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10 giugno 2019

Forza bruta (Jules Dassin, 1947)

Forza bruta (Brute force)
di Jules Dassin – USA 1947
con Burt Lancaster, Charles Bickford
**

Visto in TV.

Nel carcere di Westgate, il capitano delle guardie Munsey (Hume Cronyn) usa la "forza bruta" per punire i detenuti e metterli l'uno contro l'altro, provocandoli allo scopo di suscitare una rivolta, destabilizzare l'anziano direttore e prenderne il posto. Ma la cosa gli sfuggirà di mano. Sceneggiato dal futuro regista Richard Brooks (da una storia di Robert Patterson, ispirata all'allora recente "Battaglia di Alcatraz" del maggio 1946), il capostipite di tanti film carcerari, passato alla storia per (l'allora) estrema violenza e brutalità, oltre che per il ritratto simpatetico di criminali e detenuti, al punto che nel finale è necessario l'intervento del medico del carcere (Art Smith) che si rivolge direttamente agli spettatori, affermando che "la fuga è impossibile". La storia, di impostazione corale, si concentra in particolare sui prigionieri della cella R17 – fra i quali Collins (Burt Lancaster) – che a turno rievocano il motivo per cui sono stati incarcerati o mostrano un breve flashback della propria vita precedente, spesso insieme a donne, mogli o compagne (fornendo l'occasione di dare spazio ad attrici come Yvonne De Carlo, Ann Blyth, Ella Raines e Anita Colby, che altrimenti non avrebbero trovato posto in una pellicola tutta ambientata in un setting esclusivamente maschile). Anche se Dassin non lo amava particolarmente, è stato uno dei lungometraggi più celebri del regista prima del forzato "esilio" in Europa in seguito al Maccartismo. Visto oggi, però, appare eccessivamente melodrammatico e irrimediabilmente datato, ricco di ingenuità e povero di ritmo, tranne forse nel finale in cui la rivolta scatena fiamme e distruzione fra le mura del carcere. Interessanti comunque le dinamiche interne della vita in prigione, come le crudeli punizioni che gli stessi reclusi impartiscono a chi, fra loro, si macchia della colpa di aver fatto la spia. Nel cast Sam Levene, Jeff Corey e John Hoyt. Charles Bickford è Gallagher, il "decano" dei prigionieri, che dapprima rifiuta la proposta di Collins di partecipare al progetto di fuga perché in attesa di un condono, e poi cambia idea quando questo gli viene negato senza motivo. La traccia audio della versione italiana tramessa in tv è molto deteriorata, con i dialoghi a stento intellegibili.

4 marzo 2016

La città nuda (Jules Dassin, 1948)

La città nuda (The naked city)
di Jules Dassin – USA 1948
con Barry Fitzgerald, Howard Duff
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli.

La voce di un narratore (il produttore Mark Hellinger) ci introduce al film citando i cineasti – al posto dei titoli di testa – e sottolineando che la pellicola non è girata in studio ma nella vera città di New York, protagonista con le sue strade, i suoi quartieri, i mercati, i treni, i ponti, e naturalmente i suoi abitanti, quanto e più degli attori stessi. Non si tratta però di un documentario ma di un giallo, un precursore del "police procedural", nel corso del quale seguiamo le indagini di un gruppo di agenti della squadra omicidi – guidati dall'anziano e affabile tenente Muldoon (Barry Fitzgerald) – sull'omicidio di una giovane modella, annegata nella sua vasca da bagno. Le tracce dell'assassino sono poche e non sembrano condurre a nulla, anche se un paio di sospetti non mancano: un misterioso amante (House Jameson) e un imbroglione che la ragazza frequentava (Howard Duff). Ma poi il caso si intreccia con una serie di furti di gioielli, e Muldoon e i suoi uomini – fra i quali spicca il giovane Halloran (Don Taylor) – trovano finalmente la pista giusta. Da ricordare l'inseguimento finale, quasi hitchockiano, su un pilone del Ponte di Brooklyn, prima che la vicenda si concluda con il narratore che afferma: "Ci sono otto milioni di storie nella città nuda. Questa era una delle tante". Due premi Oscar (per il montaggio e per la fotografia, ispirata pare ai film del neorealismo italiano oltre che agli scatti del fotogiornalista Weegee) e una certa fama per i cultori del genere noir, ma il soggetto è quello di un poliziesco convenzionale, per quanto solido e interessante, che offre alcuni buoni momenti (la visita dei genitori della ragazza all'obitorio, la ricerca dell'assassino per le strade) ma non approfondisce più di tanto le dinamiche interne alla polizia (il rapporto fra l'anziano tenente e il giovane detective) o quelle del sottobosco criminale. Diede origine a una serie tv, ogni episodio della quale si concludeva con la frase di cui sopra. In ogni caso, contribuì a portare una certa dose di realismo nel cinema hollywoodiano, evidente anche nei ritratti cinici e tutt'altro che accondiscendenti dei vari personaggi. Dassin finirà a breve nella black list del Maccartismo e sarà costretto a emigrare in Francia, dove dirigerà il suo capolavoro, "Rififi".

2 aprile 2008

Rififi (Jules Dassin, 1955)

Rififi (Du rififi chez les hommes)
di Jules Dassin – Francia 1955
con Jean Servais, Carl Möhner
***

Rivisto in DVD.

Due giorni fa è morto Jules Dassin, e come sempre non c'è modo migliore di ricordare un regista scomparso che quello di rivedersi uno dei suoi film. Americano di nascita e autore di pellicole come "Forza bruta" e "La città nuda", Dassin fu costretto a trasferirsi in Europa dopo essere finito sulla lista nera del maccartismo: questo "Rififi" (il termine, che fa parte del gergo della malavita, si riferisce a una lotta senza esclusione di colpi) è il suo primo film francese, un noir che vinse il premio per la miglior regia al festival di Cannes e avrebbe influenzato numerosi film "di rapine" successivi (compreso, probabilmente, "I senza nome" di Melville): la tesissima scena centrale, ovvero l'indimenticabile sequenza della rapina alla gioielleria, è completamente muta e dura quasi trenta minuti (anche di più se la facciamo partire dal momento in cui tre dei quattro protagonisti salutano silenziosamente le rispettive compagne e terminare nell'istante in cui contemplano il bottino). Anche se il film non è perfetto (i personaggi sono un po' stereotipati, ma dopo tutto fa parte del gioco: siamo di fronte a un noir archetipico), quel che risalta sono i dialoghi di Auguste Le Breton (che contribuì all'adattamento dal suo romanzo, uno dei capostipiti del filone) e naturalmente la regia, oscura, efficace e ricca di piani sequenza ma anche di primi piani sui volti degli attori, quasi tutti poco noti. Il protagonista della storia è il vecchio gangster Tony, detto "il laureato", un duro veterano che segue sempre le regole. Malato dopo cinque anni di carcere (che ha scontato pur di non tradire gli amici) e incattivito perché nel frattempo la sua donna Madò lo ha lasciato, Tony progetta un formidabile colpo a una gioielleria in compagnia di tre complici: il suo giovane protetto Joe, il loquace italiano Mario (Robert Manuel) e l'elegante e donnaiolo Cesare "il marsigliese", specialista in casseforti (Dassin stesso, che recita con lo pseudonimo di Perlo Vita: ma nella versione originale è "il milanese"!). Dopo il colpo, un'imprudenza di Cesare (che regala un anello alla ballerina di un night club, interpretata da Magali Noël) li tradirà: e una banda rivale cercherà di impossessarsi del bottino sequestrando il figlioletto di Joe e scatenando l'ira di Tony. Molto bella, nel finale, anche la sequenza del bandito che guida ferito attraverso tutta la città per riconsegnare il bambino alla madre. La scena della morte di Cesare non era prevista nella sceneggiatura originale: Dassin la aggiunse per alludere alla tragica situazione della lista nera di Hollywood e al prezzo da pagare per il "tradimento di amici e colleghi".