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21 dicembre 2022

Paura e delirio a Las Vegas (T. Gilliam, 1998)

Paura e delirio a Las Vegas (Fear and loathing in Las Vegas)
di Terry Gilliam – USA 1998
con Johnny Depp, Benicio del Toro
***

Rivisto in TV (Prime Video).

Con una valigetta piena di droghe ed alcolici, a bordo di una cabriolet rossa, il giornalista Raoul Duke (Johnny Depp) e il suo avvocato Dottor Gonzo (Benicio del Toro) attraversano il deserto per recarsi da Los Angeles a Las Vegas. Qui, continuamente sotto l'effetto degli stupefacenti (LSD, mescalina, etere), assisteranno a una corsa motociclistica, irromperanno in un convegno di procuratori distrettuali, devasteranno due stanze d'albergo e trascorreranno giornate e nottate all'insegna degli eccessi, di allucinazioni psichedeliche e di una follia anarchica e confusionaria. Film fluttuante e imprevedibile, tratto dal romanzo di Hunter S. Thompson, nel cui titolo si parla però di "disgusto", non di "delirio": la scelta dei distributori italiani di cambiarlo mostra tutta la loro incapacità di cogliere il vero significato della pellicola, che non è un semplice "delirio" ma una dichiarazione di rigetto verso un mondo ipocrita e perbenista, una fuga esistenziale, un modo per rendere esplicita la crisi del sogno americano. Il film si svolge infatti nel 1971, all'alba di un decennio che rappresenta la pietra tombale sugli ideali universali e i sogni di rivoluzione e cambiamento degli anni sessanta. La guerra del Vietnam, le apparizioni di Nixon in televisione, l'edonismo sfrenato di cui proprio Las Vegas (con i suoi casinò, i suoi circhi, i suoi eventi ricchi di celebrità) è il simbolo, costringono di fatto i due protagonisti a fuggire da sé stessi e dal mondo, rifugiandosi in una realtà alternativa e ribelle, popolata da rettili umanoidi e visioni alterate, ma capace di mettere in luce le contraddizioni e le ipocrisie della società che li circonda. La regia di Gilliam, che dà sfogo a tutto il suo talento visionario (con l'uso del grandangolo, le inquadrature sghembe e ondeggianti, i colori caldi e forti della fotografia di Nicola Pecorini), è al servizio di una trama episodica e quasi inesistente, mentre è notevole il tour de force dei due interpreti, dove spicca soprattutto uno straordinario Depp, con la pelata e perennemente fuori di testa. Piccole parti per Tobey Maguire (l'autostoppista), Christina Ricci (la pittrice Lucy), Cameron Diaz (la ragazza bionda nell'ascensore), Ellen Barkin (la cameriera del diner), Gary Busey (il poliziotto stradale).

22 febbraio 2022

Ovunque nel tempo (Jeannot Szwarc, 1980)

Ovunque nel tempo (Somewhere in time)
di Jeannot Szwarc – USA 1980
con Christopher Reeve, Jane Seymour
**1/2

Visto in divx.

Innamoratosi (solo guardando un suo ritratto!) di Elise McKenna (Jane Seymour), attrice teatrale vissuta a inizio secolo, il commediografo Richard Collier (Christopher Reeve) viaggia indietro nel tempo con la forza della mente, ritrovandosi così nel 1912 nell'albergo che l'aveva ospitata... Da un romanzo di Richard Matheson ("Appuntamento nel tempo"), anche sceneggiatore, una pellicola romantico-fantastica nella vena di classici degli anni '30-50 come "Sogno di prigioniero", "Il ritratto di Jennie", "Pandora" o "Il fantasma e la signora Muir" (con il quale condivide il finale): la celebrazione dell'amor fou che supera le barriere del tempo e dello spazio. Anche se c'è di mezzo, appunto, un viaggio nel tempo, la pellicola tecnicamente non è fantascientifica: il fenomeno è spiegato semplicemente con la forza dell'autosuggestione o dell'ipnotismo, in grado di permettere il balzo se ci si trova nel luogo giusto e con la corretta predisposizione d'animo. E naturalmente non manca il paradosso del loop in cui si smarrisce il rapporto di causa ed effetto: da dove proviene, per esempio, l'orologio che Elise da anziana dona a Richard e che poi lo stesso Richard le restituisce? Christopher Plummer è Robinson, l'impresario di Elise, che ostacola la relazione fra lei e Richard perché teme (o "sa") che questa porrà fine alla sua carriera. Nel cast anche Bill Erwin, Teresa Wright e George Voskovec. Matheson stesso appare in un cameo. La colonna sonora di John Barry comprende anche una variazione della rapsodia di Rachmaninov su un tema di Paganini.

29 ottobre 2021

Riunione di famiglia (T. Vinterberg, 2007)

Riunione di famiglia (En mand kommer hjem)
di Thomas Vinterberg – Danimarca/Svezia 2007
con Oliver Møller-Knauer, Thomas Bo Larsen
*1/2

Visto in TV (Prime Video).

Il cantante lirico Hans Kristian (Thomas Bo Larsen) torna nella sua cittadina natale per un concerto in occasione del 750° anniversario della fondazione del villaggio. Nell'albergo in cui alloggia lavora come cuoco Sebastian (Oliver Møller-Knauer), un giovane che, a sua insaputa, è suo figlio. Balbuziente fin da bambino (per lo shock di aver creduto che il padre si fosse suicidato sotto un treno, come gli aveva raccontato la madre), Sebastian sta vivendo un grande dilemma, visto che medita di lasciare la fidanzata Claudia (Helene Reingaard Neumann) per mettersi con Maria (Ronja Mannov Olesen), suo amore di sempre, da poco tornata in paese dopo un soggiorno in una clinica psichiatrica... Il titolo italiano di questo film (quello originale significa "Un uomo torna a casa") prova a rievocare il primo successo di Vinterberg, "Festen – Festa in famiglia", lasciando intendere che i temi siano gli stessi. E in effetti i dissidi familiari (anche di lunga data), i rapporti fra genitori e figli, le tragedie del passato, i segreti, le infedeltà e i tradimenti fanno capolino anche qui, soltanto trattati con maggior leggerezza e ironia. Peccato che l'insieme sia fiacco e già visto, con il padre che rivede sé stesso nel figlio e nei suoi problemi sentimentali. Karen-Lise Mynster è la madre di Sebastian, Brigitte Christensen la moglie del cantante. Attorno ai protagonisti si muovono personaggi e figure eccentriche, come il capo cuoco (Shanti Roney), il direttore dell'albergo (Morten Grunwald) e lo "zio" transgender (Ulla Henningsen). La fotografia di Anthony Dod Mantle è particolarmente luminosa e dorata. Al concerto Hans canta "Di Provenza il mar, il suol" dalla Traviata (scelta non a caso, visto che parla proprio del rapporto fra un padre e un figlio).

23 settembre 2021

La donna del lago (L. Bazzoni, F. Rossellini, 1965)

La donna del lago
di Luigi Bazzoni, Franco Rossellini – Italia 1965
con Peter Baldwin, Virna Lisi
**

Visto su YouTube.

Bernard (Peter Baldwin), scrittore in crisi esistenziale, torna nel paese sul lago fra le montagne dove sin da ragazzo si recava in villeggiatura. Ma il paese, e in particolare l'albergo in cui alloggia, è scosso da alcune morti misteriose: dapprima Tilde (Virna Lisi), la giovane e bella cameriera di cui lo stesso Bernard si era invaghito, apparentemente vittima di suicidio; e poi Adriana (Pia Lindström), l'evanescente moglie di Mario (Philippe Leroy), figlio del padrone dell'albergo (Salvo Randone), che annega nelle acque del lago dopo una delle sue strane passeggiate notturne... Dal romanzo omonimo di Giovanni Commisso (dal titolo "rossiniano", o meglio tratto dal poema di sir Walter Scott), il primo film di Luigi Bazzoni – che firma la regia in coppia con Franco Rossellini; la sceneggiatura invece è di Giulio Questi, insieme ai due registi e a un Ernesto Gastaldi non accreditato – è un giallo morboso ma senza troppo nerbo, ispirato ai "misteri di Alleghe" (anche se la pellicola è stata girata a Bolsena e a Brunico), serie di delitti che scossero l'opinione pubblica nel dopoguerra. La risoluzione della vicenda, peraltro non troppo imprevedibile (e che si rifà ai primi due dei suddetti delitti), giunge all'improvviso nel finale: quel che conta, però, è l'atmosfera di angoscia e alienazione del protagonista, testimoniata dalle frequenti scene oniriche, che la fotografia di Leonida Barboni ammanta di una particolare luminosità, nelle quali l'uomo si immagina retroscena e confessioni dei personaggi che gli stanno attorno. Valentina Cortese è Irma, la sorella di Mario; Piero Anchisi è Francesco, il proprietario del negozio di foto che accompagna Bernard nelle sue "indagini"; Ennio Balbo è l'ispettore di polizia. Musiche di Renzo Rossellini.

29 giugno 2021

Lost in translation (Sofia Coppola, 2003)

Lost in translation - L'amore tradotto (Lost in Translation)
di Sofia Coppola – USA/Giappone 2003
con Bill Murray, Scarlett Johansson
***

Rivisto in TV (Netflix).

In Giappone per girare uno spot pubblicitario per una marca di whisky, Bob Harris (Bill Murray), attore americano in declino nonché in crisi esistenziale e personale, si scopre sperduto e alienato, vittima del fuso orario ma anche di una cultura che non comprende. Troverà però una sorta di anima gemella nella giovane Charlotte (Scarlett Johansson), che risiede nel suo stesso albergo, dove ha seguito il marito per lavoro. Nonostante la differenza di età, i due si aggrapperanno l'uno all'altra per resistere e sopravvivere in qualche maniera in un mondo che appare vacuo ed estraneo. Forse tuttora il miglior film della Coppola, nonostante i tanti (troppi) stereotipi sul Giappone e le sue eccentricità possano renderlo fastidioso per chi conosce e ama quel paese. Ma in fondo non è importante dove veramente si svolge la storia: avremmo potuto trovarci in qualsiasi altro contesto "estraneo" in cui ci si senta intrappolati (e più il paese è esotico e distante, meglio è), volendo persino su un altro pianeta (tanto che la Coppola ripeterà l'operazione in "Somewhere", stavolta rappresentando sullo schermo il trash della tv italiana). Quel che è importante è il racconto malinconico e introspettivo di due solitudini che si incontrano e cercano di restare a galla insieme. Non è una storia romantica tradizionale (e infatti il sottotitolo italiano, "L'amore tradotto", è fuorviante oltre che stupido: molto indovinato invece quello originale, che oltre al livello metaforico fa riferimento alla buffa scena in cui l'interprete giapponese traduce a Bob a modo suo le lunghe sfuriate del regista dello spot pubblicitario), ma mette a confronto due personaggi che si trovano nell'impasse in differenti momenti della propria vita. Bob (interpretato da un Bill Murray il cui consueto sarcasmo è per una volta al servizio non della comicità ma di un personaggio depresso e introverso, e che proprio per questo sembra ancora più reale: che sia tale il vero lato privato dei comici?) è in crisi di mezza età, stanco della vita e di un matrimonio che va avanti per inerzia; Charlotte è invece all'inizio della propria vita ma già appare delusa e disillusa. E il fatto che siano lontani da casa, in un paese che sembra incomprensibile, e anche senza punti di riferimento (sono entrambi trascurati e ignorati dai rispettivi coniugi), non aiuta di certo ("Diventa più facile, poi?" chiede lei a lui). Alcune scene ritraggono il Giappone moderno (Tokyo) e quello antico (Kyoto), ma gran parte della pellicola è ambientata fra le mura dell'albergo (memorabile la scena in cui i due guardano in tv, di notte, una scena della "Dolce vita" di Fellini con i sottotitoli). E a proposito di "traduzioni" mancanti: alla fine, prima di separarsi, Bob abbraccia Charlotte e le sussurra qualcosa all'orecchio, ma noi non lo sentiamo: per noi spettatori il messaggio rimarrà un mistero. Oscar per la miglior sceneggiatura (firmata dalla stessa Coppola), più tre nomination per il film, la regia e l'attore protagonista. Giovanni Ribisi è il marito di Charlotte. Anna Faris è Kelly, divetta svampita. Catherine Lambert è la cantante nella lounge dell'albergo che canta "Scarborough Fair".

10 giugno 2021

Mystery train (Jim Jarmusch, 1989)

Mystery Train - Martedì notte a Memphis (Mystery Train)
di Jim Jarmusch – USA 1989
con Youki Kudoh, Nicoletta Braschi
***

Visto in TV (Prime Video), in originale con sottotitoli.

Diversi personaggi (provenienti da varie parti del mondo) si ritrovano a Memphis, in Tennessee, e finiscono col pernottare nello stesso albergo. Diviso in tre parti distinte (ciascuna con un proprio titolo), il quarto lungometraggio di Jarmusch prosegue la sua esplorazione dell'America di provincia, pigra e desolata, vista dal di dentro ma anche dal di fuori (con gli occhi, cioè, di stranieri) e con il suo consueto minimalismo, attraverso atmosfere al tempo stesso realistiche, stranianti e surreali. E pur se lo stile è completamente diverso, col senno di poi sembra in molte cose un precursore di "Pulp fiction": storie parallele che si intersecano (sia pur debolmente), cronologia sfasata (con occasionali scene o momenti che si ripetono), dialoghi "liberi" e realistici su argomenti quotidiani o di cultura pop, vicende criminali. Da apprezzare, come dicevo, il bizzarro ma divertente scarto culturale nelle interazioni fra personaggi che provengono letteralmente da altre parti del pianeta e si ritrovano, come naufraghi da un mondo distante ("Lost in space"), sperduti a Memphis e ospiti nel suo albergo vecchio e cadente, le cui stanze tutte uguali (e dallo stesso prezzo) sono prive di televisione ma con un immancabile ritratto di Elvis Presley alle pareti. Proprio "il re", naturalmente, aleggia con la sua figura in ogni momento della pellicola. Nel primo episodio, "Lontano da Yokohama", una coppia di fidanzatini giapponesi (Masatoshi Nagase e Youki Kudoh) giunge in città in treno per visitare i luoghi simbolo del cantante e della sua musica. Nel secondo, "Il fantasma", una giovane vedova italiana (Nicoletta Braschi), costretta a farvi scalo per una notte, incontra il suo spettro. Nel terzo, "Perduti nello spazio", un operaio inglese (Joe Strummer) che ha perso il lavoro e la ragazza nello stesso giorno, e che è soprannominato proprio Elvis dagli amici per via della sua acconciatura, rapina un negozio di liquori. Oltre a personaggi ricorrenti che le legano l'una all'altra, le tre storie hanno in comune diversi elementi (l'accendino Zippo, la canzone "Blue moon" ascoltata alla radio nel cuore della notte) e sono unite anche stilisticamente dalla fotografia di Robby Müller (che enfatizza, per esempio, il colore rosso: l'abito del concierge dell'albergo, la valigia dei fidanzati giapponesi, il rossetto con cui giocano, il vestito e la borsa di Luisa, il pickup con cui Johnny/Elvis e i suoi due amici fuggono). La musica è di John Lurie, la voce dello speaker radiofonico è di Tom Waits (entrambi avevano recitato, insieme alla Braschi, nel precedente film di Jarmusch, "Daunbailò"). Il cast comprende anche Elizabeth Bracco (Dee Dee, la ragazza di Johnny), Steve Buscemi (il barbiere Charlie, suo fratello), Rick Aviles (Will Robinson), Tom Noonan (il tipo strambo che Luisa incontra nel bar), Screamin' Jay Hawkins e Cinqué Lee (rispettivamente il portiere notturno e il facchino dell'albergo). Cameo per Rufus Thomas (l'uomo nella stazione che chiede ai due giapponesi di fargli accendere il sigaro). Il titolo del film, oltre a far riferimento al treno delle scene iniziali e finali, è ovviamente lo stesso di una canzone di Elvis.

9 maggio 2021

L'hotel elettrico (Segundo de Chomón, 1908)

L'hotel elettrico (Hôtel électrique)
di Segundo de Chomón – Francia 1908
con Segundo de Chomón, Julienne Mathieu
***

Visto su YouTube.

Una coppia di turisti (interpretati dallo stesso Chomón e da sua moglie Julienne Mathieu) arriva in un grande albergo dove, grazie a una serie di comandi su una consolle, le valigie si spostano da sole fino in camera, dove si aprono e tutti gli oggetti e gli abiti al loro interno si dispongono nei cassetti e negli armadi. Sempre grazie a questa meravigliosa tecnologia, le spazzole lucidano le scarpe da sole, i capelli della signora vengono pettinati e l'uomo viene rasato da strumenti che si muovono autonomamente. Persino una lettera ai parenti, per comunicare loro che il viaggio è andato bene, viene scritta da sola. Ma proprio quando tutto sembra andare bene, un malfunzionamento fa impazzire le apparecchiature elettriche e l'intero contenuto della stanza viene scosso in un turbine incessante. Trionfo del "cinema di effetti speciali" di cui Chomón era maestro: qui non si tratta però di imitare Georges Méliès come in altri suoi lavori, che spesso erano copie pedisseque dei film del regista francese (si pensi a "Excursion dans la lune" del 1908, remake scena per scena del "Viaggio sulla Luna" del 1902); il riferimento sembra essere invece "The haunted hotel" (1907) di James Stuart Blackton (a sua volta, comunque, ispirato a "L'auberge ensorcelée" di Méliès). Siamo infatti di fronte all'applicazione su larga scala dell'animazione a passo uno (stop motion), tecnica che Chomón aveva già sperimentato in precedenza (per esempio ne "Le théâtre de petit Bob" del 1906) e che ora porta alle estreme conseguenze: il movimento degli oggetti è fluido e convincente (per l'epoca), ma la grande novità è l'applicazione della "pixilation", ovvero la fusione fra attori in carne e ossa e oggetti mossi a scatto singolo (nella scena della pettinatura e della rasatura). Memorabile sotto diversi punti di vista, il film raggiunge il suo climax nel finale caotico e distruttivo che porta bruscamente la pellicola alla conclusione. E per certi versi l'argomento trattato anticipa il "Mio zio" di Jacques Tati (con la sua casa moderna, piena di elettrodomestici e automatismi).

3 maggio 2021

Giliap (Roy Andersson, 1975)

Giliap
di Roy Andersson – Svezia 1975
con Thommy Berggren, Mona Seilitz
**1/2

Visto in divx, in originale con sottotitoli inglesi.

Un uomo (Berggren) viene assunto come cameriere in un grande e vetusto albergo, una struttura decadente che ospita per lo più cene di lavoro o funerali. Come tutti coloro che lavorano nell'hotel, afferma di essere lì solo "di passaggio": in particolare, attende di trovare un imbarco su una delle grandi navi che salpano dal porto della città. Nel frattempo fa conoscenza con i colleghi, fra i quali spiccano l'eccentrico Gustav, detto "Il conte" (Willie Andréason), ex galeotto implicato in affari sporchi, e la bella Anna (Mona Seilitz), che sogna di andare a lavorare in un albergo turistico, sulla spiaggia, durante la stagione estiva. Il secondo lungometraggio di Roy Andersson (cinque anni dopo "Una storia d'amore") è una pellicola atipica nella filmografia del regista svedese, lontana dal suo stile surreale e grottesco (se non a tratti, nelle sequenze legate al personaggio di Gustav), anche se la laconicità dei personaggi, che faticano ad esprimere le proprie emozioni, e le atmosfere quasi da noir, malinconiche e fataliste, la accomunano a un certo cinema del nord Europa come quello di Aki Kaurismäki. Non ebbe il minimo successo, né al botteghino né presso la critica (che lo detestò, trovandolo pretenzioso e datato: giudizi ingenerosi, con il senno di poi), e questo contribuì a tenere il regista lontano dalla macchina da presa per lungo tempo: a parte due corti, infatti, non girerà più un film per venticinque anni, tornando al cinema soltanto nel 2000 con "Canzoni del secondo piano". È vero che la pellicola, soprattutto all'inizio, appare molto lenta e monotona, ma pian piano riesce a immergere lo spettatore nel suo mondo tragico e disperato, con personaggi che si dividono fra quelli rassegnati e quelli che sognano di andarsene in cerca di una nuova vita (non a caso nella camera del protagonista spicca un poster dell'Italia, con il campanile del duomo di Pistoia). Del personaggio interpretato da Berggren non conosceremo mai neppure il nome: "Giliap" è quello in codice che gli affibbia Gustav quando vuole coinvolgerlo in una delle sue losche imprese.

25 dicembre 2020

A Very Murray Christmas (S. Coppola, 2015)

A Very Murray Christmas (id.)
di Sofia Coppola – USA 2015
con Bill Murray, Miley Cyrus
**

Visto in TV, con Sabrina, in originale con sottotitoli.

La notte di Natale, Bill Murray è al Carlyle Hotel di New York, intento a registrare controvoglia uno "special televisivo" in diretta a base di canzoni natalizie e sketch comici. Ma una violenta tempesta di neve isola l'albergo, impedendo agli ospiti previsti (fra cui George Clooney e Miley Cyrus) di raggiungerlo. Costretto a fare tutto da solo, in condizioni rese ancora più proibitive da un blackout elettrico, Murray trascorrerà il tempo chiacchierando e duettando con artisti di passaggio (Chris Rock, Maya Rudolph), con il personale dell'albergo (Jenny Lewis, David Johansen, i Phoenix) e con una coppia che avrebbe dovuto sposarsi quella sera stessa (Jason Schwartzman e Rashida Jones). Meta-special televisivo che alterna canzoni (per lo più a tema natalizio) con scenette e brevi gag autoironiche, in una sorta di omaggio/parodia ai variety show di un tempo: sicuramente per trascorrere un'ora durante le feste c'è di peggio. Nel finale, quando Murray batte la testa, nei suoi sogni appaiono i veri Clooney e Cyrus (vestita da Babbo Natale) che si esibiscono con lui in una scenografia degna di Broadway. Il pianista Paul Shaffer e l'attore Dimitri Dimitrov interpretano sé stessi. Amy Poehler e Julie White sono le due produttrici, Michael Cera l'aspirante manager.

1 luglio 2020

Vacancy (Nimród Antal, 2007)

Vacancy (id.)
di Nimród Antal – USA 2007
con Kate Beckinsale, Luke Wilson
*1/2

Visto in divx.

Usciti dalla strada principale per una deviazione, una coppia in crisi (Beckinsale e Wilson) è costretta a fermarsi di notte in uno sperduto motel a causa di un guasto alla macchina. I due scopriranno però che il gestore dell'albergo è solito uccidere i propri ospiti, riprendendo gli omicidi su videocassette che smercia poi sul mercato nero. E dovranno lottare tutta la notte per sopravvivere. Il secondo film dell'ungherese Antal (dopo l'interessante "Kontroll") è un horror senza creatività e senza ironia, variante di un canovaccio già visto mille altre volte (da "Psyco" in poi), girato al risparmio (pochissimi attori: l'unico altro comprimario di spicco è Frank Whaley nel ruolo dell'infido albergatore) ma se non altro con un'intrigante atmosfera notturna e claustrofobica. Inutile però attendersi idee o sorprese, e nemmeno momenti di tensione o paura (persino il gore è assente), né tantomeno chiavi di lettura che vadano oltre il genere.

7 maggio 2020

7 sconosciuti a El Royale (D. Goddard, 2018)

7 sconosciuti a El Royale (Bad times at the El Royale)
di Drew Goddard – USA 2018
con Jeff Bridges, Cynthia Erivo
**

Visto in TV.

In un grande motel che ha visto tempi migliori, situato proprio sul confine fra California e Nevada (è ispirato al leggendario Cal-Neva Resort di Frank Sinatra) e un tempo frequentato da VIP e giocatori d'azzardo, ma ora semivuoto, giungono alcuni viaggiatori che nascondono dei segreti. C'è chi vuole recuperare qualcosa che è stato occultato anni prima in una delle camere, chi lavora per un'organizzazione governativa, chi fugge da sé stesso e chi da qualcun altro... Il secondo film da regista di Goddard (dopo l'horror "Quella casa nel bosco") è un thriller corale, ambientato alla fine degli anni sessanta, che si appoggia sfacciatamente al modello tarantiniano. Oltre ai capitoletti, alla struttura narrativa contorta e agli improvvisi scoppi di violenza, è infatti quasi una rilettura di "The hateful eight" (che a sua volta guardava ad alcuni gialli classici), con il gruppo di personaggi chiusi in un luogo isolato, ciascuno con un segreto da nascondere, e la tensione che monta man mano che veniamo a conoscenza dei vari retroscena. Abbiamo un agente di commercio (Jon Hamm) che in realtà è un poliziotto in incognito, un anziano prete (Jeff Bridges) che soffre di demenza senile, una cantante di colore (Cynthia Erivo) in cerca di riscatto sociale, una ragazza hippie (Dakota Johnson) che ha "rapito" la sorella minore (Cailee Spaeny) per sottrarla alla setta guidata dal carismatico Billy Lee (Chris Hemsworth), e un giovane impiegato dell'albergo (Lewis Pullman) dal tragico passato e dal problematico presente... Molto intrigante all'inizio, grazie anche alla buona regia, il film si perde progressivamente man mano che i ruoli e i retroscena si svelano, anche perché la sceneggiatura a incastro (con diverse scene che si ripetono, mostrate da vari punti di vista) inizia ad apparire forzata, la durata è eccessiva (come capita spesso quando il regista di un film è anche il suo sceneggiatore, e dunque fa fatica a tagliare qualche scena dove sarebbe necessario) e soprattutto ci si rende conto che gli ingredienti, presenti in densità elevata, sono puramente essenziali alla trama ma privi di simbologia e vero significato. Tutto è costruito artificiosamente in funzione dell'effetto finale, e a differenza di Tarantino ci si prende sempre troppo sul serio. Quanto al contesto storico (con Nixon che parla di Vietnam in tv), il famoso ospite dell'albergo cui si fa spesso riferimento, morto da poco, potrebbe essere JFK. Hemsworth aveva avuto già una parte nel primo film di Goddard. Nota di demerito per il titolo italiano: intanto i personaggi presenti nell'albergo non sono mai sette (inizialmente sono sei, e poi, quando arriva Billy Dee, questi è accompagnato da altri membri della sua "famiglia"), e poi non tutti sono "sconosciuti" (le sorelle Emily e Rose, ovviamente, si conoscono fra loro, ed entrambe conoscono Billy Dee).

19 aprile 2020

Where a good man goes (Johnnie To, 1999)

Where a good man goes (Joi gin a long)
di Johnnie To – Hong Kong 1999
con Lau Ching Wan, Ruby Wong
**

Rivisto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Michael (Lau Ching Wan), gangster violento e iracondo da poco uscito di prigione, si stabilisce nell'albergo a conduzione familiare gestito a Macao da Judy (Ruby Wong), vedova con figlioletto. Nonostante l'uomo sia continua fonte di guai (anche perché cerca di riconquistare il proprio posto di potere fra le triadi della colonia), fra i due nasce un sentimento reciproco, tanto che Michael medita di mettere la testa a posto e di formare una famiglia, aiutando anche la donna a pagare i suoi debiti. Ma i suoi tentativi sono frustrati dalla realtà, sotto forma di una faida con un gruppo di tassisti con cui ha fatto una rissa, e soprattutto da un poliziotto ostile e vendicativo (Lam Suet) che cerca in ogni modo di incastrarlo. Titolo minore (e semisconosciuto) della filmografia di Johnnie To, scritto con il fido Wai Ka-fai, non sfugge da personaggi stereotipati, caratterizzazioni sopra le righe, situazioni e luoghi comuni di tanto cinema di Hong Kong (da "A better tomorrow" in poi), senza tralasciare qualche momento citazionista (la rapina in banca ricorda "Quel pomeriggio di un giorno da cani"), ma si lascia comunque vedere con piacere fino all'inaspettato lieto fine grazie alla bella fotografia e alle buone interpretazioni (dal sempre bravo Lau alla controllata Wong).

27 gennaio 2020

Un sogno chiamato Florida (S. Baker, 2017)

Un sogno chiamato Florida (The Florida Project)
di Sean Baker – USA 2017
con Brooklynn Prince, Bria Vinaite, Willem Dafoe
**

Visto in TV.

La giovane Halley (Bria Vinaite) abita con la figlia di sei anni Moonee (Brooklynn Prince) in un motel alla periferia di Orlando, in Florida, non lontano dai parchi di divertimenti di Disney World. Mentre la bambina passa il tempo a correre in giro con i suoi amici, combinando piccoli e grandi guai e facendo spesso infuriare il direttore del motel, Bobby (Willem Dafoe), e gli altri residenti, la madre cerca in ogni modo di guadagnare il denaro necessario al suo mantenimento e a pagare l'affitto della stanza. Come nei precedenti lavori di Baker ("Starlet" e "Tangerine"), oltre ai personaggi la vera protagonista è l'ambientazione, in questo caso le strade e le periferie disagiate a pochi passi dal lusso e dai divertimenti di Disney World, che nel film non si intravedono mai se non da lontano. La struttura è comunque episodica, con una pronunciata attenzione verso il realismo e lo "slice of life": è il tipico film dove conta più l'atmosfera che circonda i personaggi che non la trama, quasi inesistente. Per molti versi ricorda "Last resort" di Pawlikowski, che comunque era migliore. Man mano che procede, infatti, si fa più melodrammatico e comincia a sembrare finto, fra luoghi comuni e personaggi troppo "costruiti". Ma forse per apprezzarne maggiormente la spontaneità (molte scene sono state improvvisate, lasciando ampio spazio ai giochi dei bambini, oppure – come quelle della vendita dei profumi – girate in strada con una videocamera nascosta) bisognerebbe vederselo in lingua originale: la versione italiana è infatti funestata da un pessimo adattamento, pieno di calchi dall'inglese e di falsi amici, accompagnato da un altrettanto pessimo doppiaggio (fastidiose, in particolare, le voci impostate e sempre urlanti dei bambini).

7 gennaio 2020

The haunted hotel (J. Stuart Blackton, 1907)

The haunted hotel, or Strange adventures of a traveler
di James Stuart Blackton – USA 1907
con Paul Panzer
**1/2

Visto su YouTube.

In una notte di tempesta, un uomo in una stanza d'albergo in campagna ha a che fare con oggetti che si muovono da soli, come se fossero maneggiati da spiriti o fantasmi. Il tema della casa infestata era assai frequentato dal cinema dei primordi, sin da quando Georges Méliès aveva dimostrato che era possibile usare trucchi cinematografici (anziché teatrali) per far sparire, spostare o muovere oggetti inanimati. E in effetti questo film – che ebbe un notevole successo internazionale – può essere considerato un remake de "L'auberge ensorcelée" (1897) dello stesso Méliès (o dei successivi “L'auberge du bon repos”, 1903, e “Le diable noir”, 1905), e a sua volta venne rifatto in maniera quasi identica nel 1908 da Segundo de Chomón, con "La maison ensorcelée". Degna di nota è soprattutto la lunga ed elaborata sequenza della cena che si prepara da sola, con il coltello che taglia il pane sulla tavola e la teiera che versa il caffé, realizzata mediante la tecnica della stop motion (come nei coevi lavori dello stesso Chomón, stiamo assistendo alle origini dell'animazione a "passo uno" nello stile che sarà di Jan Švankmajer o di Ray Harryhausen). La scena è ripresa in primo piano, senza la presenza di attori in carne ed ossa, e lasciò una forte impressione su artisti come Émile Cohl (che la vide a Parigi, quando aveva iniziato da poco a lavorare per la Gaumont), spingendolo a realizzare un film interamente in animazione, "Fantasmagorie" e dando così il via all'industria dei cartoni animati.

14 novembre 2019

Par le trou de la serrure (F. Zecca, 1901)

Attraverso il buco della serratura
(Par le trou de la serrure)
di Ferdinand Zecca – Francia 1901
**

Visto su YouTube.

Nei suoi primi anni come regista alla Pathé (prima di dedicarsi progressivamente alla supervisione di altri registi e infine alla direzione artistica e amministrazione della compagnia), Zecca girò numerose pellicole appartenenti a differenti “generi”: le actualités reconstruites (poi film storici o in costume, come “La vie et la passion de Jésus-Christ”), i corti a sfondo sociale (come “Histoire d'un crime” o “Les victimes de l'alcoolisme”) e i film di “trucchi” o a sfondo comico, come "À la conquête de l'air" o questo "Par le trou de la serrure". Pur sperimentando personalmente qualche innovazione, Zecca si rifaceva in gran parte ai lavori di altri cineasti contemporanei, in particolare Méliès (che con la sua Star Film era il principale concorrente della Pathé) e i registi inglesi della Scuola di Brighton. Questo “Par le trou de la serrure”, in realtà, è debitore soprattutto a una pellicola americana del 1897 per il Mutescope di Edison, “What the butler saw” (o “Peeping Tom”), oggi andata purtroppo perduta ma allora talmente popolare da aver dato origine a un genere quasi a sé stante, quello “voyeuristico” (si tratta, in un certo senso, dell'antesignano dei film erotici!). Queste pellicole mostravano inevitabilmente un maggiordomo o un altro individuo curioso che spiava donne e ragazze, intente alla toilette personale, dal buco della serratura. Il titolo “What the butler saw” (entrato nella cultura popolare britannica e in seguito attribuito a diversi film e anche a una commedia teatrale) deriva, pare, da un processo per divorzio del 1886 che fece scalpore sui giornali inglesi (quello fra Lord Colin Campbell e Gertrude Elizabeth Blood), dove proprio la testimonianza del domestico che aveva spiato l'incontro della donna con l'amante si rivelò decisiva.

Zecca non si limita però a “imitare” il film americano, ma vi aggiunge anche del suo: innanzitutto quadruplica la situazione, mostrandoci il cameriere di un albergo, mentre è intento a pulire sui piani, osservare attraverso gli spioncini gli occupanti di ben quattro stanze. Nella prima c'è una ragazza intenta a pettinarsi i lunghi capelli, colta nell'intimità. Nella seconda, una donna che, man mano che si toglie il trucco, il finto seno e la parrucca, si rivela essere un uomo! Nella terza, una coppia di amanti intenta a mangiare, con la donna seduta sulle ginocchia dell'uomo. E nella quarta... il cameriere non fa in tempo a spiare che un gentiluomo esce, furibondo, per prenderlo a pedate e bastonate! La situazione, come si vede, comincia in maniera ammiccante ma diventa progressivamente più farsesca e disastrosa, con i tempi perfetti per una (breve) commedia. Notevole il montaggio e le variazioni dell'inquadratura, che alternano la figura intera del cameriere nel corridoio davanti alle quattro porte (un'evidente quinta teatrale) ai piani medi che mostrano gli ospiti delle varie stanze, attraverso un mascherino a forma di serratura: una trovata per la quale Zecca si era ispirato con ogni probabilità al film britannico “As seen through a telescope” di George Albert Smith dell'anno precedente. Alcune fonti confondono il lavoro di Zecca con la pellicola originale per il Mutescope di Edison, attribuendogli la data del 1897: eppure è evidente, per via del montaggio, dei cambi di inquadratura e della generale “sofisticazione” della struttura, che sarebbe stato impensabile girarlo anche soltanto quattro anni prima.

3 novembre 2019

Cappello a cilindro (Mark Sandrich, 1935)

Cappello a cilindro (Top hat)
di Mark Sandrich – USA 1935
con Fred Astaire, Ginger Rogers
***

Rivisto in divx.

Il ballerino americano Jerry Travers (Fred Astaire), a Londra per uno spettacolo organizzato dall'impresario teatrale Orazio Hardwick (Edward Everett Horton), si innamora della modella Dale Tremont (Ginger Rogers) e le fa la corte. Ma per un equivoco lei lo scambia proprio per Orazio, e dunque lo crede già sposato con la sua amica Madge (Helen Broderick). Dopo una lunga serie di fraintendimenti, la verità verrà a galla nel corso di una romantica trasferta a Venezia. Quarto film girato in coppia da Fred e Ginger, il secondo come protagonisti assoluti, e forse il migliore e il più popolare di tutti: una commedia degli equivoci (basata su uno spunto in fondo esile, e simile al precedente "Cerco il mio amore", da cui ritornano diversi comprimari) che è una summa del brio e della leggerezza che caratterizza tutti i film del duo. Merito non solo dell'eccellente alchimia fra gli attori, protagonisti di diversi numeri di ballo ma anche di schermaglie amorose tipiche della commedia screwball, ma pure della colonna sonora di Irving Berlin, con canzoni come "Cheek to cheek" (su tutte), "No Strings (I'm Fancy Free)", "Isn't This a Lovely Day?" e la titolare "Top Hat, White Tie and Tails". Ginger Rogers canta inoltre "The piccolino", con un gran numero di parole italiane nel testo. Da non sottovalutare poi l'apporto dei comprimari, a partire dal comicissimo Edward Everett Horton, perenne vittima delle circostanze e degli scambi di persona, coadiuvato da Eric Blore nei panni del valletto che parla di sé al plurale e da Erik Rhodes in quelli dello stilista geloso (il cui motto è "Per le donne il bacio, e per gli uomini la spada!"): tutti habitué di questo tipo di film e già visti nelle pellicole precedenti di Fred e Ginger. Alla miscela, infine, vanno aggiunte le fantastiche e fintissime scenografie (si pensi all'albergo italiano e alla Venezia ricostruita in studio, dove tutto è bianco come se ci trovassimo in Paradiso: d'altronde i testi della canzone più famosa del film cominciano proprio con "Heaven, I'm in Heaven...") e le raffinate coreografie dei numeri di ballo (di Hermes Pan), entrambe nominate all'Oscar (insieme al film stesso e alla canzone "Cheek to cheek"). Il famigerato abito di piume indossato dalla Rogers fu disegnato personalmente da lei.

31 ottobre 2019

L'anno scorso a Marienbad (A. Resnais, 1961)

L'anno scorso a Marienbad (L'année dernière à Marienbad)
di Alain Resnais – Francia/Italia 1961
con Delphine Seyrig, Giorgio Albertazzi, Sacha Pitoëff
***1/2

Rivisto in divx.

In un gigantesco e lussuoso albergo (il film è stato girato nei palazzi reali di Monaco di Baviera e dintorni, con immensi giardini annessi), uno sconosciuto (Albertazzi) afferma di aver già incontrato l'anno prima una donna (Seyrig) – "È stato a Friedrichsbad? O forse a Marienbad?" (tutte celebri località termali) – e cerca di convincerla a fuggire con lui, abbandonando il marito (Pitoëff). Lui ricorda ogni dettaglio del loro precedente incontro, lei invece no (o fa finta di aver dimenticato?). Scritto da Alain Robbe-Grillet (che si ispirò, pare, al romanzo "L'invenzione di Morel" di Adolfo Bioy Casares), il secondo lungometraggio – e secondo capolavoro – di Resnais dopo "Hiroshima mon amour" è un lento ed enigmatico tuffo in un mondo sospeso, misterioso e senza tempo: vediamo spesso i personaggi "congelati" come statue, o immersi in un flusso di dialoghi o di frammenti di conversazioni che si ripetono in continuazione, senza senso o senza contesto. Spersi fra i saloni, i corridoi e le gallerie di questo albergo sontuoso e barocco ma vetusto, ricolmo di specchi, stucchi, statue e marmi, i ricchi avventori sembrano anime smarrite in un limbo da cui è impossibile uscire, in balia del destino o della morte. I lenti movimenti di camera, le eleganti inquadrature, il montaggio sofisticato, la letterarietà dei dialoghi, l'incessante musica organistica completano un'esperienza che per lo spettatore può risultare, a seconda dei gusti, vacua e snervante oppure onirica e ipnotica. E le riflessioni sul tempo e sui ricordi acquistano una certa qualità ultraterrena, surreale o metafisica. Di fatto, non è chiaro quanto di quello che avviene sullo schermo (o che i personaggi ricordano) sia reale, oppure frutto di un sogno o dell'immaginazione. Leone d'Oro a Venezia, il film fu anche candidato all'Oscar per la miglior sceneggiatura. Affascinante, fra i tanti spunti, il giochino (con le carte o i fiammiferi) che Sacha Pitoëff propone agli altri ospiti dell'albergo: una variante del Nim in cui il giocatore che toglie l'ultimo elemento (partendo da file di 1, 3, 5 e 7) perde la partita: Pitoëff afferma di vincere sempre, inesorabile – anch'egli – come la morte. Personalmente adoro il gioco e lo faccio spesso ai miei amici!

3 giugno 2019

Cerco il mio amore (M. Sandrich, 1934)

Cerco il mio amore (The gay divorcee)
di Mark Sandrich – USA 1934
con Fred Astaire, Ginger Rogers
**1/2

Visto in TV.

Appena giunto in Inghilterra, il ballerino americano Guy Holden (Fred Astaire) si innamora di Mimì (Ginger Rogers). Di lei ignora ogni cosa, a partire dal fatto che è (infelicemente) sposata. Dopo averla cercata per tutta Londra, la ritroverà casualmente in un resort balneare, dove verrà scambiato da lei per l'amante "fasullo" con cui vorrebbe farsi sorprendere dal marito per spingerlo a chiedere il divorzio... Primo film da protagonisti per Fred e Ginger (i due avevano già recitato insieme in "Carioca", ma lì erano comprimari), una coppia che entrerà nella storia del cinema con la loro gradevole (e un po' goffa) esuberanza, l'allegria contagiosa, l'impagabile complicità e soprattutto i trascinanti numeri di canto e di ballo, al servizio di garbate commedie degli equivoci perfettamente in linea con il tono delle pellicole romantiche o screwball degli anni trenta. In questa, la cui sceneggiatura riesce a rendere leggero ed esilarante anche un argomento dalle forte connotazioni morali, sono attorniati da un nutrito gruppo di caratteristi, molti dei quali saranno presenze fisse nei film della coppia: Edward Everett Horton (Egbert, l'avvocato di Mimì nonché amico di Guy), Alice Brady (la zia impicciona Ortensia), Erik Rhodes (Tonetti, il finto amante italiano), Eric Blore (il cameriere). Fra le ragazze ospiti dell'albergo c'è anche una Betty Grable a inizio carriera (è lei che danza con Horton). Premio Oscar (il primo della storia in questa categoria) per la canzone "The Continental", eseguita da un ensemble: ma il brano musicale più bello è "Night and day" di Cole Porter, danzata suggestivamente da Fred e Ginger. Nel musical di Broadway originale da cui il film è tratto (intitolato "Gay divorce" e interpretato dallo stesso Astaire) erano presenti anche altri brani di Porter, eliminati dalla versione filmata. Da notare che il "gay" nel titolo originale non significa omosessuale ma semplicemente "allegro".

2 giugno 2019

Carioca (Thornton Freeland, 1933)

Carioca (Flying down to Rio)
di Thornton Freeland – USA 1933
con Gene Raymond, Dolores del Río
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Visto in TV.

Innamorato di una bella ereditiera brasiliana (Del Rio) che ha conosciuto a Miami, il direttore d'orchestra Roger Bond (Raymond) accetta una scrittura a Rio de Janeiro nella speranza di rintracciarla. Ma ignora che lei è già fidanzata proprio con il suo amico Julio (Raul Roulien), direttore dell'albergo in cui dovrà esibirsi con la sua orchestra di varietà. Pur corredata da ottimi numeri musicali (su tutti il brano "Carioca", che dà il titolo al film nell'edizione italiana e che fu anche candidato all'Oscar) e con un notevole successo al botteghino (salvando la casa produttrice RKO da una situazione difficile), si tratterebbe di una commediola musicale come tante, se non fosse per la presenza – in ruoli di secondo piano – di Fred Astaire e Ginger Rogers, che compaiono qui in coppia per la prima volta sullo schermo (sono due membri dell'orchestra di Roger) e si esibiscono anche in una sequenza di danza insieme. Anche se non sono i protagonisti della storia, Fred e Ginger mostrano da subito un'alchimia e un affiatamento sopra le righe e rubano la scena al resto del cast, tanto che la RKO non perderà tempo a "promuoverli" al rango di star nel successivo "Cerco il mio amore". La commedia, in ogni caso, è gradevole, grazie all'ambientazione esotica e ad alcune sequenze degne di nota (le "anime" di Roger e Belinha che escono dai rispettivi corpi per baciarsi, o tutta la coreografia dello spettacolare ballo finale, con le ragazze agganciate alle ali degli aeroplani che sorvolano l'albergo). Mark Sandrich, che dirigerà Fred e Ginger in gran parte dei loro film successivi, è qui regista della seconda unità.

29 marzo 2019

Hotel by the river (Hong Sang-soo, 2018)

Hotel by the river (Gangbyun Hotel)
di Hong Sang-soo – Corea del Sud 2018
con Gi Ju-bong, Kim Min-hee
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Visto allo Spazio Oberdan, in originale con sottotitoli (FESCAAAL).

Ospite in pieno inverno in un albergo sul fiume Han, un anziano poeta (Gi Ju-bong) riceve la visita dei due figli ormai cresciuti (Kwon Hae-hyo e Yoo Jun-sang), con i quali intende ricucire i rapporti. Nella stessa struttura c'è anche una ragazza (Kim Min-hee), da poco abbandonata dall'amante, che viene raggiunta da un'amica (Song Seon-mi). Il consueto minimalismo di Hong, non scevro da alcuni vezzi autoriali (qui l'uso del bianco e nero e i titoli di testa "recitati" a voce), è come al solito al servizio di una storia assai semplice per affrontare temi complessi, in questo caso l'avvicinarsi (più o meno inconsapevole) alla morte. Il candore della neve che circonda l'albergo (in Oriente, il bianco è il colore del lutto) è un chiaro segnale che si sta parlando dell'addio del padre ai due figli, dai quali è rimasto distante dopo aver abbandonato la famiglia. E come un segno premonitore, si spiegano i tanti momenti in cui i tre si perdono per un attimo di vista, con il padre che sparisce momentaneamente per girovagare intorno alla struttura, dove fra l'altro incontra le due ragazze che definisce come "angeli". Ma la sensazione è un po' quella dell'improvvisazione (per esempio, a seconda dei giorni delle riprese, la quantità di neve cresce o diminuisce) e di un vuoto ma poetico esistenzialismo, facilitato certo dai dialoghi che fluiscono con semplicità e naturalezza. Curiosità: l'albergo si chiama Heimat, come il film-capolavoro di Edgar Reitz, il che forse può ulteriormente giustificare l'uso del bianco e nero.