan Vance) gode di un certo riscontro fra gli appassionati del genere: addirittura Quentin Tarantino (che ha inserito un brano della colonna sonora di Armando Trovajoli all'interno di "Kill Bill vol. 1") lo considera uno dei migliori spaghetti western di tutti i tempi. La sceneggiatura di Fernando Di Leo (anche aiuto regista) e di Augusto Carminito non risparmia situazioni tese e violente: su tutte, oltre alla lunga sparatoria finale, la scena in cui Garnett si lascia pericolosamente radere la barba da un membro della gang nemica o quella in cui la sua impiccagione viene interrotta all'ultimo momento dall'arrivo del giudice che lo scagiona. Il personaggio di Gemma è sfaccettato, anche troppo: a volte è un astuto calcolatore, altre un atletico sbruffone (non manca nemmeno una scazzottata nel saloon, in stile "Trinità"). Buona comunque la regia e in generale la qualità visiva della pellicola.

27 luglio 2010

Yankee (Tinto Brass, 1966)

Yankee
di Tinto Brass – Italia/Spagna 1966
con Philippe Leroy, Adolfo Celi
**

Visto in DVD, con Martin.

Curioso western all'italiana diretto da un Tinto Brass che all'epoca non si era ancora indirizzato verso il filone erotico che lo avrebbe poi reso famoso. Più che per i contenuti (la storia non è molto diversa da quella di mille altri spaghetti western, con un avventuriero senza nome – chiamato da tutti "Yankee" perché evidentemente americano – che giunge nel Nuovo Messico per sgominare la banda di un criminale sanguinario e megalomane, il grande Concho), il film si fa notare per la forma: la regia di Brass è espressionista e dinamica, con abbondanza di primissimi piani, angolature insolite e attenzione ai dettagli (il regista dichiarò di essersi ispirato alle vignette dei fumetti americani, imitandone la composizione e le inquadrature ravvicinate); la fotografia di Alfio Contini è colorata, surreale e quasi psichedelica, e gioca con la luce e con il fuoco. Da antologia le riprese controluce, come quella in cui il sole al tramonto forma riflessi circolari sull'obiettivo che pervadono l'intera inquadratura. Molto orecchiabile il tema musicale di Nini Rosso. E davvero interessante il comparto attoriale, con Philippe Leroy e Adolfo Celi rispettivamente nei panni del protagonista e del cattivo (il resto del cast è formato da caratteristi italiani e spagnoli).

16 aprile 2008

La collina degli stivali (G. Colizzi, 1969)

La collina degli stivali
di Giuseppe Colizzi – Italia 1969
con Terence Hill, Bud Spencer
*1/2

Rivisto in DVD.

Un pistolero, ferito e braccato da alcuni inseguitori, si rifugia nel carrozzone di una compagnia circense i cui membri lo aiuteranno a sgominare una banda di farabutti che intende appropriarsi delle concessioni di una comunità di minatori. Un oggetto strano, questo film, sicuramente un corpo estraneo nella filmografia della coppia Spencer-Hill, la cui caratterizzazione fa un passo indietro rispetto al precedente "I quattro dell'Ave Maria". Bud addirittura non compare prima di metà film, e i primi trenta minuti sono noiosi e pesanti. Che la pellicola non intendesse procedere sulla strada aperta dai due precedenti film di Colizzi lo dimostra anche l'assenza di gag: non c'è nessuna scazzottata (tranne quella nel finale, ambientata nel saloon ed evidentemente posticcia, visto che è completamente fuori luogo rispetto al tono generale del film e alla cruenta sparatoria che avviene all'esterno) né una particolare interazione comica fra i personaggi. Da notare la presenza di Woody Strode (era, fra le altre cose, uno dei tre uomini che attendevano l'arrivo del treno nell'incipit di "C'era una volta il west" di Leone) e di Lionel Stander (nei panni del direttore del circo). Il termine "collina degli stivali", che nel film non viene mai usato, si riferiva a un cimitero per pistoleri, ossia per coloro che "morivano con gli stivali ancora addosso".

11 aprile 2008

I quattro dell'Ave Maria (G. Colizzi, 1968)

I quattro dell'Ave Maria
di Giuseppe Colizzi – Italia 1968
con Terence Hill, Bud Spencer
**1/2

Rivisto in DVD.

Dopo l'ottimo riscontro del film precedente, "Dio perdona... io no!", Colizzi prova subito a riproporre la stessa coppia di protagonisti che, stando agli screen test, quando comparivano insieme sullo schermo suscitavano l'entusiasmo del pubblico. Grazie al finanziamento di alcuni produttori americani, stavolta il regista può permettersi un budget decisamente più elevato e l'ingaggio di un attore di richiamo come Eli Wallach, già coprotagonista de "Il buono, il brutto e il cattivo" di Sergio Leone. Nei titoli e nella locandina i nomi di Hill e di Wallach sono davanti a tutti gli altri, ma a tratti il mattatore è proprio Bud Spencer, la cui alchimia con il compagno comincia a decollare anche se le dinamiche fra i due sono ancora limitate. La pellicola è dichiaratamente un sequel della precedente (all'inizio vediamo Bud e Terence restituire il denaro rubato da Bill Santantonio e "riscuotere" la ricompensa), ma il tono è meno violento – pur se sparatorie e morti continuano a non mancare – e più ironico e scanzonato, anche per la presenza di Wallach nei panni di Cacopulos, pulcioso e inaffidabile bandito di origine greca, inizialmente rivale dei due amici e poi loro alleato in cerca di vendetta nei confronti di chi l'aveva tradito anni prima. Ai tre protagonisti si affianca, non si capisce bene perché, un pistolero e acrobata di colore (Brock Peters): insieme, i quattro sconfiggeranno i cattivi in un duello "all'ora dell'Ave Maria". Anche se l'ambientazione è ancora quella di un tipico western all'italiana, si intravedono squarci del "genere universale" del tutto particolare dei futuri film di Spencer e Hill: c'è persino la prima scazzottata in due contro molti. La trama presenta qualche lungaggine di troppo, è tutt'altro che compatta e procede per spunti ed episodi quasi slegati l'uno dall'altro (l'introduzione dei personaggi, la prima vendetta in Messico, lo scontro nella casa da gioco con la roulette truccata). Guardandolo, mi sono trovato a apprezzare e a rimpiangere il bel doppiaggio di quei tempi (indimenticabile la voce mellifua di Wallach: "e io miagolavo...") e un periodo in cui persino gli attori italiani accettavano di far sostituire la propria voce per risultare più adeguati (prendi esempio, Bellucci!).

10 aprile 2008

Dio perdona... io no! (G. Colizzi, 1967)

Dio perdona... io no!
di Giuseppe Colizzi – Italia 1967
con Terence Hill, Bud Spencer
**

Rivisto in DVD.

Dopo aver scoperto che il responsabile di una sanguinosa rapina al treno è un vecchio amico della cui morte – soltanto inscenata – si credeva responsabile, un avventuriero parte alla sua ricerca per vendicarsi e per sottrargli il bottino. Lo aiuterà un altro compare che ora lavora per la compagnia che ha assicurato il treno. Girato in Almeria quando il western all'italiana – dopo gli exploit di Leone – sembrava in fase calante, è il film che ha contribuito a rivitalizzare il genere ma soprattutto quello che ha dato vita alla coppia Bud Spencer-Terence Hill, peraltro nata in modo piuttosto casuale: Carlo Pedersoli, ex olimpionico di nuoto, venne scelto per debuttare sullo schermo soltanto in funzione della sua stazza, ma dimostrò buone doti recitative e soprattutto un eccellente physique du rôle; Mario Girotti sostituì a riprese già iniziate il protagonista ingaggiato in origine, Peter Martell, che si era infortunato al piede durante una lite con la fidanzata (!). Anche i loro nomi d'arte nascono con questa pellicola, su richiesta dei produttori che volevano vendere il film all'estero, e sembravano destinati a non essere riproposti in futuro. I due attori, a dire il vero, non costituiscono ancora una vera e propria coppia: compaiono raramente insieme sullo schermo (ma quando lo fanno mettono già in mostra un buon affiatamento) e sono soltanto due delle tre pedine sulle quali si regge una trama non memorabile, eppure sono già uniti dal consueto rapporto di amicizia/rivalità, incarnano ruoli ben delineati e offrono persino la loro prima scazzottata all'interno di un film che per il resto è ricco di morti violente (basti pensare che si apre con l'immagine di un treno pieno di cadaveri) e sicuramente meno ironico e scanzonato dei successivi. La pellicola doveva inizialmente intitolarsi "Il cane, il gatto e la volpe", ma il titolo venne cambiato all'ultimo momento, dando origine alla moda dei rimandi religiosi nei nomi degli spaghetti western (cui non si sottrassero Spencer e Hill con il successivo "I quattro dell'Ave Maria" e naturalmente con i due "Trinità"). Durante il film, infatti, la battuta del titolo non viene mai pronunciata né – a parte la musica, con un coro sulle parole del "Dies irae", e il nome del cattivo, Bill Santantonio – ci sono riferimenti di qualsivoglia tipo alla religione.

4 settembre 2007

Johnny Oro (Sergio Corbucci, 1966)

Johnny Oro
di Sergio Corbucci – Italia 1966
con Mark Damon, Ettore Manni
**1/2

Visto in DVD, con Martin.

Johnny Oro, cacciatore di taglie con la pistola e gli speroni d'oro che pretende di essere pagato soltanto in metallo sonante, sgomina la banda messicana dei fratelli Perez. Ma l'unico sopravvissuto della famiglia, da lui risparmiato perché non aveva ancora una taglia sulla testa, si allea con una tribù di indiani ribelli e minaccia di mettere a ferro e fuoco la tranquilla cittadina di Coldeville se lo sceriffo non gli consegnerà Oro, nel frattempo incarcerato per cinque giorni per aver girato armato in città. Realizzato agli albori della stagione degli spaghetti western, questo bel film di Corbucci ne fonde alcuni elementi (il protagonista spregiudicato, la crudeltà dei banditi, le esplosioni con la dinamite, l'umorismo cinico) con altri che provengono invece ancora dal western tradizionale americano. La trama stessa ricorda classici come "Un dollaro d'onore" e "Mezzogiorno di fuoco", e lo sceriffo integerrimo con moglie e figlio, interpretato da Ettore Manni, è uno pseudo-Gary Cooper. La regia di Corbucci è senza fronzoli e ha poco in comune con quelle di Leone: i modelli sono ancora Hawks e Ford. Ne esce un film piacevole e scorrevole, magari non originalissimo ma con buoni attori e caratterizzazioni. Un po' ridicola la canzone dei titoli di testa, divertenti alcune battute ("Sai cos'è un principio?" "Sì, sono quelle cose scritte sulle tombe").

7 marzo 2007

Continuavano a chiamarlo Trinità (E.B. Clucher, 1971)

Continuavano a chiamarlo Trinità
di E.B. Clucher [Enzo Barboni] – Italia 1971
con Terence Hill, Bud Spencer
***

Rivisto in DVD, con Hiromi.

L'enorme e inaspettato successo del primo "Trinità" convinse rapidamente i produttori, il regista e gli attori a girarne il seguito. Qui la personalità della coppia viene definita ancora di più, i due character funzionano meglio e diventano definitivamente quelli che saranno protagonisti nei decenni successivi di numerose altre pellicole, non più western ma d'avventura, ambientate in ogni parte del mondo, in fondo tutte variazioni sullo stesso tema. La prima metà del film è la più brillante: dopo la gag sui "rapinatori rapinati" nel deserto, che attraverso il tegame di fagioli fornisce da subito un punto di contatto con il film precedente, vengono introdotti i genitori della coppia e si pongono le basi per la trama successiva: i due partono in cerca di avventure, con Bambino che dovrà insegnare a Trinità il mestiere di fuorilegge. Seguono sequenze una migliore dell'altra, fra le quali vanno ricordate la partita a poker (di cui ci si ricorderà in un film successivo, "Pari e dispari") e quella della cena al ristorante (che addirittura anticipa l'analoga sequenza di John Belushi e Dan Aykroyd in "The Blues Brothers"). La seconda metà, quella in cui la trama prende il sopravvento con la vicenda dei frati costretti a "riciclare" il denaro sporco dei biechi affaristi di città, la trovo invece meno divertente. E anche la scazzottata finale non è delle migliori. Nel complesso, comunque, si tratta di un film importante per la coppia, nonché di un ottimo punto di partenza per abbandonare l'ambientazione western e veleggiare verso nuovi orizzonti. I risultati al botteghino furono fenomenali, e Bud e Terence divennero i beniamini di un pubblico tanto vasto quanto eterogeneo, in Italia come all'estero.

Nota: è curioso come il tema religioso fosse così presente in queste prime pellicole, dal nome del protagonista e dal titolo dei film alle trame vere e proprie, che vedono i nostri eroi alle prese con una comunità di mormoni (nel primo "Trinità") e con una missione cattolica (nel sequel). La cosa è buffa se si pensa che i due attori, a fine carriera, hanno chiuso il cerchio finendo con l'interpretare davvero personaggi legati alla religione, stavolta però senza sbeffeggiarli: Don Camillo e Don Matteo per Terence Hill, Padre Speranza per Bud Spencer.

6 marzo 2007

Lo chiamavano Trinità (E.B. Clucher, 1970)

Lo chiamavano Trinità...
di E.B. Clucher [Enzo Barboni] – Italia 1970
con Terence Hill, Bud Spencer
***1/2

Rivisto in DVD, con Hiromi.

"Salve, fratelli!"
"Salve... Glielo hai detto tu che siamo fratelli?"
"È il signore che vi manda!"
"No, passavamo di qua per caso."

Dopo i primi tre film insieme ("Dio perdona... io no!", "I quattro dell'Ave Maria", "La collina degli stivali"), che ne avevano già messo in luce l'alchimia di coppia, Terence Hill e Bud Spencer raggiungono il grande successo con questa pellicola che incredibilmente, secondo i suoi realizzatori, non era stata inizialmente concepita come un western comico, anche se il lato giocoso e scanzonato era presente intenzionalmente (e questa fu una grande intuizione di Barboni). L'ironia, però, non avrebbero dovuto essere molto diversa da quella dei tipici spaghetti western del periodo, e questo è forse dimostrato dal fatto che nella prima parte del film i due protagonisti continuano a usare le pistole come se si trattasse di un western normale, passando soltanto in seguito agli "sganassoni" che sarebbero diventati il loro marchio di fabbrica. Interessante, al riguardo, osservare lo zelo con il quale gli sceneggiatori cercano da un certo punto in poi di fare in modo che gli avversari si disarmino spontaneamente. Molte gag vennero poi letteralmente inventate e improvvisate in fase di lavorazione, e non erano presenti nello script originale, che fra l'altro Barboni faticò a far accettare ai produttori ("Troppo pochi morti", dicevano).
Divertente, memorabile e ormai leggendario (ho perso il conto di quante volte l'avrò visto), il film è introdotto dal magnifico brano musicale di Franco Micalizzi. E già dopo pochi minuti compare subito anche un altro tema che diverrà una costante nei film della coppia Spencer/Hill: il cibo. Ogni volta che rivedo la scena di Trinità che ripulisce il tegame di fagioli, mi viene fame! Segue poi la costruzione della "rivalità" fra i due, alleati contro i cattivi ma comunque sempre in conflitto fra loro, con Hill nei panni del furbo e manipolatore (Trinità), e Spencer in quella del "sucker" (Bambino), serio e pragmatico ma alla fine trascinato nelle sue avventure dal fratello minore che se lo rigira come vuole.
Il film, in ogni caso, è ben costruito, con una regia solida, una sceneggiatura attenta ai dettagli (si veda per esempio l'introduzione dei vari personaggi, anche di quelli minori come i due complici di Bud Spencer) e un buon ritmo. Ma si sa: in quei tempi il cinema italiano di genere non aveva nulla da invidiare a nessuno!