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18 giugno 2020

Nell'anno del Signore (L. Magni, 1969)

Nell'anno del Signore
di Luigi Magni – Italia 1969
con Nino Manfredi, Claudia Cardinale
***

Visto in divx.

Nella Roma di papa Leone XII (siamo nel 1825), dove un potere autoritario e dispotico limita fortemente le libertà del popolo, due carbonari – il medico rivoluzionario Leonida Montanari (Robert Hossein) e il giovane idealista Angelo Targhini (Renaud Verley) – vengono arrestati e condannati a morte per aver tentato di uccidere un membro del loro stesso gruppo che aveva fatto la spia alle guardie del pontefice. La loro storia si intreccia con quella di un umile ciabattino, Cornacchia (Nino Manfredi), che in segreto scrive le poesie satiriche che vengono affisse ogni notte sulla statua di Pasquino (le cosiddette "pasquinate") per irridere il clero e le istituzioni, denunciarne gli abusi e spingere il popolo alla rivolta; e con quella di Giuditta (Claudia Cardinale), ragazza ebrea che convive con Cornacchia e che cerca in ogni modo di salvare i due prigionieri dalla forca... Il secondo film di Magni è uno dei suoi lavori migliori e più caratteristici, primo di un filone (seguiranno, fra gli altri, "In nome del Papa Re" e "In nome del popolo sovrano") ambientato nella Roma papalina durante gli ultimi anni del potere pontificio. Il soggetto è ispirato a una storia vera (l'ultima scena, ambientata ai giorni nostri, mostra la targa affissa in memoria dei condannati in piazza del Popolo, dove si svolse l'esecuzione), di cui peraltro modifica alcuni particolari (come l'età anagrafica e la provenienza di alcuni personaggi): e pur sbilanciando la narrazione verso il registro comico-grottesco tipico della commedia all'italiana, se non addirittura verso la farsa in alcuni passaggi fin troppo parodistici, con qualche caduta di stile (vedi la principessa (Britt Ekland) moglie di Filippo Spada (Franco Abbina), che non si cura della sorte del marito), riesce comunque a fornire una rappresentazione indovinata di un particolare momento storico che, volendo, può essere letto in chiave di attualità (anche perché le questioni politiche e la semplice umanità dei personaggi si intrecciano con felice intuizione). Il tema, dopotutto, è quello del rapporto fra il popolo e chi lo governa, un popolo ritratto di volta in volta come pigro e addormentato, felice di essere guidato o dominato, in attesa di qualcuno che lo risvegli, o semplicemente indifferente alle proprie sorti. I timidi fermenti rivoluzionari che preoccupano le guardie non sembrano in realtà frutto di una volontà popolare: i cospiratori della setta carbonara sono soltanto nobili e aristocratici, mentre la gente comune pensa a tirare a campare e, semmai, a godersi lo spettacolo dell'esecuzione dei congiurati. Insomma: la satira è rivolta sia verso il potere sia verso i sudditi.

Esemplare la frase che conclude il film, pronunciata da Montanari prima di essere decapitato: "Buonanotte, popolo". È solo uno, peraltro, dei numerosi detti memorabili o aforismi paradossali di cui è permeata la pellicola (fra i tanti: "Noi siamo sempre dalla parte giusta, soprattutto quando sbagliamo", "Il popolo è stanco? Più che altro, sembra ubriaco", "Io mi sento libero solo quando obbedisco!", "Qui a Roma gli unici a dormire siamo noi, che stiamo sempre svegli"). La vicenda assume a tratti caratteristiche corali, grazie a un nutrito gruppo di comprimari, molti dei quali interpretati da autentici mostri sacri della commedia all'italiana: Ugo Tognazzi è il cardinale Rivarola, colui che condanna a morte i carbonari; Enrico Maria Salerno è il colonnello Nardoni, incaricato di far rispettare l'ordine in città ("Magari comandassero i colonnelli!", afferma a un certo punto: un'altra allusione all'attualità, il colpo di stato in Grecia); Alberto Sordi è il frate che cerca inutilmente di far pentire i condannati prima dell'esecuzione. Piccole parti, inoltre, per Pippo Franco, Stelvio Rosi e Marco Tulli. La scelta di ricorrere ad attori celebri fu fatta intenzionalmente dai produttori, nella speranza di "disinnescare" la polemica per i contenuti anticlericali del film, che sarebbero saliti in primo piano se la pellicola fosse stata interpretata da volti sconosciuti o meno associati alla comicità: così, invece, si cercò di farla passare per una delle tante commedie italiane in costume. Il successo al botteghino, in ogni caso, fu notevole. Fra i temi collaterali, da segnalare quello delle persecuzioni contro gli ebrei, con sequenze come la messa cui gli abitanti del ghetto sono costretti ad assistere, o la frase di Rivarola "Secondo me, questi giudei sono esseri umani quasi come noi". La scena in cui il cardinale finge di firmare la grazia per i condannati potrebbe essere stata ispirata alla "Tosca" di Giacomo Puccini, di cui lo stesso Magni realizzerà un adattamento cinematografico quattro anni più tardi. Nel 2003 il regista e Manfredi torneranno poi a occuparsi delle pasquinate nel tv movie "La notte di Pasquino". La colonna sonora di Armando Trovajoli è "morriconiana", come suggerisce anche la canzone di Giuditta interpretata dal soprano Edda Dell'Orso (già memorabile voce in alcune delle migliori soundtrack per i film di Sergio Leone). I temi del film, la sua ambientazione e l'iconografia di alcuni personaggi (come Montanari) potrebbero aver ispirato il fumetto "Mercurio Loi" pubblicato da Sergio Bonelli Editore.

10 settembre 2019

La ragazza con la valigia (V. Zurlini, 1961)

La ragazza con la valigia
di Valerio Zurlini – Italia/Francia 1961
con Jacques Perrin, Claudia Cardinale
***

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Il sedicenne Lorenzo Fainardi (Jacques Perrin) si innamora di Aida (una Cardinale giovane e bellissima), ballerina spiantata che suo fratello maggiore Marcello aveva sedotto (sotto falso nome, millantando di poterle procurare una scrittura) e poi abbandonato. Forse il film più famoso di Zurlini, è una classica storia di educazione sentimentale: Lorenzo, puro e ingenuo anche perché sempre vissuto nella bambagia, si affeziona alla ragazza dapprima per compassione, come per voler rimediare alla colpa del fratello, e poi per amore sincero, senza rendersi conto che lei, più grande e avvezza alle cose della vita, appartiene a un mondo diverso. Se infatti lui è di famiglia facoltosa, lei ha imparato a battersi per ogni cosa, sfruttando eventualmente anche la propria bellezza e i favori degli uomini, col rischio sempre concreto di rimanere vittima di qualche mascalzone. Ambientato fra una Parma raffinata (dove abitano i Fainardi) e una volgare Riccione (dove Aida si esibiva nei locali sulla riviera e dove torna nel finale, nella speranza di farsi riassumere nella sua vecchia orchestra), il film è delicato e ottimamente interpretato dai suoi giovani attori: per la Cardinale, in particolare, la parte fu significativa perché anche l'attrice – come il suo personaggio – aveva avuto da giovanissima un figlio che doveva tenere nascosto alla società. Certe dinamiche familiari (oltre che il volto da “bravo ragazzo” di Lorenzo) sembrano quasi anticipare “I pugni in tasca”. La Cardinale è doppiata da Adriana Asti. Nel cast anche Corrado Pani (il fratello Marcello), Romolo Valli (il prete) e Gian Maria Volonté (Piero, l'ex di Aida). La colonna sonora è ricca di hit e canzonette dell'epoca (“Il cielo in una stanza”, “Tintarella di luna”), ma c'è anche l'aria “Celeste Aida” cantata da Beniamino Gigli, che Lorenzo fa ascoltare ad Aida sul giradischi.

27 ottobre 2018

La tenda rossa (Mikhail Kalatozov, 1969)

La tenda rossa (Krasnaya palatka)
di Mikhail Kalatozov – URSS/Italia 1969
con Peter Finch, Sean Connery
*1/2

Visto in TV.

Quarant'anni dopo aver guidato (nel 1928) un'infausta spedizione in dirigibile al Polo Nord, sulle orme di Amundsen (che aveva sorvolato l'Artico, senza però atterrare), il generale dell'aviazione italiana Umberto Nobile (Peter Finch) convive con i propri fantasmi, ovvero gli spiriti degli uomini morti durante la spedizione, che gli compaiono letteralmente davanti agli occhi per accusarlo delle sue colpe, imbastendo a casa sua un vero e proprio processo. Riviviamo così tutti gli eventi di quella tragica avventura, quando Nobile e altri membri dell'equipaggio, precipitati sui ghiacci, furono costretti a resistere al gelo per mesi, al riparo di una tenda dipinta di rosso, in attesa di soccorsi che non giungevano mai (l'esercito italiano ignorava la posizione dei superstiti, mentre una nave rompighiaccio russa non riusciva a farsi strada). Kolossal epico e survival, co-produzione fra l'Unione Sovietica e l'Italia (era la prima volta che l'URSS realizzava un film insieme a un paese occidentale!), la pellicola colora di toni romantici e drammatici la vera storia del dirigibile Italia, ispirandosi alle memorie dello stesso Nobile, eroe tragico scosso dai sensi di colpa, una sorta di Lord Jim (anche lui fu accusato di essersi salvato mentre i suoi uomini morivano). Nonostante gli sforzi della megaproduzione e l'attenzione ai dettagli storici, il film risulta però alquanto pesante, nonché carente nella caratterizzazione dei personaggi (belle, invece, le scene sui ghiacci che mostrano la lotta fra l'uomo e la natura). Musiche di Ennio Morricone. Fu l'ultimo film del regista di "Quando volano le cicogne". Claudia Cardinale è Valeria, l'infermiera innamorata di uno dei membri dell'equipaggio, che chiede l'aiuto di Roald Amundsen (Sean Connery): il suo ruolo fu ampliato su richiesta del produttore Franco Cristaldi, che all'epoca era suo compagno. Massimo Girotti è l'indeciso capitano Romagna. Mario Adorf è Biagi, il radiofonista che canta la canzone delle osterie romane. Nel cast anche Hardy Krüger (l'aviatore Einar Lundborg), Eduard Martsevich (il meteorologo Finn Malmgren) e un giovane Nikita Michalkov (il pilota russo Chuknovsky).

27 giugno 2017

Vaghe stelle dell'Orsa... (L. Visconti, 1965)

Vaghe stelle dell'Orsa...
di Luchino Visconti – Italia 1965
con Claudia Cardinale, Jean Sorel
**1/2

Visto in divx.

La bella Sandra (Claudia Cardinale), in compagnia del marito americano Andrew (Michael Craig), torna nella sua casa di famiglia a Volterra per l'inaugurazione di un parco pubblico dedicato alla memoria del padre (morto nei campi di concentramento durante la guerra). Il suo ritorno dopo diversi anni e l'incontro con i personaggi del passato, ma soprattutto con il fratello Gianni (Jean Sorel), giovane e scapestrato aspirante scrittore, riaccende turbolente tensioni e rievoca ricordi e segreti all'insegna dell'ambiguità: sui due fratelli gira(va)no infatti voci di un rapporto fin troppo stretto, che Gianni intende rinfocolare raccontando in un romanzo autobiografico gli anni della propria adolescenza... Il tutto mentre la madre (Marie Bell) è ricoverata in preda alla follia, e il secondo marito di lei, l'avvocato Gilardini (Renzo Ricci), ha un rapporto a dir poco conflittuale con i due fratelli. Torbido dramma familiare, dalle atmosfere cupe e morbose, curiosamente uscito nello stesso anno in cui Bellocchio realizzava il suo "I pugni in tasca" (con cui ha diverse similarità, anche se il milieu sociale qui è ovviamente diverso). La regia elegante e la buona prova degli attori sono sovrastate da una sceneggiatura (scritta dal regista insieme a Suso Cecchi D'Amico ed Enrico Medioli) ambiziosa ma poco ariosa, che gioca a fondere il passato con il presente (la scelta di Volterra come ambientazione, con la sua eredità "etrusca", non è casuale) per esprimere quei temi della decadenza e della morte che caratterizzano gran parte del cinema di Visconti. Il titolo, naturalmente, è tratto dal primo verso delle "Ricordanze" di Leopardi. Come colonna sonora c'è il Preludio, corale e fuga per pianoforte di César Franck. Leone d'Oro a Venezia, forse per compensare la precedente mancata attribuzione del premio a "Rocco e i suoi fratelli".

4 marzo 2017

Il gattopardo (Luchino Visconti, 1963)

Il gattopardo
di Luchino Visconti – Italia 1963
con Burt Lancaster, Claudia Cardinale
****

Visto in divx.

Mentre i garibaldini sbarcano in Sicilia (siamo nel 1860, in pieno Risorgimento, alla vigilia dell'Unità d'Italia), il principe Fabrizio di Salina (Burt Lancaster) assiste con malcelato distacco ai cambiamenti in atto nel paese. Consapevole del declino dell'aristocrazia cui appartiene e dell'insorgere di una nuova classe di latifondisti arricchiti, Don Fabrizio si adopera per favorire il matrimonio di suo nipote Tancredi (Alain Delon) con la giovane e bella Angelica (Claudia Cardinale), figlia del rozzo ma ricco latifondista Calogero Sedara (Paolo Stoppa), sindaco di Donnafugata, il paese dove la famiglia si reca tutti gli anni per la villeggiatura estiva. E nel corso dello sfarzoso ballo che celebra il debutto della coppia in società, comincia finalmente a fare un sofferto bilancio della propria vita. Dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (che era uscito nel 1958, un anno dopo la morte dell'autore), sceneggiato da Suso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa e lo stesso Visconti (e le frasi memorabili sono così tante che non potrò fare a meno di riportarne parecchie in questa recensione), uno dei film più importanti nella storia del cinema italiano, capolavoro del regista milanese (con cui dà definitivamente l'addio al neorealismo, ma soprattutto con cui passa dai temi della militanza politica e comunista alla riflessione nostalgica sulla decadenza dell'aristocrazia, il mondo cui lui stesso apparteneva) e vincitore della Palma d'Oro al Festival di Cannes. "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi", spiega Tancredi allo zio Fabrizio, che a sua volta ribadisce più tardi il concetto a Don Ciccio durante la battuta di caccia ("Qualcosa doveva cambiare perché tutto restasse com'era prima"). Ma tanto Tancredi è ambizioso, spregiudicato e istintivo, pronto ad abbracciare il cambiamento (e a passare da un ideale all'altro per il proprio tornaconto personale, come quando abbandona i garibaldini al loro destino per arruolarsi nell'esercito regio dopo la battaglia dell'Aspromonte), tanto Don Fabrizio è stanco e disilluso, specchio di un'intera Sicilia che desidera solo "un lungo sonno: questo è ciò che i siciliani vogliono. Ed essi odieranno tutti quelli che vorranno svegliarli, sia pure per portare loro i più meravigliosi doni". Mentre il paese si muove, l'antica aristocrazia si mostra pigra e imperturbabile, rifiutando di lasciarsi scuotere da quegli eventi che tanto coinvolgono la plebe (che intravede la speranza di una vita migliore) e la chiesa (che teme di perdere i propri privilegi). Non che Don Fabrizio non sia cosciente di ciò: capisce benissimo che all'orizzonte c'è qualcosa di nuovo (non necessariamente migliore), ma anche che la sostituzione di una classe dominante con un'altra non apporterà alcun cambiamento significativo nel grande ordine delle cose ("Noi fummo i gattopardi, i leoni. Chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene. E tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra", recita la frase che dà il titolo al libro e al film).

Gli eventi storici e quelli familiari sono tutti filtrati dall'occhio del protagonista, punto di vista soggettivo su un periodo storico (il Risorgimento) a lungo congelato nella cultura italiana nei suoi aspetti mitologici e agiografici, e che soltanto in quegli anni, grazie appunto al romanzo di Tomasi di Lampedusa, cominciava a essere rivisto in chiave meno stereotipata e più lucida e sfaccettata. Nel romanzo, del Risorgimento si esplicita "la natura di contratto, all'insegna dell'immobilismo, tra la vecchia aristocrazia e l'emergente classe borghese". E il protagonista assurge a simbolo di tutta una terra, la Sicilia, i cui abitanti sono capaci di adattarsi a ogni condizione, a ogni evento, a ogni dominazione straniera. "La mia è un'infelice generazione. A cavallo fra due mondi, e a disagio in tutti e due". La disillusione del principe e la mancanza di speranza lo spingono a rinunciare a ogni possibilità di evoluzione personale (come quando rifiuta la nomina a senatore del nuovo regno), e anche quando abbraccia tale cambiamento (il voto per il sì alle elezioni per l'annessione al Piemonte: curiosamente, lui è l'unico al quale il sindaco Calogero propone entrambe le schede, mentre agli altri elettori viene offerta solo un'opzione) non lo fa per convinzione ma per rassegnazione all'inevitabile declino individuale. Il suo posto sarà preso dai nuovi ricchi (Calogero) e dai giovani ambiziosi ma senza ideali (Tancredi). Per quanto riguarda l'aspetto cinematografico, la messa in scena è a dir poco sontuosa, e non soltanto nella celebre scena finale del ballo (che occupa quasi l'intera ora conclusiva di un film già di per sé lungo, circa tre ore). La fotografia di Giuseppe Rotunno fa risaltare le scenografie di Mario Garbuglia e i costumi di Piero Tosi (ai quali Visconti stesso dedica un'attenzione maniacale: dalle tenute dei garibaldini all'abito bianco di Angelica), mentre la colonna sonora di Nino Rota (arricchita da brani di Verdi, come quelli della "Traviata" che la banda di Donnafugata suona all'arrivo del principe, o il valzer che si ode durante il ballo) punteggia in maniera efficace le immagini di una Sicilia arcaica ma raffinata, un mondo completamente a parte nel tempo e nello spazio. Lancaster, in una delle sue interpretazioni più memorabili (in italiano è doppiato da Corrado Gaipa), svetta su un ricco cast che comprende un Delon al secondo film con Visconti (dopo "Rocco e i suoi fratelli"), una bellissima Cardinale e un giovane Terence Hill (accreditato con il suo vero nome, Mario Girotti) nei panni del conte milanese Cavriaghi, amico di Tancredi, oltre a Paolo Stoppa, Pierre Clémenti, Rina Morelli, Romolo Valli, Lucilla Morlacchi, Giuliano Gemma, Serge Reggiani, Lou Castel, Leslie French.

30 ottobre 2016

Rocco e i suoi fratelli (Luchino Visconti, 1960)

Rocco e i suoi fratelli
di Luchino Visconti – Italia 1960
con Alain Delon, Renato Salvatori
****

Rivisto in divx.

La famiglia Parondi, composta dalla madre Rosaria e da cinque figli (Vincenzo, Simone, Rocco, Ciro e Luca), si trasferisce dalla Lucania a Milano in cerca di miglior fortuna. Anche al nord, i ragazzi fanno comunque fatica a trovare lavoro e prenderanno strade differenti: qualcuno perderà l'innocenza, altri sapranno adattarsi meglio al nuovo stile di vita. Ispirato al romanzo "Il ponte della Ghisolfa" di Giovanni Testori, il film è uno dei massimi capolavori di Visconti e dell'intero cinema italiano, capace di fondere i temi del neorealismo con la forma del melodramma e di andare ben oltre la semplice riflessione sul fenomeno dell'immigrazione o una stereotipata contrapposizione fra nord e sud (o fra campagna e città). Nonostante i membri della famiglia continuino a provare nostalgia per il proprio paese d'origine (e a cullare il sogno, prima o poi, di ritornarvi), Milano non è infatti ritratta in chiave negativa ma semplicemente come un nuovo ambiente in cui vivere, in grado di offrire opportunità a chi è capace di coglierle: lavoro (un esempio c'è quasi subito all'inizio: un'improvvisa nevicata consente ai fratelli di guadagnare qualche soldo come spalatori), successo (attraverso il pugilato, metafora della lotta per la sopravvivenza) e amore. Al centro del racconto vi è semmai l'evoluzione psicologica, nel bene o nel male, dei suoi personaggi. Con una durata che sfiora le tre ore, il film è formalmente diviso in cinque sezioni, ciascuna delle quali intitolata a uno dei fratelli, ma in realtà si concentra su due di loro: Simone (Renato Salvatori) e Rocco (Alain Delon). Il primo è una testa calda, indisciplinato e ambizioso, che nel corso della pellicola scenderà sempre più la china in una spirale di debiti, reati e violenza. Il secondo è intrinsecamente buono, pronto a perdonare le malefatte del fratello e a giustificare le sue azioni in nome dell'unità della famiglia, da preservare a ogni costo. A unire a doppio filo le loro storie c'è il tentativo di raggiungere il successo nel pugilato (dapprima ci prova Simone, che ha talento ma non la necessaria disiplina; poi è la volta di Rocco, che si rivela un campione) ma soprattutto il legame con la prostituta Nadia (Annie Girardot), personaggio tragico e centrale nell'economia della vicenda. Anche in questo caso è Simone ad aprire la strada e Rocco poi a seguirlo: dopo essere stata l'amante del fratello maggiore per un breve periodo, la ragazza finisce con l'innamorarsi del più "puro" Rocco, per il quale prova anche a cambiare vita. Ma la gelosia di Simone, che arriva persino a violentarla, farà precipitare tutto verso la tragedia.

L'ultima parola è però riservata a Ciro, quello che fra tutti i fratelli sembra avere maggiormente la testa sulle spalle, che conclude il film spiegando a Luca (il più piccolo) come sia le scelte di Simone (che ha perso di vista l'onestà e la dignità) sia quelle di Rocco (pronto sempre a perdonare e mai a difendersi) siano inevitabilmente destinate al fallimento in un mondo che sta cambiando – erano gli anni del "boom" economico, con tutti i suoi vantaggi ma anche le sue trappole – e che richiede di adattarsi in qualche modo, allontanandosi magari dai valori arcaici, nella speranza di un futuro migliore. Una riflessione pragmatica, prima ancora che amara o populista, grazie alla quale il film supera i limiti che rinchiudevano in sé stesso un certo cinema neorealista con lo sguardo sempre rivolto al passato. Molto interessante il cast: Visconti non si fa problema a ricorrere ad attori stranieri – Delon e Girardot innanzitutto, ma anche Katina Paxinou nel ruolo della madre, e poi Spiros Focás (Vincenzo), Max Cartier (Ciro), Roger Hanin (l'impresario Duilio), Suzy Delair (la proprietaria della lavanderia dove lavora Rocco) – se hanno i volti giusti, per dar vita a personaggi intrinsecamente italiani, grazie naturalmente anche al doppiaggio. In piccole parti si riconoscono anche Paolo Stoppa (Cerri, il manager della palestra), una giovanissima Claudia Cardinale (Ginetta, la fidanzata di Vincenzo), Corrado Pani e Nino Castelnuovo (due degli amici di Simone), Claudia Mori e Adriana Asti (le commesse della lavanderia). Le tante figure di contorno sono spesso caratterizzate mirabilmente con pochi tratti (vedi i sottotesti gay del personaggio di Duilio). Memorabile la colonna sonora di Nino Rota, che fa le prove generali per "Il padrino", e preziosa la fotografia di Giuseppe Rotunno, che ritrae con palpabile spessore gli scenari milanesi: dalla Stazione Centrale alle guglie del Duomo, dalle periferie di Lambrate ai trafficati Navigli, dalla zona della Ghisolfa alle sponde dell'Idroscalo (dove la provincia di Milano aveva negato l'autorizzazione a girare, ritenendo il film "scandaloso" e "denigratorio"). Molti di questi luoghi sono oggi profondamente cambiati, soprattutto per quanto riguarda i quartieri della periferia, ormai inglobati nella città. Lo stabilimento Alfa Romeo del Portello non esiste più, mentre la palestra dove Simone e Rocco praticano la boxe è diventata il circolo Arci di via Bellezza. Il titolo del film richiama quello del ciclo di romanzi di Thomas Mann "Giuseppe e i suoi fratelli" (e sarà a sua volta trasfigurato da Woody Allen in "Hannah e le sue sorelle"), mentre il nome Rocco è un omaggio al poeta Rocco Scotellaro, assai ammirato da Visconti e particolarmente attento alle condizioni dei contadini dell'Italia meridionale.

17 settembre 2012

Gebo e l'ombra (M. de Oliveira, 2012)

Gebo e l'ombra (Gebo et l'ombre, aka O Gebo e a sombra)
di Manoel de Oliveira – Francia/Portogallo 2012
con Michael Lonsdale, Claudia Cardinale
**

Visto al cinema Mexico, in originale con sottotitoli (rassegna di Venezia).

Gli anziani coniugi Gebo (Michael Lonsdale) e Doroteia (Claudia Cardinale) abitano in povertà insieme alla nuora Sofia (Leonor Silveira) e attendono inutilmente notizie del figlio (e marito) João, partito otto anni prima in cerca di fortuna. Tutti e tre, malgrado l’età e la stanchezza, continuano a vivere in funzione di un “ombra”, quella di João appunto, che si manifesta continuamente nei loro pensieri e nelle loro esistenze: la stessa ombra che spinge Gebo a mentire alla moglie, dicendole di aver ricevuto di tanto in tanto sue notizie. Ma quando João fa finalmente ritorno a casa, si rivela molto diverso da come era partito: quasi un estraneo, insofferente all’onesta vita del padre, ne deride la morale e spiega di essere diventato un ladro e di vivere di espedienti. Di notte fugge nuovamente, non prima di essersi impossessato del denaro che il genitore – che lavora come contabile – custodiva nella sua cassaforte. Per proteggerlo, sarà proprio Gebo ad assumersi la colpa del furto. Liberamente ispirato a una pièce teatrale teatrale di Raul Brandão (che il regista ha descritto come un'anticipazione di "Aspettando Godot"), ambientato nel tardo diciannovesimo secolo e interpretato da un nugolo di vecchi mostri sacri (c’è anche una strepitosa Jeanne Moreau, che a 84 anni illumina ancora la scena con la sua presenza), è l’ultimo film realizzato dall’ormai 103enne (!) De Oliveira. Certo, è un tipo di cinema decrepito e soporifero, ai limiti del teatro filmato: quasi tutta la pellicola consiste in inquadrature fisse su personaggi seduti attorno a un tavolo, in una stanza a malapena illuminata dalle candele o da deboli lampade, che senza nemmeno guardarsi fra di loro (lo sguardo è spesso rivolto allo spettatore) discutono a lungo su temi come il senso della vita, la menzogna, l’etica e la società. Ma in fondo il film è da apprezzare più per quello che lascia dentro che per quello che comunica durante la visione, e poi la qualità pittorica della fotografia (l’utilizzo della luce è strepitoso), il valore degli interpreti e le implicazioni morali dei lunghi dialoghi (che mettono in evidenza la psicologia di personaggi “condannati all’infelicità e alla povertà” come Gebo, che nonostante la sua onestà non può far altro che ricorrere alla menzogna per “erigere un muro di abitudini e di illusioni” in grado di proteggere la propria famiglia) possono aiutare a tenere desta l’attenzione.

30 marzo 2012

C'era una volta il west (S. Leone, 1968)

C'era una volta il west
di Sergio Leone – Italia/USA 1968
con Claudia Cardinale, Charles Bronson
****

Rivisto in DVD, con Ilaria, Eleonora, Marco, Ginevra, Daniele.

L'ex prostituta Jill (Claudia Cardinale) giunge a Flagstone, cittadina di frontiera, solo per scoprire che Brett McBain, l'allevatore che aveva sposato in segreto e con cui sperava di rifarsi una vita, è stato ucciso insieme alla sua intera famiglia da una misteriosa banda di pistoleri. I sospetti cadono sul fuorilegge Cheyenne (Jason Robards), ma il vero colpevole del massacro è lo spietato Frank (Henry Fonda), che con i suoi uomini è al servizio del magnate delle ferrovie Morton, pronto a tutto pur di aprire il passaggio alla via ferrata che sta costruendo per raggiungere l'Oceano Pacifico. La donna sarà vendicata dal misterioso "Armonica" (Charles Bronson), un uomo che con Frank ha un conto da lungo tempo in sospeso... Con questo epico, violento e struggente affresco sulla fine di un'era (come già lascia intendere il titolo "fiabesco", che verrà omaggiato o parodiato in seguito da innumerevoli altre pellicole), Sergio Leone firma non soltanto il suo capolavoro ma uno dei più bei film della storia del cinema (personalmente è il mio film preferito!), una sorta di elegia del western. Insieme al quasi contemporaneo "Il mucchio selvaggio" di Sam Peckinpah, la pellicola segna un punto d'arrivo definitivo per un genere cinematografico che da qui in poi non potrà far altro che guardarsi alle spalle. In un certo senso già i lungometraggi precedenti di Leone ne avevano decretato la trasformazione in un'icona stilizzata: con il nuovo film (che nelle intenzioni del regista avrebbe dovuto essere il primo di una trilogia sulla "seconda frontiera americana, la fine dell'epoca della conquista e l'inizio dell'età industriale") si canta un inno funebre di quel “mito” che per decenni aveva intrattenuto e divertito, anche in maniera piuttosto ingenua, spettatori e lettori di ogni età. Con la scomparsa del selvaggio west comincia una nuova era, non più dominata da uomini tutti d'un pezzo (e poco importa se si tratta di buoni o di cattivi, di eroi o di banditi: tutti ballano la loro "danza della morte", per citare il titolo che è stato dato al film in altri paesi europei – in Germania, per esempio, è noto come "Spiel mir das Lied vom Tod") ma dal capitalismo e dal progresso, simboleggiato qui dalla ferrovia che congiunge i due oceani, unificando la nazione e spazzando via definitivamente il concetto stesso di frontiera.

Il progetto era nato già durante la lavorazione del precedente "Il buono, il brutto, il cattivo", quando la United Artists – la casa di produzione cui Leone aveva chiesto il via libera per girare un film sui gangster, ovvero quello che sarebbe diventato "C'era una volta in America" – gli aveva imposto di realizzare prima un nuovo western. Alla UA subentrò poi la Paramount, che concesse al regista maggior libertà creativa (per esempio nella scelta degli attori) ma che si "vendicò" in seguito facendo uscire il film negli Stati Uniti in versione mutilata (tagliando diversi minuti rispetto ai 165 della versione italiana) e rimontata, rendendolo irriconoscibile e decretando di fatto il suo fallimento al box office. In Italia e in Europa, invece, fu un successo e recuperò abbondantemente le spese di realizzazione. Amato e riverito da registi come John Carpenter e Martin Scorsese, il film è ricco di riferimenti più o meno espliciti alle pellicole più classiche del genere e alla mitologia del vecchio west. Se per la sceneggiatura Leone aveva chiesto aiuto all'amico Sergio Donati (già collaboratore non accreditato nei due film precedenti), nello stendere il soggetto si fa affiancare da due nomi allora poco noti ma destinati a diventare autentici "mostri sacri" del cinema italiano: Bernardo Bertolucci e Dario Argento. Sin dalla prima scena la regia di Leone mette in chiaro che non si tratta certo di un film d’azione: il ritmo è lento, in modo persino estenuante, mentre i tempi prolungati (che poi esplodono in episodi di violenza improvvisa), i primissimi piani sui volti degli attori e le enfatiche inquadrature sui dettagli calano lo spettatore in una dimensione di costante attesa e rafforzano la sensazione di star assistendo a uno spettacolo universale ed epico. Il regista stesso avrebbe dichiarato: “Il ritmo del film è stato pensato per creare la sensazione degli ultimi respiri che una persona fa prima di morire”. Anche se girato in massima parte, come al solito, nella regione dell’Almería in Spagna, alcune sequenze fanno uso dei celebri scenari della Monument Valley nello Utah, resi celebri dai film di John Ford e ritratti magistralmente in widescreen dalla fotografia di Tonino Delli Colli (stupenda, per esempio, l’ampia e luminosa inquadratura con zoom all’indietro nel flashback che rivela il passato di Frank e Armonica, in cui si può intravedere – dietro l’arco in pietra – persino un tornado che spazza il deserto, catturato dall’operatore per puro caso).

Tutto il film è strutturato come una successione di lunghe scene madri, quasi dei quadri a sé stanti, ciascuna delle quali può anche essere apprezzata singolarmente (passando così sopra a occasionali passaggi a vuoto nei raccordi, forse dovuti a sequenze eliminate al montaggio: per esempio, a un certo punto vediamo Cheyenne partire in treno, scortato dallo sceriffo e seguito dai suoi uomini, e lo ritroviamo più tardi dopo lo scontro a fuoco con Morton, senza che ci venga detto come e perché sia arrivato fin lì). Il realismo dell’ambientazione e la cura nelle scenografie si rispecchiano nelle elaborate coreografie (lo “spazio” occupato dagli attori nelle singole inquadrature è sempre studiato in maniera magistrale). Spesso i movimenti di camera portano a "rivelare" gradualmente – oppure all'improvviso – elementi cruciali, sorprendendo o catturando lo spettatore: ottimi esempi si hanno nella scena dell’arrivo di Jill a Flagstone, quando la macchina da presa scavalca il tetto della stazione per mostrare a tutto schermo, al crescere della musica, la polverosa e brulicante cittadina (si tratta forse della singola scena che amo di più in tutto il cinema di Leone); o all’inizio del duello finale, quando vediamo Frank (vestito di nero) camminare sullo sfondo, e Armonica (vestito di bianco) irrompere all’improvviso in primissimo piano, annunciato dal tema musicale. A proposito: assolutamente fondamentale, persino più che negli altri film del regista, la colonna sonora di Ennio Morricone, costruita attorno a una serie di temi ben distinti e associati ciascuno a un singolo personaggio, di cui anticipano spesso l'ingresso in scena. Curiosamente, mentre Jill, Cheyenne e Morton hanno ciascuno il proprio tema personale (particolarmente trascinante e struggente quello di Jill, impreziosito dalla voce di Edda Dell'Orso), Frank e Armonica ne condividono uno in due: indice del loro indissolubile legame e del destino comune che li condurrà di pari passo per tutto il film fino al duello conclusivo ("Sono due facce della stessa medaglia, e sarebbe stato difficile differenziarli nella musica", ha commentato Leone). Armonica, senza Frank, non è nulla: non ha un nome né un passato; e Frank, scontratosi con l'incedere inevitabile del progresso, alla fine resta senza una ragione di vivere se non quella di misurarsi con il suo misterioso avversario. Su queste basi, la sequenza del duello finale fra i due (un capolavoro di regia e di montaggio, che comprende anche un flashback chiarificatore, e nel quale la lunghissima fase di preparazione – oltre sei minuti – si esaurisce in un singolo colpo di pistola) è il vero e autentico climax della pellicola.

Rispetto ai film precedenti (quelli della "trilogia del dollaro"), il cast è completamente rivoluzionato (ritornano solo alcuni attori in parti minori). Leone avrebbe voluto i tre protagonisti de "Il buono, il brutto, il cattivo" nella scena iniziale, come in un ideale passaggio di consegne (e non c'è dubbio che vederli morire dopo dieci minuti avrebbe scioccato lo spettatore), ma se Lee van Cleef ed Eli Wallach si erano detti disponibili, Clint Eastwood rifiutò, costringendo il regista ad arruolare invece due volti noti del western dei tempi d'oro (Jack Elam e Woody Strode) e un attore che aveva già utilizzato in passato in parti minori (Al Mulock, uno dei bounty killer che davano la caccia a Tuco ne "Il buono, il brutto, il cattivo", morto tragicamente suicida – buttandosi dalla finestra del suo albergo con il costume di scena ancora indosso – durante le riprese). Degni di menzione i comprimari: Paolo Stoppa è il cocchiere, Keenan Wynn è lo sceriffo, Frank Wolff è l’irlandese Brett McBain, Lionel Stander è il barista della stazione di posta, Marco Zuanelli è il “lavandaio” Wobbles (“Come si fa a fidarsi di uno che porta insieme cinta e bretelle, di uno che non si fida nemmeno dei suoi pantaloni?”). La celeberrima scena che apre il film (e che, per inciso, è un omaggio all’incipit di “Mezzogiorno di fuoco”) è difficile da dimenticare: ben dieci minuti di snervante attesa, in cui apparentemente non accade nulla mentre i tre scagnozzi di Frank aspettano con pazienza l’arrivo del treno su cui viaggia Armonica. In assenza di parole e di musica, il sonoro si affida con estrema efficacia a una serie di rumori ambientali (le pale cigolanti di un mulino, il battito di una goccia d’acqua, lo scrocchiare delle nocche di un uomo, il ronzio di una mosca). Leone ricorda: "Quando il film era al mixaggio, mi accorsi che i primi due rulli non funzionavano come volevo con l'accompagnamento della musica di Morricone. Così tolsi la musica e lasciai soltanto i rumori: la banderuola, il vento, le cicale, il treno, lo scricchiolio del legno, lo sbattere d'ali degli uccelli. Ennio, quando vide il film concluso, non sapeva di questa mia scelta. Alla fine dei due rulli mi si avvicinò e mi disse: ‘Ma lo sai che è la più bella musica che ho composto?’. Anni dopo, un assistente di George Lucas è venuto a chiederci i rumori di quei primi due rulli. Quando gli è stato risposto che quei rumori non venivano conservati, ci ha guardati come fossimo abitanti di un altro pianeta."

Se proprio Leone aveva inaugurato la consuetudine del western all'italiana di eleggere a protagonisti i character più improbabili, quelli che nei film classici del genere sarebbero rimasti dei comprimari, qui invece sembra tornare alla tradizione: i cinque personaggi principali sono quasi degli stereotipi (il vendicatore solitario, il bandito romantico, il killer glaciale, la prostituta dal cuore d'oro, l'affarista corrotto), il cui utilizzo come pedine sulla scacchiera del film era necessario se si voleva mettere in scena il canto del cigno del vecchio west. Analizziamoli uno per uno.

Frank. "Dio mio, ma quello è Henry Fonda!": questo era il grido di sorpresa che Leone voleva udire dagli spettatori nel momento in cui l'attore – l'eroe per eccellenza del western classico – uccide a sangue freddo un bambino, rivelandosi come un assassino spietato. Nello scegliere Fonda per il ruolo del cattivo (contro il parere dei produttori), Leone compie un passo fondamentale nel suo percorso di "rottura", rendendo un ulteriore omaggio al cinema classico ed esplicitando contemporaneamente la sua volontà di seppellirlo. Che il protagonista di tanti film di John Ford, dove incarnava i valori più nobili della giustizia e dell'eroismo, si riveli un farabutto senza scrupoli fece sicuramente scalpore in un'epoca in cui difficilmente le star "uscivano" dai personaggi che si erano cuciti addosso. Fonda, inizialmente titubante, accettò il ruolo solo dopo aver parlato con il suo amico Eli Wallach, che gli consigliò di non perdere l’occasione. Avrebbe voluto recitare con lenti a contatto scure, ma Leone insistette perché apparisse sullo schermo con i suoi occhi azzurri, perfetti per mostrare la natura “glaciale” dell’assassino.

Armonica. È il personaggio di cui si sa meno, e che meno ha bisogno di una caratterizzazione o di una personalità. Solo nel finale, grazie a uno dei più memorabili flashback della storia del cinema (anticipato a lungo dalla ricorrente e spettrale immagine di una figura sfocata all’orizzonte che cammina verso la macchina da presa), scopriremo qualcosa del suo passato e il motivo per il quale cerca vendetta nei confronti di Frank. Cheyenne lo descrive così: “La gente come lui ha dentro qualcosa, qualcosa che sa di morte” (alcune letture “soprannaturali”, forse andando troppo sopra le righe, lo identificano addirittura nell'angelo della morte; di certo, almeno metaforicamente, è un fantasma venuto dal passato). Si presenta utilizzando i nomi delle varie persone che il killer ha ucciso (“Chi sei?” “Jim Cooper. Chaky Arbler.” “Ancora dei morti.” “Erano tutti vivi prima di incontrarti, Frank.”) ed è incarnato alla perfezione dalle fattezze quasi da indio di Charles Bronson. L’attore, in realtà di origine tartara e non ancora reso celebre dalla serie del “Giustiziere della notte”, era già apparso in almeno un western di successo, “I magnifici sette”, e in film bellici come “La grande fuga” e “Quella sporca dozzina”.

Jill. Una figura femminile forte rappresenta per Leone una grande novità, visto che mancava (e mancherà) negli altri suoi film. Jill, la prostituta di New Orleans che giunge nel west per farsi una nuova vita, diventa subito il centro dell’attenzione dei tre uomini (Frank, Armonica e Cheyenne) e dimostra di sapersi battere alla pari con loro: certo, non con le pistole, ma con il carattere e la forza di volontà. Alla fine della pellicola sarà lei l’unica e vera vincitrice, il simbolo dell’America che sta per nascere e di una società in cui il ruolo delle donne sarà molto diverso rispetto al passato. Una Claudia Cardinale bellissima e al culmine della carriera domina ogni scena in cui è presente, a partire dalla già citata e magnifica sequenza del suo arrivo alla stazione di Flagstone per finire con il campo largo che la mostra mentre – seguendo un suggerimento di Cheyenne – porta da bere agli operai che stanno posando i binari e costruendo per lei e per le generazioni future la nuova stazione di Sweetwater.

Cheyenne. Uno dei personaggi che meglio incarna il selvaggio west è il simpatico e romantico bandito interpretato da un Jason Robards che, tra questo film e “La ballata di Cable Hogue”, è stato protagonista di due capisaldi del western crepuscolare. Ritratto da Leone con calore, ironia e umanità, pur essendo un fuorilegge Cheyenne ha le sue regole e una sua morale, ed è forse quello che più di ogni altro avrebbe meritato di trascorrere una vita felice insieme a Jill. Ma la sua morte, nel finale, è inevitabile: anche lui, come Frank e Armonica, è “fuori posto” e deve andarsene in qualche modo per lasciare spazio al nuovo mondo che sta arrivando. Significativamente il bandito viene ucciso direttamente da Morton, ovvero l’impersonificazione del capitalismo e del progresso. Proprio il brano musicale di Cheyenne, con il suo andamento "trottante", è quello che conclude il film sui titoli di coda: un ultimo omaggio alla fine del vecchio west.

Morton. Il tema della costruzione della ferrovia è molto frequente nel cinema western, sin dai suoi albori (basti ricordare “Il cavallo d'acciaio” di John Ford): il treno rappresenta la nuova civiltà che avanza e che spazza via la frontiera selvaggia. Qui è incarnato nella figura di “Mister Ciuf-ciuf” (come lo battezza ironicamente Cheyenne), il magnate che sogna l'oceano: alle pareti della sua carrozza sono appesi paesaggi marini, nelle orecchie ode lo scrosciare delle onde, ma ironicamente muore tentando invano di raggiungere una sporca pozzanghera (l'acqua, tra l'altro, è uno dei fili conduttori del film: basti pensare al nome della fattoria di McBain: Sweetwater). Uomo d’affari abituato a superare ogni ostacolo con il denaro (a un certo punto riesce addirittura a “comprare” gli uomini di Frank, mettendoglieli contro), Morton resta impresso per la sua menomazione: non può camminare perché la tubercolosi ossea gli divora le gambe, e per questo motivo non si allontana mai dal suo vagone privato. Il progresso nasce già zoppo, e la strada d’acciaio segnata dalle rotaie è l’unica che può percorrere. Morton è interpretato da Gabriele Ferzetti, un attore con una carriera di tutto rispetto (da “L’avventura” di Antonioni a “Il portiere di notte” di Liliana Cavani).

Concludo ricordando alcune delle battute più celebri, visto che – come in tutti i film di Leone – i personaggi parlano poco ma, quando lo fanno, sfornano “perle” indimenticabili.

– C'è un cavallo per me?
– Ehi ragazzi, è vero… Ci siamo proprio dimenticati un cavallo!
– Ce ne sono due di troppo.

– Ho visto tre spolverini proprio come questi, tempo fa. Dentro c'erano tre uomini. E dentro gli uomini, tre pallottole.

– Era proprio necessaria questa strage? Ti avevo detto solo di spaventarli!
– Chi muore è molto spaventato.

– La taglia su Cheyenne è di cinquemila dollari, giusto?
– Giuda s'è accontentato di 4.970 dollari di meno.
– Non c'erano i dollari, allora.
– Già, ma i figli di puttana sì.

– A proposito, sai niente di uno che gira soffiando in un'armonica? Se lo vedi te lo ricordi. Invece di parlare, suona. E quando dovrebbe suonare, parla.

– Così tu sei quello degli appuntamenti...
– E tu sei quello che non ci va.

– Signora, mi pare che non hai capito la situazione.
– Ma certo che ho capito. Sono qui sola in mano a un bandito che ha sentito odore di soldi. Se ti piace puoi sbattermi sul tavolo e divertirti come vuoi, e poi chiamare anche i tuoi uomini. Nessuna donna è mai morta per questo. Quando avrete finito mi basterà una tinozza d'acqua bollente e sarò esattamente quella di prima, solo con un piccolo schifoso ricordo in più.

– Fra i tuoi amici la mortalità è piuttosto alta, Frank.

– Aspettavi me?
– Da molto tempo.

– Così hai scoperto che dopotutto non sei un uomo d'affari.
– Solo un uomo.
– Una razza vecchia. Verranno altri Morton e la faranno sparire.

17 gennaio 2011

L'udienza (Marco Ferreri, 1971)

L'udienza
di Marco Ferreri – Italia 1971
con Enzo Jannacci, Claudia Cardinale
*1/2

Visto in divx, con Marisa.

Un uomo cerca inutilmente di ottenere un'udienza dal papa in Vaticano, e si ritrova ostacolato da barriere di ogni tipo: burocrazia, politica, conflitti clericali, continui "rimpalli" da un'autorità all'altra e l'ostracismo di una serie di personaggi che rappresentano i cosiddetti poteri forti. "Mi sembra di essere in una situazione kafkiana", dice Enzo Jannacci (in una delle sue rare prove d'attore: ma la sua inespressività non convince particolarmente), e infatti il riferimento principale è proprio "Il castello" di Kafka. Peccato però che il film – pur partendo da un buono spunto: l'incomunicabilità fra il cittadino e il potere, qui rappresentato da una gerarchia religiosa che si rende inaccessibile ai fedeli – sia troppo labirintico e giri a vuoto, risultando poco interessante, popolato com'è da personaggi monolitici e schematici. Alla lunga, è noioso e ripetitivo. Non sapere che cosa Amedeo voglia dire di persona al papa (non che poi importi, fra l'altro, ai fini del film) non facilita certo il coinvolgimento dello spettatore, mentre la sottotrama sentimentale – con tanto di figlio illegittimo – lascia il tempo che trova. Forse Ferreri non fa per me: dal poco che ho visto finora non è mai riuscito a catturarmi appieno (mi manca però "La grande abbuffata", che da molti è considerato il suo film migliore). Peccato anche perché il cast è notevole: da Ugo Tognazzi (un funzionario di polizia) a Claudia Cardinale (una prostituta d'alto bordo), da Vittorio Gassman (un principe) a Michel Piccoli (un monsignore).

24 luglio 2009

Fitzcarraldo (Werner Herzog, 1982)

Fitzcarraldo (id.)
di Werner Herzog – Germania/Perù 1982
con Klaus Kinski, Claudia Cardinale
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Rivisto in DVD, con Giovanni.

"Chi sogna può muovere le montagne."

Un film straordinario, larger-than-life come il suo protagonista, il folle e visionario Brian Sweeney Fitzgerald che gli indios dell'Amazzonia chiamano "Fitzcarraldo" perché non riescono a pronunciare correttamente il suo nome. Inventore e imprenditore dalle mille idee, sempre destinate al fallimento, e grande appassionato di musica lirica, Fitzcarraldo sogna di costruire a Iquitos – minuscolo villaggio sul Rio delle Amazzoni – un teatro dell'opera all'altezza di quello della vicina città di Manaus e in grado di accogliere grandi cantanti europei come Enrico Caruso (la pellicola è ambientata agli inizi del novecento). Per racimolare il denaro necessario, decide di lanciarsi nel commercio del caucciù: e per raggiungere una regione ricca di alberi della gomma e non ancora sfruttata, si imbarca in un'impresa apparentemente assurda: trasportare una nave sopra una collina – con l'aiuto di una tribù di selvaggi che lo credono un dio – per evitare un tratto di fiume infestato da pericolose rapide. Fra splendidi paesaggi e character pittoreschi, presentati allo spettatore con un ritmo lento, languido, onirico e avvolgente come le acque del fiume che trasporta i personaggi, Herzog si dimostra ancora una volta a proprio agio nella descrizione di un uomo che sfida i propri limiti pur di realizzare il suo sogno, e Kinski lo assiste fedelmente donando al personaggio l'energia necessaria per renderlo indimenticabile, un vero e proprio simbolo della forza di volontà che si batte contro gli ostacoli posti sul suo cammino dalla natura selvaggia e dalla società umana (come i ricchi signori della gomma che lo deridono per il suo idealismo). La virtù di Fitzcarraldo sta nel fatto di non essere alla ricerca di una ricchezza personale, bensì di essere spinto dal desiderio di condividere con tutti (persino con il suo maiale, al quale intende riservare una poltrona di velluto nel palco principale!) la propria passione per la musica. L'unica persona che lo sostiene incondizionatamente sin dall'inizio è la sua donna, la tenutaria del bordello locale (una splendida Cardinale), che gli fornisce i fondi necessari per acquistare la nave e dare così inizio all'avventura.

Inizialmente Herzog aveva pensato a Jason Robards per il ruolo principale (ed era prevista anche una parte per Mick Jagger!), ma poi si è rivolto nuovamente al suo "miglior nemico", quel Kinski che sul set di "Aguirre" aveva dovuto minacciare con un fucile pur di fargli portare a termine le riprese. Anche durante "Fitzcarraldo" i rapporti fra i due, a quanto pare, furono accesissimi, al punto che alcuni indios avrebbero approcciato il regista offrendosi di uccidere l'attore per conto suo! Più tardi Herzog ha commentato così: "Avevo ancora bisogno di Kinski per alcune scene, così ho declinato l'invito. Ma ho sempre rimpianto di aver perso quell'opportunità". Sul film e sulla sua lunghissima lavorazione (quasi quattro anni!) circolano comunque numerose altre leggende e dicerie, compreso quella secondo cui diversi indios sarebbero morti di fatica durante le scene in cui la nave (che pesava oltre trecento tonnellate) viene trasportata su per la montagna con un rudimentale sistema di corde e paranchi. In realtà nessuno morì durante le riprese, anche se è vero che ci furono diversi incidenti (il direttore della fotografia si ferì la mano sulle rapide, un membro della troupe venne morso da un serpente velenoso e gli fu amputato il piede, un altro rimase ferito nell'atterraggio del suo aereo). La pellicola (ispirata a una storia vera) consentì a Herzog di vincere a Cannes il premio per la miglior regia.